Limiti e condizioni per l’invadenza dei poteri dell’assemblea nella sfera di proprietà dei singoli condomini
25 Novembre 2025
Massima In tema di condominio, i poteri dell'assemblea possono invadere la sfera di proprietà dei singoli condomini, sia in ordine alle cose comuni che a quelle esclusive, solo allorquando tale invasione sia stata da essi specificamente accettata, o in riferimento ai singoli atti oppure mediante approvazione del regolamento che la prevede, in quanto l'autonomia negoziale consente alle parti di stipulare o accettare contrattualmente convenzioni e regole pregresse che, nell'interesse comune, pongono limitazioni ai diritti dei condomini. Il caso La causa - giunta all'esame del Supremo Collegio - originava dall'impugnazione, proposta da un condomino, nei confronti di una delibera assembleare con cui, a maggioranza e non all'unanimità, era stata approvata la disattivazione dell'impianto idrico esistente e la realizzazione di un nuovo impianto, con tubazioni esterne a servizio dei soli appartamenti e non dei bassi commerciali, compreso quello di proprietà dell'attore. Il Condominio, costituendosi in giudizio, aveva chiesto il rigetto dell'avversa domanda, sul rilievo che l'installazione dell'impianto idrico si era resa necessaria perché, in conseguenza del guasto di quello esistente e dell'intervento della Società che gestiva il sistema idrico nel Comune, l'impianto condominiale era risultato non riparabile e illegittimo in quanto non conforme all'art. 42 del Regolamento comunale; in altri termini, l'adottata decisione prevedeva - non un'innovazione, bensì - una spesa straordinaria di manutenzione necessaria a sanare l'irregolarità del vecchio impianto, e il distacco dell'impianto del condomino attore era prescritto dalle disposizioni del Regolamento condominiale, trattandosi di utenza commerciale. Il Tribunale adìto, in accoglimento della domanda attorea, aveva dichiarato la nullità della suddetta decisione assembleare, perché adottata a maggioranza e non all'unanimità. Interposto gravame da parte del Condominio, la Corte d'Appello, in totale riforma della sentenza di primo grado, aveva rigettato la domanda, ritenendo che quelli contestati, in accordo con le risultanze dell'espletata CTU, dovessero essere qualificati come lavori di manutenzione straordinaria e non come innovazioni, essendo diretti - non all'eliminazione dell'impianto idrico comune, ma - alla migliore razionalizzazione del suo uso, in linea con le prescrizioni del Regolamento comunale e come imposto dall'Ente di gestione dei servizi idrici sul territorio e che la delibera di adeguamento alle disposizioni comunali non richiedesse l'unanimità, ma la maggioranza prevista dall'art. 1120 c.c., mai contestata da parte attorea. Conclusione, quest'ultima, non ostacolata dalla dedotta lesione del decoro architettonico del palazzo, dato che l'installazione della tubatura lungo la facciata esterna: a) aveva natura provvisoria, in attesa della realizzazione di un nuovo impianto con le caratteristiche del Regolamento comunale; b) rispondeva alla finalità di garantire ai condomini la continuità dell'erogazione idrica senza l'utilizzo delle non più funzionanti tubature interne; c) non interferiva con gli impianti già esistenti; e d) arrecava al singolo un minimo disagio, contemperabile con la necessità di assicurare l'erogazione dell'acqua a tutti i condomini. Il condominio, vittorioso nel giudizio di primo grado ma con esito ribaltato nel secondo, proponeva quindi ricorso per cassazione. La questione Si trattava di verificare se, nel caso concreto, la Corte territoriale, nel sussumere l'opera deliberata nell'àmbito della “manutenzione straordinaria” e non della “innovazione”, e nel ritenere applicabile, comunque, la maggioranza qualificata prevista dall'art. 1120 c.c. in tema di “innovazioni”, avesse trascurato che la decisione dei condomini, trasfusa nella delibera qui impugnata, aveva arrecato un sacrificio al diritto dominicale del ricorrente, riguardando, appunto, un'innovazione nella misura in cui approvava la realizzazione di un impianto idrico per l'adduzione dell'acqua soltanto agli appartamenti, mentre, al contempo, privava dei loro diritti alcuni condomini - segnatamente, i proprietari dei “bassi commerciali” - i quali erano stati costretti a realizzare un impianto autonomo a loro cura e spese, donde l'illegittimità della delibera de qua per violazione dell'art. 1120, ultimo comma, c.c. Peraltro, ad avviso del ricorrente, la gravata sentenza aveva riconosciuto la legittimità della delibera assembleare, disattendendo anche la prescrizione dell'art. 1123, comma 2, c.c., in materia di ripartizione delle spese, atteso che, per un verso, aveva escluso il suo diritto sulla cosa comune, e, per altro verso, aveva posto (anche) a suo carico, quale proprietario di un basso commerciale, il costo della direzione dei lavori per la realizzazione del nuovo impianto. Le soluzioni giuridiche I giudici di Piazza Cavour - per quel che rileva queste brevi note - hanno considerato fondate le doglianze del ricorrente. Invero, ad avviso della Corte territoriale, la delibera, concernente la sostituzione del vecchio impianto idrico con uno nuovo a servizio dei soli appartamenti e il distacco dei bassi commerciali (compreso quello di proprietà del ricorrente) sarebbe un “atto di straordinaria amministrazione”, legittimamente adottato dall'assemblea a maggioranza e non all'unanimità. Tuttavia - secondo gli ermellini - l'approdo del giudice di merito, ancorato alla qualificazione dell'intervento come opera di straordinaria manutenzione correttamente decisa a maggioranza, non teneva conto di un elemento cruciale, ossia che l'esecuzione della delibera impugnata aveva privato un condomino - nella specie, l'originario attore, poi ricorrente in cassazione - del godimento di una cosa comune, cioè dell'impianto idrico a servizio di tutte le unità immobiliari, compreso il basso commerciale di proprietà dello stesso condomino. Trova, quindi, applicazione al caso di specie l'orientamento costante dei giudici di legittimità, secondo cui i poteri dell'assemblea condominiale possono invadere la sfera di proprietà dei singoli condomini, sia in ordine alle cose comuni sia a quelle esclusive, soltanto quando una siffatta invasione sia stata da loro specificamente accettata o in riferimento ai singoli atti oppure mediante approvazione del regolamento che la preveda, in quanto l'autonomia negoziale consente alle parti di stipulare o di accettare contrattualmente convenzioni e regole pregresse che, nell'interesse comune, pongano limitazioni ai diritti dei condomini (Cass. civ., sez. II, 30 agosto 2019, n. 21909; Cass. civ., sez. II, 26 settembre 2018, n. 23076; Cass. civ., sez. II, 14 dicembre 2007, n. 26468; Cass. civ., sez. II, 22 luglio 2004, n. 13780). I magistrati del Palazzaccio hanno, altresì, chiarito che, nell'àmbito di un condominio, la trasformazione, in tutto o in parte, di un bene comune in bene esclusivo di una sola parte dei condomini, mediante esclusione di alcuni di essi dalla percezione dei frutti, può essere validamente deliberata soltanto all'unanimità, ossia mediante una decisione che abbia valore contrattuale, dovendosi, in difetto, dichiarare la nullità della delibera assunta a maggioranza (v., per tutte, Cass. civ., sez. II, 14 aprile 2015, n. 7459). D'altronde, la necessità del consenso unanime dei condomini è confermata anche da un'altra importante decisione della Suprema Corte, la quale, con riferimento a fattispecie analoga a quella in esame, senza trascurare la successione delle leggi in materia, ha affermato che la delibera che dispone l'eliminazione dell'impianto di riscaldamento centralizzato per far luogo ad impianti autonomi nei singoli appartamenti, in tanto può essere adottata a maggioranza e quindi in deroga agli artt. 1120 e 1136 c.c., in quanto sia previsto che avvenga nel rispetto delle previsioni legislative di cui alla l. n. 10/1991, ossia a garanzia dell'an e del quomodo della riduzione del consumo specifico di energia, del miglioramento dell'efficienza energetica, dell'utilizzo di fonti di energia rinnovabili (Cass. civ., sez. II, 19 aprile 2022, n. 24976, citata erroneamente nella sentenza in commento). Infine, si è evidenziato che, secondo l'insegnamento del massimo organo di nomofilachia (Cass. civ., sez. un, 14 aprile 2021, n. 9839), la nullità delle delibere assembleari è rinvenibile, tra l'altro, nell'ipotesi - nella quale è sussumibile la fattispecie concreta in esame - dell'impossibilità dell'oggetto in senso giuridico, da valutarsi in relazione al “difetto assoluto di attribuzioni” da parte dell'assemblea condominiale. Osservazioni Nella motivazione della sentenza in commento, i giudici di legittimità omettono di citare un loro, molto più prossimo, precedente (Cass. civ., sez. II, 2 marzo 2025, n. 5528), in cui - sempre sul presupposto che i poteri dell'assemblea condominiale possono invadere la sfera di proprietà dei singoli, sia in ordine alle cose comuni che a quelle esclusive, solo quando tale invasione sia stata da essi specificamente accettata, o in riferimento ai singoli atti oppure mediante approvazione del regolamento che la preveda, in quanto l'autonomia negoziale consente alle parti di stipulare o accettare contrattualmente convenzioni e regole pregresse che, nell'interesse comune, pongano limitazioni ai diritti dei condomini - si era statuito che, nell'àmbito dei lavori di ristrutturazione della facciata comune dell'edificio, qualora i condomini approvino un appalto che si occupa anche della manutenzione dei balconi, essendo questi materialmente inseriti nella stessa facciata, bisogna stare attenti perché, stante che l'assemblea non può validamente assumere decisioni che riguardino beni di proprietà esclusiva, è valida la decisione che provveda al rifacimento degli eventuali elementi decorativi o cromatici, che si armonizzano con il prospetto del fabbricato, mentre è, invece, nulla se disponga, ad esempio, in ordine alla sostituzione della pavimentazione o della soletta dei balconi, le cui spese rimangono a carico dei titolari degli appartamenti che vi accedono. Per il resto, mette punto rammentare che il novellato art. 1120 c.c. continua a riportare il disposto dell'ultimo comma - che ora, a seguito delle modifiche sopra riportate, è diventato il quarto - secondo il quale “sono vietate le innovazioni che possono recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato, che ne alterino il decoro architettonico o che rendano talune parti comuni dell'edificio inservibili all'uso o al godimento anche di un solo condomino”. Rispettati i limiti di cui sopra, “tutte le innovazioni” sono permesse, purché si tratti di interventi tesi “al miglior godimento o all'uso più comodo o al maggior rendimento delle cose comuni”, laddove un divieto, per così dire, implicito può rinvenirsi, quindi, nello stesso disposto del comma 1 dell'art. 1120 c.c., ossia qualora non vi sia alcun miglioramento (nemmeno potenziale) della cosa comune a seguito dell'innovazione o il danno che l'accompagna sia superiore all'utilità arrecata. Il legislatore del 2012, in tal modo, ha confermato l'apposizione di limiti ben precisi alle decisioni dell'assemblea, anche se adottate con i quorum elevati di cui al comma 5 dell'art. 1136 c.c. e tali limiti generali dovrebbero ritenersi operanti anche per le innovazioni c.d. speciali o agevolate elencate nei tre numeri del comma 2 del novellato art. 1120 c.c., salvo sempre lo scontato “rispetto della normativa di settore”. Non si nasconde che, talvolta, il richiamo ai suddetti limiti finisce, in pratica, per scoraggiare la realizzazione di queste ultime innovazioni all'interno dell'edificio urbano, nonostante il legislatore le consideri meritevoli di apprezzamento e di tutela, sicché spetta, di volta in volta, all'interprete verificare, nella fattispecie concreta, se il richiamo alla norma dell'art. 1120, comma 4, c.c. valga a paralizzare in senso assoluto le innovazioni o, piuttosto, se quel richiamo debba essere, almeno in parte, rivitalizzato, nello sforzo di armonizzarlo con le finalità incentivanti che hanno sorretto il legislatore (si pensi, tra tutte, alle opere volte a favorire l'accesso e la mobilità dei portatori di handicap). Comunque, con tale disposto, si è inteso chiaramente salvaguardare i diritti della collettività e dei singoli partecipanti del condominio da eventuali abusi della maggioranza: in altri termini, quest'ultima può approvare qualsiasi innovazione, purché diretta a migliorare la cosa comune o il godimento della stessa, ma non può danneggiare né le parti comuni né gli interessi collettivi dei condomini. A fortiori, il divieto di realizzare le innovazioni si applica allorquando gli interventi, pur riguardando “parti comuni dell'edificio” - perché, se eseguite all'interno della proprietà esclusiva, sono disciplinate dall'art. 1122 c.c., che, peraltro, ora fa riferimento agli stessi limiti - arrechino pregiudizi nella sfera dei diritti propri dei singoli partecipanti: è, infatti, ovvio che il legislatore, tutelando il condomino nell'utilizzo dei beni comuni, che non devono, a seguito delle predette innovazioni, essere “inservibili all'uso o al godimento” del singolo, a maggior ragione ha inteso salvaguardare quest'ultimo - salvo, ovviamente, il suo consenso, come analizzato, sia pur escludendolo, nella sentenza in commento - qualora l'iniziativa della maggioranza provochi ingerenze dannose nelle cose di sua esclusiva proprietà. In altri termini, per quanto lieve sia la lesione della proprietà esclusiva, la stessa è pur sempre illegittima, sicché il beneficio della collettività non rende mai lecito il sacrificio del diritto del singolo (in ordine al concetto di inservibilità, v. Cass. civ., sez. II, 12 luglio 2011, n. 15308, ad avviso della quale, nell'identificazione del limite all'immutazione della cosa comune, lo stesso non può consistere nel semplice disagio subìto rispetto alla sua normale utilizzazione, coessenziale al concetto di innovazione, ma è costituito dalla concreta inutilizzabilità della res communis secondo la sua naturale fruibilità). Resta, tuttavia, aperto il problema di stabilire se la norma sulle innovazioni di cui all'art. 1120, comma 4, c.c. sia inderogabile o, detto diversamente, se il divieto ivi contenuto possa essere oggetto di disposizione da parte dei condomini. A ben vedere, l'intero art. 1120 c.c. è richiamato nel penultimo comma dell'art. 1138 c.c., segno che una disposizione del regolamento assembleare non può derogarvi - ad esempio, prevedendo maggioranze diverse da quelle stabilite dall'art. 1136, comma 5, c.c. - ma resta il dubbio se tale deroga possa essere introdotta con l'unanimità dei consensi, non essendo ovviamente sufficiente la maggioranza, pur qualificata, contemplata per le innovazioni, attraverso un regolamento di natura contrattuale o una delibera totalitaria. Orbene, l'art. 1120 c.c. pone, al comma 4, un duplice divieto alla realizzazione delle innovazioni: si contemplano, infatti, innovazioni vietate perché pregiudizievoli alla collettività (in quanto lesive della stabilità, della sicurezza e del decoro del fabbricato) ed innovazioni vietate perché cagionano un danno al condomino (in quanto rendono talune parti dell'edificio inservibili al suo uso). Nel secondo caso - oggetto della pronuncia in commento, dove, con la decisione assembleare, si era approvata la sostituzione dell'originario impianto idrico di un edificio condominiale con uno a servizio dei soli appartamenti e non anche dei locali commerciali - trattandosi di beni disponibili dal singolo, quest'ultimo può disporne per contratto, come può rinunciarvi, atteso peraltro che, in forza dell'art. 1117 c.c., la stessa proprietà delle parti comuni può essere esclusa dal titolo; nel primo caso, al contrario, siamo in presenza di beni collettivi: qui, il legislatore ha stabilito che, per la particolare rilevanza di questi beni (stabilità, sicurezza, decoro), neanche la maggioranza possa disporre e che il singolo, in quanto il valore del bene collettivo si riflette su quello individuale, possa dolersene, impugnando la relativa delibera. Al riguardo, però, è necessaria una puntualizzazione perché, a stretto rigore, quello che è precluso alla maggioranza potrebbe essere consentito alla totalità dei partecipanti. Occorre, quindi, distinguere all'interno dei suddetti beni collettivi: invero, devono considerarsi sicuramente vietate quelle innovazioni che cagionino o possano cagionare danno all'esistenza stessa dell'edificio, pregiudicandone la statica e la tranquilla abitabilità - in quest'ultimo concetto, potrebbe ricomprendersi il pericolo per la salute dei condomini - in quanto ciò urta con le norme di ordine pubblico, rendendo nulle ex art. 1343 c.c. le relative delibere autorizzative; peraltro, se si consentisse ai condomini di compiere opere suscettibili di arrecare pregiudizio alla stabilità ed alla sicurezza dell'edificio, ciò equivarrebbe a negare l'obbligo alla conservazione delle cose comuni, atteso che l'esistenza di queste è strettamente connessa all'esistenza dell'edificio di cui fanno parte. Un discorso a parte deve, invece, farsi riguardo al decoro architettonico, stante che addirittura la maggioranza assembleare (nemmeno qualificata), argomentando dal combinato disposto dei commi 1 e 3 dell'art. 1138 c.c. (rimasto invariato sul punto), è in grado di dettare norme per la sua tutela; in altri termini, non si ritiene che il divieto di innovazioni che alterino il decoro architettonico sia da ricollegare anche alla tutela di un interesse generale dei cittadini, a che non si turbi l'euritmia architettonica degli edifici, con quello privato (v., tra le altre, Cass. civ., sez. II, 19 giugno 2009, n. 14455); in pratica, se tutta la collettività condominiale approva una delibera che deturpa l'edificio, impudet sibi, a meno che non si debba ottemperare nel caso di specie a direttive informate a superiori interessi pubblici a tutela del patrimonio artistico, ma tale tutela opererebbe sul diverso livello amministrativo; pertanto, i condomini potrebbero, con un negozio con cui prendono parte tutti, disporre di modificare il prospetto dell'edificio alterandone il decoro architettonico (per esempio, per ragioni climatiche, possono decidere di chiudere i balconi della facciata con verande a vetri, pregiudicando l'estetica del fabbricato). Pertanto, si reputa che le innovazioni c.d. vietate possano essere approvate con il consenso di tutti i partecipanti al condominio, salvo quelle che arrecano pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato, perché, in tale caso, il divieto assume carattere assoluto che non può essere superato neppure con il voto unanime della totalità dei condomini: invero, non si tratta tanto di salvaguardare l'aspetto estetico dell'immobile, né di garantire ad ogni partecipante un pari godimento ed uso delle cose comuni, ma di tutelare l'esistenza materiale dello stabile che potrebbe essere gravemente minata da opere innovative eseguite sullo stesso (una cosa è l'essere dell'edificio, altro è il suo modo di apparire). Riferimenti Fontana, Assemblea condominiale, amministratore e rispettive competenze, in Arch. loc. e cond., 2018, 371; Celeste, Il rapporto amministratore-assemblea tra margini di autonomia e limiti di ingerenza, in Immob. & proprietà, 2017, 11; Ginesi, Appalto per opere straordinarie in condominio: i poteri dell'assemblea, in Immob. & proprietà, 2017, 353; Bottoni, La limitazione all'uso dei beni comuni tra poteri assembleari e strumenti negoziali, in Giur. it., 2016, 2586; Rinaldi, Delibere assembleari: l'uso delle parti comuni e limiti ex art. 1102 c.c., in Riv. neldiritto, 2014, 260; Celeste, L'assemblea: funzioni, poteri, limiti, attribuzioni e maggioranze, in Immob. & diritto, 2011, fasc. 9, 63; De Tilla, I poteri di intervento dell'assemblea sull'uso delle cose comuni, in Immob. & diritto, 2007, fasc. 10, 21; Mondini, In tema di poteri dell'assemblea condominiale, in Nuova giur. civ. comm., 2005, I, 400; Vincenti, Sulla delegabilità dei poteri spettanti all'assemblea condominiale in tema di opere di manutenzione straordinari, in Giur. it., 1989, I, 2, 419. |