Le condizioni per il riconoscimento della sentenza straniera e quelle di revoca del decreto di ammissione al patrocinio a spese dello Strato
18 Novembre 2025
Massima In tema di efficacia di provvedimenti giurisdizionali esteri, l'art. 64 l. n. 218 del 1995, che ne esclude il riconoscimento se le disposizioni della sentenza "producono effetti contrari all'ordine pubblico", non lascia al giudice investito della verifica alcun margine di valutazione sul merito della decisione adottata, essendogli devoluto solo il controllo estrinseco dell'atto, limitato al decisum. La consapevole proposizione di una domanda che il difensore sapeva già decisa da un giudicato straniero riconoscibile, integra una condotta improntata a colpa grave, avendo determinato l'instaurazione di un giudizio manifestamente inammissibile, come tale legittimante la revoca del decreto di ammissione al patrocinio a spese dello Strato. Il caso In un giudizio di divorzio promosso da un cittadino albanese, l’ex moglie non costituitasi in giudizio in sede interrogatorio per il tentativo di conciliazione riferiva che i due erano già divorziati per effetto di una sentenza pronunciata da un Tribunale albanese. Il difensore del ricorrente precisava che l’anagrafe del comune di residenza si era rifiutata di trascrivere la sentenza albanese di divorzio. Con la pronuncia in commento, i giudici di merito hanno dichiarato inammissibile il ricorso per sussistenza di un giudicato estero, rilevando la sua riconoscibilità in quanto non contraria all’ordine pubblico. Sotto altro aspetto si procedeva alla revoca del decreto di ammissione al patrocinio a spese dello stato, per colpa grave del ricorrente che pur a conoscenza della sentenza albanese di divorzio aveva comunque proposto il ricorso. La questione Le questioni in esame sono le seguenti: a quali condizioni può essere riconosciuta una sentenza straniera e la revoca del decreto di ammissione al patrocinio può essere disposta per colpa grave? Le soluzioni giuridiche Le sentenze emesse da autorità giudiziarie straniere possono avere efficacia in Italia nel rispetto della disciplina dettata dal Titolo IV della legge n. 218/1995, che si fonda sui concetti di "riconoscimento" ed "esecuzione", il primo consiste nell'attribuzione alla decisione straniera di tutti gli effetti che produce nell'ordinamento d'origine ad eccezione dell'idoneità a costituire titolo per l'esecuzione forzata, il secondo nell'attribuirle anche tale ulteriore effetto; il riconoscimento è automatico salva contestazione, mentre l'esecuzione richiede una sentenza di accertamento costitutivo da parte del giudice (art. 67) che va promosso dinanzi alla Corte di appello del luogo ove si intende attuare o eseguire la decisione. Il riconoscimento della sentenza straniera richiede la ricorrenza di plurimi presupposti, tra cui quello previsto dall'art. 64, primo comma, lettera d), della legge n. 218/1995, ai sensi del quale essa deve essere "passata in giudicato secondo la legge del luogo in cui è stata pronunziata" (Cass., sez. un., n. 14199/2008; Cass. sez. un., n. 115/2004; Cass. n. 21367/2018), presupposto che deve essere documentato. In proposito, la Corte di cassazione ha già avuto modo di affermare che "in sede di riconoscimento dell'efficacia del provvedimento giurisdizionale estero ex art. 67 della l. n. 218 del 1995, la verifica della compatibilità con i principi di ordine pubblico internazionale deve riguardare esclusivamente gli effetti che l'atto è destinato a produrre nel nostro ordinamento e non anche la conformità alla legge interna di quella straniera posta a base della decisione, né è consentito alcun sindacato sulla correttezza giuridica della soluzione adottata, essendo escluso il controllo contenutistico sul provvedimento di cui si chiede il riconoscimento" (Cass. Sez. U. n. 9006/2021,) in quanto al giudice investito della verifica è devoluto solo il controllo estrinseco dell'atto, limitato al decisum, cioè al contenuto precettivo della statuizione, sia pure ricostruita alla luce della parte espositiva della motivazione, e ciò in ragione della ratio sottesa a tale disciplina, volta a favorire la circolazione delle sentenze straniere che, all'opposto, sarebbe pregiudicata se il giudizio di riconoscimento assumesse i connotati di un riesame di merito (Cass. n. 8462/2023). A riguardo è opportuno ricordare che, in relazione all'ordine pubblico, è stato affermato che "In tema di riconoscimento dell'efficacia di un provvedimento giurisdizionale straniero, la compatibilità con l'ordine pubblico, ai sensi dell'art. 64, comma 1, lett. g), della l. n. 218 del 1995, deve essere valutata non solo alla stregua dei princìpi fondamentali della Costituzione e di quelli consacrati nelle fonti internazionali e sovranazionali, ma anche del modo in cui detti princìpi si sono incarnati nella disciplina ordinaria dei singoli istituti e dell'interpretazione fornitane dalla giurisprudenza costituzionale e ordinaria, la cui opera di sintesi e ricomposizione dà forma a quel diritto vivente, dal quale non può prescindersi nella ricostruzione della nozione di ordine pubblico, quale insieme dei valori fondanti dell'ordinamento in un determinato momento storico" (Cass. sez. un. n. 12193/2019) e si è anche precisato che "in tema di riconoscimento delle sentenze straniere, l'ordine pubblico internazionale svolge sia una funzione preclusiva, quale meccanismo di salvaguardia dell'armonia interna dell'ordinamento giuridico statale di fronte all'ingresso di valori incompatibili con i suoi principi ispiratori, sia una funzione positiva, volta a favorire la diffusione dei valori tutelati, in connessione con quelli riconosciuti a livello internazionale e sovranazionale (Cass. sez. un., n. 38162/2022). Sotto altro aspetto, relativamente alla statuizione adottata di revoca del decreto di ammissione al patrocinio a spese dello stato, in generale, al rigetto della domanda non consegue automaticamente la revoca dell'ammissione al patrocinio a spese dello stato, anche se da esso possono e debbono trarsi valutazioni che conducano, se del caso, alla ricognizione di dolo o colpa grave nell'avere agito o resistito. La valutazione della sussistenza dei presupposti per la revoca, per avere la parte agito o resistito in giudizio con dolo o colpa grave, deve essere basata esclusivamente sulla valutazione di tali presupposti, indipendentemente dalla valutazione della fondatezza dell'azione di merito (Cass. n. 21610/2018). Epperò, siccome non è consentito far discendere automaticamente dall'infondatezza della pretesa - tale apprezzata all'esito del giudizio - la sussistenza del presupposto per la revoca; allo stesso tempo, il giudice è chiamato ad accertare che la misura dell'infondatezza non costituisca indice inequivoco che la parte ammessa al patrocinio a spese dello stato abbia agito o resistito con mala fede o colpa grave. Osservazioni Costituisce ius receptum nella giurisprudenza di legittimità, il principio secondo cui: "in sede di riconoscimento dell'efficacia del provvedimento giurisdizionale estero della L. n. 218 del 1995 , ex art. 67, la verifica della compatibilità con i principi di ordine pubblico internazionale deve riguardare esclusivamente gli effetti che l'atto è destinato a produrre nel nostro ordinamento e non anche la conformità alla legge interna di quella straniera posta a base della decisione, né è consentito alcun sindacato sulla correttezza giuridica della soluzione adottata, essendo escluso il controllo contenutistico sul provvedimento di cui si chiede il riconoscimento" (Cass. sez. un. n. 9006/2021). In particolare, in tema di riconoscimento delle sentenze straniere la verifica del requisito di cui all'art. 64, lett. b), della legge n. 218 del 1995 implica l'accertamento dell'avvenuto rispetto dei principi fondamentali dell'ordinamento, anche relativi al procedimento formativo della decisione, con la precisazione che non è ravvisabile una violazione del diritto di difesa in ogni inosservanza di una disposizione della legge processuale straniera posta a tutela della partecipazione della parte al giudizio, ma solo in quella che, per la sua rilevante incidenza, abbia determinato una lesione del diritto di difesa rispetto all'intero processo, ponendosi in contrasto con l'ordine pubblico processuale (Cass. n. 17519/2015; Cass. n. 3823/2010). Occorre avere ben chiaro, cioè, che il congegno introdotto dall'art. 64 della legge di riforma del diritto internazionale privato, laddove esclude il riconoscimento se le disposizioni della sentenza "producono effetti contrari all'ordine pubblico", non lascia al giudice del riconoscimento alcun margine di controllo sul merito della decisione adottata. E la lettera della norma è espressione della ratio sottesa alla disciplina da essa recata, la quale è posta a favorire la circolazione delle sentenze straniere, circolazione che rimarrebbe gravemente pregiudicata se il giudizio di riconoscimento potesse assumere i connotati di un controllo di merito sul contenuto della sentenza oggetto della domanda di riconoscimento. È per questo che compete al giudice una verifica soltanto estrinseca, e quindi, sotto tale profilo, limitata al dispositivo, dunque, come si diceva, al contenuto precettivo della statuizione, al decisum, sia pure ricostruito alla luce dell'espositiva e della motivazione del lodo, della contrarietà all'ordine pubblico, verifica che non può così mai ed in nessun caso trasmodare in un controllo della motivazione del provvedimento, nel qual caso si darebbe corso a quel riesame del merito che la norma ha inteso escludere. Deve in conclusione tenersi per fermo che la contrarietà all'ordine pubblico deve emergere immediatamente dalla lettura del dispositivo, inteso nel senso indicato, quantunque alla complessiva luce della sentenza, senza che possa ammettersi alcun controllo in ordine ad eventuali errores in iudicando o in procedendo che il giudice straniero possa aver eventualmente commesso. È stato d'altronde chiarito che il concetto di ordine pubblico processuale è riferibile ai principi inviolabili posti a garanzia del diritto di agire e resistere in giudizio, non anche alle modalità con cui tali diritti sono regolamentati o si esplicano nelle singole fattispecie, e ciò anche alla stregua dell'orientamento della giurisprudenza unionale, secondo cui il diritto di difesa non costituisce una prerogativa assoluta, ma può soggiacere, entro certi limiti, a restrizioni (Cass. n. 17299/2013; Cass. 25064//2021). Il richiamo alla giurisprudenza unionale deve intendersi riferito, in particolare, ad una pronuncia della Corte di Giustizia UE, che, nell'enunciare il principio secondo cui l'art. 27, punto 1, della Convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1968 dev'essere interpretato nel senso che il giudice dello Stato richiesto può attribuire rilievo alla circostanza che la sentenza sia stata pronunciata in assenza del convenuto, escluso dal procedimento per inottemperanza ad obblighi imposti da una precedente ordinanza, qualora, in esito ad una valutazione globale del procedimento, e considerate tutte le circostanze, ritenga che il provvedimento di esclusione abbia costituito una violazione manifesta e smisurata del diritto al contraddittorio, ha precisato che il diritto di difesa può subire una moderata limitazione nel caso in cui il provvedimento sia stato emesso nei confronti di un soggetto che abbia avuto comunque la possibilità di partecipare attivamente al processo, quanto meno nella fase precedente a quella conclusasi con l'emissione del provvedimento (Corte di Giustizia UE, sent. 2 aprile 2009, in causa C-394/07, Gambazzi). L'esigenza di valutare la lesione dei diritti essenziali della difesa in relazione al procedimento considerato nella sua globalità trova conferma anche nella giurisprudenza della Corte EDU, la quale, in riferimento all'art. 6 della CEDU, ha rilevato che, mentre il par. 1 consacra il principio del diritto ad un giusto processo in materia penale, il par. 3 non specifica il modo in cui tale diritto si esercita, lasciando agli Stati contraenti la scelta dei mezzi per assicurare che esso sia garantito nei loro sistemi processuali; ha poi aggiunto che il modo in cui l'art. 6 si applica nella fase delle indagini preliminari dipende dalle particolari caratteristiche del procedimento e dalle circostanze del caso, precisando comunque che, per determinare se l'obiettivo del giusto processo sia stato raggiunto, occorre avere riguardo al modo in cui l'intero procedimento si è svolto in concreto (Corte EDU, sent. 24 novembre 1993, Imbrioscia c. Svizzera; 28 marzo 1990, Granger c. UK). Sul tema della revoca del decreto di ammissione al patrocinio a spese dello stato, la Corte costituzionale (ord. n. 220/2009) ha dichiarato inammissibile una questione di costituzionalità per non avere il rimettente esattamente ricostruito il quadro normativo di riferimento, spiegando che "l'art. 122 del D.P.R. n. 115 del 2002, prevede che l'istanza di ammissione al patrocinio a spese dello stato deve contenere a pena di inammissibilità "le enunciazioni in fatto ed in diritto utili a valutare la non manifesta infondatezza della pretesa che si intende far valere"; mentre il successivo art. 136, al comma 2, dispone che "con decreto il magistrato revoca l'ammissione al patrocinio provvisoriamente disposta dal consiglio dell'ordine degli avvocati, se risulta l'insussistenza dei presupposti per l'ammissione ovvero se l'interessato ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave"; che, pertanto, contrariamente a quanto affermato dal rimettente, il legislatore ha previsto sia una valutazione ex ante del requisito della non manifesta infondatezza (da compiersi al momento della presentazione della domanda, con rigetto della stessa nei casi in cui, sin dall'origine, l'istante voglia far valere una pretesa palesemente infondata); sia la revoca, ex post, della ammissione al beneficio quando, a seguito del giudizio, risulta provato che la persona ammessa ha agito o resistito con mala fede o colpa grave". Per vero la revoca non presuppone la prova della "dolosa predeterminazione", essendo sufficiente che resti accertata anche la sola colpa grave. Inoltre, la stessa nozione di malafede, la quale senz'altro può includere la dolosa predeterminazione (o, se si vuole, preordinazione) in quest'ultima non si esaurisce, bastando la consapevolezza di agire o resistere in giudizio sapendo di avere torto. La Corte di cassazione ha precisato che l'ordinamento assicura ai non abbienti, con appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione, ma non in relazione a domande manifestamente infondate, sicché deve ritenersi pienamente compatibile, sul piano costituzionale, la previsione della revoca dell'ammissione al patrocinio a spese dello stato a fronte della manifesta infondatezza delle domande, spettando al giudice di merito che procede, del tutto ragionevolmente, stabilire se la manifesta infondatezza vi sia oppure no (Cass. n. 24109/2019). Ad ogni modo, dall'infondatezza della pretesa, accertata ex post secondo l'esito del giudizio, non può farsi derivare automaticamente, senza apprezzamento in concreto, la mala fede o la colpa grave dell'ammesso in via provvisoria al patrocinio a spese dello stato; tuttavia, il giudice è chiamato ad accertare che la misura dell'infondatezza non costituisca indice inequivoco che la parte ammessa al patrocinio a spese dello stato abbia agito o resistito con mala fede o colpa grave, senza che occorra raggiungere la prova della dolosa predeterminazione o preordinazione. |