La citazione negli atti processuali di parte di giurisprudenza inesistente reperita attraverso un sistema di intelligenza artificiale, non sempre è sanzionabile ai sensi dell’art. 96 c.p.c.
24 Novembre 2025
Massima L'indicazione, negli scritti difensivi di parte, di riferimenti giurisprudenziali reperiti attraverso l'uso di un sistema di intelligenza artificiale ma rivelatisi inesistenti, fermo restando il disvalore relativo alla omessa verifica della fonte, non può essere sanzionata ai sensi dell'art. 96 comma 3 c.p.c. se questa giurisprudenza è stata posta a fondamento della tesi ab origine sostenuta dalla parte e quindi è stata proposta a supporto di una struttura difensiva rimasta immutata sin dal primo grado del giudizio ed oggettivamente non finalizzata ad influenzare il Giudice. Il caso Assegnato termine per note, il difensore di parte resistente “ha dichiarato che i riferimenti giurisprudenziali citati nell'atto sono stati il frutto della ricerca effettuata da una collaboratrice di studio mediante lo strumento dell'intelligenza artificiale ChatGpt, del cui utilizzo il patrocinatore in mandato non era a conoscenza”. A causa di ciò sarebbe stata menzionata giurisprudenza generata dalla Intelligenza Artificiale, la quale ”avrebbe inventato dei numeri asseritamente riferibili a sentenze della Corte di Cassazione inerenti all'aspetto soggettivo dell'acquisto di merce contraffatta il cui contenuto, invece, non aveva nulla a che vedere con tale argomento”. Parte resistente ha ammesso di avere omesso il controllo dei dati ottenuti ed ha chiesto lo stralcio di queste erronee citazioni, ritenendo già sufficientemente provata la propria linea difensiva. Il Tribunale ha rigettato l'istanza del reclamante di condanna di parte resistente ex art. 96 c.p.c.. La questione Se una delle parti processuali cita giurisprudenza reperita attraverso un sistema di intelligenza artificiale generativa senza verificarne la effettiva esistenza, questo contegno processuale è sanzionabile ai sensi dell'art. 96 c.p.c.? La soluzione giuridica Il Tribunale di Firenze – Sezione Imprese – constatato che una delle parti processuali aveva citato giurisprudenza inesistente reperita mediante l'utilizzo di un sistema di intelligenza artificiale, ha rigettato l'istanza ex art. 96 c.p.c. ritenendo che non sussistessero i presupposti per la applicazione del primo comma della norma invocata e neppure quelli di cui al terzo comma. Il Tribunale ha preliminarmente rilevato che i riferimenti giurisprudenziali sono stati posti “a fondamento della tesi ab origine sostenuta”, e quindi “a supporto di una struttura difensiva rimasta immutata sin dal primo grado del giudizio ed oggettivamente non finalizzata ad influenzare il collegio, appuntandosi piuttosto su quanto già indicato, in senso analogo, anche nelle decisioni di prime cure, in ordine all'assenza dell'elemento soggettivo della malafede dei dettaglianti, elemento sulla base del quale non sono state a loro estese le misure cautelari”. Fatta questa premessa, il Tribunale – ribadita la natura extracontrattuale della responsabilità ex art. 96 comma 1 c.p.c. e quindi la necessità che l'istante dia la prova sia dell'an che del quantum debeatur – non l'ha accolta perché “il reclamante non ha spiegato alcuna allegazione, neppure generica, dei danni subiti a causa dell'attività difensiva espletata dalla controparte”. Ma il Tribunale non ha ravvisato neppure la sussistenza degli estremi per condannare parte resistente ai sensi del terzo comma dell'art. 96 c.p.c.. Al riguardo, il Collegio ha innanzitutto osservato che la ratio di questa disposizione “deve individuarsi nel disincentivare l'abuso del processo o comportamenti strumentali alla funzionalità del servizio giustizia ed in genere al rispetto della legalità sostanziale”; in secondo luogo ha precisato che questa “fattispecie deve inoltre intendersi come species dei primi due commi, per cui non si può prescindere dalla condotta posta in essere con mala fede o colpa grave né dell'abusività della condotta processuale”. Ebbene, pur essendo innegabile il disvalore della condotta processuale consistente nell'avere omesso di verificare l'effettiva esistenza delle sentenze reperite interrogando un sistema di intelligenza artificiale, il Tribunale ha tuttavia ritenuto di non dovere sanzionare la parte che se ne era avvalsa perché questa “sin dal primo grado ha fondato la sua propria strategia difensiva sull'assenza di malafede nell'avere commercializzato le magliette raffigurante le vignette del reclamante, elemento che poi si era già trovato nel decreto emesso inaudita altera parte e che ha trovato riscontro anche nella successiva ordinanza cautelare”. Il Giudice ha quindi concluso che “l'indicazione di estremi di legittimità nel giudizio di reclamo ad ulteriore conferma della linea difensiva già esposta dalla resistente si può quindi considerare diretta a rafforzare un apparato difensivo già noto e non invece finalizzata a resistere in giudizio in malafede, conseguendone la non applicabilità delle disposizioni di cui all'art. 96 c.p.c.” Osservazioni L'ordinanza che si commenta è di estremo interesse. Sarebbe il primo caso “noto” in Italia dell'impiego processuale di giurisprudenza che si è rivelata essere una “allucinazione” del sistema di intelligenza artificiale interrogato da una delle parti in causa. La decisione in esame affronta le conseguenze processuali alla luce dell'art. 96 c.p.c. dell'uso incauto (perché non verificato) di citazioni giurisprudenziali reperite attraverso una ricerca effettuata da un agente artificiale. La giurisprudenza, quando ha applicato l'art. 96 cpc, ha sempre tenuto ben distinta la fattispecie disciplinata dal primo comma da quella di cui al comma terzo, introdotta con la novella del 2009. La responsabilità processuale di cui al primo comma, infatti, presuppone l'istanza di parte e la prova sia del dolo o della colpa grave della parte processuale risultata soccombente sia del danno causato dalla illecita condotta processuale oggetto di censura. La responsabilità delineata dal comma 3 dell'art. 96 cpc, invece, non ha natura risarcitoria, bensì sanzionatoria; pertanto, non richiede una istanza di parte, potendo il giudice affermarla anche d'ufficio, e neppure la prova del danno ma solo la allegazione e la prova dell'elemento soggettivo della mala fede o della colpa grave della parte soccombente (Cass. Civ., Sez. II, 3 maggio 2022 n. 13859). Mala fede o colpa grave che si ravvisano sia nella violazione di quel grado minimo di diligenza che – se messo in atto - avrebbe consentito agevolmente di avere contezza della infondatezza o della inammissibilità della propria domanda e che si risolve in un abuso dello strumento processuale (Cass. Civ., Sez. I, 27 ottobre 2023 n. 29831) sia nel perseguire “scopi o intendimenti abusivi, ossia strumentali e comunque eccedenti la normale funzione del processo, i quali non necessariamente devono emergere dal testo degli atti della parte soccombente, potendo desumersi anche da elementi extra testuali concernenti il più ampio contesto nel quale l'iniziativa processuale si inscrive” (Cass. Civ., Sez. III, 30 dicembre 2023 n. 36591; Cass. Civ., Sez. I, 8 luglio 2024 n. 18499). Fanno da corollario a questi principi due precisazioni. La responsabilità di cui al terzo comma dell'art. 96 cpc è eccezionale e/o residuale, sicché interpretare ed applicare questa norma in senso lato o addirittura ritenere che possa comminarsi la sanzione automaticamente in presenza della mera soccombenza processuale, sarebbe contrario ai principi costituzionali stabiliti dall'art. 24 Cost. (Cass. Civ., Sez. III, 12 luglio 2023 n. 19948). In secondo luogo, la mala fede o la colpa grave – rilevanti ai fini della fattispecie di cui al richiamato terzo comma dell'art. 96 cpc – debbono coinvolgere l'esercizio dell'azione processuale nel suo complesso (Cass. Civ., Sez. I, 27 ottobre 2023 n. 29831; Cass. Civ., Sez. II, 3 maggio 2022 n. 13859). Il Tribunale di Firenze, escludendo la responsabilità processuale aggravata ex art. 96 comma 1 cpc perché la parte istante non ha neppure genericamente allegato la natura del pregiudizio a ristoro del quale era stata chiesta la condanna per lite temeraria, ha quindi aderito alla giurisprudenza pressoché unanime della Cassazione. Un po' perplessa, invece, sembra la argomentazione con la quale è stata esclusa anche la responsabilità ai sensi del comma terzo. Il Tribunale non ne ha ravvisato gli estremi non già perché la citazione di giurisprudenza senza averne preventivamente verificato la esistenza fosse priva di disvalore, quanto perché sarebbe stata una condotta processuale che, per quanto assai discutibile, avrebbe mirato a rafforzare un apparato difensivo già noto e non invece a resistere in giudizio in mala fede. Occorre, a questo punto, dare conto dell'apparato difensivo cui allude il Tribunale. La parte risultata soccombente, ed alla quale era stata contestata la mala fede processuale, aveva da subito, costituendosi in sede cautelare, ammesso di avere commercializzato alcuni capi di abbigliamento raffiguranti un marchio registrato in difetto della preventiva autorizzazione del titolare del segno distintivo, ma aveva eccepito di avere agito in assoluta buonafede perché non era consapevole del plagio. Eccezione che era stata accolta dal Tribunale adito in sede cautelare e poi disattesa in sede di reclamo sul presupposto – squisitamente giuridico – che era del tutto irrilevante la buona o mala fede del distributore di un prodotto contraffatto perché in materia di diritto d'autore la tutela inibitoria non può non attingere tutti i soggetti che hanno fatto parte della catena distributiva, rilevando l'aspetto soggettivo unicamente in sede risarcitoria. Dunque – sembra di capire – non si poteva ravvisare la mala fede rilevante ai sensi dell'art. 96 comma 3 cpc perché la parte processuale, costituendosi, aveva fatto valere una tesi poi rivelatasi infondata, ma senza con ciò sconfinare nell'abuso del processo. Probabilmente altra sarebbe stata la conclusione se il Tribunale avesse aderito a quella giurisprudenza di merito che, nel recente passato, ha spesso associato la responsabilità di cui al comma terzo dell'art. 96 cpc alla violazione del generale dovere di lealtà e probità processuale stabilito dall'art. 88 cpc e l'ha adoperata quale “efficace sanzione a condotte processuali sleali o scorrette, che si concretino in un utilizzo per fini diversi o deviati da quelli tipici dei mezzi di tutela previsti dall'ordinamento” (Trib. Benevento 15 gennaio 2020 n. 58; Trib. Frosinone 10 marzo 2020 n. 247; Trib. Milano 18 novembre 2020 n. 7363; Trib. Foggia 2 luglio 2021n. 2831). E nel caso in esame potrebbe ragionevolmente sostenersi che la condotta processuale, consistente nel fornire alla autorità giudiziaria alcuni precedenti giurisprudenziali la cui esistenza non sia stata preventivamente verificata, possa costituire un uso abusivo del diritto di difesa quando impiegato per persuadere il giudice prospettandogli una giurisprudenza solo “apparentemente” favorevole alla propria tesi difensiva. Ma la decisione in esame appare ancora più – forse troppo – indulgente alla luce di una diversa lettura dell'art. 88 cpc. Infatti, la Suprema Corte, sebbene abbia recentemente affermato che la violazione del dovere di lealtà e probità processuale, stabilito dall'art. 88 cpc, può “al massimo essere considerato ai fini della regolamentazione delle spese, ma non potrebbe comunque giustificare una condanna della parte ex art. 96 cpc” (Cass. Civ., Sez. II, 13 maggio 2022 n. 15319), ha spesso stigmatizzato la inosservanza di questo dovere processuale che, rilevando sul piano deontologico, giustifica la segnalazione dell'avvocato all'autorità che esercita il potere disciplinare (Cass. Civ., Sez. I, 8 settembre 2003 n. 11978; ma anche Cass. Civ., SS.UU., 6 aprile 1987 n. 3306 in un caso in cui, pur essendosi tenute distinte la manifesta infondatezza della domanda, che giustifica la condanna della parte al risarcimento dei danni per responsabilità processuale ex art. 96 cpc, e la inosservanza del dovere di lealtà e correttezza processuale, che invece è una infrazione del codice deontologico forense da segnalare all'autorità che esercita il potere disciplinare, la Cassazione ha ritenuto cumulabili le due sanzioni). In conclusione, non pare del tutto condivisibile la decisione in commento perché il Tribunale avrebbe dovuto quanto meno ravvisare gli estremi dell'illecito deontologico nella citazione di giurisprudenza “generata” da un sistema di intelligenza artificiale che non fosse stata sottoposta a preventiva verifica delle fonti, ed avrebbe almeno dovuto segnalare i fatti all'organo disciplinare. |