Le riprese con la dash cam del taxi sono documenti
14 Novembre 2025
La vicenda processuale Con la sentenza impugnata la Corte di appello aveva parzialmente riformato la sentenza resa dal Tribunale, confermando la responsabilità dell'imputato per i reati di indebito utilizzo di una carta bancomat e di una carta Postepay e, riconosciuta la circostanza attenuante del danno di particolare tenuità, aveva rideterminato la pena inflitta. Avverso detta pronunzia aveva proposto ricorso l'imputato, deducendo, tra gli altri motivi, l'inutilizzabilità ai sensi dell'art. 191 c.p.p. di un elemento decisivo (cioè il frame estratto dal sistema di videosorveglianza del taxi) e violazione degli articoli 253, 254 e 254-bis c.p.p. poiché il giudizio di colpevolezza si baserebbe sulle immagini estratte dal sistema di videoregistrazione presente nel taxi, in cui l'ignoto utilizzatore aveva effettuato il pagamento mediante la carta di credito della persona offesa. Questa estrazione sarebbe stata effettuata in forma libera senza alcuna delle garanzie previste per i sequestri mentre, come stabilito di recente dalla giurisprudenza di legittimità, ogni elemento per essere utilizzato nel processo deve essere acquisito tramite provvedimento di sequestro dell'autorità giudiziaria. La sentenza La Corte di legittimità ha dichiarato il ricorso inammissibile. In particolare, il motivo relativo alla dedotta inutilizzabilità delle immagini estratte dal sistema di videoregistrazione del taxi è stato dichiarato manifestamente infondato poiché i filmati realizzati mediante videoriprese legittimamente effettuate dal titolare del taxi, prima dell'inizio del procedimento penale, sono prove documentali, per la cui acquisizione non è necessario un provvedimento di formale sequestro. La sentenza ricorda che le Sezioni unite della Corte di legittimità hanno precisato che le videoregistrazioni in luoghi pubblici ovvero aperti o esposti al pubblico, non effettuate nell'ambito del procedimento penale, vanno incluse nella categoria dei "documenti" di cui all'art. 234 c.p.p. (Cass. pen., sez. un., 28 marzo 2006, n. 26795, Prisco, Rv. 234267 - 01). Ed anche più recentemente la giurisprudenza ha ribadito che la protezione accordata dalla legge alla riservatezza non è assoluta ed è subvalente rispetto all'esigenza di acquisizione probatoria propria del processo penale (fattispecie in cui sono stati ritenuti utilizzabili i filmati degli impianti di videosorveglianza posti a presidio della sicurezza di una caserma, acquisiti e conservati per diversi mesi senza l'adozione di alcun provvedimento di sequestro e senza informare la Procura) (Cass. pen., sez. I, 2 dicembre 2020, n. 27850, dep. 2021, Caramia, Rv. 281638 - 01). La sentenza fa derivare da tali principi giurisprudenziali la piena legittimità ed utilizzabilità dei documenti prodotti su cui si fonda la individuazione dell'imputato come soggetto che ha utilizzato una delle carte di pagamento sottratte. L'inammissibilità del ricorso impone le accessorie statuizioni di condanna al pagamento delle spese processuali e di un'ammenda che si ritiene congruo determinare in euro tremila. Considerazioni conclusive La Consulta definì la libertà e la segretezza delle comunicazioni un «presidio…operante contro le intrusioni [sia] dei privati…[sia] dei pubblici poteri» (C. cost., 24 giugno 1970, n. 122 e C. cost., 27 aprile 1972, n. 77), ma ha pure riconosciuto che deve trovare protezione l'interesse “connesso all'esigenza di prevenire e reprimere i reati” attraverso la possibilità di una limitazione di tali libertà e segretezza (C. cost., 6 aprile 1973, n. 34). Più recentemente la Corte cost., con la sentenza n. 170/2023, ha ribadito la definizione di intercettazione, unanimemente accolta, come l'«apprensione occulta, in tempo reale, del contenuto di una conversazione o di una comunicazione in corso tra due o più persone da parte di altri soggetti, estranei al colloquio» (Cass. pen., sez. un., 28 maggio 2003, n. 36747, Torcasio), aggiungendo che, «affinché si abbia intercettazione debbono quindi ricorrere, per quanto qui più interessa, due condizioni». La prima è di ordine temporale: “la comunicazione deve essere in corso nel momento della sua captazione da parte dell'extraneus; questa deve cogliere, cioè, la comunicazione nel suo momento “dinamico”, con conseguente estraneità al concetto dell'acquisizione del supporto fisico che reca memoria di una comunicazione già avvenuta (dunque, nel suo momento “statico”). La seconda condizione attiene, invece, alle modalità di esecuzione: «l'apprensione del messaggio comunicativo da parte del terzo deve avvenire in modo occulto, ossia all'insaputa dei soggetti, tra i quali la comunicazione intercorre». La Consulta, perciò, distingue le intercettazioni – «le quali consistono in una attività prolungata nel tempo di captazione occulta di comunicazioni o conversazioni che debbono ancora svolgersi nel momento in cui l'atto investigativo è disposto» – dal sequestro di e-mail e messaggi WhatsApp che si attua con «l'acquisizione uno actu di messaggi comunicativi già avvenuti», come i messaggi di posta elettronica e WhatsApp che, essendo corrispondenza, non sono soggetti a intercettazione ma a sequestro (C. cost. n. 170/2023). Nella fattispecie in esame non viene ripresa una comunicazione e quindi non sarebbe nemmeno concettualmente ammissibile un'intercettazione, ma ciò che viene registrato è una condotta umana, documentata prima e fuori del processo, per cui si tratta certamente di un documento ex art. 234 c.p.p., come tale acquisibile al processo, senza necessità di un formale provvedimento di sequestro. La soluzione accolta dalla sentenza in commento è quindi sicuramente condivisibile. |