Condizioni di operatività della direttiva 98/59/ce in ipotesi di modifica “unilaterale” del contratto di lavoro

30 Settembre 2025

Se i lavoratori non sono obbligati ad accettare le modifiche al contratto di lavoro imposte in forza di un accordo collettivo per la mobilità interna, qualora tali modifiche abbiano carattere sostanziale, incidendo su elementi essenziali, la risoluzione del contratto per il rifiuto opposto dal lavoratore deve essere conteggiata ai fini della procedura prescritta per i licenziamenti collettivi.

Massima

L’art. 1, § 1, della direttiva 98/59/CE deve essere interpretato nel senso che: al fine di valutare se le risoluzioni dei contratti di lavoro fondate sul rifiuto dei lavoratori di consentire l’applicazione al loro contratto di lavoro delle clausole di un accordo collettivo relative alla mobilità interna debbano essere considerate comprese nella nozione di «licenziamento» ai sensi del primo comma, lettera a), di tale disposizione, il giudice del rinvio deve esaminare se, in considerazione di detto accordo collettivo e delle clausole del contratto di lavoro, i lavoratori interessati siano tenuti ad accettare il cambiamento dell’assegnazione geografica proposto dal datore di lavoro e, in caso di risposta negativa, se tale cambiamento costituisca una modifica sostanziale di un elemento essenziale del contratto di lavoro, così da doversene tener conto nel calcolo del numero di licenziamenti effettuati. Se tale condizione non fosse soddisfatta, la risoluzione del contratto di lavoro conseguente al rifiuto del lavoratore di accettare una tale modifica costituirebbe una cessazione di tale contratto verificatasi su iniziativa del datore di lavoro per una o più ragioni non inerenti alla persona dei lavoratori, così da doversene ugualmente tener conto nel calcolo del numero di licenziamenti effettuati. L’art. 2 della direttiva 98/59/CE deve essere interpretato nel senso che: l’informazione e la consultazione dei rappresentanti dei lavoratori, alle quali si procede prima della conclusione di un accordo collettivo relativo alla mobilità interna, possono costituire una consultazione ai sensi di tale articolo, purché siano rispettati gli obblighi di informazione previsti al paragrafo 3 di quest’ultimo.

Il caso

Le questioni sono sorte nell’ambito di una controversia tra RT ed ED e la società Ineo Infracom in merito alla risoluzione dei contratti di lavoro dei primi, avendo essi rifiutato di accettare le modifiche contrattuali intervenute a seguito della conclusione di un accordo collettivo relativo alla mobilità interna.

A seguito della decisione della società France Télécom di non rinnovare l’appalto relativo ai dipartimenti del Gard (Francia) e della Lozère (Francia), la Ineo Infracom proponeva agli 82 dipendenti della filiale interessata, tra cui RT e ED, incarichi temporanei in altre regioni della Francia a partire dal 1° luglio 2013, nell’ambito del programma di mobilità a lunga distanza previsto dal contratto collettivo nazionale degli operai del comparto Opere pubbliche del 15 dicembre 1992. RT ed ED rifiutavano tali proposte, adendo, insieme ad altri nove dipendenti, il Tribunale del lavoro di Nîmes al fine di ottenere la risoluzione giudiziale del loro contratto di lavoro per colpa del datore.

Il 29 luglio 2013 la Ineo Infracom, considerato che l’attività ordinaria dell’impresa prevedeva regolarmente la ridistribuzione geografica del personale del cantiere in ragione della perdita o dell’aggiudicazione di appalti e che non era programmata alcuna riduzione dell’organico, stipulava, con le organizzazioni sindacali, un accordo collettivo di mobilità interna (in prosieguo: l’«accordo collettivo di mobilità interna»). In attuazione di tale accordo venivano inviate due offerte di lavoro a RT e a ED, che, però, non venivano accettate dagli stessi, con conseguente licenziamenti per motivi economici.

Il giudice francese di primo grado pronunciava la risoluzione giudiziale del contratto di lavoro di RT per colpa del datore di lavoro, mentre, con un’altra sentenza, respingeva le domande di ED.

La Corte d’appello di Nîmes rispettivamente annullava e confermava le decisioni adottate nei confronti di RT ed ED, rilevando che l’accordo collettivo di mobilità interna indicava espressamente di essere stato negoziato al di fuori di qualsiasi progetto di riduzione dell’organico, sicché la società non aveva violato le disposizioni degli artt. 1 e 2 della direttiva 98/59/CE, non essendo queste ultime applicabili in assenza di licenziamento collettivo.

RT e ED presentavano ricorso innanzi alla Corte di Cassazione francese, la quale, ai sensi dell’art. 267 TUFUE, sottoponeva due questioni pregiudiziali con riferimento all’interpretazione dell’art. 1, §1, secondo comma, e dell’art. 2, §§ da 2 a 4, della direttiva 98/59/CE. In particolare, il giudice del rinvio evidenziava che la normativa nazionale applicata (art. l. 2242-23, quarto comma, del codice del lavoro) prevedeva che il licenziamento,  il quale fosse fondato sul rifiuto da parte del dipendente di applicare al suo contratto le clausole dell’accordo di mobilità, fosse pronunciato secondo le modalità di un licenziamento individuale per motivi economici, ciò escludendo l’applicazione delle disposizioni normative relative alla procedura di informazione e di consultazione in ipotesi di licenziamento collettivo.

La questione

  1. Se l’art. 1, § 1, secondo comma, della direttiva 98/59/CE debba essere interpretato nel senso che i licenziamenti per motivi economici fondati sul rifiuto, da parte dei lavoratori, dell’applicazione al loro contratto di lavoro delle clausole di un accordo collettivo di mobilità costituiscono una cessazione del contratto di lavoro verificatasi per iniziativa del datore di lavoro per una o più ragioni non inerenti alla persona del lavoratore, di modo che è necessario tenerne conto ai fini del calcolo del numero complessivo di licenziamenti effettuati;
  2. in caso di risposta affermativa a tale prima questione, se, qualora il numero dei licenziamenti programmati superi il numero di licenziamenti previsti all’art. 1, §1, primo comma, lett. a), della direttiva 98/59/CE, l’art. 2, §§ da 2 a 4, di tale direttiva debba essere interpretato nel senso che l’informazione e la consultazione del comitato aziendale prima della conclusione di un accordo collettivo di mobilità interna con organizzazioni sindacali rappresentative, in applicazione degli articoli l. 2242-21 e seguenti del code du travail (Codice del lavoro), dispensano il datore di lavoro dall’informare e consultare i rappresentanti del personale.

Le soluzioni giuridiche

In via preliminare la Corte di giustizia dell’U.E. ha evidenziato che la nozione di «licenziamento» è autonoma nel diritto dell’Unione, sicché essa deve essere oggetto di interpretazione uniforme e non può essere definita mediante rinvio alle legislazioni degli Stati membri. La Corte ha osservato, altresì, che la classificazione di un atto del datore come licenziamento o come cessazione del contratto di lavoro ai sensi della direttiva 98/59/CE può comportare conseguenze giuridiche nella misura in cui è possibile, ai fini del calcolo del numero di licenziamenti, trattare i due concetti come equivalenti. Pertanto, la prima questione è stata riformulata nel senso di domandare se le risoluzioni dei contratti di lavoro, fondate sul rifiuto da parte dei lavoratori dell’applicazione al loro contratto di lavoro delle clausole di un accordo collettivo relative alla mobilità interna, debbano essere ricondotte nell’ambito di applicazione dell’art. 1 prefato, vuoi come licenziamenti, (primo comma, lettera a), vuoi come cessazioni del contratto di lavoro, (secondo comma) così che debbano essere prese in considerazione nel calcolo del numero di licenziamenti effettuati.

Sebbene la direttiva 98/59/CE non definisca espressamente la nozione di «licenziamento», in linea con la propria costante giurisprudenza sul punto, la Corte vi ha ricondotto qualsiasi cessazione del contratto di lavoro non voluta dal lavoratore, per cui la prefata direttiva deve essere interpretata nel senso che anche la scelta unilaterale del datore di modificare in modo sostanziale gli elementi essenziali del contratto di lavoro, per ragioni non inerenti alla persona del lavoratore stesso, deve essere ricondotta nella categoria del «licenziamento». Per contro, la stessa scelta che, però, modifichi in modo non sostanziale un elemento essenziale del contratto di lavoro, ovvero modifichi sostanzialmente un elemento non essenziale di detto contratto, sempre per ragioni non inerenti alla persona di tale lavoratore, non può essere qualificato come «licenziamento» ai sensi della citata direttiva.

Nel caso di specie, la CGUE ha precisato che spetta al giudice del rinvio, che è l’unico competente a valutare i fatti, determinare, per prima cosa, se Ineo Infracom, abbia apportato unilateralmente, e a svantaggio di RT e ED, le modifiche contrattuali oggetto del procedimento principale – i.e. le modifiche del luogo di lavoro - per motivi non inerenti a tali lavoratori.

Considerati gli atti a disposizione, la Corte ha osservato che le proposte di assegnazione geografica rivolte a RT e ED trovavano il loro fondamento nell’accordo collettivo di mobilità interna concluso tra Ineo Infracom e le organizzazioni rappresentative dei lavoratori. A tal fine, precisa nuovamente la Corte, spetta al giudice del rinvio esaminare se, alla luce di tale accordo collettivo e delle clausole del contratto di lavoro, i lavoratori interessati siano tenuti, per il fatto stesso di tali clausole, ad accettare il cambiamento dell’assegnazione geografica proposto dal datore di lavoro, nel qual caso il loro rifiuto integrerebbe una mancata esecuzione di tale contratto, con conseguente risoluzione per un motivo inerente alla persona di tali lavoratori. Nel caso in cui ritenga non sussistente l’obbligo dei lavoratori interessati ad accettare il cambiamento di assegnazione geografica proposto dal datore di lavoro, il giudice del rinvio dovrà determinare se, alla luce delle circostanze rilevanti del procedimento principale, le proposte di nuova assegnazione geografica in questione possano essere classificate come una «modifica sostanziale di un elemento essenziale» del contratto di lavoro. Sul punto la CGUE ha sottolineato che: qualsiasi cambiamento del luogo di lavoro può avere conseguenze economiche e organizzative significative per il lavoratore interessato e può, quindi, costituire un elemento essenziale del contratto di lavoro; il carattere sostanziale del cambiamento di assegnazione geografica dipende in particolare dalla temporaneità o meno della modifica, dalla distanza tra il luogo di lavoro d’origine e il luogo della nuova assegnazione, nonché da altre eventuali misure di accompagnamento dirette a compensare l’assegnazione proposta. Se, al termine di tale esame, constatasse che l’assegnazione proposta non costituisce una «modifica sostanziale di un elemento essenziale» del contratto di lavoro, il giudice del rinvio sarà tenuto a classificare la risoluzione del contratto di lavoro, conseguente al rifiuto del lavoratore di accettare una tale assegnazione, come una cessazione di tale contratto verificatasi su iniziativa del datore di lavoro per una o più ragioni non inerenti alla persona del lavoratore, ai sensi dell’art. 1, § 1, secondo comma, della direttiva 98/59/CE.  Ne consegue che, in ogni caso, siffatte risoluzioni, quand’anche il giudice del rinvio ritenga che non rientrino nella nozione di «licenziamento», debbono essere prese in considerazione ai fini del calcolo del numero totale di licenziamenti effettuati, nella misura in cui si basano su una ragione non inerente alla persona dei lavoratori e sempre che i licenziamenti siano almeno cinque.

Con riferimento alla seconda questione, la Corte ha osservato che dalla lettura combinata dell’art. 2, §§ 1,2 e 4, dell’art. 3, § 1, della direttiva 98/59 emerge che gli obblighi di consultazione previsti da tale direttiva sorgono anteriormente alla decisione del datore di lavoro di risolvere i contratti di lavoro, sicché, qualora una decisione che comporta una modifica delle condizioni di lavoro sia atta a consentire di evitare licenziamenti collettivi, la procedura di consultazione deve essere avviata al momento in cui il datore considera di procedere a una tale modifica. In particolare, suddetta procedura deve essere avviata nel momento in cui è stata adottata una decisione strategica o commerciale che costringe la parte datoriale a prevedere, ovvero a progettare, licenziamenti collettivi; tale è il caso in cui il datore decida di proporre modifiche del contratto di lavoro che deve ragionevolmente attendersi un certo numero di lavoratori non accetterà e che, conseguentemente, comporteranno la risoluzione del loro contratto di lavoro.

Ciò posto, la Corte ha anche precisato che l’insorgenza dell’obbligo del datore di lavoro di avviare le consultazioni sui previsti licenziamenti collettivi prescinde dalla circostanza che il medesimo sia già in grado di fornire ai rappresentanti dei lavoratori tutte le informazioni richieste dall’articolo 2, paragrafo 3, primo comma, lettera b), della direttiva 98/59/CE. Infatti, la formulazione di questa disposizione enuncia chiaramente che le informazioni di cui trattasi devono essere fornite dal datore di lavoro «in tempo utile nel corso delle consultazioni» «affinché i rappresentanti dei lavoratori possano formulare proposte costruttive»; ne deriva che tali informazioni possono essere comunicate durante le consultazioni e non necessariamente al momento dell’apertura delle medesime.

Nel caso di specie Ineo Infracom ha, in un primo tempo, formulato proposte di assegnazione geografica senza riduzione di organico. Tuttavia, a seguito delle prime proposte di assegnazione geografica, tale società ha avviato negoziati con i rappresentanti dei lavoratori che sono sfociati nella conclusione dell’accordo collettivo di mobilità interna, la cui applicazione le consentiva di apportare modifiche unilaterali ai contratti in punto di luogo di lavoro. Ineo Infracom doveva, quindi, attendersi, già al momento della negoziazione di tale accordo, che un certo numero di lavoratori non avrebbe accettato le modifiche unilaterali e che, di conseguenza, i loro rispettivi contratti sarebbero stati risolti. In tali circostanze, spetta al giudice del rinvio esaminare se gli obblighi di informazione previsti all’art. 2, § 3, della direttiva 98/59/CE siano stati rispettati già in sede di consultazione per la stipulazione del precitato accordo collettivo di mobilità interna.

Osservazioni

La recente decisione della Corte di giustizia dell'U.E. consente alcune riflessioni, in particolar modo con riferimento alle direttrici da seguire per stabilire se la cessazione del rapporto di lavoro possa acquistare rilievo ai fini dell'applicabilità, al singolo caso, della l. n. 223/1991.

Primo punto da attenzionare è l'esclusione dal confine dei licenziamenti collettivi dell'ipotesi in cui il lavoratore è tenuto a dare esecuzione all'accordo collettivo di mobilità interna. Infatti, in base a quanto precisato dalla Corte, solo laddove il dipendente possa opporre il proprio rifiuto alle modifiche concordate tra il datore e le parti sociali può trovare applicazione l'art. 1 della direttiva 98/59/CE, qualificandosi la fattispecie come licenziamento (comma 1) ovvero come cessazione del contratto (comma 2). L'accertamento di tale elemento fattuale è rimesso al giudice del rinvio.

Se si prova a traslare, mutatis mutandis, la fattispecie esaminata dalla Corte all'interno del nostro ordinamento, l'attenzione non può che cadere sull'art. 4 l. n. 223/1991 (richiamato dall'art. 24 della medesima Legge). Il Legislatore, nel prevedere la completa e cadenzata procedimentalizzazione del recesso datoriale, ha introdotto un significativo elemento innovativo consistente nel passaggio dal controllo giurisdizionale, esercitato ex post nel precedente assetto ordinamentale, ad un controllo devoluto ex ante alle organizzazioni sindacali, destinatarie di poteri di informazione e consultazione. A questi poteri si aggiunge la possibilità di negoziare soluzioni alternative ai licenziamenti, in modo da salvaguardare l'occupazione e, inevitabilmente, tutelare l'interesse del singolo dipendente alla conservazione del posto di lavoro. In tale prospettiva deve essere letto il comma 11 dell'art. 4 L. n. 223/1991, in forza del quale l'accordo collettivo, il quale prevede il riassorbimento totale o parziale dei lavoratori ritenuti eccedenti, può stabilire anche un demansionamento, in deroga al secondo comma dell'art. 2103 c.c. Tale disposizione, pur confermando la finalità precipua della procedura (i.e. evitare i licenziamenti), non pone un vincolo ai lavoratori interessati, i quali ben potrebbero rifiutare la dequalificazione, andando però incontro al rischio della perdita del posto occupato. Conservando questa facoltà di rifiuto, non può escludersi che il medesimo accordo collettivo possa realizzare l'obiettivo della conservazione dell'occupazione mediante un trasferimento dei lavoratori (Cass., sez. lav., n. 6289/2020; Cass., sez. lav., n. 14944/2014). Ciò di cui si dubita, invece, è la possibilità di qualificare l'eventuale successivo licenziamento per g.m.o. come il precipitato di una scelta unilaterale del datore “a svantaggio” del dipendente, considerato che la modifica contrattuale costituisce il risultato di una negoziazione a monte con le parti sociali e che la soluzione del trasferimento è stata adottata non nell'esclusivo interesse del datore.

Qualora si ritenesse comunque sussistente il connotato della unilateralità, la decisione in commento dovrebbe condurre il giudice nazionale a vagliare il rispetto delle regole operanti per il licenziamento collettivo -  sussistendo ovviamente gli ulteriori presupposti previsti dalla Legge (art. 24 precitato) – considerata la rilevanza, alla luce dell'interpretazione della direttiva 98/59/CE, delle modifiche al contratto di lavoro, anche qualora le stesse siano non sostanziali ovvero interessino elementi non essenziali, dovendo le conseguenti cessazioni del rapporto essere prese in considerazione ai fini del calcolo del numero totale di licenziamenti effettuati.

Con riferimento alla seconda questione oggetto del rinvio, la Corte ha posto l'accento sugli effetti, anche non direttamente voluti, derivanti dalle scelte datoriali. Nel caso di specie, in particolare, la modifica del luogo di lavoro costituiva una modifica contrattuale a seguito della quale era prevedibile per il datore la possibilità di procedere a licenziamenti a fronte dell'eventuale rifiuto opposto dai dipendenti. Il prevedibile scioglimento del rapporto di lavoro costituisce, pertanto, un elemento che deve essere valuto al fine di non incorrere in violazioni procedurali, ossia nell'inosservanza degli obblighi di informazione e consultazione delle rappresentanze sindacali, anche qualora la volontà datoriale non sia ab initio quella di ridurre l'organico. Sul punto l'approccio della Corte si conferma di tipo sostanzialistico, dal momento che anche la consultazione delle parti sociali finalizzata alla stipulazione di un accordo collettivo relativo alla mobilità interna può ritenersi conforme al dettato dell'art. 2 della direttiva 98/59/CE, purché siano rispettati gli obblighi di informazione previsti al paragrafo 3 del medesimo articolo.

Anche su tale conclusione potrebbero sorgere delle perplessità in punto di prevedibilità dei licenziamenti, specialmente in quelle ipotesi – quale quella sottoposta dal giudice francese – in cui l'attività ordinaria dell'impresa preveda regolarmente la ridistribuzione geografica del personale in ragione della perdita o dell'aggiudicazione di appalti. In altri termini, l'ordinarietà del mutamento della sede lavorativa potrebbe non rendere agevole prevedere il rifiuto del lavoratore allo spostamento, salvo si ritenga che la mera possibilità (anche remota?) di procedere a una riduzione del personale sia sufficiente per esigere il rispetto dei suddetti obblighi di consultazione e informazione.  

In estrema sintesi, seguendo l'orientamento della Corte, l'oggettiva prevedibilità della decisione di risolvere il rapporto di lavoro da parte dei dipendenti, ai quali venga comunicata una modifica ratione loci delle condizioni di lavoro, rende la scelta organizzativa datoriale sostanzialmente equiparabile all'esercizio del potere di recesso quanto alla necessità di coinvolgere tempestivamente, e quindi preventivamente, le rappresentanze sindacali.

Riferimenti

R. Cosio, Licenziamento indiretto: le conclusioni dell’Avvocato Generale Norkus, in Il lavoro nella giurisprudenza, n. 8-9, 1° agosto 2025, pp. 783 ss;

C. Garbuio, Diritti di informazione e consultazione - Condotta antisindacale e nozione eurounitaria di licenziamento “indiretto”, in Giur. It., n. 7, 1° luglio 2024, pp. 1625 ss;

F. Limena, I licenziamenti indiretti entrano nella fattispecie dei licenziamenti collettivi: il revirement della Cassazione, Il lavoro nella giurisprudenza, n. 6, 1° giugno 2021, pp. 600 ss;

R. Cosio, La nozione di licenziamento collettivo. Le precisazioni della Corte di Giustizia, In Il lavoro nella giurisprudenza, n. 5, 1° maggio 2021, pp. 502 ss;

M. De Luca, I licenziamenti collettivi nel diritto dell'Unione europea e l'ordinamento italiano: da una remota sentenza storica della Corte di giustizia di condanna dell'Italia alla doppia pregiudizialità per il nostro regime sanzionatorio nazionale (note minime), parte prima e parte seconda, rispettivamente in Labor, n. 2, 2020, pp. 149 ss. e n. 3, 2020, pp. 267 ss;

F. Gadaleta, Il problema dell'effettività nella Direttiva 98/59/CE e della cd. “dimensione comunitaria” del licenziamento collettivo, in Riv. It. Dir. Lav., 1, 2018, pp. 131 ss. 

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