Risarcimento del danno morale presunto alla whistleblower vittima di misure ritorsive

13 Novembre 2025

Dopo anni segnati da una persistente e ingiustificabile resistenza giurisprudenziale, viene finalmente affermata con la pronuncia del Tribunale di Bergamo, sez. lav., 6 novembre 2025, n. 951 – in modo chiaro e coerente anche con la ratio della Dir. Ue 2019/1937 – la piena tutela del segnalante di illeciti in ambito lavorativo, attraverso il riconoscimento dell'inversione dell'onere della prova e la presunzione del danno morale.

La vicenda

Occorre preliminarmente rilevare come la vicenda si collochi nell'ambito della disciplina previgente, trovando applicazione l'art. 54-bis del d.lgs. n. 165/2001, introdotto dall'art. 1 della legge n. 179/2017. Più precisamente, nel caso di specie un'agente di polizia locale presentava dapprima plurime segnalazioni all'ente di appartenenza e ad ANAC in ordine a favoritismi nell'erogazione di buoni pasto, indennità di turno e permessi studio in favore di soggetti privi dei requisiti di legge e, successivamente, una denuncia alla Guardia di Finanza con riferimento a irregolarità commesse nell'utilizzo di fondi regionali, di cofinanziamenti e nell'erogazione dei premi di produzione.

Ne scaturivano, con immediata consequenzialità cronologica, una pluralità di ritorsioni da parte sia dei colleghi sia dei vertici del proprio Comando, che la portavano a subire per circa tre anni condotte di progressiva mortificazione, demansionamento, isolamento ed emarginazione.  In particolare, la giudice orobica, nel dichiarare la nullità delle misure ritorsive adottate nei confronti della whistleblower — consistite nell'avvio di due procedimenti disciplinari infondati (entrambi successivamente archiviati), nell'assegnazione dequalificante all'Ufficio Notifiche e nel conferimento di una valutazione professionale negativa — ha conseguentemente condannato l'amministrazione pubblica per l'esposizione prolungata della lavoratrice a un ambiente di lavoro nocivo e stressogeno.

Secondo la pronuncia in commento, l'amministrazione ha infatti colposamente consentito “il mantenersi di un ambiente di lavoro nocivo e ostile, fonte di stress e di logorio fisico e mentale”, in palese violazione dell'obbligo generale di tutela sancito dall'art. 2087 c.c., non avendo in alcun modo assolto all'onere probatorio di dimostrare l'adozione di tutte le misure necessarie a prevenire la formazione di un contesto lavorativo tossico e disfunzionale (cfr. Cass., 26 febbraio 2024, n. 5061) ai danni della segnalante.

Nel caso concreto, sono stati accertati molteplici elementi di disagio lavorativo, tra cui:

  • un clima generale di tensione, in cui la ricorrente veniva indicata come “nell'occhio del ciclone”;
  • reiterate intimidazioni e minacce da parte di colleghi (“Se arriva la Corte dei Conti ti taglio le gomme”, “Le spaccherei la faccia”, ecc.);
  • insulti e frasi denigratorie rivolte alla segnalante (“È una testa di c…, ha la malattia facile, passa il tempo ad andare avanti e indietro dalla Procura, per colpa delle sue segnalazioni sono state bloccate le progressioni economiche, adesso dobbiamo comprarle gli stivaletti perché ha male ai piedi…”);
  • progressivo isolamento professionale, determinato anche dall'intervento del Comandante che dissuadeva i colleghi dal prestare servizio in pattuglia con lei;
  • svuotamento delle mansioni, mediante l'assegnazione ad attività meramente esecutive di archiviazione, scannerizzazione, fotocopiatura e sostituzione di rotolini delle stampanti portatili;
  • ostacoli deliberati allo svolgimento anche di tali mansioni dequalificate, mediante l'omissione intenzionale delle password di accesso all'archivio informatico.

   

Trattandosi quindi di situazioni note a tutto l'ambiente di lavoro, i vertici dell'ente «non potevano essere all'oscuro del clima apertamente ostile cui era palesemente soggetta la ricorrente».  

Esclusa soltanto la responsabilità del datore di lavoro per l'aggressione subita in servizio da un cittadino, considerata dal giudice un “episodio del tutto fortuito”, in quanto tale al di fuori del perimetro del rischio normale correlato all'esecuzione della mansione affidata alla lavoratrice (verifica della residenza anagrafica), la pronuncia in esame passa alla liquidazione del compendio risarcitorio.

In particolare, pur aderendo all'impostazione della CTU medico-legale che aveva escluso qualsivoglia pregiudizio all'integrità psico-fisica della dipendente, la giudice tuttavia non lascia priva di tutela la whistleblower, riconoscendo il diritto al risarcimento del danno morale. L'importo liquidato, pari a 25.000 euro, è stato determinato considerando, da un lato, il demansionamento protrattosi per oltre due anni — quantificato in misura pari al 20% della retribuzione mensile — e, dall'altro, in via forfettaria, le ulteriori sofferenze morali derivanti dall'insieme delle condotte vessatorie e ritorsive subite nel corso di un triennio.

Segnalazione di whistleblowing e inversione dell'onere della prova: l'inversione di tendenza della giurisprudenza di merito

Di particolare interesse si rivela il passaggio della sentenza in cui viene motivato l'accertamento della natura ritorsiva dei provvedimenti adottati dall'amministrazione a seguito delle segnalazioni di whistleblowing della dipendente, segno di una piena e coerente applicazione del disposto dell'art. 54-bis del d.lgs. n. 165/2001, che risponde «ad una duplice ratio, consistente da un lato nel delineare un particolare status giuslavoristico in favore del soggetto che segnala illeciti e, dall'altro, nel favorire l'emersione, dall'interno delle organizzazioni pubbliche, di fatti illeciti, promuovendo forme più incisive di contrasto alla corruzione» (cfr. Cass. 27 giugno 2024, n. 17715).

La pronuncia, dopo aver verificato la sussistenza dei requisiti oggettivi — ossia la presentazione all'ANAC e all'autorità giudiziaria di segnalazioni concernenti illeciti appresi in ragione del rapporto di lavoro e nell'interesse dell'integrità della pubblica amministrazione — e di quelli soggettivi, rappresentati dalla qualifica di dipendente pubblico della segnalante, si sofferma sull'esame della natura ritorsiva degli atti datoriali successivi.

Come noto, il primo comma dell'art. 54-bis d.lgs. n. 165/2001 tutela il lavoratore da ogni forma di reazione ritorsiva, diretta o indiretta, connessa alla denuncia, nonché dall'irrogazione di sanzioni disciplinari conseguenti alla segnalazione (cfr. Cass., 31 marzo 2023, n. 9148). La disposizione prevede infatti che il segnalante non possa essere «sanzionato, demansionato, licenziato, trasferito o sottoposto ad altra misura organizzativa avente effetti negativi, diretti o indiretti, sulle condizioni di lavoro determinata dalla segnalazione», salvo che sia accertata, con sentenza di primo grado, la responsabilità penale del segnalante per calunnia o diffamazione (art. 54-bis, comma 9).

A rafforzare ulteriormente la posizione processuale del whistleblower, il comma 7 del medesimo articolo, nel prevedere la sanzione della nullità per gli atti discriminatori o ritorsivi, introduce l'inversione dell'onere della prova: spetta quindi all'amministrazione dimostrare che le misure adottate nei confronti del segnalante siano motivate da ragioni del tutto estranee alla segnalazione. Tale previsione, perfettamente coerente con la finalità di garantire una tutela effettiva e non meramente formale ai segnalanti — i quali, come riconosce la Direttiva (UE) 2019/1937, «sono spesso poco inclini a segnalare inquietudini e sospetti nel timore di ritorsioni» (considerando n. 1) — consente di rendere effettivo il principio di protezione sancito dalla norma.

Nel caso di specie, accertata da un lato l'allegazione, da parte della lavoratrice, della stretta contiguità temporale tra la presentazione delle segnalazioni e l'adozione delle misure pregiudizievoli, e dall'altro la mancata dimostrazione, da parte del datore di lavoro, che tali misure fossero sorrette da ragioni del tutto indipendenti dalle denunce, la giudice ha dichiarato la nullità dei provvedimenti, in quanto presuntivamente ritorsivi ai sensi di legge.

Si può oggi affermare che ci si trovi dinanzi a una significativa inversione di tendenza giurisprudenziale, che segue la scia di una precedente e altrettanto rilevante pronuncia del Tribunale di Milano, la quale aveva già fatto applicazione del meccanismo processuale di inversione dell'onere della prova per dichiarare la nullità del licenziamento irrogato nei confronti del segnalante (Trib. Milano, 6 giugno 2025, n. 1680, con commento di D. Tambasco, Nullo il licenziamento per giusta causa successivo a una segnalazione di whistleblowing, in LPO, 14 luglio 2025; analogamente, nella prassi amministrativa, cfr. ANAC, delibera n.337 del 9 settembre 2025).

Appare così definitivamente superata la precedente prassi applicativa che, in sostanza, svuotava di effettività la tutela prevista dalla disciplina sul whistleblowing, negando rilievo a ogni meccanismo presuntivo e imponendo al lavoratore l'onere, spesso insostenibile, di fornire una prova diretta e rigorosa del nesso di causalità tra la segnalazione e la successiva misura pregiudizievole. Tale impostazione, come è noto, si poneva in aperto contrasto con il dato normativo e con la ratio della protezione del segnalante (cfr. Cass., 6 dicembre 2024, n. 31343; Trib. Milano, ord. 3 febbraio 2022; Trib. Milano, 13 dicembre 2023, n. 3854; C. App. Milano, 3 marzo 2023, n. 252; C. App. Palermo, 30 agosto 2022, n. 807; Trib. Palermo, 12 giugno 2020, n. 1575; contra Trib. Salerno, 10 gennaio 2023, n. 13; Trib. Mantova, 30 marzo 2021; sul punto, sia consentito rinviare a D. Tambasco, Le misure sostanziali e processuali di protezione dalle ritorsioni, in R. Cantone, N. Parisi, D. Tambasco (a cura di), Whistleblowing. Commento sistematico alla disciplina del d.lgs. n. 24/2023, Milano, Lefebvre Giuffrè, 2025, p. 507 ss.)

Ritorsione e ambiente di lavoro stressogeno

Un ulteriore profilo di particolare interesse nella motivazione della sentenza in commento è rappresentato dalla connessione implicita che il giudice opera tra la ritorsione vietata conseguente a una segnalazione di whistleblowing e la configurazione di un ambiente di lavoro nocivo e stressogeno.

Il Tribunale di Bergamo, infatti, riconduce le condotte ritorsive poste in essere ai danni della segnalante alla responsabilità datoriale ex art. 2087 c.c., per aver l'amministrazione colposamente tollerato il perdurare di un contesto lavorativo «nocivo e ostile, fonte di stress e di logorio fisico e mentale». La circostanza che la dipendente sia stata oggetto, per un periodo prolungato, di «condotte di progressiva mortificazione, demansionamento, isolamento ed emarginazione» da parte di colleghi e superiori viene così letta come espressione di una vera e propria colpa organizzativa, la quale prescinde dall'accertamento di un intento persecutorio unitario, concentrandosi invece sulla responsabilità datoriale per l'omessa prevenzione e gestione di un clima lavorativo lesivo della dignità personale.

In questa prospettiva, rileva non soltanto la condotta commissiva del datore di lavoro, ma anche – e soprattutto – quella omissiva, consistente nella mancata adozione delle misure necessarie a prevenire e rimuovere situazioni di disagio, stress o tensione ambientale, anche quando esse si manifestino in modo episodico o si intreccino con altre condotte inadempienti (cfr. Cass. 7 febbraio 2023, n. 3692; Cass. 26 febbraio 2024, n. 5061; per una più ampia trattazione, sia permesso rimandare a D. Tambasco, A. Rosiello, Il risarcimento del danno da stress lavorativo. Nuove forme di tutela nell'era del lavoro digitale, Milano, Lefebvre Giuffrè, 2024).

La decisione in esame si pone, quindi, quale espressione matura e coerente di un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, che da alcuni anni tende a ricondurre le varie forme di conflittualità lavorativa a disfunzioni oggettive dell'organizzazione del lavoro (cfr., ex multis, Cass. 19 gennaio 2024, n. 2084; Cass. 31 gennaio 2024, n. 2870; Cass. 21 febbraio 2024, n. 4664), superando quella impostazione riduttiva e “psicologizzante” che, in passato, cercava di individuare nei comportamenti vessatori l'espressione di intenti persecutori soggettivi, classificati di volta in volta come mobbing, straining o stalking. Tale approccio, oltre a generare incertezza applicativa, aveva infatti prodotto effetti distorsivi sul piano della tutela effettiva delle vittime, come evidenziato anche da uno studio dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro (cfr. D. Tambasco, Violenza e molestie nel mondo del lavoro. Un'analisi della giurisprudenza del lavoro italiana, Roma, 2022, p. 7 ss.).

Whistleblowing e presunzione del risarcimento del danno morale

Pur ispirandosi a una moderazione risarcitoria non pienamente conforme alla logica dissuasiva sottesa alla normativa eurounitaria in materia di whistleblowing — la quale impone agli Stati membri, sul modello della disciplina antidiscriminatoria, di prevedere «sanzioni effettive, proporzionate e dissuasive applicabili alle persone fisiche o giuridiche che […] attuano atti di ritorsione contro le persone di cui all'articolo 4» (art. 23 Dir. UE 2019/1937) — la sentenza in commento si distingue per rappresentare la prima pronuncia che riconosce, in via presuntiva, l'esistenza di un danno morale conseguente a una rappresaglia subita da una whistleblower.

Sul punto, è opportuno riportare integralmente il passaggio motivazionale della sentenza, di particolare rilievo per la chiarezza con cui riconosce la natura presunta del pregiudizio morale:

«Di contro, merita di essere riconosciuto il danno morale, nei termini meglio esplicitati (paura, disperazione, disistima di sé, vergogna), ossia quale intensa sofferenza soggettiva provata dalla ricorrente in conseguenza delle condotte, protrattesi per quasi tre anni, sofferenza che può essere dimostrata anche tramite il ricorso alla prova presuntiva secondo l'id quo plerumque accidit: nel corso del giudizio è innegabilmente emersa la penosità dell'ambiente di lavoro nel quale la ricorrente ha dovuto lavorare, il profondo senso di malessere, isolamento, emarginazione e umiliazione che ella deve aver provato nella consapevolezza di lavorare con colleghi che non perdevano occasione per manifestare, anche in modo brusco se non aggressivo, ostilità e rancore nei suoi confronti per avere dato avvio a una serie di iniziative a controllo delle erogazioni di cui, negli anni precedenti, erano stati beneficiari».

Sotto tale profilo, la pronuncia si colloca nel solco del consolidato orientamento giurisprudenziale che, pur escludendo la configurabilità di un danno in re ipsa, ammette il ricorso alla prova presuntiva per l'accertamento della componente morale del danno non patrimoniale (cfr., ex multis, Cass., Sez. Un., 11 novembre 2008, n. 26972; Cass., Sez. III, 10 novembre 2020, n. 25164).

È opportuno precisare che tale possibilità sussiste anche in assenza di un accertato pregiudizio di natura medico-legale (come nel caso di specie), atteso che il danno morale costituisce una voce autonoma di danno non patrimoniale, distinta e indipendente dal danno biologico. Come affermato dalla costante giurisprudenza di legittimità, infatti, «il danno morale configura un'autonoma ipotesi di danno non patrimoniale, risarcibile al ricorrere di determinati presupposti, dotata di piena autonomia ontologica rispetto al danno biologico; ne consegue che la richiesta di risarcimento del solo danno biologico non può essere interpretata come comprensiva anche di quello morale» (Cass., 6 luglio 2006, n. 15358; Cass., 14 maggio 2014, n. 10524; Cass., Sez. III, 12 settembre 2022, n. 26805; Cass., 25 ottobre 2024, n. 27723).

Nel medesimo senso si è espressa, da ultimo, la giurisprudenza di merito, che ha ribadito la risarcibilità autonoma del pregiudizio morale in relazione alla lesione della dignità e della professionalità del lavoratore (Trib. Tivoli, 8 ottobre 2024, n. 1442, cfr. F. Andretta, Tutela della dignità e della professionalità del lavoratore e risarcimento del danno, in LPO, 28 gennaio 2025).

Nuovi orizzonti

Si è esordito affermando che la pronuncia in commento riveste una portata storica: e in effetti, se si considera che — a partire dall'approvazione della prima normativa di tutela dei whistleblower (legge n. 190 del 2012) — questa rappresenta la prima sentenza in Italia a riconoscere espressamente il diritto al risarcimento del danno in favore di una segnalante vittima di ritorsioni, la sua rilevanza sistemica non può essere messa in dubbio.

Molti anni sono trascorsi da quando Andrea Franzoso presentò la prima segnalazione di whistleblowing, pagandone personalmente il prezzo e definendosi, con paradossale lucidità, un “disobbediente”, pur agendo in nome della legalità. Come ebbe a osservare l'allora Presidente del Senato, Pietro Grasso, «Disobbediente è la qualifica attribuita a chi, di fronte a una serie di illegalità, si rivolge ai carabinieri, le denuncia e consente l'avvio di indagini e processi. In una democrazia basata sullo Stato di diritto dovrebbe essere la norma, non l'eccezione» (A. Franzoso, Il disobbediente, Milano, 2021, p. 194).

È attraverso pronunce come questa che i whistleblower cessano di essere figure eroiche e isolate, per divenire cittadini che esercitano un diritto: quello di garantire, attraverso la segnalazione di illeciti, il rispetto del principio di legalità, autentico pilastro di ogni ordinamento che voglia dirsi democratico.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario