Avvocato falsifica o usa, sapendoli falsi, dei riconoscimenti di debito con firma apocrifa di colleghi appena deceduti

Lucia Randazzo
05 Dicembre 2025

 Radiazione.

Una recente pronuncia del Consiglio Nazionale Forense (n. 254/2024, r.d. 123/2025) ha riaffermato con forza i principi cardine della deontologia forense, sanzionando un avvocato per la violazione degli articoli 4, 9, 12, 19 e 50 del Codice Deontologico Forense.

Art. 4 – Volontarietà dell'azione

1. La responsabilità disciplinare discende dalla inosservanza dei doveri e delle regole di condotta dettati dalla legge e dalla deontologia, nonché dalla coscienza e volontà delle azioni od omissioni.

2. L'avvocato, cui sia imputabile un comportamento non colposo che abbia violato la legge penale, è sottoposto a procedimento disciplinare, salva in questa sede ogni autonoma valutazione sul fatto commesso.

Art. 9 – Doveri di probità, dignità, decoro e indipendenza

1. L'avvocato deve esercitare l'attività professionale con indipendenza, lealtà, correttezza, probità, dignità, decoro, diligenza e competenza, tenendo conto del rilievo costituzionale e sociale della difesa, rispettando i principi della corretta e leale concorrenza.

2. L'avvocato, anche al di fuori dell'attività professionale, deve osservare i doveri di probità, dignità e decoro, nella salvaguardia della propria reputazione e della immagine della professione forense.

Art. 12 – Dovere di diligenza

L'avvocato deve svolgere la propria attività con coscienza e diligenza, assicurando la qualità della prestazione professionale.

Art. 19 - Doveri di lealtà e correttezza verso i colleghi e le Istituzioni forensi

L'avvocato deve mantenere nei confronti dei colleghi e delle Istituzioni forensi un comportamento ispirato a correttezza e lealtà.

Art. 50 – Dovere di verità

1. L'avvocato non deve introdurre nel procedimento prove, elementi di prova o documenti che sappia essere falsi.

2. L'avvocato non deve utilizzare nel procedimento prove, elementi di prova o documenti prodotti o provenienti dalla parte assistita che sappia o apprenda essere falsi.

3. L'avvocato che apprenda, anche successivamente, dell'introduzione nel procedimento di prove, elementi di prova o documenti falsi, provenienti dalla parte assistita, non può utilizzarli o deve rinunciare al mandato.

4. L'avvocato non deve impegnare di fronte al giudice la propria parola sulla verità dei fatti esposti in giudizio.

5. L'avvocato, nel procedimento, non deve rendere false dichiarazioni sull'esistenza o inesistenza di fatti di cui abbia diretta conoscenza e suscettibili di essere assunti come presupposto di un provvedimento del magistrato.

6. L'avvocato, nella presentazione di istanze o richieste riguardanti lo stesso fatto, deve indicare i provvedimenti già ottenuti, compresi quelli di rigetto, di cui sia a conoscenza.

7. La violazione dei divieti di cui ai commi 1, 2, 3, 4 e 5 comporta l'applicazione della sanzione disciplinare della sospensione dall'esercizio dell'attività professionale da uno a tre anni. La violazione del dovere di cui al comma 6 comporta l'applicazione della sanzione disciplinare dell'avvertimento.

(L'articolo è stato modificato con delibera del Consiglio Nazionale Forense n. 636 del 21 marzo 2025, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale, Serie Generale 1° settembre 2025, n. 202, all'esito delle procedure di consultazione di cui all'art. 35, comma 1, lett. d) della legge 31 dicembre 2012, n. 247, avviate ai sensi della delibera del Consiglio Nazionale Forense n. 432 del 20 settembre 2024. Con la predetta delibera del 21 marzo u.s. il Consiglio nazionale forense ha riformulato il comma 6 aggiungendo, infine, le parole: «, di cui sia a conoscenza». La modifica è entrata in vigore il 1° novembre 2025)

Il procedimento disciplinare ha evidenziato come l'avvocato abbia disatteso i principali obblighi deontologici di lealtà, probità, decoro, diligenza, correttezza verso i colleghi e verità, recando pregiudizio all'immagine e alla dignità di tutta l'avvocatura.

Il capo di incolpazione contestava l'uso di una scrittura privata di transazione, che egli stesso avrebbe contribuito a redigere, che riportava la firma apocrifa di un avvocato defunto con lo scopo di far sembrare che il defunto fosse debitore dell'incolpato stesso (cioè che gli dovesse 20.000 euro).

Si contestava inoltre al ricorrente, nel capo b) dell'incolpazione, la violazione degli stessi canoni deontologici per aver redatto e utilizzato una scrittura privata di transazione contenente la firma falsa di un avvocato defunto. L'incolpato avrebbe formato, o contribuito a formare, tale documento falsificando la firma del defunto, con l'intento di far risultare che quest'ultimo, in qualità di rappresentante di un terzo, si fosse impegnato a trasferirgli un immobile. L'incolpato aveva infatti chiesto il rilascio di quell'immobile, ritenendo che ne avesse acquisito la proprietà per usucapione.

Il Consiglio Nazionale Forense ha evidenziato che la decisione assunta dal Consiglio Distrettuale di Disciplina fosse supportata da numerosi elementi che analizza nella parte motiva. Il C.D.D. ha segnalato la presenza di numerosi procedimenti penali, conclusi in diversi casi con condanne, aventi ad oggetto condotte di truffa nonché la predisposizione e l'utilizzo di atti falsi o contraffatti, ascrivibili al medesimo incolpato.

Da ciò emergeva come l'incolpato avesse strumentalizzato l'esercizio della professione forense per perseguire fini personali mediante l'uso di mezzi illeciti e fraudolenti.

Il C.D.D. aveva motivato analiticamente sia in ordine alla non attendibilità della testimonianza resa dalla madre dell'incolpato, sia in relazione alla natura apocrifa dell'ulteriore documento recante la firma del defunto legale, nonché sulla nullità, per violazione dell'art. 2, comma 6, della Legge professionale n. 247/2012, dell'attività svolta all'epoca della presunta sottoscrizione delle due scritture private, poiché l'incolpato non risultava iscritto all'albo degli avvocati.

La motivazione della sentenza ritiene la decisione del Consiglio Distrettuale di Disciplina corretta, in quanto logica e adeguata, con l'evidenziazione delle prove idonee a suffragarla:

«Ricostruita in fatto l'intera vicenda non può non evidenziarsi che le condotte poste in essere dall'incolpato con coscienza e volontà di predisporre atti illeciti finalizzati a procurare a sé un vantaggio economico ai danni delle eredi di un avvocato premorto, ledono l'immagine ed il decoro della categoria forense. Le azioni giudiziarie intraprese dall'avv. [RICORRENTE] nei confronti delle eredi dell'avv. [AAA] violano i principi di lealtà, probità, dignità e decoro nonché diligenza che sono alla base della professione forense.

Il CDD di Salerno ha illustrato in modo esaustivo i motivi per i quali ha ritenuto di dover infliggere al ricorrente la sanzione della radiazione e tali motivi non possono non essere integralmente condivisi, per cui l'impugnata decisione merita integrale conferma anche in relazione all'entità di tale sanzione. I fatti sono molto gravi e, come esposto ai paragrafi precedenti, attengono alla ripetuta violazione di plurimi precetti deontologici di grande rilevanza, in quanto concernenti la funzione sociale dell'avvocato e, come recita l'art. 1, comma 3, del Codice Deontologico Forense, essenziali ‘per la realizzazione e la tutela dell'affidamento della collettività e della clientela'».

L'incolpato, infatti, era venuto meno agli obblighi più elementari violando anche i suoi doveri nei confronti della collettività, rendendo così, incompatibile la sua permanenza nell'albo degli avvocati. Le motivazioni del Consiglio Nazionale Forense ritengono anche ampiamente provata la suitas della condotta. Nel procedimento disciplinare è sufficiente la volontarietà del comportamento dell'incolpato e, dunque, la suitas intesa come consapevolezza dell'atto che si compie.

La decisione impugnata è ritenuta fondata poiché la valutazione disciplinare non si è basata esclusivamente sulle dichiarazioni dell'incolpato o di altro soggetto portatore d'interessi, ma anche sulle risultanze documentali acquisite, ritenute decisive per la completezza dell'istruttoria. Il Giudice della deontologia gode di ampio potere discrezionale tramite il principio del libero convincimento nella valutazione delle prove. La misura della sanzione spetta agli organi disciplinari e deve essere adeguata alla gravità del fatto e alla natura del comportamento deontologicamente non corretto (Cass., sez. un., n. 13791/2012). «L'art. 3 CDF richiede che la sanzione sia determinata sulla base dei fatti complessivamente e deve essere «commisurata alla gravità del fatto, al grado della colpa, all'eventuale sussistenza del dolo ed alla sua intensità, al comportamento dell'incolpato, precedente e successivo al fatto, avuto riguardo alle circostanze, soggettive e oggettive, nel cui contesto è avvenuta la violazione» e che si debba comunque tenere conto della compromissione dell'immagine della professione forense, della vita professionale, dei precedenti disciplinari. In particolare, la determinazione della sanzione disciplinare non è frutto di un mero calcolo matematico, ma è conseguenza della complessiva valutazione dei fatti avuto riguardo alla gravità dei comportamenti contestati, al grado della colpa o all'eventuale sussistenza del dolo ed alla sua intensità, al comportamento dell'incolpato, alle circostanze – soggettive e oggettive – nel cui contesto è avvenuta la violazione, ai precedenti disciplinare» (n. 254/2024, r.d. 123/2025).

La sentenza in commento ha esplicato le ragioni dell'applicazione della sanzione più afflittiva che si basano su una valutazione globale del comportamento dell'incolpato. L'art. 22 C.D.F. prevede, infatti, che la radiazione sia «inflitta per violazioni molto gravi che rendono incompatibile la permanenza dell'incolpato nell'albo, elenco o registro».

Anche la giurisprudenza del Consiglio Distrettuale di Disciplina ha chiarito che i canoni di giudizio, in caso di radiazione, consistano nella valutazione dell'estrema gravità del comportamento complessivo dell'incolpato, nella reiterazione e nel protrarsi delle violazioni deontologiche, dell'intensità del dolo e la consapevolezza delle violazioni penali e disciplinari commesse, oltre che il disdoro arrecato all'immagine forense (Consiglio distrettuale di disciplina di Napoli (pres. Flagiello, rel. Somma), decisione n. 36 del 21 aprile 2021).

Il Consiglio Nazionale Forense ha quindi confermato la decisione del Consiglio Distrettuale di Disciplina, ritenendo la permanenza dell'incolpato nell'albo incompatibile con i principi e la funzione sociale della professione forense.

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