Responsabilità civile dei magistrati: l’azione risarcitoria decorre dal momento in cui è esaurito il grado del procedimento nel cui ambito si è verificato “il fatto che ha cagionato il danno”.
05 Dicembre 2025
Massima Nella specie, la S.C. ha individuato il dies a quo della decadenza nella definizione del subprocedimento cautelare con annullamento dell'ordinanza di custodia, esclusa ogni possibilità di ancorarlo all'elisione del danno conseguenza, ovvero alla revoca della interdittiva antimafia conseguita solo alla definitiva sentenza di assoluzione. Il caso Il socio di una S.r.l. era destinatario di una ordinanza cautelare applicativa della misura inframuraria, ordinanza prima confermata dal Tribunale del Riesame e poi annullata dalla Corte di cassazione. A seguito di tale vicenda cautelare, il Prefetto emetteva informativa antimafia interdittiva ai sensi degli artt. 84, comma 4, e 91 del d.lgs. n. 159 del 2011, con la conseguente risoluzione dei contratti pubblici in essere in capo alla società. Nel frattempo, il giudizio di merito si concludeva con la assoluzione perché il fatto non sussiste. Per effetto dell'esito assolutorio, la società proponeva domanda di risarcimento danni conseguenti a condotte gravemente colpose poste in essere da magistrati dell'autorità giudiziaria. Il tribunale dichiarava inammissibile la domanda, ritenendo maturato il termine decadenziale a partire dalla data dell'ordinanza del Tribunale del Riesame di annullamento della misura cautelare. Tale decisione era confermata dai giudici di legittimità sul rilievo che è rispetto alla definizione del sub procedimento cautelare che va individuata la data di decorrenza del termine decadenziale, ex art. 4, comma 2, della l. n. 117/1988. La questione La questione in esame è la seguente: in tema di responsabilità civile dei magistrati da quando decorre il termine di decadenza dell'azione risarcitoria di cui all'art. 4, comma 2, della l. n. 117 del 1988 ? La soluzione giuridica Requisiti d'ammissibilità della domanda diretta a far valere la responsabilità dei magistrati, ai sensi del terzo comma dell'art. 5 della legge n. 117 del 1988, sono l'osservanza dei termini, la sussistenza dei presupposti fissati dagli artt. 2, 3 e 4 per la qualificabilità dell'esercizio o dell'omesso esercizio della funzione giudiziaria come fatto illecito produttivo di responsabilità risarcitoria, nonché la non manifesta infondatezza della domanda stessa. Il verificarsi di danno, per effetto di un atto del magistrato in tesi affetto da dolo o colpa grave, non è incluso nell'elenco di detti presupposti, limitandosi l'art. 2 a richiamare la sussistenza del danno come elemento costitutivo dell'insorgenza del credito risarcitorio, e, quindi, attiene al fondamento nel merito della domanda. L'art. 4, comma 2, l. n. 117 del 1988 prevede che "l'azione di risarcimento del danno contro lo Stato può essere esercitata soltanto quando siano stati esperiti i mezzi ordinari di impugnazione o gli altri rimedi previsti avverso i provvedimenti cautelari o sommari, e comunque quando non siano più possibili la modifica o la revoca del provvedimento ovvero, se tali rimedi non sono previsti, quando sia esaurito il grado del procedimento nell'ambito del quale si è verificato il fatto che ha cagionato il danno. La domanda deve essere proposta a pena di decadenza entro due anni (ora tre anni per effetto dell'art. 3, comma 1, lettera a), l. n. 18 del 2015, n.d.e.) che decorrono dal momento in cui l'azione è esperibile". L'interpretazione di legittimità, cui la pronuncia in commento si conforma, della norma è nel senso che, quando l'azione risarcitoria sia fondata sull'adozione di un provvedimento per il quale sia previsto uno specifico rimedio, il termine biennale di decadenza decorre dal momento in cui siano stati esperiti i mezzi ordinari di impugnazione o gli altri rimedi previsti e, comunque, non siano più possibili la modifica o la revoca del provvedimento, e non dall'esaurimento del grado del procedimento nell'ambito del quale si è verificato il fatto che ha cagionato il danno, che costituisce presupposto dell'azione solo nei casi di provvedimenti per i quali non siano previsti rimedi (Cass. n. 18329/2002; Cass. n. 762/2001; Cass. n. 8260/1999; Cass. n. 13496/19999; Cass. n. 2186/1997). In altri termini, quando l'azione risarcitoria è fondata sull'adozione di un provvedimento, ed in particolare un provvedimento di custodia cautelare, per il quale sia previsto specifico rimedio, il termine biennale di decadenza decorre dal momento in cui siano stati esperiti i mezzi ordinari di impugnazione, o gli altri rimedi previsti, e comunque non siano più possibili la revoca o la modifica del provvedimento, e non decorre, invece, dall'esaurimento del grado del procedimento nell'ambito del quale si è verificato il danno, che costituisce il presupposto dell'azione solo nei casi di provvedimenti per i quali non siano previsti rimedi. Osservazioni La Corte di cassazione (Cass. n. 11880/2001), in linea con l'orientamento della Corte costituzionale (Corte cost. n. 468/1990), ha evidenziato come il meccanismo di "filtro", con preventivo e separato controllo sull'ammissibilità della domanda rivolta a far valere la responsabilità civile del magistrato, e anche l'esperibilità della domanda stessa solo contro lo Stato (salvo rivalsa in caso di condanna) segnano una diversità di disciplina non finalizzata a creare benefici o privilegi in favore del magistrato, ma rispondente ad una precisa scelta di politica legislativa indirizzata a tutelare la funzione giurisdizionale, con i valori d'indipendenza ed autonomia fissati dagli artt. 101 e segg. della Costituzione, e, quindi, trovano giustificazione e base logica nelle oggettive peculiarità della materia, senza autorizzare sospetti di lesione del principio d'uguaglianza. L'art. 4, comma 2, l. n. 117 del 1988, rispetto ad ipotesi in cui non siano contemplati rimedi avverso l'atto o il provvedimento che si assume pregiudizievole, aggancia il termine decadenziale non già al momento in cui si è esaurito il procedimento nel cui ambito si è "verificato il danno", bensì al procedimento nell'ambito del quale si è "verificato il fatto che ha cagionato il danno", avendo, dunque, riguardo al cd. fatto dannoso (Cass., n. 9910/2011), frutto della condotta (commissiva od omissiva) lesiva e non alle sue conseguenze pregiudizievoli (c.d. danno conseguenza, che integra il danno risarcibile civile). La ratio di tale articolo appare evidentemente ispirata da una esigenza di certezza del decorso del termine decadenziale, altrimenti vulnerata ove si lasci il termine stesso all'insorgenza delle conseguenze dannose, a volte solo eventuale e, comunque, non sempre istantanea, né immediatamente percepibile dal danneggiato. La stessa Corte di legittimità ha chiaramente evidenziato che il verificarsi del danno, per effetto di un atto del magistrato in tesi affetto da dolo o colpa grave, non è incluso tra i presupposti fissati dalla l. 13 aprile 1988, n. 117, artt. 2, 3 e 4 richiamati, tra requisiti di ammissibilità della domanda risarcitoria, dall'art. 5 della legge stessa (Cass. n. 6697/2003). E si è anche precisato (Cass. n. 13496/1999) che la congruità del termine biennale di decadenza consente di rendere effettiva detta tutela, potendo gli interessati "disporre di elementi sufficienti per valutare l'operato dei magistrati e quindi per attivare, nei termini legali, l'eventuale azione risarcitoria". Pertanto, ai fini della decorrenza del termine decadenziale per l'azione di risarcimento di cui alla L. n. 117 del 1988, art. 4, gli atti del P.M. preordinati alla emissione di un provvedimento cautelare, come quelli diretti ad evitarne la revoca o la modifica, devono ritenersi impugnabili, sia pure non autonomamente, bensì nei modi e nei termini in cui è impugnabile il provvedimento giurisdizionale cui ineriscono. Ne consegue che, in relazione ad una richiesta di misura cautelare da parte del Pubblico Ministero, i due anni per la proposizione della azione di responsabilità devono ritenersi decorrenti non dall'esaurimento del grado del procedimento nell'ambito del quale si sia verificato il danno (come prescritto per gli atti per i quali non siano previste impugnazioni) ma dal momento in cui non sia più passibile di revoca o di modifica, perché definitivamente caducata o per avere esaurito i suoi effetti l'ordinanza del Gip che dispose la misura cautelare. Infatti la richiesta del P.M. non è ex se impugnabile in quanto da sola non è idonea ad incidere sulla libertà, laddove soltanto il provvedimento del giudice che accolga tale richiesta può limitarla, dando eventualmente luogo ad un danno ingiusto (e risarcibile), cosicché le impugnazioni dirette contro l'ordinanza del giudice investono inevitabilmente anche le richieste del P.M., quando il provvedimento sia ad esse conforme, perché il P.M. ha presentato gli elementi ritenuti necessari e di quegli elementi il giudice si è valso per emettere l'ordinanza. L'impugnazione ordinaria o l'esperimento dei rimedi in materia di libertà o di cautela esprimono il rifiuto del provvedimento da parte del soggetto inciso e rendono possibile il controllo di legittimità dell'operato, che si assume affetto da dolo o colpa grave, del giudice. |