Appalto genuino vs appalto illecito. Indici rivelatori

28 Novembre 2025

Sul ricorso avanzato da un lavoratore autista che lamentava l’illiceità degli appalti ai quali era adibito, la Corte di Cassazione ha ritenuto compatibili con i poteri del committente di servizi la facoltà di delimitazione delle diverse zone in cui le consegne degli autisti dovevano avvenire, trattandosi di determinazioni di ordine generale, volte solo a individuare talune caratteristiche necessarie del servizio e non a regolare immediatamente la prestazione dei singoli autisti. Così anche la riferibilità alla committente di talune dotazioni degli autisti, ossia il telefono cellulare ed il palmare, in quanto utilizzate per assicurare un più efficiente svolgimento del servizio e non sintomatiche di un potere direttivo autonomo, in sostituzione dell’appaltatore.

Inquadramento

Costituisce intermediazione illecita ogni qual volta l'appaltatore metta a disposizione del committente una prestazione lavorativa, rimanendo eventualmente in capo al medesimo, quale datore di lavoro, i soli compiti di gestione amministrativa del rapporto (quali retribuzione, pianificazione delle ferie, assicurazione della continuità della prestazione), senza tuttavia una reale organizzazione della prestazione stessa, finalizzata ad un risultato produttivo autonomo.

Un lavoratore, autista, dipendente dell’appaltatrice (Cooperativa Elettra) ricorreva in giudizio per ottenere una pronuncia di accertamento della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato alle dipendenze della società committente dell’appalto al quale era adibito.

Secondo il lavoratore, i poteri espletati dalla committente, ossia: la delimitazione delle zone in cui le consegne dovevano avvenire, la dotazione di cellulare e palmare, equivalevano all’esercizio di un potere di organizzazione del lavoro degli autisti, riservato all’appaltatore.

La Corte d’Appello, però, riteneva gli appalti genuini.

Il lavoratore ricorreva in Cassazione formulando quattro motivi di censura della sentenza di seconde cure.

Con il primo e secondo motivo si doleva del mancato riconoscimento del rapporto di lavoro subordinato alle dipendenze della committente (DHL Express Italy Srl) e censurava la violazione della legge 15 luglio 1966, n. 604 e dell'art. 18 St. Lav. per avere la Corte d'appello errato nel non addossare al datore di lavoro l'onere di provare il mancato licenziamento orale.

Con il terzo motivo il lavoratore lamentava l’omessa pronuncia sul suo diritto al pagamento dello straordinario.

Con il quarto motivo, che qui rileva, si deduceva la violazione dell’art. 29 del d.lgs 10 settembre 2003, n. 276, per aver la Corte d’Appello erroneamente ritenuto leciti gli appalti cui il ricorrente era adibito.

La Corte di Cassazione, rigettando il ricorso, sentenziava la correttezza della pronuncia impugnata. In particolare: “La Corte di merito, in adesione a tali principi, ha giudicato "compatibili con i poteri del committente di servizi la facoltà rimessa a DHL di delimitazione delle diverse zone in cui le consegne dovevano avvenire, trattandosi di determinazioni di ordine generale, volte cioè a individuare talune caratteristiche necessarie del servizio, non a regolare immediatamente la prestazione dei singoli autisti, come pure la riferibilità alla committente di talune dotazioni degli autisti (il telefono cellulare, il palmare) in quanto utilizzate per assicurare un più efficiente svolgimento del servizio e... verificarne la corretta esecuzione... funzione che deve ritenersi essere stata ragionevolmente svolta anche dal debreef sheet, in quanto idoneo ad attestare l'avvenuta esecuzione delle consegne da parte di ciascun autista" (sentenza, p. 13). Ha, in particolare, accertato l'esistenza in capo alla Cooperativa ELETTRA di un potere di organizzazione del lavoro degli autisti autonomo rispetto alle determinazioni di DHL ed esente da interferenze di quest'ultima. Né il debito retributivo potrebbe essere addossato alla DHL nella veste di committente e in ragione del vincolo di solidarietà non risultando proposta alcuna domanda in tal senso”.

I Giudici di legittimità ribadivano così il principio già ripetutamente affermato secondo cui: “si configura intermediazione illecita ogni qual volta l'appaltatore metta a disposizione del committente una prestazione lavorativa, rimanendo eventualmente in capo al medesimo, quale datore di lavoro, i soli compiti di gestione amministrativa del rapporto (quali retribuzione, pianificazione delle ferie, assicurazione della continuità della prestazione), senza tuttavia una reale organizzazione della prestazione stessa, finalizzata ad un risultato produttivo autonomo (Cass. 7898/2011 e negli stessi termini fra le più recenti Cass. n. 23215/2022; Cass. n. 15557/2019; Cass. n. 27213/2018; Cass. n. 27105/2018; Cass. n. 10057/2016; Cass. n. 7820/2013)”.

Appalto e somministrazione, excursus storico dalla l. 1369/1960 al d.lgs. 276/2003 e d.lgs. 81/2015

Già il codice civile del 1942, con l'art. 2127, vietava all'imprenditore “di affidare ai propri dipendenti lavori a cottimo da eseguirsi da prestatori di lavoro assunti e retribuiti direttamente dai dipendenti medesimi”. La norma timidamente tentava di arginare il fenomeno del “parassitismo”, ovvero il fenomeno della dissociazione tra titolarità formale del rapporto di lavoro ed utilizzazione della prestazione.

Lo scopo era quello di scongiurare il rischio per cui l'imprenditore, tramite l'utilizzazione indiretta di mano d'opera, eludesse i vincoli contrattuali e legislativi derivanti dalla diretta assunzione dei dipendenti. L'unico soggetto abilitato ad intermediare manodopera era lo Stato, a mezzo degli uffici di collocamento, nell'ottica del legislatore il soggetto pubblico garantiva imparzialità ed evitava forme di approfittamento nella intermediazione del lavoro.

Tuttavia, la portata dell'art. 2127 c.c. appariva eccessivamente circoscritta. Ciò spinse il legislatore ad intervenire con la Legge n. 23 ottobre 1960, n. 1369, la quale vietava in maniera generalizzata l'appalto di mere prestazioni di lavoro. La Legge citata veniva partorita nel periodo delle massicce migrazioni di lavoratori dal meridione verso il Nord che si industrializzava. L'art. 1 rubricato “divieto di  intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro e nuova disciplina  dell'impiego della manodopera negli appalti di opere e di servizi” stabiliva che: “è vietato all'imprenditore affidare in appalto o in subappalto o in qualsiasi altra forma, anche a società cooperative, l'esecuzione di mere prestazioni di lavoro mediante impiego di manodopera assunta e retribuita dall'appaltatore o dall'intermediario, qualunque sia la natura dell'opera o del servizio cui le prestazioni si riferiscono”. Alla violazione di tale norma conseguiva la sanzione (di cui al comma 5) della costituzione, con efficacia retroattiva, del rapporto di lavoro tra il lavoratore e il soggetto che avesse di fatto fruito della sua prestazione lavorativa.

Dall'introduzione della l. 23 ottobre 1960, n. 1369 sorgevano implicazioni non di poco conto: la prima, l'unica via percorribile dall'imprenditore per servirsi di mano d'opera era la stipulazione, diretta, di un contratto di lavoro subordinato. La seconda, nel caso di violazione, il rapporto di lavoro si intendeva instaurato tra lavoratore e soggetto che di fatto si era servito della sua forza lavoro, sulla base del “principio di effettività”. Ne conseguiva che solo sull'appaltante (o interponente) gravavano gli obblighi in materia di trattamento economico e normativo scaturenti dal rapporto di lavoro, nonché gli obblighi in materia di assicurazioni sociali, non potendosi configurare una (concorrente) responsabilità dell'appaltatore  (o interposto) in virtù dell'apparenza del diritto e dell'apparente titolarità  del rapporto di lavoro, stante la specificità del suddetto rapporto e la rilevanza  sociale degli interessi ad esso sottesi (Cass. civ., sez. I, 13/02/2015, n. 2957).

Alla luce della presunzione assoluta di illegittimità di cui al comma 3 dell'art.1 della l. 23 ottobre 1960, n. 1369 (“È considerato appalto di mere prestazioni di lavoro ogni forma di appalto o subappalto, anche per esecuzione di opere o di servizi, ove l'appaltatore impieghi capitali, macchine ed attrezzature fornite dall'appaltante, quand'anche per il loro uso venga corrisposto un compenso all'appaltante”), si ritenevano appalti di mere prestazioni lavorative, e pertanto vietati, quei contratti di appalto e subappalto nei quali l'appaltatore si serviva di macchinari e strumentazioni messe a disposizione dal committente. Venivano qualificati come illeciti, quindi, tutti quei rapporti contrattuali in cui l'appaltatore non presentava le caratteristiche tipiche dell'imprenditore, rendendo così non necessario l'accertamento relativo all'effettiva titolarità dei poteri datoriali.

Un ruolo cruciale ha avuto anche la giurisprudenza di legittimità, la quale precisava che il divieto di interposizione non si riferiva solamente al momento della stipula contrattuale, ma anche al momento successivo della esecuzione del contratto di appalto (Cass. S.U. n. 851/1997).

Tuttavia, nel tempo, il Legislatore ha preso atto dei vari cambiamenti intervenuti nel mondo del lavoro, soprattutto a seguito dell'ingresso delle nuove tecnologie e della moltiplicazione di fenomeni di frammentazione organizzativa dell'impresa, che hanno eroso la centralità del possesso di beni materiali. Per lo svolgimento dell'attività imprenditoriale diveniva invece centrale l'organizzazione e la direzione della mano d'opera.

Per tale ragione, e per incentivare l'occupazione, l'inflessibile divieto di interposizione previsto dalla L. del 60 veniva attenuato con l'entrata in vigore della Legge 24 giugno 1997, n. 196, c.d. Pacchetto Treu, la quale per la prima volta introduceva nel nostro ordinamento la fornitura di lavoro temporaneo tramite agenzia, ossia il “lavoro interinale”. Il nuovo rapporto di lavoro trilaterale era soggetto a stringenti limiti: la temporaneità della fornitura dell'energia lavorativa e la specificità delle esigenze dell'utilizzatore, sempre temporanee. Inoltre, altro presupposto imprescindibile per la validità del contratto interinale era l'iscrizione della società di fornitura nell'apposito Albo ministeriale.

Il Pacchetto Treu appariva, quindi, una vera e propria deroga alla Legge n. 23 ottobre 1960, n. 1369, legittimando per la prima volta la fornitura di mere prestazioni di manodopera, solo però da parte di soggetti autorizzati ed in possesso di specifici requisiti (P. Rausei, Somministrazione di lavoro appalto e distacco IV Ed. p. 148). Anche a seguito dell'istituzionalizzazione del lavoro interinale, permaneva il divieto di interposizione di mano d'opera: il reato di intermediazione illecita si configurava ogniqualvolta la manodopera fosse fornita da soggetti diversi dalle agenzie interinali.

Un vero e proprio punto di svolta e di crisi del sistema italiano si è avuto poi a seguito della Sentenza Corte di Giustizia delle Comunità Europee 11/12/1997 n. 55, che ha dichiarato incompatibile con il diritto UE la normativa italiana in materia di avviamento al lavoro. Fino a quel momento, infatti, in Italia il collocamento al lavoro avveniva esclusivamente a mezzo dell'ente pubblico, ossia gli uffici di collocamento. La Corte di Giustiziai affermò, tuttavia, che il monopolio italiano nel campo del collocamento professionale, affidato esclusivamente agli enti pubblici, non è compatibile con le norme europee sulla libera prestazione dei servizi.  In tale arresto il principio del monopolio pubblico del collocamento al lavoro diviene soccombente rispetto divieto di posizione dominante sul mercanto comune art. 90 n 1 Trattato CE (ora 106 TFUE) espressione del principio di tutela della concorrenza: da qui anche i privati non solo lo Stato hanno potuto esercitare il collocamento.

Su questa scia, una svolta paradigmatica si ebbe con il d.lgs. n. 276 del 2003, cd. “Riforma Biagi”, che si poneva l'obiettivo, innovativo, di ricongiungere le esigenze di flessibilità del mercato del lavoro con l'incremento dei livelli occupazionali, al contempo salvaguardando le tutele normative ed economiche sino a quel momento acquisite da lavoratori e sindacati (Giacinto Favelli, Andrea Stinchi, “La riforma Biagi Commento al decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276”, La Tribuna, pag. 12).

Con il d.lgs. n. 276 del 2003 è stato introdotto nel nostro sistema giuridico un principio generale che consente l'utilizzazione delle prestazioni lavorative da parte di un imprenditore diverso dal datore di lavoro formale, subordinato alla sola sussistenza di ragioni di carattere tecnico, organizzativo o produttivo, a giustificazione dell'utilizzazione. Il reclutamento di personale da somministrare può essere fatto solo dalle agenzie a ciò autorizzate. Nella nuova fattispecie introdotta nel 2003, quindi, l'utilizzazione di dipendenti assunti da altri soggetti non è più prevista come straordinaria o eccezionale (come lo era per la Legge del 97), e può anche riferirsi “all'ordinaria attività dell'utilizzatore”.

La Riforma Biagi ha abrogato interamente la Legge n. 23 ottobre 1960, n. 1369, ultraquarantenne, e gli artt. 1-11 della l. 24 giugno 1997, n. 196, così sostituendo il lavoro temporaneo tramite agenzia con la nuova disciplina della somministrazione di manodopera, ora anche a tempo indeterminato. Le ulteriori novità: la regolazione del distacco e l'elaborazione della nozione di appalto di servizi, plasmata su quella civilistica già contenuta nell'art. 1655 c.c..

Sul quadro normativo successivo all'abrogazione della Legge n. 23 ottobre 1960, n. 1369 così si pronunciava la Suprema Corte: «Anche dopo la abrogazione della l. n. 1369/1960, quello che permane in materia è un divieto (sanzionato a livello civile, penale ed amministrativo) che concerne la fattispecie oggettiva dell'interposizione di manodopera e non la tipologia soggettiva di chi finisce per realizzarla. Lo scopo del divieto di intermediazione è ancora quello di reprimere la scissione tra titolarità apparente del rapporto di lavoro e sua "utilizzazione effettiva", non essendo consentito, anche se accettato con contratto dalle parti, che il soggetto che investe, organizza e gode degli utili dell'attività produttiva non assuma per un verso la posizione del datore e la direzione del personale e dall'altro non assuma anche il rischio del costo (in senso ampio) del rapporto di lavoro (al di fuori dei casi in cui è oggi ammessa la somministrazione legale di manodopera.)» (Cfr. Cass. 20 giugno 2023, n. 17627, DJ, 34). Infatti, se è vero che il legislatore ha introdotto una nuova ipotesi di somministrazione legale di manodopera, entro un orizzonte nel quale i lavoratori si inseriscono integralmente all'interno dell'impresa che ne utilizza le prestazioni pur restando formalmente (e lecitamente) dipendenti dell'interposto (l'agenzia), la deviazione da tale schema non potrà che condurre alla caducazione dello "schermo" costituito dall'interposto per ricollegare i rapporti di lavoro direttamente in capo all'interponente (Cfr. Tribunale Trieste, Sez. lavoro, Sentenza, 10/03/2011, n. 90).

Si sottolinea che il disposto di cui all'art. 29, comma 1, d.lgs. n. 10 settembre 2003, n. 276 recita: "Ai fini della applicazione delle norme contenute nel presente titolo, il contratto di appalto, stipulato e regolamentato ai sensi dell'articolo 1655 del codice civile, si distingue dalla somministrazione di lavoro per l'organizzazione dei mezzi necessari da parte dell'appaltatore, che può anche risultare, in relazione alle esigenze dell'opera o del servizio dedotti in contratto, dall'esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell'appalto, nonché per la assunzione, da parte del medesimo appaltatore, del rischio di impresa".

Il legislatore così facendo delineava i due requisiti per la costituzione di un appalto genuino: la presenza di una organizzazione di mezzi risultante dall'esercizio del potere organizzativo e direttivo dell'appaltatore nei confronti dei lavoratori utilizzati nell'appalto e l'assunzione, da parte di quest'ultimo, del rischio d'impresa.

Secondo autorevole dottrina (Giacinto Favelli, Andrea Stinchi, “La riforma Biagi Commento al decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276”, La Tribuna, pag. 79) la Riforma Biagi ampliava la precedente portata dell'appalto, riconoscendone la validità e la legittimità anche in presenza di una minima organizzazione dei mezzi necessari in capo all'appaltatore, che poteva risultare anche solo dall'esercizio del potere organizzativo e direttivo di questi rispetto ai lavoratori, fermo restando l'assunzione del rischio d'impresa.

L'art. 29, comma 3 bis, d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276 prevedeva: «Quando il contratto di appalto sia stipulato in violazione di quanto disposto dal comma 1, il lavoratore interessato può chiedere, mediante ricorso giudiziale a norma dell'articolo 414 del codice di procedura civile, notificato anche soltanto al soggetto che ne ha utilizzato la prestazione, la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze di quest'ultimo. In tale ipotesi si applica il disposto dell'articolo 27, comma 2».

Tuttavia, l'art. 27, comma 2, d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276 è stato abrogato, ed oggi si ritiene vi sia un rinvio al nuovo art. 38, comma 2, d.lgs. 81/2015: “Quando la somministrazione di lavoro avvenga al di fuori dei limiti e delle condizioni di cui agli articoli 31, commi 1 e 2, 32 e 33, comma 1, lettere a), b), c) e d), il lavoratore può chiedere, anche soltanto nei confronti dell'utilizzatore, la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze di quest'ultimo, con effetto dall'inizio della somministrazione” ed al comma 3: “Nelle ipotesi di cui al comma 2 tutti i pagamenti effettuati dal somministratore, a titolo retributivo o di contribuzione previdenziale, valgono a liberare il soggetto che ne ha effettivamente utilizzato la prestazione dal debito corrispondente fino a concorrenza della somma effettivamente pagata. Tutti gli atti compiuti o ricevuti dal somministratore nella costituzione o nella gestione del rapporto, per il periodo durante il quale la somministrazione ha avuto luogo, si intendono come compiuti o ricevuti dal soggetto che ha effettivamente utilizzato la prestazione”. Preme sottolineare che tra gli atti di costituzione e di gestione del rapporto di lavoro non è compreso il licenziamento. Infatti, l'eventuale licenziamento irrogato dallo “pseudoappaltatore” non potrà ritenersi compiuto, né potrà imputarsi in capo all'utilizzatore, così che lo stesso sarà improduttivo di effetti nei confronti del lavoratore, il cui rapporto di lavoro è costituito con l'utilizzatore.

Appalto genuino vs. intermediazione illecita. Indici rivelatori. Casistica.

Dalla sentenza in commento si evince che non sono sintomatiche di una intermediazione illecita le seguenti facoltà eventualmente esercitate dalla committente: la delimitazione delle diverse zone in cui le consegne degli autisti devono avvenire, trattandosi di determinazioni di ordine generale, volte solo a individuare talune caratteristiche necessarie del servizio e non a regolare immediatamente la prestazione dei singoli autisti; la riferibilità alla committente di talune dotazioni degli autisti, ossia il telefono cellulare ed il palmare, in quanto utilizzate per assicurare un più efficiente svolgimento del servizio.

Quando si configura quindi l'intermediazione illecita?

La giurisprudenza è unanime nel ripetere in ogni pronuncia, compresa quella in commento, il medesimo principio: “Si configura intermediazione illecita ogni qual volta l'appaltatore metta a disposizione del committente una prestazione lavorativa, rimanendo eventualmente in capo al medesimo, quale datore di lavoro, i soli compiti di gestione amministrativa del rapporto (quali retribuzione, pianificazione delle ferie, assicurazione della continuità della prestazione), senza tuttavia una reale organizzazione della prestazione stessa, finalizzata ad un risultato produttivo autonomo (Cass. 7898 del 2011 e negli stessi termini fra le più recenti Cass. n. 23215 del 2022; n. 15557 del 2019; n. 27213 del 2018; n. 27105 del 2018; n. 10057 del 2016; n. 7820 del 2013)”.

Elemento essenziale è quindi l'esistenza di una vera organizzazione d'impresa, intesa anche in termini di forza lavorativa, ed orientata alla realizzazione di un risultato autonomo, che sussiste anche se il servizio è reso sotto una forma di coordinamento funzionale tra le due imprese coinvolte nell'appalto, purché non si verifichi un permanente inserimento del personale dell'appaltatore nella compagine aziendale del committente (Carinci, La fornitura di lavoro altrui, in Il Codice Civile - Commentario, diretto da P. Schlesinger, Giuffre`, Milano, 2000, p. 89).

Convertendo il suddetto principio da teorico a pratico, per quanto riguarda i primi due profili, ossia le modalità operative di lavoro e tempi di lavorazione, la loro determinazione compete all'appaltatore. In particolare, a quest'ultimo, sulla base della sua competenza professionale, spetterà la scelta del numero dei dipendenti che presume essere necessario per eseguire l'opera od il servizio indicati in contratto. Sotto il profilo dei tempi di lavoro, il committente potrebbe selezionare le fasce orarie di esecuzione dell'appalto. Tuttavia, è sempre l'impresa appaltatrice a determinare il turn over lavorativo, individuando i dipendenti da adibire ad ogni turno (Fabrizio Pirelli - Funzionario della Direzione provinciale del lavoro di Modena “Appalto genuino e indici rivelatori”).

Oltre all'orario e tempi di lavorazione, nel tempo la giurisprudenza e la dottrina hanno elaborato svariati indici rivelatori per misurare la genuinità dell'appalto.

Il primo, la qualifica di imprenditore del soggetto appaltatore. Quest'ultima sarà senz'altro mancante e quindi sintomo di intermediazione illecita allorquando vi sia una scarsa esperienza professionale dell'appaltatore nel settore di riferimento dell'appalto. Oppure, quando si ravvisi la diversità dell'attività svolta dall'appaltatore rispetto a quella che i suoi dipendenti avrebbero dovuto espletare presso il committente; ancora, l'inesistenza, nella compagine aziendale dell'appaltatore, di personale qualificato ad eseguire le mansioni inerenti alle attività appaltate (in tal senso Cass. civ., sez. lavoro, 5 maggio 1979 n. 2580).

Il secondo indice, come già citato, è l'esercizio del potere direttivo da parte del committente. A livello pratico ciò è riscontrabile quando vi sia identità di orario di lavoro tra dipendenti dell'appaltatore e quelli del committente; quando il pagamento delle retribuzioni dei dipendenti dell'appaltatore avviene per mano del committente; quando i preposti dell'appaltante esercitino un controllo diretto sui dipendenti dell'appaltatore; quando i dipendenti dell'appaltatore richiedano ferie o permessi direttamente al committente il quale anche decide sulla loro concessione o meno; quando il licenziamento dei dipendenti dell'appaltatore viene irrogato dal committente; quando quest'ultimo valuta gli aumenti retributivi e sceglie il numero dei dipendenti da utilizzare e quando effettua il controllo fiscale e contabile degli adempimenti dell'appaltatore; quando l'appaltante si occupa delle relazioni sindacali dei dipendenti dell'appaltatore; quando il committente effettua un ridimensionamento dell'organico per poter inserire stabilmente nella sua compagine la manodopera fornita dall'appaltatore (Fabrizio Pirelli - Funzionario della Direzione provinciale del lavoro di Modena “Appalto genuino e indici rivelatori).

Un terzo indice, rilevante ai fini della sentenza in commento, è la messa a disposizione di mezzi e strumenti da parte dell'appaltante (nel caso affrontato la committente aveva fornito dei telefoni e dei palmari agli autisti). Deve tuttavia sottolinearsi che per la configurazione dell'intermediazione illecita, il conferimento da parte del committente di strumenti non deve essere minimo ed essenziale, bensì solo quando sia di rilevanza tale da rendere del tutto marginale ed accessorio l'apporto organizzativo dell'appaltatore. Pertanto, l'utilizzo di strumenti assai modesti (come era nella sentenza in commento) di proprietà dello stesso committente non costituisce ex se elemento decisivo per ritenere illecito l'appalto, qualora sia comunque configurabile un'organizzazione e gestione autonoma dell'appaltatore senza ingerenze operate dal committente nel rapporto di lavoro, tali da comportare l'illegittimità dell'appalto siccome fittizio, da distinguersi dal mero coordinamento tecnico della prestazione lavorativa allo scopo di assicurarsi l'utilità del servizio appaltato. Ad esempio, la App. Roma, sez. lav., sent., 07 dicembre 2022, n. 3875 ha ritenuto genuino l'appalto nel caso di una receptionist che aveva utilizzato nel periodo di lavoro strumenti e beni di proprietà della committente quali p.c., badge, divise, dominio mail, ecc.

Il quarto indice è stato ravvisato nella qualificazione dell'attività lavorativa. Ossia, l'appalto si considera genuino quando l'attività svolta rientra nell'oggetto sociale tipico dell'appaltatore e presenta un carattere temporaneo e contingente. Altri elementi di genuinità dell'appalto sono: l'impiego di lavoratori non stabilmente inseriti nell'organizzazione del committente; lo svolgimento di mansioni diverse da quelle dei dipendenti del committente; la separazione logistica tra le due compagini lavorative per evitare commistioni.

Guardando alla giurisprudenza, Cass. civ., sez. lav., ord., 12 aprile 2024, n. 10012 ha affrontato il caso di due lavoratrici che contestavano la genuinità dell'appalto al quale erano addette avente ad oggetto lavorazioni di confezionamento e assemblaggio di prodotti cosmetici, di movimentazione delle merci, di reception e di pulizia. Le lavoratrici erano state assunte a termine dalla cooperativa per lo svolgimento di mansioni di facchinaggio e confezionamento in esecuzione di detto appalto. La Suprema Corte ha confermato la sentenza di seconde cure che aveva ravvisato una ipotesi di somministrazione illecita di manodopera sulla base dei seguenti elementi di fatto: il personale della cooperativa (appaltatrice) era inserito nei vari reparti produttivi della committente, lavorava alle linee produttive, a volte a financo del personale della società ricorrente, eseguiva le stesse lavorazioni svolte da quest'ultimo personale e nei fatti si aggiungeva a questo personale nello svolgimento di dette lavorazioni, quando era necessaria più manodopera la società chiedeva personale alla cooperativa e l'organizzazione concreta del personale della appaltatrice era prerogativa esclusiva della committente, la quale decideva giornalmente il numero dei lavoratori della cooperativa da impiegare in funzione delle proprie esigenze produttive, il reparto di assegnazione e le mansioni da svolgere, non essendo stata mai fornita dalla appaltatrice nessuna autonoma prestazione di risultato.

Il quinto ed ultimo indice è rappresentato dalla quantificazione del corrispettivo: il criterio della retribuzione è collegato all'assunzione del rischio d'impresa. Se il contributo dell'appaltatore è marginale e copre solo il costo della manodopera senza un reale potere direttivo, si configura una interposizione illecita. Il corrispettivo deve essere collegato al rischio d'impresa e non limitarsi a rimborsare i costi della manodopera, ma deve essere stabilito preventivamente in base al risultato da raggiungere.

In sostanza, tutti i criteri sin qui enucleati mirano a verificare se l'appaltatore abbia un ruolo sostanziale e autonomo nell'organizzazione del lavoro e nell'assunzione del rischio economico, distinguendosi da una mera fornitura di manodopera. La ricorrenza di questi indici, anche se non necessariamente tutti, è stata ritenuta sufficiente a fondare l'ipotesi illecita dell'appalto (Corte d'Appello Brescia, Sez. lavoro, Sentenza, 07/04/2023, n. 93).

Tuttavia, l'utilizzo di tali “metri”, utili a misurare la genuinità o meno, varia di caso in caso e a seconda della tipologia di appalto. In particolare, bisogna distinguere tra “appalti pesanti”, che richiedono l'impiego di importanti mezzi o materiali, e “appalti leggeri”. Nei primi, il requisito dell'autonomia organizzativa deve essere calibrato “se non sulla titolarità, quanto meno sull'organizzazione di questi mezzi”; nei secondi, nei quali l'attività si risolve prevalentemente o esclusivamente nel lavoro, è sufficiente che in capo all'appaltatore “sussista una effettiva gestione dei propri dipendenti” (G. M. Marsico “Brevi note sull'appalto non genuino: tra obbligazione risarcitoria e tutela reale” in Labor Il Lavoro nel diritto).

Occorre considerare l'ipotesi in cui gli appalti, per il tipo di opera o servizio, non richiedano particolari mezzi e quindi non comportino l'impiego di particolari strutture materiali o impiantistiche (tra questi i più comuni e frequenti sono gli appalti di facchinaggio o movimentazione merci, quelli di pulizie, quelli di confezionamento e assemblaggio); ma perché si configuri un appalto lecito è pur sempre necessario che questa autonoma organizzazione dei mezzi, desunta anche soltanto dall'esercizio del potere organizzativo e direttivo da parte dell'appaltatore nei confronti dei propri lavoratori utilizzati nell'appalto endoaziendale, sussista effettivamente (Cass. civ., Sez. lavoro, ord. 13 febbraio 2020, n. 3632. Sulla distinzione tra appalti pesanti e leggeri si vedano Cass. civ., sez. lav., ord., 03 giugno 2024, n. 15410; (Cass. n. 31128/2021; Cass. n. 22989/2020 e 21413/2019; Cass. n. 10012/2024). In altre parole, in caso di appalti caratterizzati da un basso apporto di mezzi materiali, comunemente definiti a bassa intensità organizzativa e ad alta intensità di lavoro, occorre conferire rilievo preponderante alla diretta organizzazione, alla direzione e al controllo dei dipendenti assunti dall'interposto da parte del committente. Ad esempio, l'utilizzo di strumenti o attrezzature di lavoro forniti dalla committente, nonché l'osservanza del medesimo orario di lavoro delle dipendenti della committente, non sono di per sé indici sintomatici della natura non genuina dell'appalto essendo pienamente compatibili anche con la natura endoaziendale dell'appalto di servizi a bassa intensità organizzativa (in questi termini Corte d'Appello Brescia, Sez. lavoro, Sent., 07/04/2023, n. 93). Così, mentre in appalti che richiedono l'impiego di importanti mezzi o materiali c.d. "pesanti", il requisito dell'autonomia organizzativa deve essere calibrato, se non sulla titolarità, quanto meno sull'organizzazione di questi mezzi, negli appalti c.d. "leggeri", in cui l'attività si risolve prevalentemente o quasi esclusivamente nel lavoro, è sufficiente che in capo all'appaltatore sussista una effettiva gestione dei propri dipendenti (così App. Milano, sez. lav., sent., 05 gennaio 2021, n. 769). Nello stesso senso anche Cass. civ., sez. lav., ord., 27 novembre 2018, n. 30694 che ha ritenuto genuino un appalto avente ad oggetto la gestione e l'assistenza tecnica di archivi informatici, affermando che “in una tale ipotesi, caratterizzata da una bassa intensità organizzativa, gli strumenti e le macchine forniti dall'appaltante non costituiscono il mezzo attraverso il quale il servizio viene reso, ma, piuttosto, l'oggetto sul quale l'attività appaltata si esercita, sì da risultare predominante la mera organizzazione dei dipendenti”.

Le peculiarità del caso concreto l'applicazione della disciplina dell'art 29 al contratto di trasporto

La peculiarità del caso in questione attiene anche alla discussa questione della applicabilità della disciplina di cui all'art. 29 comma 2 Decreto Legislativo 10 settembre 2003, n. 276 al contratto di trasporto. Occorre subito premettere che si tratta di ipotesi non approfondita dalla Sentenza della Suprema Corte in commento “non risultando proposta alcuna domanda in tal senso”, tuttavia astrattamente applicabile. Infatti, come si è detto, il caso dal quale scaturiva in processo riguardava alcuni lavoratori di un'impresa subappaltatrice, che avevano agito in giudizio per ottenere la costituzione del rapporto di lavoro alle dipendenze dell'appaltatrice e della committente, ex art. 29 comma 3-bis Decreto Legislativo 10 settembre 2003, n. 276, imprenditori operanti nel settore dei trasporti e della logistica. In tal modo ottenendo il pagamento delle differenze retributive non corrisposte dal formale datore di lavoro. Non avevano, invece, attivato la tutela di cui al comma 2 dell'art. 29.

Come è noto la tutela di cui al comma 2 dell'art. 29, introdotta dal legislatore delegato nel 2003, stabilisce che: “In caso di appalto di opere o di servizi, il committente imprenditore o datore di lavoro è obbligato in solido con l'appaltatore, nonché con ciascuno degli eventuali subappaltatori entro il limite di due anni dalla cessazione dell'appalto, a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi, comprese le quote di trattamento di fine rapporto, nonché i contributi previdenziali e i premi assicurativi dovuti in relazione al periodo di esecuzione del contratto di appalto...”. Tale disposizione trovava il proprio antecedente storico nell'art.3 della legge 1369/60 che prevedeva per gli appalti interni il principio di parità di trattamento economico e normativo per i dipendenti dell'appaltatore rispetto ai lavoratori dell'imprenditore appaltante/committente, nonché la responsabilità solidale del committente per tali trattamenti e per la contribuzione previdenziale ed assistenziale, limitata al periodo di un anno dalla cessazione del contratto di appalto. Il Decreto Legislativo 10 settembre 2003, n. 276, nel sostituire la pregressa disciplina, ha abbandonato la regola della parità di trattamento, ma ha mantenuto l'ipotesi di responsabilità solidale, estendendo il periodo di validità al biennio dalla cessazione del contratto. Si tratta di una disciplina assai vantaggiosa per i lavoratori, che rende obbligati per l'intero credito contributivo e retributivo soggetti diversi dal datore di lavoro, come il committente, a prescindere dall'esistenza del debito nei confronti dell'appaltatore, a differenza di quanto avviene nella disciplina generale di cui all'art. 1676 c.c.

Nel tempo l'ambito di tutela previsto ha visto un progressivo ampliamento, quanto ad ambito di applicazione soggettivo, essendo per effetto dell'art.9, 1 comma del d.l. 28 giugno 2013, n. 76 (convertito con modificazioni dalla l. 9 agosto 2013, n. 99) la medesima tutela prevista anche per il lavoratore autonomo, sia dal punto di vista delle regole procedurali utili per la sua attivazione. Così, a seguito dell'approvazione dei quesiti referendari del 4 Dicembre 2016 sulla modifica della Costituzione ed in particolare a quello promosso dalla CGIL, il legislatore delegato dal governo ha deciso di eliminare dall'ordinamento le norme oggetto dei quesiti referendari, fra cui la disciplina di cui all'art. 29, comma 2 del Decreto Legislativo 10 settembre 2003, n. 276. Tale ultima norma subordinava l'esercizio dell'azione di responsabilità solidale promossa dal lavoratore di un appalto verso il committente alla preventiva escussione del patrimonio dell'appaltatore e degli eventuali subappaltatori.

Eliminato anche tale ultimo baluardo a tutela del committente, la disciplina poteva disvelare la propria ratio in coerenza con le classiche tecniche del diritto civile: responsabilità civile per indurre comportamenti di mercato virtuosi e per allocare i rischi su chi è più in grado di gestirli. Infatti, il rispetto delle regole sul trattamento retributivo e previdenziale dipende dalla qualità delle imprese coinvolte nella filiera, al cui capo c'è la committente. Se si sceglie un'impresa seria (col giusto costo) ci saranno meno ipotesi di inadempimento nei confronti dei lavoratori. Negli appalti a basso valore professionale, costruiti solo per abbattere i costi, i risparmi si fanno spesso a discapito della parte debole del rapporto: i lavoratori. Si sceglie così una appaltatrice che spesso non ha la consistenza per retribuire il lavoratore.

Dal punto di vista empirico il problema si pone con ancora maggiore forza nel settore della logistica e dei trasporti nel quale il committente di solito ha il monopolio delle commesse sul mercato e l'attività di trasporto viene svolta da appaltatori con propri mezzi di trasporto e personale. Nel settore dei trasporti, tuttavia, è prevista una disciplina speciale dall'art. 83 bis d.l. 25 giugno 2008 n 112 conv. con con l. 06 agosto 2008 n. 133, meno tutelante per i lavoratori. In particolare, la normativa stabilisce che il committente deve preliminarmente verificare la regolarità del vettore sotto il profilo retributivo, previdenziale e assicurativo prima della stipulazione del contratto. Tale verifica deve essere effettuata acquisendo l'attestazione da Inps ed Inail che il vettore è in regola con il pagamento di contributi e premi assicurativi nei tre mesi anteriori alla stipulazione del contratto di trasporto. Quando il committente adempie correttamente a questo obbligo di controllo preventivo, viene esonerato dalle responsabilità solidali previste dalla legge, in caso contrario la legge lo rende responsabile in solido con il vettore e gli eventuali sub-vettori per il pagamento dei trattamenti retributivi, dei contributi previdenziali e dei premi assicurativi dovuti ai lavoratori entro il limite temporale di un anno dalla cessazione del contratto di trasporto e nei limiti delle prestazioni effettivamente ricevute durante l'esecuzione del contratto.

Nel progresso del tempo vi è stata una tendenza giurisprudenziale espansiva ad applicare l'istituto della responsabilità solidale di cui all'art. 29 comma 2. Così la sentenza della Corte Costituzionale 6 dicembre 2007 n. 254 ha stabilito che l'art. 29 comma 2 d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276 può trovare applicazione analogica anche alla subfornitura industriale, estendendo la tutela a "situazioni omogenee rispetto all'appalto di lavoro indiretto". Come è noto la subfornitura industriale è un contratto tramite il quale un'impresa committente affida a un'altra impresa subfornitrice la realizzazione di una o più parti del proprio ciclo produttivo, come la produzione di componenti o l'esecuzione di lavorazioni specifiche, destinate ad essere incorporate nel prodotto finale del committente (ad esempio si pensi ad un'azienda automobilistica che affida a un'altra impresa la produzione di particolari componenti meccanici). La disciplina legale della subfornitura è contenuta principalmente nella Legge n. 18 giugno 1998 n 192, che stabilisce obblighi formali, termini di pagamento e tutele per evitare abusi di dipendenza economica.

Ebbene, la Corte Costituzionale nel menzionato arresto estende la tutela prevista per gli appalti anche ai lavoratori dipendenti dell'impresa subfornitrice, in quanto: “la ratio dell'introduzione della responsabilità solidale del committente – che è quella di evitare il rischio che i meccanismi di decentramento, e di dissociazione fra titolarità del contratto di lavoro e utilizzazione della prestazione, vadano a danno dei lavoratori utilizzati nell'esecuzione del contratto commerciale – non giustifica una esclusione (che si porrebbe, altrimenti, in contrasto con il precetto dell'art. 3 Cost.) della predisposta garanzia nei confronti dei dipendenti del subfornitore, atteso che la tutela del soggetto che assicura una attività lavorativa indiretta non può non estendersi a tutti i livelli del decentramento”.

Alla luce di questa sentenza si è posto il problema della applicabilità della disciplina del contratto di appalto anche al settore della logistica. Senonché il legislatore con l'art. 1 comma 819, l. 30 dicembre 2021, n. 234 (Legge di Bilancio 2022) ha introdotto l'art. 1677 bis c.c. in vigore dal 1 gennaio 2022 e poi sostituito dall'art. 37-bis, 1° comma, d.l., n. 36/2022, convertito dalla l., n. 79/2022, entrando in vigore dal 30 giugno 2022.

Tale articolo è rubricato: “Prestazione di più servizi riguardanti il trasferimento di cose” e prevede che “Se l'appalto ha per oggetto, congiuntamente, la prestazione di due o più servizi di logistica relativi alle attività di ricezione, trasformazione, deposito, custodia, spedizione, trasferimento e distribuzione di beni di un altro soggetto, alle attività di trasferimento di cose da un luogo a un altro si applicano le norme relative al contratto di trasporto, in quanto compatibili”. Si tratta di un contratto nel quale sussiste il compimento di attività ulteriori ed aggiuntive che esulano dallo schema tipico del trasporto. Si parla in questo caso di "contratto di appalto di servizi di trasporto" come species del genus appalto di servizi, disciplinato dal precedente art 1677 cc e si stabilisce che per le attività di trasferimento di cose si applicano le norme del contratto di trasporto "in quanto compatibili". Il Ministero del Lavoro (Interpello min. lav. 17 ottobre 2022 n. 1 prot. 13858) sul punto ha chiarito che nell'ipotesi disciplinata dall'art. 1677-bis c.c. rimane applicabile la responsabilità solidale dell'art. 29, d.lgs. 276/2003 prevista per il contratto di appalto, ciò sia in base alla collocazione sistematica dell'art. 1677-bis c.c., sia in base alla argomentazione secondo la quale la citata sentenza della Corte Costituzionale 6 dicembre 2007 n. 254 permette una lettura estensiva dell'ipotesi di cui all'art. 29 comma 2, d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276 ed un'interpretazione restrittiva dell'art. 83-bis d.l. 25 giugno 2008 n 112, riguardante il contratto di trasporto.

Ebbene, se la qualificazione dell'ipotesi concreta nell'alveo del contratto di appalto di servizi di trasporto o del contratto di trasporto risulta foriera di effetti di rilievo per la tutela del lavoratore, allora occorre interrogarsi quali siano i caratteri distintivi delle due schemi contrattuali.

La giurisprudenza nel tempo si è fatta carico di delineare i criteri distintivi per qualificare un rapporto come appalto di servizi di trasporto (soggetto alla responsabilità solidale) piuttosto che come una pluralità di meri contratti di trasporto. Elementi qualificanti dell'appalto di servizi di trasporto sono: la pianificazione unitaria con disciplina e corrispettivo unitario, l'organizzazione di mezzi idonea da parte del trasportatore, la molteplicità e sistematicità dei trasporti, la continuità delle prestazioni, un risultato complessivo non limitato a singole prestazioni sporadiche, l'assunzione dei rischi da parte del trasportatore

Come evidenziato dalla giurisprudenza più recente, tra cui la Cassazione Sez. Lavoro sentenza n. 22541 del 4 agosto 2025, la qualificazione prescinde dalla denominazione formale del contratto e deve essere valutata sulla base delle concrete modalità di esecuzione. In tale arresto, si è stabilito che si configura un appalto di servizi di trasporto quando si convengano nel contratto specifici elementi presuntivi rivelatori del carattere unitario delle prestazioni, quali: l'affidamento di una serie indeterminata di trasporti quanto al numero, agli oggetti da trasportare e ai luoghi di consegna; l'instaurazione di una collaborazione destinata a durare nel tempo con modalità pianificate e per un corrispettivo predeterminato; la pattuizione di attività e servizi accessori al trasporto quali il carico e lo scarico delle merci, la numerazione ed etichettatura, il controllo dei colli, il ritiro dei pagamenti con contrassegno, la predisposizione di una struttura organizzativa e imprenditoriale autonoma con rischio a proprio carico (Cass. 19 luglio 2023 n. 21386; Cass. 31 marzo 2023 n. 9126.; Cass. 6 marzo 2020 n. 6449Cass. 14 luglio 2015, n. 14670; App. Brescia, 14 dicembre 2017).

Tuttavia, nella giurisprudenza di merito permangono significativi contrasti laddove le parti non abbiano concordato lo svolgimento di servizi accessori, ma solo lo svolgimento di una pluralità di servizi di trasporto. Nel senso di una lettura estensiva dell'art. 1677-bis c.c.  si ricorda la Sentenza della Corte d'Appello di Milano, sez. lav., 2 maggio 2025, n. 354 ( in “il Lavoro nella giurisprudenza 7/2025”), che ha riconosciuto la configurabilità dell'appalto di servizi di trasporto quando le parti abbiano pianificato, con disciplina e corrispettivo unitario e con apprestamento di idonea organizzazione da parte del trasportatore, l'esecuzione di una serie di trasporti aventi carattere di prestazioni continuative in vista del raggiungimento di un risultato complessivo (ibidem Corte d'Appello di Milano, che con sentenza n. 998 del 18 novembre 2024, Trib. Bologna 11 dicembre 2023 n. 887 est. Bettini; Trib. Milano 19/06/2024 n. 3143 est. Caroleo). Al contrario per una interpretazione restrittiva dell'art. 1677-bis c.c. si annovera la sentenza della Corte d'Appello del Lavoro di Torino n. 192 del 27 maggio 2024, che ha precisato che la mera reiterazione nel tempo delle prestazioni di trasporto, pur nell'ambito di un contratto-quadro di durata pluriennale, non è sufficiente a trasformare il rapporto in appalto di servizi, ciò in quanto l'interpretazione estensiva dell'art. 29 operata dalla Corte Costituzionale per la subfornitura non può essere automaticamente estesa ai contratti di trasporto, atteso che questi ultimi non presentano le peculiarità specifiche della subfornitura. Nello stesso senso Tribunale del Lavoro di Pistoia con sentenza n. 166 del 26 giugno 2025, secondo cui quando il vettore si limita al compimento delle operazioni tipiche del trasporto ed eventualmente di quelle meramente strumentali alla sua esecuzione, senza assumere attività ulteriori ed aggiuntive che configurino una diversa prestazione di servizi, il rapporto rimane inquadrabile nell'alveo del contratto di trasporto.

Conclusioni

La sentenza impugnata si pone nell’alveo tradizionale della giurisprudenza quanto all’applicazione della tutela di cui all’art. 29 d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276 rispetto alla possibilità di ottenere la costituzione del rapporto di lavoro alle dipendenze della committente. La modifica dei processi produttivi, l’utilizzo di appalti cd labour intensive, l’uscita progressiva, in termini di occupati, dal perimetro dell’industria pesante e il progressivo aumento degli occupati nel settore terziario e dei servizi, hanno via via messo in crisi le possibilità applicative di una disciplina dal sempre meno semplice approccio ermeneutico. Si aggiunga poi che, in quella mezza via che è il settore dei trasporti e della logistica, le possibilità di accedere al menzionato istituto, gravitano attorno alla prova dell’accertamento del reale datore di lavoro, ossia del soggetto che ha la “reale organizzazione della prestazione stessa finalizzata ad un risultato produttivo autonomo”, che sovente appare di difficile dimostrazione.

A ciò si aggiunga la peculiarità rappresentata, nel settore della logistica e dei trasporti, dalla controversa applicabilità dell’ipotesi di responsabilità solidale del committente, di cui al capoverso dell’art.29, oggetto di un accesissimo dibattito in seno alla giurisprudenza.

Le considerazioni espresse rendono la disciplina menzionata un vero e proprio percorso ad ostacoli per la parte debole del rapporto, con buona pace della non taciuta ratio legislativa di equità. Non si possono indurre comportamenti di mercato virtuosi, allocando i rischi su chi è più in grado di gestirli, scoraggiando la scelta di scegliere un partner commerciale a buon mercato che non ha la consistenza per retribuire il lavoratore, se la disciplina è subordinata ad un notevole margine di incertezza per chi, come il lavoratore quella tutela intenda attivare.

Riferimenti

Giacinto Favelli, Andrea Stinchi, La riforma Biagi Commento al decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, La Tribuna, 79;

P. Rausei, Somministrazione di lavoro appalto e distacco, IV Ed., 148;

Carinci, La fornitura di lavoro altrui”, in Il Codice Civile – Commentario, diretto da P. Schlesinger, Giuffrè, Milano, 2000, 89;

Fabrizio Pirelli - Funzionario della Direzione provinciale del lavoro di Modena, Appalto genuino e indici rivelatori;

G. M. Marsico G. M. Marsico, Brevi note sull’appalto non genuino: tra obbligazione risarcitoria e tutela reale, in Labor Il Lavoro nel diritto.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario