Molestie sessuali e paradosso dei risarcimenti “al ribasso”: quanto vale la dignità di una donna?

23 Ottobre 2025

Il contributo, prendendo le mosse dal “caso Gennarino” del 1971, analizza la sentenza della Corte d'Appello di Palermo (13 luglio 2025, n. 822) come occasione per riflettere sui criteri di quantificazione del danno nelle ipotesi di molestie lavorative. In particolare, l'analisi del quadro giurisprudenziale mostra una persistente moderazione dei risarcimenti, tale da indebolire la funzione dissuasiva della tutela antidiscriminatoria. Da qui l'esigenza di un intervento legislativo che definisca parametri uniformi di liquidazione, in coerenza con i principi della Convenzione OIL n. 190/2019 e del diritto europeo.

Ritorno al passato: il “caso Gennarino”

Quanto vale la dignità di una donna?

L'interrogativo riecheggia, almeno in parte, quello posto più di mezzo secolo fa in un commento al celebre “caso Gennarino” (Quanto vale un uomo?), che tanto scalpore aveva suscitato all'epoca (A. Galoppini, Il caso Gennarino, ovvero quanto vale il figlio dell'operaio, in Democrazia e Diritto, 1971, 255 ss., riferimento che devo al collega e amico Filippo Capurro, al quale va un sincero ringraziamento per avermi segnalato la vicenda).

In quel caso, il Tribunale di Milano aveva liquidato il danno alla salute di un minore parametrandolo sulla retribuzione da manovale che egli, figlio di un operaio, avrebbe presumibilmente percepito da adulto. Una decisione che venne definita espressione di “un sistema di regole che rispecchia e conferma privilegi tipici di un ordinamento classista o meglio castale”, in cui la Costituzione “lungi dall'essere una legge applicata con la pienezza e la generalità che le spetta come fonte principale e sopraordinata dell'ordinamento vigente, divent[a] invece la Magna Charta degli esclusi e degli oppressi da questa società del benessere” (cit., p. 259).

Con la conseguenza che “la vita di un operaio, calcolata secondo i criteri indicati, vale dai quindici ai venti milioni; quella di un alto magistrato (anche se scrive sentenze insostenibili) o di un professionista (anche se sbaglia le diagnosi o non sa stendere correttamente una memoria) vale dai cento ai duecento milioni” (cit., p. 259).

Ebbene, a oltre cinquant'anni di distanza, la sentenza della Corte d'Appello di Palermo, sezione lavoro, del 13 luglio 2025, n. 822, che ci accingiamo a commentare, sembra riportarci proprio lì: a un tempo in cui la dignità delle persone veniva misurata con criteri censitari. Un passo indietro di oltre cinquant'anni.

Il caso: l'accertamento della sottomissione

La protagonista della vicenda giudiziaria è la commessa di un Centro commerciale, che in primo grado aveva visto rigettata sia la propria domanda di risarcimento dei danni non patrimoniali svolta solidalmente nei confronti della società datrice di lavoro e dell'autore materiale delle condotte moleste, sia la richiesta di accertamento della nullità di una sanzione disciplinare conservativa, a suo dire ritorsiva in quanto adottata nel suddetto contesto di lavoro nocivo e degradante.

Diciamo subito che l'accertamento delle molestie operato dai giudici del gravame è tecnicamente ineccepibile. Rimediando alla lacuna istruttoria determinata dall'incompleto svolgimento del processo di primo grado, i giudici palermitani acquisiscono in prima battuta la prova testimoniale, tra cui spicca – nel disposto motivazionale – la dichiarazione di una collega, la quale fornisce l'evidenza diretta di un episodio di molestia fisica ai danni della ricorrente, oltre all'esistenza dell'ambiente lavorativo intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo descritto nella fattispecie legislativa dell'art. 26 del Codice delle pari opportunità (d.lgs. 198/2006), che nel caso di specie si concretizza nell'abituale utilizzo di “un linguaggio volgare, allusivo, a temi sessuali ”.

Il quadro probatorio, inoltre, viene consolidato dall'accertamento degli stessi fatti in sede penale (pur escludendosi l'efficacia del giudicato penale di condanna, peraltro oggetto di riforma in appello per intervenuta prescrizione dei reati ascritti), e in particolare dalla deposizione della persona offesa che, superato il rigoroso vaglio di credibilità soggettiva e oggettiva (cfr. Cass. pen. SS.UU. n. 41461/2012) e “tenuto conto altresì che tale efficacia probatoria non possa essere trasposta in sede civile ”, cionondimeno può acquisire una sua rilevanza nell'ambito del complessivo contesto istruttorio. Del resto, la stessa giurisprudenza di legittimità, proprio nello specifico ambito delle molestie lavorative, ha riconosciuto l'utilizzabilità delle dichiarazioni rese dalla vittima anche in sede di interrogatorio libero, allorché se ne possa desumere l'attendibilità estrinseca alla stregua dei riscontri forniti da ulteriori testimonianze, che riferiscano di comportamenti molesti realizzati nei confronti di altre lavoratrici (Cass. 19 maggio 2010, n. 12318).  

Da ultimo, la sentenza pone in rilievo la produzione di una serie di messaggi vocali ascrivibili al molestatore, non contestati nella loro genuinità ma soltanto nella loro asserita interpretazione “decontestualizzata”, da cui è obiettivamente rilevabile il carattere “pesantemente allusivo e fortemente offensivo e volgare delle espressioni utilizzate ”, incompatibile anche rispetto ad un rapporto di tipo amichevole e confidenziale.  Sotto tale profilo, la motivazione si colloca nel solco di un orientamento giurisprudenziale di merito ormai consolidato (cfr. App. Catanzaro, sez. lav., 20 novembre 2018, n. 1832; Trib. Massa, sez. lav., 11 agosto 2025, n. 215), richiamando il concetto di “metus” o “sottomissione” di cui all'art. 26, commi 2-bis e 3, del Codice delle pari opportunità, disposizione che tipizza il cd. ricatto sessuale (cfr. Trib. Grosseto, sez. lav., 14 maggio 2024, n. 211; per un'analisi più ampia, v. D. Tambasco, Molestie e rapporti di potere: la nullità degli atti, patti e provvedimenti in contesti di sottomissione, in Guida al Lavoro, in corso di pubblicazione).

In tale prospettiva, risultano del tutto irrilevanti – recte, nulli – gli atteggiamenti apparentemente pazienti o condiscendenti della vittima: nel caso di specie, la mancata opposizione esplicita nei messaggi è coerente con il timore di non ottenere la conversione del contratto a tempo indeterminato, così come il ritardo nella denuncia, presentata solo dopo la cessazione del rapporto, si spiega quale effetto diretto dello stato di soggezione psicologica della lavoratrice, motivata dalla sua condizione di precarietà lavorativa .

D'altro canto, come ha ben evidenziato una recente sentenza del Tribunale di Massa (11 agosto 2025, n. 215, cit.), è proprio il contesto di soggezione che rende le condotte moleste ancora più odiose, in quanto si sostanziano in vere e proprie violenze che si traducono in atti o comportamenti subiti ma non voluti dalla vittima (o meglio, “indesiderati”, per utilizzare il lessico del legislatore). In quel caso, la sottomissione è stata ravvisata nel “bisogno di mantenere se stessa e le figlie …trovandosi nella necessità di dover sopportare tali comportamenti non potendosi permettere di perdere lo stipendio.

Pur riconoscendo correttamente la sussistenza delle condotte moleste e della cornice di sottomissione in cui esse si inseriscono nel caso di specie, la sentenza in commento non trae le conseguenze logiche e giuridiche previste dall'art. 26, comma 3, del Codice delle pari opportunità, che sancisce la nullità di tutti gli atti, patti o provvedimenti adottati in conseguenza … della sottomissione ai comportamenti medesimi . Si tratta di un rimedio che, non a caso, sembra risentire dell'influenza della psicodinamica del lavoro, la quale interpreta il consenso o la sottomissione della vittima come una strategia di difesa di fronte alla sofferenza lavorativa (cfr. C. Dejours, Lavoro e salute mentale, Bologna, DeriveApprodi, 2025 [1980], p. 49 ss.). Nel caso in esame, invece, la sanzione disciplinare subita e impugnata dalla lavoratrice non è stata dichiarata nulla per il suo carattere ritorsivo, ma semplicemente annullata per difetto di prova in ordine alla fondatezza dell'addebito.

Il criterio di liquidazione del danno morale: la retribuzione della vittima

Eccoci al “doppio salto indietro” operato nella sentenza in commento.

Accertata, a seguito di apposita CTU medico-legale, l'insussistenza nella lavoratrice di un quadro patologico tale da escludere un danno biologico permanente, lo sguardo dei giudici palermitani si concentra – correttamente – sulla sfera del danno non patrimoniale concernente “i patimenti psicologici della vittima, quand'anche non accompagnati o trasmodati in lesioni dell'integrità psicofisica , ovvero sul danno morale, di cui si ribadisce l'ontologica autonomia risarcitoria, in linea con la consolidata giurisprudenza della Corte di cassazione (cfr., ex multis,Cass., 25 ottobre 2024, n. 27723; Cass. 18 settembre 2024, n. 25114; Cass. civ., sez. III, 12 settembre 2022, n. 26805).

Sebbene la pronuncia riconosca, da un lato, la concreta gravità delle condotte – consistite in “toccamenti, palpeggiamenti e sfregamenti nelle parti intime”, nonché nell'uso abituale di un linguaggio volgare e allusivo a tematiche sessuali – qualificandole come idonee a ledere in modo significativo la sfera dei diritti inviolabili della personalità, in particolare la libertà sessuale e la dignità individuale, dall'altro lato compie, in modo contraddittorio, un vero e proprio salto “all'indietro”, affermando che tali condotte – “pur certamente gravi ed intollerabili…non sono mai trasmodate in forma di violenza particolarmente coercitiva”.

Si tratta, con ogni evidenza, di una valutazione che, pur formulata con le cautele di rito, finisce per sminuire la reale gravità delle molestie subite, plurime e composte tanto da atti fisici quanto da espressioni verbali, introducendo surrettiziamente un'inammissibile scala di gradazione delle molestie sessuali, fondata su un indefinito parametro di “coercitività” che non trova alcun riscontro né nella normativa vigente né nella ratio delle tutele poste a presidio della libertà e della dignità della persona.

A tale prima, discutibile valutazione si collega – dopo aver ribadito la condizione di “particolare soggezione della lavoratrice” – l'esposizione del criterio adottato per la liquidazione del danno non patrimoniale nella componente morale che, è il caso di sottolinearlo, omette qualsiasi riferimento alla natura dissuasiva del risarcimento per violazione della legislazione antidiscriminatoria (cfr. art. 18, Dir. 2006/54/Ue; art. 17 Dir. 2000/78/Ce; art. 15 Dir. 2000/43/Ce; in giurisprudenza, ex multis, Cass., SS. UU., 21 luglio 2021, n. 20819; Cass., 2 novembre 2021, n. 31071; Cass. 15 dicembre 2020, n. 28646).

La Corte d'appello, rilevata l'assenza di un danno biologico, ha ancorato la quantificazione al trattamento retributivo della ricorrente, ritenendo “equo” riconoscere un importo pari a un quinto della retribuzione percepita nel periodo in cui le molestie si sono verificate (circa un anno), da prolungare di un ulteriore anno in considerazione della perdurante prostrazione psicologica, comprovata anche dal ritardo della lavoratrice nell'attivarsi nella ricerca di nuova occupazione.

Una motivazione che, seppur formalmente equitativa, finisce per tradurre la sofferenza morale della vittima in una misura economica parametrata al salario, riproponendo così una logica risarcitoria di stampo classista che riduce la dignità personale ad un valore meramente economico-censitario.  È questo il secondo, e più grave, “salto nel passato” compiuto dalla sentenza: un ritorno ideale proprio ai tempi del “caso Gennarino” richiamato in apertura.

Quanto vale, in questo caso, la dignità della vittima? La risposta è presto data: a fronte di una retribuzione complessiva di € 88.772,69 per circa tre anni di lavoro (1211 giorni, per la precisione), la sofferenza morale della commessa di un centro commerciale viene stimata in appena € 12.000,00, ossia € 9,90 per ogni giornata di esposizione alle condotte del proprio molestatore. Un esito che si commenta da sé e che, più che un risarcimento, rappresenta un'ulteriore ferita inflitta alla lavoratrice: in termini tecnici, una vera e propria “vittimizzazione secondaria”.

Parametri alternativi di liquidazione del danno 

Rivolgendo ora lo sguardo all'attuale panorama giurisprudenziale – dominato da una discrezionalità equitativa pressoché illimitata – la prospettiva non appare affatto più rassicurante, anzi.
In linea teorica, il criterio guida per la liquidazione del danno morale dovrebbe individuarsi nella particolare gravità e odiosità della condotta lesiva, avuto riguardo alla sua idoneità a compromettere beni della persona costituzionalmente garantiti e alla condizione di soggezione economica della vittima (Cass. 19 maggio 2010, n. 12318). Nella prassi delle corti di merito, tuttavia, le soluzioni adottate risultano quanto mai eterogenee, oscillando tra impostazioni e parametri spesso privi di effettiva coerenza.

 Si spazia dall'applicazione in via analogica dei criteri di cui all'art. 11, l. 689/1981 – elaborati per la determinazione delle sanzioni amministrative – valorizzando la gravità della violazione, l'eventuale condotta riparatoria dell'autore, la personalità dell'agente e, soprattutto, le sue condizioni economiche (cfr. Trib. Napoli Nord, sez. lav., 26 novembre 2021, n. 519), sino ad arrivare a pronunce più recenti che, nell'ottica di una liquidazione equitativa e dissuasiva del danno alla dignità della lavoratrice molestata, hanno tenuto conto dell'entità e della durata dei fatti, del clamore mediatico, dell'intensità dell'azione e delle sue conseguenze (Trib. Grosseto, 14 maggio 2024, n. 211, cit.). 

Altre decisioni, invece, in una prospettiva più marcatamente victim-oriented, hanno privilegiato criteri soggettivi, quali l'intensità della sofferenza interiore, l'età della vittima e le sue condizioni personali e familiari (Trib. Massa, 11 agosto 2025, n. 215).

Il risultato, in tutti questi casi, resta invariato: una ingiustificabile “moderazione risarcitoria”.
A due donne vittime di gravi molestie sul lavoro sono stati riconosciuti, rispettivamente, € 10.000,00 (Trib. Grosseto, 14 maggio 2024, n. 211, cit.) per un calvario durato circa diciotto mesi – pari a € 18,50 al giorno – e € 25.000,00 (Trib. Massa, 11 agosto 2025, n. 215, cit.) per oltre quattro anni di condotte moleste e umilianti – equivalenti ad € 17,00 al giorno-.

Si tratta di risarcimenti che, a fronte dell'odiosità delle condotte, del contesto di soggezione e del degrado relazionale in cui le vittime sono state costrette a operare, non possono in alcun modo ritenersi né dignitosi né dissuasivi.

Un sistema “bloccato” a valle: la necessità di un intervento legislativo     

Tirando le fila dell'analisi fin qui condotta, emerge un quadro ambivalente.
Da un lato, il meccanismo di accertamento e qualificazione delle molestie lavorative appare oggi complessivamente efficace, grazie soprattutto all'introduzione dell'onere probatorio agevolato (art. 40 d.lgs. 198/2006; art. 28 d.lgs. 150/2011) e a una fattispecie “ombrello” (quella delle molestie discriminatorie, cfr. art. 26 d.lgs. 198/2006; art. 2 comma 3 d.lgs. 215/2003; art. 2 comma 3 d.lgs. 216/2003) definita in termini oggettivi, che prescinde da qualsiasi indagine sull'animus del soggetto agente e si concentra invece soltanto sugli effetti lesivi.

Dall'altro lato, però, il sistema si inceppa nella fase di liquidazione del danno: la lettura delle pronunce restituisce l'impressione che, a fronte di un notevole dispendio di risorse nella raccolta e nella valutazione delle prove, il risultato economico del risarcimento resti irrisorio, finendo per vanificare lo sforzo istruttorio e pregiudicando al contempo tanto la funzione compensativa, quanto quella dissuasiva della tutela.

D'altro canto, la responsabilità di tale distorsione non può essere imputata unicamente agli operatori del diritto, né ai difensori, spesso restii a formulare richieste risarcitorie elevate, né ai giudici, che tendono a liquidazioni “al ribasso”.

In realtà, il nodo è di natura sistemica e richiede un intervento diretto del legislatore, volto a introdurre principi-guida contenenti parametri minimi e massimi per la quantificazione del danno da molestie e violenza sul lavoro.

In questa direzione si muoveva il DDL n. 2358 (Senato, 4 agosto 2021), presentato nella precedente legislatura in attuazione della Convenzione OIL n. 190/2019, che prevedeva un meccanismo risarcitorio a componente sanzionatoria, ispirato alla giurisprudenza delle Sezioni Unite (Cass., SS.UU., 5 luglio 2017, n. 16601), con la possibilità per il giudice di riconoscere una somma “ulteriore” -rispetto a quella di natura puramente compensativa- ricompresa tra 20.000 e 200.000 euro, elevabile fino a 400.000 euro nei casi di lesione permanente dell'integrità psico-fisica della vittima.

Un modello che, se attuato, avrebbe avuto il merito di restituire effettività alla tutela delle persone, attuando al contempo il principio di “tolleranza zero” rispetto alle violenze e molestie sul lavoro, dichiarato espressamente nel Preambolo della Convenzione OIL 190/2019.

Torniamo alla domanda iniziale: quanto vale la dignità di una donna?
Dipende, è la prima, amara risposta che emerge dall'analisi compiuta: dall'approccio del giudice, dai criteri scelti per la quantificazione, talvolta persino dal reddito della vittima.

Ma vi è anche una seconda risposta, strettamente connessa alla prima: nell'attuale sistema, la dignità di una donna continua a valere poco, sia che si tratti di una commessa, sia che si tratti di una dirigente.

E se cinquant'anni dopo la domanda resta la stessa, oggi la normativa sovranazionale pretende l'attuazione effettiva dei diritti e delle tutele.

Affinché non sia più negata la dignità, prima ancora che la giustizia, e, forse, anche un po', per saldare il vecchio debito che abbiamo con Gennarino.

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