Pensione Quota 100 e conseguenze del divieto di cumulo. Una questione ancora aperta. La Consulta conferma l’assenza di un orientamento stabile su cui intervenire

24 Novembre 2025

La Corte Costituzionale dichiara inammissibili le questioni di illegittimità costituzionale sollevate dal Tribunale di Ravenna in relazione all’interpretazione dell’art. 14 d.l. 4/2019 sulle conseguenze (non espresse dalla norma) della violazione del divieto di cumulo da parte dei lavoratori pensionati titolari di trattamento pensionistico anticipato in quota 100 a fronte della pronuncia di Cass. 30994/2024 che legge la norma in modo restrittivo.

Il quadro normativo e la posizione della giurisprudenza

Il tema affrontato dalla Corte Costituzionale, sottopostole dal Tribunale di Ravenna, concerne il diritto del lavoratore pensionato in regime di pensionistico anticipato c.d. "quota 100" (di cui all'art. 14 d.l. 4/2019, convertito dalla l. 28 marzo 2019, n. 26) alla relativa prestazione nel caso di concorrente percezione di redditi da lavoro.

La norma in questione ha introdotto una forma di prestazione previdenziale “anticipata” rispetto a quella ordinaria, in base alla quale gli iscritti all'assicurazione generale obbligatoria in gestione ordinaria e separata INPS possono accedere alla pensione al raggiungimento di un'età anagrafica di almeno 62 anni e di un'anzianità contributiva non inferiore a 38 anni. Una delle controindicazioni connesse a tale forma di pensionamento agevolato è costituita dal c.d. divieto di cumulo della prestazione con i redditi da lavoro dipendente e autonomo, ad eccezione di quelli derivanti da lavoro autonomo occasionale (nel limite di € 5.000 annui lordi), fino al raggiungimento dei requisiti per l'accesso alla pensione di vecchiaia (art. 14, comma 3 d.l. 4/2019).

Al fine di consentire il controllo del predetto limite e di verificare l'operatività del divieto di cumulo è previsto che il pensionato in quota 100 dichiari l'assenza o meno di redditi incumulabili (secondo quanto precisato nella circolare INPS 9 agosto 2019, n. 117).

La questione sottoposta alla Corte Costituzionale, e comunque di interesse per il presente approfondimento, riguarda l'operatività del divieto di cumulo, posto che la norma in questione non prevede, né disciplina le conseguenze derivanti dalla sua inosservanza.

La posizione – necessariamente giurisprudenziale – che sembrerebbe più autorevole e che ha suscitato l'iniziativa del Giudice rimettente, è quella di Cassazione, sez. lav., sent. 4 dicembre 2024, n. 30994 secondo cui la violazione del divieto di cumulo in questione comporta la perdita totale del trattamento pensionistico, non solo per i mesi in cui è stata espletata l'attività lavorativa, bensì per tutto l'anno solare di riferimento. In particolare, la Suprema Corte così si è espressa secondo la massima ufficiale: “In tema di pensione anticipata, la violazione del divieto di cumulo tra redditi pensionistici e da lavoro subordinato - stabilito per la pensione cd. "quota cento" dall'art. 14, comma 3, del d.l. n. 4 del 2019, conv. dalla l. n. 26 del 2019 - comporta la perdita totale del trattamento pensionistico, non solo per i mesi in cui è stata espletata l'attività lavorativa, bensì per tutto l'anno solare di riferimento, in quanto la norma esprime una ratio solidaristica (come affermato nella sentenza della Corte cost. n. 234/2022), ma in concorso con il fine macroeconomico di creare nuova occupazione ed assicurare ricambio generazionale nella cornice della sostenibilità del sistema previdenziale, sicché l'uscita dal mercato del lavoro deve essere effettiva”.

Tale interpretazione, richiamando anche un precedente della Corte costituzionale (Corte cost. 234/2022 sempre sul divieto di cumulo, ma concernente la diversa ipotesi di compatibilità del reddito da lavoro subordinato intermittente), ritiene, dunque, incompatibile la prestazione previdenziale in quota 100 con il reddito di lavoro dipendente per motivi di impostazione, sistema e finalità di tale forma di prestazione straordinaria il cui presupposto è quello di incentivare un effettivo ricambio generazionale nelle attività produttive che postula l'abbandono definitivo dell'attività lavorativa subordinata.

La predetta sentenza della Corte di Cassazione è finora l'unica decisione di legittimità ad essersi pronunciata sul tema e – come richiamato dalla sentenza della Corte Costituzionale in commento - risulta essere stata seguita solo da alcune pronunce di merito (fra le altre, Corte d'appello Milano, sezione lavoro, sentenza 7 agosto 2025, n. 629; Corte d'appello Bologna, sezione lavoro, sentenza 16 giugno 2025, n. 311), mentre altri Giudici dei primi gradi di giudizio hanno espresso un indirizzo divergente.

La Corte d'appello Brescia, ad esempio, ha ritenuto (sent. 15 aprile 2025, n. 81) che il divieto di cumulo operi esclusivamente nei mesi in cui sussiste l'effettiva violazione del divieto, precisando che la sospensione dell'erogazione dei ratei di pensione è limitata a quelli relativi alle mensilità in cui il pensionato ha effettivamente percepito redditi da lavoro dipendente, e non la decadenza ex tunc dal diritto alla pensione per l'intero anno solare in cui si è verificata la rioccupazione.

Secondo tale pronuncia, infatti, l'espressione "a far data dal primo giorno di decorrenza della pensione e fino alla maturazione dei requisiti per l'accesso alla pensione di vecchiaia" delimita l'arco temporale durante il quale vige il divieto di cumulo, ma non individua il periodo di sospensione della pensione, che opera esclusivamente nei mesi in cui sussiste l'effettiva violazione del divieto. Conseguentemente, anche in caso di cumulo, il pensionato conserva il pieno diritto di beneficiare della pensione nei mesi in cui non ha percepito alcun reddito da lavoro dipendente, non essendovi in tali periodi alcuna frustrazione della finalità solidaristica e occupazionale perseguita dal legislatore.

Nello stesso senso, secondo Corte d'appello Trento, sezione lavoro, sentenza 20 marzo 2025, n. 14, il divieto di cumulabilità in questione, deve essere interpretato nel senso che è vietato al pensionato di percepire contemporaneamente, nello stesso arco temporale, sia il trattamento pensionistico sia il reddito da lavoro subordinato, e non già nel senso di una assoluta incompatibilità tale da determinare la revoca dell'intero trattamento pensionistico per l'anno solare in cui sia stata svolta attività lavorativa. Il concetto di "non cumulabilità" si distingue da quello di "incompatibilità" e comporta unicamente il divieto di cumulo simultaneo di redditi, limitatamente ai periodi di effettivo svolgimento dell'attività lavorativa.

Secondo la predetta giurisprudenza, inoltre, le circolari INPS che si esprimono in modo divergente non possono derogare alle disposizioni di legge né influire sulla loro interpretazione, trattandosi di atti di rilevanza meramente interna all'organizzazione dell'ente, e devono essere disapplicate ai sensi della legge n. 2248/1865 quando introducano limitazioni o divieti non previsti dalla norma di legge. Nell'interpretazione delle disposizioni normative, il criterio letterale costituisce limite invalicabile di ogni altro metodo ermeneutico, sicché il criterio teleologico relativo all'intenzione del legislatore rappresenta solo un canone sussidiario e recessivo, utilizzabile unicamente quando il dato testuale risulti ambiguo, non potendo l'interprete andare oltre il significato letterale della norma per supplire a presunte lacune o incongruenze del sistema.

Il caso e l'ordinanza di rimessione

L'ordinanza di rimessione del Tribunale di Ravenna parte da un caso paradossale che rileva i difetti della rigidità del regime di pensione anticipata in questione. La fattispecie si innesta in un giudizio promosso da un pensionato “quota 100” con percezione del relativo trattamento pensionistico sin dal 1° novembre 2019 e che, successivamente, veniva assunto con un contratto di lavoro subordinato a tempo determinato (alle dipendenze di una società agricola) avente ad oggetto l'attività di raccolta dell'uva per un periodo di appena 15 giorni (dal 15 settembre al 30 settembre 2020). Il rapporto di lavoro si esauriva, tuttavia, nell'arco di una giornata, pari a otto ore di lavoro, e il reddito effettivamente percepito dal ricorrente era contenuto in complessivi € 83,91 lordi.

Con provvedimento del 9 settembre 2021, l'INPS contestava la violazione del divieto di cumulo e comunicava al ricorrente «la costituzione di un indebito di euro 23.949,05», a titolo di «somme non dovute sulla pensione» per il periodo relativo a tutto l'anno 2020.

Nel giudizio di opposizione davanti al Tribunale di Ravenna il pensionato chiedeva, in via principale e previo accertamento della natura di lavoro autonomo occasionale (e non subordinato) dell'attività svolta:

(a) di dichiarare illegittima la trattenuta di euro 23.949,05, operata dall'INPS a titolo di indebito, per l'asserita violazione del menzionato divieto di cumulo;

(b) conseguentemente, di condannare l'INPS alla restituzione dell'intera somma.

In subordine, il ricorrente chiedeva la restituzione della somma trattenuta a titolo di indebito, al netto dell'importo di euro 83,91 ricevuto come compenso per l'attività svolta oppure, in via ulteriormente subordinata, dell'importo di euro 2.021,56, pari al rateo mensile netto di pensione riscosso nel periodo considerato.

Il Tribunale di Ravenna, ritenendo di non poter riqualificare il rapporto di lavoro intercorso come autonomo (oggetto della domanda principale) ed esaminata la pronuncia della Corte di Cassazione 30994/2024, sollevava davanti alla Consulta questioni di legittimità costituzionale dell'art. 14, comma 3, d.l. 4/2019 in riferimento agli artt. 2, 3, quest'ultimo per il profilo dei principi di ragionevolezza e proporzionalità, 38, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all'art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo.

In sintesi, secondo il Giudice rimettente, la disciplina che prevede la perdita dell'intera annualità di pensione “quota 100” in caso di svolgimento, anche minimo, di lavoro subordinato si pone innanzitutto in contrasto con i principi di ragionevolezza e proporzionalità (art. 3 Cost.). Sotto tale profilo, il Giudice rimettente osserva che la conseguenza è manifestamente sproporzionata rispetto alla violazione del divieto di cumulo, poiché un reddito lavorativo modesto e limitato nel tempo non compromette il ricambio generazionale — finalità propria della normativa — né giustifica la perdita totale della pensione per un anno. Il riferimento all'intera annualità, anziché ai soli periodi effettivi di lavoro, risulta inoltre privo di base normativa e intrinsecamente irragionevole.

Inoltre, anche qualificando la misura come sanzione, essa violerebbe comunque i principi di proporzionalità e ragionevolezza, mancando un nesso causale stretto tra la violazione e l'effetto ablativo, oltre a esservi un'evidente sproporzione fra i redditi percepiti e la sanzione.

Il Tribunale di Ravenna prospetta, inoltre, la violazione dell'art. 38, secondo comma, Cost.: l'ablazione di un anno di pensione, a fronte di attività lavorative minime e spesso marginali, priva il pensionato della protezione previdenziale maturata, creando una categoria di fatto priva di mezzi di sostentamento.

Infine, il Tribunale deduce il contrasto con l'art. 1 Prot. add. CEDU, tramite l'art. 117 Cost.: la perdita integrale della pensione, intesa come “bene”, costituirebbe una compressione ingiustificata e sproporzionata del diritto al suo godimento, incidendo sulla dignità della persona (art. 2 Cost.) senza reali ragioni di interesse generale idonee a giustificarne il sacrificio.

La decisione della consulta

La Consulta dichiara inammissibili le questioni di illegittimità costituzionale sollevate dal Tribunale di Ravenna non avendo quest'ultimo correttamente assolto all'onere di preventiva interpretazione della disposizione censurata.

La Corte Costituzionale chiarisce innanzitutto quando il giudice rimettente può assumere un'interpretazione giurisprudenziale come “diritto vivente”. Ciò avviene non solo quando la Cassazione, tramite le Sezioni Unite, abbia fornito un'interpretazione poi stabilizzatasi (sentenza n. 73 del 2024), ma più in generale quando la giurisprudenza di legittimità presenti un orientamento ripetuto e stabile nel tempo (sentenza n. 38 del 2024). In tali casi, il giudice a quo è legittimato a ritenere che la norma “viva” nell'ordinamento con il significato attribuitole dalla Cassazione e può quindi chiedere alla Corte costituzionale di verificarne la compatibilità con i parametri costituzionali, senza che gli si possa imputare di non aver seguito una diversa interpretazione più conforme alla Costituzione. Una volta radicato, infatti, l'indirizzo ermeneutico non può essere modificato se non dal legislatore o dalla stessa Corte Costituzionale.

In presenza di un reale “diritto vivente” la Corte Costituzionale non può sostituirsi alla Cassazione nel compito interpretativo, ma deve limitarsi a controllare se il risultato cui è pervenuto l'interprete rispetti i principi costituzionali. Per questo motivo, la verifica dell'effettivo consolidamento dell'interpretazione giurisprudenziale è un passaggio essenziale: occorre accertare se l'orientamento invocato sia davvero frutto di un uso ripetuto nel tempo e se abbia raccolto un sufficiente consenso all'interno della giurisprudenza di legittimità. Questo accertamento è tanto più importante quando manca un intervento delle Sezioni Unite, perché in tali casi la stabilità dell'interpretazione non può essere data per presunta. In ogni caso, la Corte ricorda che il fenomeno del “diritto vivente” è per sua natura dinamico e mai definitivamente chiuso.

Accanto a ciò, la Corte ribadisce che il tentativo di interpretare la legge in modo conforme alla Costituzione cede solo quando la lettera della norma renda impraticabile una simile operazione esegetica. Il dato testuale, infatti, costituisce il naturale limite all'interpretazione costituzionalmente orientata.

Alla luce di questi criteri, la Corte esamina la questione sollevata dal Tribunale di Ravenna e non ritiene convincenti le argomentazioni del giudice rimettente, volte a sostenere l'impossibilità di un'interpretazione costituzionalmente adeguata dell'art. 14, comma 3, del d.l. n. 4/2019. È lo stesso rimettente – osserva la Consulta - a riconoscere che la norma presenta una lacuna sul punto delle conseguenze della violazione del divieto di cumulo e che una lettura conforme ai principi di proporzionalità, ragionevolezza e tutela del sostentamento del pensionato sarebbe comunque possibile, anche alla luce della struttura mensile del trattamento pensionistico. Né si può sostenere che una precedente decisione della Corte costituzionale (sent. n. 234/2022) abbia escluso la praticabilità di tale interpretazione, poiché quella pronuncia riguardava un profilo diverso della disciplina.

L'unico reale ostacolo individuato dal giudice a quo risiede nella recente sentenza della Cassazione (n. 30994/2024), che ha interpretato il divieto di cumulo nel senso di far perdere al pensionato l'intera annualità della pensione, anche se il lavoro è stato svolto soltanto per alcuni mesi. Tuttavia, questa pronuncia è, per ora, isolata nella giurisprudenza di legittimità. Infatti, non solo è stata adottata di recente, ma non ha ancora trovato un seguito uniforme: alcune corti d'appello l'hanno accolta, mentre altre ne hanno preso esplicitamente le distanze, aderendo peraltro a interpretazioni più vicine a quella prospettata dal Tribunale di Ravenna.

Proprio per questa ragione non si può ritenere che esista un orientamento stabile e reiterato della Cassazione tale da far assurgere quella soluzione a “diritto vivente”. Lo stesso giudice rimettente, del resto, ammette che una singola pronuncia, per quanto autorevole, non può essere considerata espressiva del diritto vivente, come la Corte stessa ha ribadito di recente.

Da ciò deriva la conclusione: non essendo configurabile un diritto vivente, il giudice rimettente non è vincolato dall'unico precedente della Cassazione e può – anzi deve – procedere all'interpretazione della disposizione in chiave costituzionalmente orientata.

In conclusione

La decisione della Consulta è apprezzabile quanto alle indicazioni e all'iter argomentativo seguito per l'identificazione delle caratteristiche della stabilizzazione di un orientamento giurisprudenziale ai fini dell'ammissibilità della domanda di sindacato costituzionale.

A parte alcune suggestive osservazioni, l'intervento della Corte di cassazione non aiuta, però, a risolvere il quesito di merito, né a superare il contrasto sull'interpretazione dell'art. 14 d.l. 4/2019 quanto alle conseguenze della violazione del divieto di cumulo in regime di pensione quota 100.

Per quanto paradossali possano essere gli esiti applicativi di tale norma (come nel caso da cui prende avvio la domanda del Tribunale di Ravenna che ha disconosciuto l'intero trattamento pensionistico annuale a fronte di un'attività lavorativa a termine di pochi giorni che ha fruttato al pensionato poche decine di euro), in assenza di una previsione espressa delle conseguenze della violazione del divieto di cumulo e di indicazioni convincenti circa l'interpretazione letterale della norma stessa, gli orientamenti che attualmente si fronteggiano appaiono entrambi possibili. Sull'argomento, quindi, o interverrà auspicabilmente il legislatore fornendo la propria interpretazione autentica o non resterà che attendere - per dirla con la Consulta - un orientamento ripetuto e stabile nel tempo della giurisprudenza di legittimità.

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