La prosecuzione del rapporto fino a 70 anni: ratio, condizioni e tutela
02 Ottobre 2025
Interessi in gioco e normativa Come noto, il diritto costituzionale al lavoro (art. 4 Cost) ha imposto al legislatore di edificare una regolazione del rapporto subordinato caratterizzata, in primis, dalla necessità «di assicurare a tutti la continuità del lavoro, [circondando] di doverose garanzie […] e di opportuni temperamenti i casi in cui si renda necessario far luogo a licenziamenti.» (Corte cost. 9 giugno 1965, n. 45); di lì, l'introduzione di fattispecie e discipline del recesso attraverso l'essenziale l. 604/1966, l'art. 18 l. 300/1970 e, da ultimo, il d.lgs. 23/2015. E tuttavia, in particolari evenienze, come quella dei lavori già in possesso dei requisiti per l'accesso alla pensione di vecchia e non correnti, dunque, il rischio di trovarsi sprovvisti di sostentamento economico, la stessa Corte Costituzionale ha, del pari, ammesso che «in una società […] in cui si hanno disoccupazione e sottooccupazione, la mancata piena tutela del diritto al lavoro, per quei lavoratori, è il riflesso giuridico di una necessità pratica, autonomamente valutabile dal legislatore» (Corte cost. 14 luglio 1971, n. 174); considerazione, questa, che ha invero funto da presupposto per legittimare, nei loro riguardi, la persistenza di un regime di c.d. “libera recedibilità” o, per meglio dire, di esonero dal principio di necessaria giustificazione dell'atto espulsivo, ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 11, comma 1 l. 604/1966, prima e all'art. 4, comma 2 l. 108/1990, poi. Ma le complessità di contesto, economico e sociale, del nostro Pase, quale il trend demografico negativo, con aggravamento del rapporto tra persone in età lavorativa e inattive (Cfr. SINAPSI), così come una crescita del tasso di occupazione qualitativamente inadeguata, sia in termini di ore lavorate pro-capite, che di retribuzione (Cfr. INPS, ISTAT, CNEL), hanno indotto ad attenzionare anche quelle ipotesi normative di segno contrario ossia tese al trattenimento in servizio dei lavoratori più anziani, come l'art. 6 d.l. 791/1981 conv. in l. 54/1982, l'art. 6 l. 407/1990 e, per quel che maggiormente interessa qui, l'art. 24, comma 4, comma 4 d.l. 201/2011 conv. in l. 214/2011. Questo anche perché, come stato autorevolmente osservato, le stesse disposizioni possono contribuire a realizzare un ragionevole bilanciamento dei molteplici interessi in gioco: «quello dell'ente previdenziale di ritardare l'erogazione della pensione e di incrementare la contribuzione; quello indiretto del lavoratore di aumentare l'ammontare della pensione, siccome ad una maggiore contribuzione corrisponde una maggiore pensione, ed anche la base pensionistica per effetto degli aumenti salariali intervenuti nelle more; quello del datore di lavoro di avere [lavoratori] validi per età che diano certezza della massima operatività ed efficienza e che continuino a godere della sua fiducia.» (Corte cost. 1° luglio 1992, n. 309; nella prospettiva della “finalità legittima” in chiave antidiscriminatoria, CGUE 21 luglio 2011 Cause C-159/10 e C-160/10). Recesso ad nutum e prosecuzione del rapporto Ragion per cui, nel nostro ordinamento convivono fattispecie per così dire “inverse” e richiedenti un necessario coordinamento, in quanto rispondenti a esigenze talvolta fra loro inconciliabili, come il caso del lavoratore intenzionato a proseguire il rapporto per incrementare l'entità del proprio trattamento pensionistico, che confligge con l'opposto interesse dell'azienda a “sostituirlo” mediante personale più giovane, magari per effetto di logiche interne e inerenti alla mobilità del personale. Così, sotto quest'ultimo profilo, da una parte si ha l'art. 4, comma 2 l. 108/1990, che nel formulare un'ipotesi di licenziamento “acausale” in termini piuttosto ampi, cioè «nei confronti dei prestatori di lavoro ultrasessantenni, in possesso dei requisiti pensionistici», ha però incontrato un'interpretazione giurisprudenziale assai più rigorosa, ad avviso della quale «è soltanto la maturazione del diritto al pensionamento di vecchiaia che incide sul regime del rapporto di lavoro, consentendo al datore di lavoro il recesso ad nutum» (Cass. 25 maggio 2021, n. 14393), escludendo, di contro, ogni rilevanza ai trattamenti di c.d. “anzianità”. Stante le tipicità del rapporto previdenziale, questo pure a significare che la sua procedibilità, non è condizionata alla mera maturazione dei requisiti anagrafici e contributivi idonei per la pensione di vecchiaia”, bensì, in caso di periodi di attesa normativamente imposti (c.d. “finestre”), dal giungere del momento in cui il trattamento pensionistico è giuridicamente conseguibile (Cass. 8 settembre 2020, n. 18662) e, precisamente, dal primo giorno del mese successivo in cui tutte le condizioni risultano soddisfatte (Cass. 23 aprile 2021, n. 10883). Quindi, lato datoriale, un dies a quo già di per sé di non semplice individuazione, tenuto poi conto l'obbligo di rispettare, in ogni caso, il preavviso contrattualmente dovuto, non comportando il venir mendo del regime di stabilità del rapporto, anche l'automatica estinzione dello stesso (Cfr. Cass. 13 aprile 2021, n. 9655, Cass. 14 marzo 2018, n. 6157; argomentazioni di segno opposto, nel senso della non applicazione dell'art. 2118 c.c., possono invece osservarsi in Cass. 29 agosto 2017, n. 20499). Dall'altra è capace di evitare il transito all'anzidetta area di “libera recedibilità”, non solo il più risalente “diritto di opzione” – i.e. che prescinde dalla volontà aziendale - di cui all'art. 6 d.l. 791/1981 cit., espressamente citato dall'art. 4, comma 2 l. 108/1990 e volto a incrementare l'anzianità contributiva, per coloro che possono conseguire la pensione di vecchiaia prima del 65° anno di età (Cfr. Cass. 25 maggio 2021 cit.; analogamente, oltre la massima anzianità contributiva, v. poi art. 6 l. 407/1990), ma anche il già citato incentivo a proseguire l'attività lavorativa fino all'età di settant'anni, previsto dall'art. 24, comma 4 d.l. 201/2011 cit. Un'ipotesi, quindi, di assoluto interesse per il prestatore subordinato, consentendo al medesimo di eccedere il requisito anagrafico ordinariamente previsto per la pensione di vecchiaia – attualmente, 67 anni -, aumentando così il valore - per effetto dei coefficienti di trasformazione e dell'incremento del montante contributivo - del proprio emolumento di quiescenza. Tuttavia, come chiarito dalle Sezioni Unite della Cassazione, la disposizione in parola - a differenza delle precedenti - «non attribuisce al lavoratore un diritto di opzione per la prosecuzione del rapporto di lavoro, ne consente allo stesso di scegliere tra la quiescenza o la continuazione del rapporto, ma prevede solo la possibilità […] che, grazie all'incentivo in questione, le parti consensualmente stabiliscano la prosecuzione del rapporto sulla base di una reciproca valutazione di interessi» (Cass. sez. un. 4 settembre 2015, n. 17589). Accordo e tutela Di modo che, all'evidenza, nodo cruciale per l'inveramento della fattispecie è l'accordo incorso fra le parti, il quale, nel silenzio della norma e in ossequio del generale principio di “libertà delle forme” (art. 1325 c.c.), sempreché efficacemente espresso (v. Cass. 20 agosto 2025, n. 23616, che ha negato efficacia contrattuale alla delibera di un CDA, quale espressione del solo potere deliberativo e non di rappresentanza della società), è suscettibile, per un verso, di particolare modulazione, pure prevedendone ex ante un termine consensuale di durata (es. “fino al compimento del suo 69° anno di età”), per altro, riscontrabile ex post in via interpretativa, ricorrendo alla prova presuntiva (art. 2729 c.c.) e desumendolo per facta concludentia, potendo cioè nella valutazione d'inferenza rilevare la continuazione, nei fatti, della prestazione oltre i requisiti anagrafici previsti per la pensione di vecchiaia (Cfr. Cass. 20 agosto 2025, n. 23603), specialmente se avvenuta per un periodo di tempo non trascurabile e a seguito di precisa istanza avanzata dal lavoratore, ancorché quest'ultima rimasta formalmente inevasa dal datore di lavoro (Cass. 2 agosto 2018, n. 20458). Ed è chiaro che, tanto in difetto delle condizioni legittimanti di cui art. 4, comma 2 l. 108/1990 (v. supra), quanto nell'evenienza di concorde prosecuzione del rapporto, il licenziamento motivato dal solo raggiungimento dell'età pensionabile si troverebbe a fare i conti, quanto a garanzie di stabilità, con la disciplina ordinariamente vigente, sia in termini di cause giustificative (ammettendosi, dunque, il recesso solo per motivo c.d. “oggettivo”, “soggettivo” e “giusta causa”. Cfr Cass. 12 maggio 2008, n. 11668), sia in termini di conseguenze “sanzionatorie” (principio assunto fin da C. Cost. 30 dicembre 1994, n. 465). Senonché, allo stato dell'arte, anche in un quadro normativo caratterizzato dalla segmentazione delle tutele, graduata a seconda della gravità del vizio affliggente il licenziamento (per una ricostruzione dell'evoluzione normativa, Corte cost. 16 luglio 2024, n. 128), le statuizioni della Cassazione che bollano tale recesso come nullo per violazione di norma imperativa (Cfr. Cass. 17 maggio 2018, n. 12108, Cass. 12 maggio 2008 cit.) finiscono coll'implicare (ma al medesimo esito condurrebbe la natura discriminatoria, basa sull'età, del recesso. Cfr. art. 15 l. 300/1970), a prescindere dalla dalle dimensioni aziendali e dalla data di assunzione del lavoratore, l'applicazione della c.d. “tutela reale piena” (art. 18, commi 1-3 L. 300/1970, art. 2 d.lgs. 23/2015), cioè con diritto del prestatore estromesso al ritorno in azienda. Provvedimento di “reintegrazione” – e correlativo opting out per l'indennità sostitutiva - che, peraltro, non risulterebbe nemmeno precluso dall'eventuale perfezionamento, da parte del prestatore opponente, dei requisiti di accesso alla previdenza nel periodo intercorrente tra la data del licenziamento e quella di accertamento giudiziale dell'insussistenza di una sua idonea giustificazione (Cfr. Cass. 25 maggio 2018, n. 13181; parzialmente contraria, ma riferita al caso di presentazione dell'istanza di pensione in un momento precedente all'istaurazione del giudizio, Cass. 8 aprile 2025, n. 9284). Parimenti, neppure il risarcimento previsto per il periodo di estromissione potrebbe essere inciso da tale evento, essendo invalso in giurisprudenza il principio per il quale «non è detraibile come aliunde perceptum il trattamento pensionistico, potendosi considerare compensativo […] del danno arrecato dal licenziamento non qualsiasi reddito percepito, ma solo quello conseguito attraverso l'impiego della medesima capacità lavorativa» (Cass. 31 ottobre 2022, n. 32130). In conclusione Da quanto sinteticamente precede e, in particolare, dalle gravose conseguenze a cui risulta esposto il datore di lavoro, è del tutto evidente come la gestione normativa del lavoratore in età pensionabile debba rivelarsi, qualora l’intendimento sia quello di risolvere ex lege il contratto di lavoro in essere, particolarmente accorta: da un lato, verificando, per quanto possibile, la sussistenza di tutti i criteri previsti per l’accesso al trattamento di vecchia (età, requisito contributivo minimo, decorrenza del trattamento); dall’altro, riscontrando formalmente le istanze di prosecuzione del rapporto eventualmente pervenute dal lavoratore e andando a esplicitare, fin da subito e con chiarezza, l’indisponibilità dell’azienda in tal senso. Riferimenti Sinapsi, Il cambiamento demografico nella realtà italiana: prospettive, cause e conseguenze, 1-2025; ISTAT, Rapporto annuale 2025, 2025; INPS, XXIV Rapporto annuale, 2025; CNEL, XXVI Rapporto sul mercato del lavoro e la contrattazione collettiva, 2025. |