Domande nuove in appello e impugnativa dei licenziamenti

23 Settembre 2025

Come noto, in virtù dell'art. 345 c.p.c. disposizione generale applicabile anche all'appello con rito del lavoro, vi è divieto di proposizione o articolazione dei c.d. nova, ovvero di domande nove, nuove eccezioni non rilevabili d'ufficio e nuovi mezzi di prova e documenti.

Massima

Con riguardo alla contestazione della validità e dell'efficacia del licenziamento, la causa petendi va individuata nei motivi di illegittimità specificatamente denunciati nel ricorso introduttivo. Di conseguenza, è inammissibile sollevare in sede di impugnazione profili di illegittimità non tempestivamente dedotti. Tale principio preclude l'introduzione di nuove questioni o domande basate su differenti causae petendi nel corso del giudizio che modificherebbero l'oggetto sostanziale dell'azione o che richiederebbero accertamenti fattuali non contemplati nella domanda iniziale. L'immutabilità della causa petendi si applica sia ai licenziamenti collettivi sia a quelli individuali. 

Il caso

Confermando la pronuncia di primo grado, una Corte d'appello accoglieva la domanda di un lavoratore volta all'accertamento dell'illegittimità del provvedimento disciplinare comminatogli. Rilevava, in particolare, la Corte che il licenziamento non era stato preceduto dalla contestazione degli addebiti, con conseguente nullità della sanzione e applicazione della tutela reintegratoria di cui all'art. 18, comma 4, l. n. 300/1970, posto che – pur a fronte dell'accertata assenza ingiustificata sul posto di lavoro per quattro giorni – la mancanza di una preventiva contestazione integrava il difetto assoluto di giustificazione del licenziamento. Tale profilo di invalidità, eccepito dal lavoratore per la prima volta in sede di appello, veniva ritenuto ammissibile e fondato, trattandosi di «profilo di invalidità che poteva essere rilevato d'ufficio».

Con il terzo motivo di ricorso per cassazione la società denunciava, ai sensi dell'art. 360 , comma 1, n. 3, c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 1421 c.c., 99, 112, 414 c.p.c., avendo la Corte territoriale erroneamente ritenuto rilevabile d'ufficio la violazione della procedura ex art. 7 l. n. 300/1970, nonostante la specialità della normativa dettata in materia di licenziamenti non consentisse di rilevare d'ufficio una ragione di invalidità del recesso diversa da quella tempestivamente eccepita dalla parte.

La questione

Come noto, in virtù dell'art. 345 c.p.c. disposizione generale applicabile anche all'appello con rito del lavoro, vi è divieto di proposizione o articolazione dei c.d. nova, ovvero di domande nove, nuove eccezioni non rilevabili d'ufficio e nuovi mezzi di prova e documenti.

Con specifico riferimento al divieto di proposizione di nuove domande, occorre preliminarmente identificare la nozione di domanda giudiziale, avuto riguardo ai tradizionali estremi del petitum e della causa petendi. Secondo la tradizionale impostazione, il petitum immediato è la tipologia di tutela e provvedimento richiesta, quello mediato è il bene della vita cui si aspira mediante l'iniziativa giurisdizionale, mentre la causa petendi si articola nel complesso degli elementi di fatto e delle ragioni giuridiche e argomentative che costituiscono l'architrave del ricorso.

Per quanto concerne la causa petendi la novità della domanda in appello, con conseguente inammissibilità della stessa, va valutata quando gli elementi dedotti in secondo grado comportano il mutamento dei fatti costitutivi del diritto azionato, integrando una pretesa diversa, per la sua intrinseca essenza, da quella fatta valere in primo grado, e ciò anche se tali fatti erano già stati esposti nell'atto introduttivo del giudizio al mero scopo di descrivere ed inquadrare altre circostanze (Cass., sez. I, 28 giugno 2022, n. 20757).

Ove non si rilevi un mutamento dei fatti costitutivi del diritto azionato, la diversità di prospettazione in sede di appello potrà dare luogo alla legittima attivazione dei poteri di interpretazione e qualificazione giuridica della domanda in capo al giudice di merito (Cass., sez. II, 22 maggio 2023, n. 13920), con l'unico limite della medesimezza del bene della vita domandato (Cass., sez. II, 25 aprile 2025, n. 10914).

Operate tali premesse occorre dunque stabilire se, ferma restando la deduzione di illegittimità di un licenziamento disciplinare e la richiesta di reintegrazione, possano valorizzarsi in sede di gravame profili di illegittimità – quale l'assenza di preventiva contestazione degli addebiti – sollevati per la prima volta in appello, sia pure sulla base di profili in fatto già esposti nell'atto introduttivo di primo grado o acquisiti in tale sede, eventualmente facendo leva sul potere ufficioso giudiziale di qualificazione e interpretazione della domanda.

Le soluzioni giuridiche

La Corte, nell'accogliere il motivo di ricorso, evoca il principio di diritto, costantemente applicato ai licenziamenti collettivi e individuali, secondo cui l'impugnazione del licenziamento richiede la tempestiva e rituale allegazione degli specifici profili di illegittimità del provvedimento espulsivo.

La misura dell'alterità della domanda è, sulla falsariga dei principi generali sopra esposti, costituita dall'allegazione o valorizzazione di circostanze che, implicando l'esigenza di specifici accertamenti fattuali, comporti il mutamento del nucleo essenziale del fatto costitutivo della domanda giudiziale, prospettando un nuovo tema di indagine e di decisione e non semplicemente la necessità di operare una diversa qualificazione giuridica della domanda (Cass., sez. lav., 12 giugno 2008, n. 15795). L'alterazione dell'oggetto sostanziale dell'azione, sotto il profilo della modificazione della causa petendi e, conseguentemente, dei termini della controversia, farà sì che l'eventuale prospettazione del motivo di illegittimità, operata tardivamente in corso di giudizio di primo grado o, per la prima volta, nel giudizio di appello, andrà incontro alla sanzione dell'inammissibilità.

Va, dunque, secondo l'esempio riportato dalla Corte, escluso che il lavoratore che abbia impugnato il recesso datoriale, allegandone il carattere ritorsivo, possa dedurre in sede di gravame nuovi profili di illegittimità, come la tardiva contestazione degli addebiti o della irrogazione della sanzione, configurando violazione del divieto di nova in appello (Cass., sez. lav., 9 marzo 2011, n. 5555).

Osservazioni

La questione esaminata, nella sua essenza, coinvolge trasversalmente istituti e principi generali, come il principio dispositivo e di corrispondenza tra il chiesto e pronunciato di cui agli artt. 99 e 11 c.p.c., il divieto di modifica della domanda e di proposizione dei c.d. nova in appello ex art. 345 c.p.c.

Secondo quanto affermato, dunque, la censura del licenziamento sotto profili diversi da quelli originari comporta l'allegazione o valorizzazione di fatti nuovi che, in appello, incorre nel divieto di proposizione di domande nuove.

Va, per inciso, richiamato quell'orientamento, ormai superato dall'abrogazione del c.d. rito Fornero, secondo cui, essendo il giudizio di primo grado unico a composizione bifasica, con una prima fase ad istruttoria sommaria, diretta ad assicurare una più rapida tutela al lavoratore, e una seconda fase, a cognizione piena, che della precedente costituiva la prosecuzione, non configurava domanda nuova, inammissibile per mutamento della causa petendi, la deduzione di ulteriori motivi di invalidità del licenziamento impugnato in sede di opposizione (Cass., sez. lav., 21 novembre 2017, n. 27655).

L'esempio riportato dalla Cassazione non pone, a onor del vero, particolari questioni interpretative, trattandosi di fattispecie di palese diversità della domanda, posto che l'allegazione di profili di ritorsività del licenziamento, cui è annessa la sanzione della nullità (e non dell'illegittimità, come nel caso di contestazione o sanzione tardiva) comporta una variazione del petitum immediato, oltre che dei fatti che compongono la causa petendi.

Il principio enunciato appare, tuttavia, pienamente condivisibile anche nel caso in cui, a parità di petitum, i nuovi profili di censura del recesso datoriale siano fondati su fatti del tutto nuovi, come nel caso, esaminato in giurisprudenza, in cui avendo dedotto, con il ricorso introduttivo di primo grado, l'illegittimità del licenziamento disciplinare per insussistenza dei fatti addebitatigli, formuli per la prima volta in grado d'appello la richiesta di accertamento dell'illegittimità per la consumazione del potere disciplinare, in conseguenza di una precedente contestazione dei medesimi fatti, seguita dall'irrogazione di una sanzione conservativa (Cass., sez. lav., 25 maggio 2012, n. 8293).

Una maggiore complessità ermeneutica presenta, invece, la fattispecie nella quale i fatti, valorizzati in appello in termini di nuovo motivo di censura del recesso datoriale, facciano già parte della piattaforma assertiva del giudizio di primo grado, essendo già esposti nell'atto introduttivo del giudizio in chiave descrittiva di altre circostanze o, semplicemente, ad colorandum. La soluzione, anche in questo caso, è offerta dalla giurisprudenza, che impone al giudice di considerare se i fatti «siano stati dedotti con una differente portata, a sostegno di una nuova pretesa, determinando in tal modo l'introduzione di un nuovo tema di indagine e di decisione» (Cass., sez. lav., 2 luglio 2008, n. 18119) incorrendo, in ultima analisi, nel divieto di cui all'art. 345 c.p.c.

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