Codice di Procedura Civile art. 89 - Espressioni sconvenienti od offensive.

Mauro Di Marzio

Espressioni sconvenienti od offensive.

[I]. Negli scritti presentati e nei discorsi pronunciati davanti al giudice, le parti e i loro difensori non debbono usare espressioni sconvenienti od offensive.

[II]. Il giudice, in ogni stato dell'istruzione, può disporre con ordinanza che si cancellino le espressioni sconvenienti od offensive, e, con la sentenza che decide la causa, può inoltre assegnare alla persona offesa una somma a titolo di risarcimento del danno anche non patrimoniale [2059 c.c.; 185 2 c.p.] sofferto, quando le espressioni offensive non riguardano l'oggetto della causa [598 2 c.p.].

Inquadramento

Il divieto di usare espressioni sconvenienti od offensive mira a contenere l'esercizio del diritto di difesa nei limiti nei limiti del necessario (Cass. n. 1326/1998; Cass. n. 2593/1983), senza ledere l'integrità morale della controparte (Cass. n. 2962/1981). L'espressione impiegata negli scritti e nei discorsi costituisce violazione della disposizione in commento ove sia offensiva o sconveniente, ma, se il suo uso si giustifica in ragione dell'esercizio della difesa e non eccede rispetto ad esso (Cass. n. 2188/1992), trova applicazione la causa di non punibilità stabilita dall'art. 598 c.p. (Cass. n. 1757/2007; Cass. n. 26106/2014).

Espressioni offensive sono quelle connotate da un'attitudine dispregiative indirizzata non soltanto nei confronti della controparte o del suo difensore, ma anche del giudice (per apprezzamenti di tal carattere rivolti alla sentenza impugnata v. Cass. n. 3032/1999; Cass. n. 3326/1982; Cass. n. 5991/1979), o di terzi estranei al processo (Cass. S.U., n. 520/1991). Sconvenienti sono le espressioni che, pur non offensive, non sono appropriate al contesto del processo, così da dar luogo ad una condotta di minor gravità rispetto all'offensività (Cass. n. 14942/2000; Cass. n. 9707/2003; Cass. n. 12952/2007).

Non ricorrono i presupposti per il risarcimento del danno ex art. 89 ove le espressioni contenute negli scritti difensivi non siano dettate da un passionale e incomposto intento dispregiativo, così rivelando un intento offensivo nei confronti della controparte, ma, conservando pur sempre un rapporto, anche indiretto, con la materia controversa, senza eccedere dalle esigenze difensive, siano preordinate a dimostrare, attraverso una valutazione negativa del comportamento della controparte, la scarsa attendibilità delle sue affermazioni. Né è precluso che, nell'esercizio del diritto di difesa, il giudizio sulla condotta reciproca possa investire anche il profilo della moralità, fattore non del tutto estraneo per contestare la credibilità delle affermazioni dei contendenti (Cass. n. 17325/2015).

La valutazione del giudice del merito sul contenuto sconveniente od offensivo delle espressioni adottate e sulla loro strumentalità all'esercizio del diritto di difesa è incensurabile in Cassazione (Cass. n. 14364/2018 ; Cass. n. 14112/2011; Cass. n. 7731/2007).

E cioè, il provvedimento di cancellazione delle espressioni sconvenienti od offensive ha funzione meramente ordinatoria, avendo rilievo esclusivamente nell'ambito del rapporto endoprocessuale tra le parti, ed ha contenuto di puro merito, sicché della relativa contestazione non può farsi questione dinanzi al giudice di legittimità (Cass. n. 27935/2020; Cass. n. 27616/2020).

La cancellazione delle espressioni sconvenienti od offensive

A norma dell'art. 89, comma 2, costituisce requisito dell'accoglimento dell'istanza di cancellazione di espressioni offensive contenute negli scritti difensivi che le stesse non riguardino l'oggetto della causa (Cass. n. 8411/1999, che ha respinto l'istanza di cancellazione dell'affermazione, contenuta nel ricorso per cassazione, che l'attività dell'istituto bancario resistente sarebbe stata caratterizzata da una notoria gestione clientelare e politicizzata, dato che essa era strettamente inerente alle tesi difensive del lavoratore ricorrente, sottoposto a procedimento disciplinare con l'addebito di avere attuato una sconsiderata espansione dell'attività creditizia). Tuttavia, la cancellazione trova applicazione anche con riguardo alle espressioni attinenti all'oggetto della causa, ove configurino un abuso del diritto di difesa e di critica, nel contrasto degli opposti interessi, trasformandosi in una manifestazione passionale e personale (Cass. n. 806/1983).

Il potere del giudice di merito di riferire alle autorità che esercitano il potere disciplinare sui difensori in caso di violazione del dovere di comportarsi in giudizio con lealtà e probità, ovvero di ordinare la cancellazione di espressioni sconvenienti ed offensive utilizzate negli scritti presentati o nei discorsi pronunciati davanti al giudice, costituisce un potere valutativo discrezionale volto alla tutela di interessi diversi da quelli oggetto di contesa tra le parti, ed il suo esercizio d'ufficio, presentando carattere ordinatorio e non decisorio, si sottrae all'obbligo di motivazione e non è sindacabile in sede di legittimità (Cass. n. 14659/2015Cass. n. 3487/2009; Cass. n. 14659/2015).

L'istanza, in quanto volta all'esercizio di un potere officioso, può essere proposta in qualunque momento del giudizio (Cass. n. 9946/2001).

Il provvedimento di rigetto dell'istanza di cancellazione di espressioni sconvenienti ed offensive contenute nella sentenza impugnata ha carattere ordinatorio e non incide sul merito della causa, al quale è anzi estraneo e, pertanto, non è suscettibile d'impugnazione con ricorso per cassazione (Cass. n. 14659/2015; Cass. n. 1018/2009; Cass. n. 6660/2001). Costituisce vizio di omessa pronuncia, denunciabile anche in sede di legittimità, la mancata decisione sull'istanza di cancellazione di frasi sconvenienti od offensive e di correlativo risarcimento dei danni, il cui esame, ancorché affidato al potere discrezionale del giudice, che può provvedere al riguardo anche d'ufficio, non per questo può essere omesso (Cass. n. 17914/2022).

Il risarcimento del danno

L'uso di espressioni sconvenienti od offensive negli atti difensivi obbliga la parte al risarcimento del danno solo quando esse siano del tutto avulse dall'oggetto della lite, ma non anche quando, pur non essendo strettamente necessarie rispetto alle esigenze difensive, presentino tuttavia una qualche attinenza con l'oggetto della controversia, e costituiscano perciò uno strumento per indirizzare la decisione del giudice (Cass. n. 14552/2009; Cass. n. 1099/1977).

La condanna presuppone una apposita domanda (Andrioli, 1957, 248).

In tema di espressioni sconvenienti e offensive, delle offese contenute negli scritti difensivi risponde sempre la parte, ai sensi dell'art. 89, anche quando tali offese provengano dal difensore; sicché, destinatario della domanda di risarcimento del danno ex art. 89, comma 2, è sempre e solo la parte (legittimata passivamente), la quale, se condannata, potrà rivalersi nei confronti del difensore, cui siano addebitabili le espressioni offensive, ove ne ricorrano le condizioni (Cass. n. 23333/2008; Cass. n. 11063/2002).

A norma dell'art. 89 l'offesa all'onore ed al decoro comporta, indipendentemente dalla possibilità o meno della cancellazione delle frasi offensive contenute negli atti difensivi, l'obbligo del risarcimento del danno non solo nell'ipotesi in cui le espressioni offensive non abbiano alcuna relazione con l'esercizio della difesa, ma anche nell'ipotesi che esse si presentino come eccedenti le esigenze difensive (Cass. n. 2188/1992).

Per le espressioni offensive contenute negli atti del processo, l'art. 89 devolve al giudice del processo, cui gli atti si riferiscono, il giudizio circa l'applicazione in concreto delle sanzioni previste; tuttavia — poiché la responsabilità processuale ha natura analoga a quella aquiliana, e, quindi, l'antigiuridicità dei comportamenti non si esaurisce nell'ambito del processo — quando il procedimento, per qualsiasi motivo, non si concluda con sentenza (come nel caso di estinzione del processo) ovvero quando i danni si manifestino in uno stadio processuale in cui non sia più possibile farli valere tempestivamente davanti al giudice di merito (come nel caso in cui le frasi offensive siano contenute nella comparsa conclusionale del giudizio di primo grado) ovvero quando la domanda sia avanzata nei confronti non della parte ma del suo difensore, l'azione di danni per responsabilità processuale può essere proposta davanti al giudice competente secondo le norme ordinarie (Cass. n. 10916/2001; Cass. n. 16121/2009; Cass. n. 19907/2013).

La valutazione sull'offensività e sulla lesività dell'altrui reputazione dell'espressione usata in sede di interrogatorio formale, nonché l'apprezzamento della stessa espressione come rientrante nell'ambito dell'esercizio del diritto di difesa, costituiscono accertamenti in fatto riservati al giudice di merito ed insindacabili in sede di legittimità se sorretti da argomentata motivazione, esente da vizi logici ed errori di diritto (Cass. n. 16786/2015).

Fattispecie

E’stato giudicato sconveniente ed offensivo l’addebito all'avversario di voler «fare il furbo» (Cass. n. 7169/2004), o di non essere propriamente uno «stinco di santo» (Cass. n. 73/2003). Opinioni discordi sono state manifestate riguardo all'avverbio «subdolamente». Si è difatti «ritenuto che non può essere disposta, ai sensi dell'art. 89, la cancellazione delle parole che non risultino dettate da un passionale e incomposto intento dispregiativo, essendo ben possibile che nell'esercizio del diritto di difesa il giudizio sulla reciproca condotta possa investire anche il profilo della moralità, senza tuttavia eccedere le esigenze difensive o colpire la scarsa attendibilità delle affermazioni della controparte. Da tale principio è stata tratta la conseguenza che non possono essere qualificate offensive dell'altrui reputazione le parole (come l'avverbio «subdolamente»), che, rientrando seppure in modo piuttosto graffiante nell'esercizio del diritto di difesa, non si rivelino comunque lesive della dignità umana e professionale dell'avversario» (Cass. n. 10111/2014, che richiama Cass. n. 26195/2011). Non è dunque riconducibile all'ambito di applicazione dell’art. 89 «l'avverbio "subdolamente"» (Cass. n. 26418/2013). Al contrario, è stata sanzionata la frase «come insinua subdolamente controparte», giacché «il difensore … ha utilizzato un'espressione ingiustificata, in quanto non limitata a negare la veridicità di determinati fatti, bensì volta ad attribuire alla controparte lo scopo specifico di indicare un fatto non vero» (Cass. n. 28285/2013).

Riguardo all'impiego dell’espressione rivolta all'avversario accusato di aver dispiegato una «strategia per frodare», ha stabilito una corte di merito che la formula è sconveniente, ma non è offensiva: le due cose, cioè, non stanno sullo stesso piano (v. Cass. n. 14112/2011).

Merita rammentare il caso del verbale d’udienza in cui il giudice istruttore dava atto che l’attrice, riferendosi alla controparte, «lo accusa di aver comprato 14 avvocati». Lo scambio di accuse era del seguente tenore: «La signora — aveva osservato il difensore di una parte rivolto all'altra — ha già cambiato 15 avvocati», e la controparte aveva prontamente replicato «perché? tu te ne sei comprati 14» (Cass. n. 22186/2009, nella quale si chiarisce che la cancellazione delle frasi sconvenienti o offensive è oggetto di un potere discrezionale esercitabile anche d’ufficio, potere che, proprio perché discrezionale, non può essere sindacato con gli ordinari mezzi di impugnazione).

Vi è inoltre il caso dell’addebito ad un avvocato di essersi «presentato improvvisamente alla mia porta con persona non identificata fatta passare per l'Ufficiale Giudiziario e mi aveva estorto la somma di L. 250.000 … ha aggiunto abusivamente diritti ed onorari non spettantigli … in quanto agente per se stesso … ha effettuato un'estorsione aggravata ed una truffa legalizzata» (Cass. n. 16121/2009, che ha rigettato il ricorso per cassazione con cui era stato respinto l’appello avverso la sentenza di primo grado che aveva condannato l’autore della dichiarazione indirizzata nei confronti dell’avvocato al conseguente risarcimento del danno per oltre € 5000).

In un caso in cui il ricorrente per cassazione si doleva che i giudici d'appello avessero omesso di sanzionare d'ufficio, ai sensi degli artt. 88 e 89, le espressioni, giudicate offensive, formulate dalla controparte negli atti d'appello e di primo grado, nei quali egli era stato definito «ingordo, insaziabile, insensibile», la S.C. ha ribadito che l’applicazione della norma costituisce oggetto di un potere discrezionale come tale non sindacabile in sede di legittimità. Il suono della musica è lo stesso per l’addebito di «produzione del falso infamante» (Cass. n. 12952/2007).

Vi è ancora il caso del legale che dichiara che: «dopo un simile precedente consideriamo i nostri contraddittori oramai squalificati», ritenuta espressione di disistima e di dispregio nei confronti del difensore della controparte (Cass. n. 4488/1981).

Né si può chiedere al giudice di «dare una lezione a questo difensore, che agiva in proprio, così facendogli passare la voglia di proporre appello» (Cass. n. 9707/2003).

Al contrario non sono sconvenienti o offensive, le espressioni, contenute in un atto di parte: «quattro mezzi di ricorso malamente coordinati e in gran parte oscuri ... alterando documentate circostanze processuali ... inventando una supposta decadenza» (Cass. n. 585/1979).

Un viatico all'uso massiccio del verbo «contrabbandare», riferito alla tesi giuridiche sostenute, si rinviene in una decisione secondo cui tale espressione si inscrive «nella normale dialettica difensiva, come è agevolmente dimostrato dal fatto che, nella lingua italiana, al verbo contrabbandare … si attribuisce il significato fig. di "far passare qualcosa per ciò che non è", il che riferito, come nella specie, ad una tesi della controparte serve semplicemente a rafforzare l'assunto della scarsa attendibilità di tale tesi, senza assumere alcuna valenza offensiva e tanto meno sconveniente» (Cass. n. 21031/2016).

Si offende legittimamente l’avvocato al quale viene detto di perseguire «senza scrupoli i suoi obiettivi» (Cass. n. 14659/2015).

Il risvolto deontologico

Difficilmente un avvocato offeso da un altro avvocato se ne starà con le mani in mano, senza reagire anche sul piano disciplinare (v. art. 52 del codice deontologico, già art. 20 codice previgente). E la giurisprudenza del CNF è tutt'altro che tenera. Così, si premette che, in tema di frasi sconvenienti o offensive, è ininfluente il fatto che il giudice civile abbia omesso di provvedere in ordine alla richiesta di cancellazione delle espressioni offensive, giacché il giudice della disciplina ha completa libertà di effettuare pieno riesame delle espressioni utilizzate sotto il profilo deontologico, indipendentemente dalla valutazione che possa fare il giudice del merito in ambito di responsabilità civile o penale circa il carattere offensivo o meno delle frasi stesse (CNF n. 13672017). Si precisa che il divieto di espressioni offensive o sconvenienti riguarda anche l'avvocato che agisca in proprio ex art. 86 c.p.c., a nulla rilevando in sede deontologica che il professionista agisca in qualità di parte o di difensore (Cass. S.U., n. 4994/2018).

Le espressioni sconvenienti od offensive, inoltre, non sono scriminate dalla provocazione altrui. L'avvocato ha il dovere di comportarsi, in ogni situazione, con la dignità e con il decoro imposti dalla funzione che l'avvocatura svolge nella giurisdizione e deve in ogni caso astenersi dal pronunciare espressioni sconvenienti od offensive (la cui rilevanza deontologica non è peraltro esclusa dalla provocazione altrui, né dallo stato d'ira o d'agitazione che da questa dovesse derivare, che al più, rileva ai soli fini della determinazione della sanzione (CNF n. 207/2017).

Nell'ambito della propria attività difensiva, l'avvocato deve e può esporre le ragioni del proprio assistito con ogni rigore utilizzando tutti gli strumenti processuali di cui dispone e ciò massimamente nella fase dell'impugnazione, atto diretto a criticare anche severamente una precedente decisione giudiziale e ciò rappresentando con la maggiore efficacia possibile la carenza di motivazione del provvedimento impugnato. Il diritto di critica, tuttavia, non deve mai travalicare in una censurabile deplorazione dell'operato del difensore, delle controparti e del giudicante, incontrando il limite del divieto di utilizzare espressioni sconvenienti ed offensive che violino i principi posti a tutela del rispetto della dignità della persona e del decoro del procedimento, e soprattutto del rispetto della funzione giudicante riconosciuta dall'ordinamento con norme di rango costituzionale nell'interesse pubblico, con pari dignità rispetto alla funzione della difesa (CNF n. 176/2017).

Benché l'avvocato possa e debba utilizzare fermezza e toni accesi nel sostenere la difesa della parte assistita o nel criticare e contrastare le decisioni impugnate, tale potere/dovere trova un limite nei doveri di probità e lealtà, i quali non gli consentono di trascendere in comportamenti non improntati a correttezza e prudenza, se non anche offensivi, che ledono la dignità della professione, giacché la libertà che viene riconosciuta alla difesa della parte non può mai tradursi in una licenza ad utilizzare forme espressive sconvenienti e offensive nella dialettica processuale, con le altre parti e il giudice, ma deve invece rispettare i vincoli imposti dai doveri di correttezza e decoro (CNF n. 136/2017).

È ancora importante rammentare, infine, che nel conflitto tra diritto a svolgere la difesa giudiziale nel modo più largo e insindacabile e il diritto della controparte al decoro e all'onore prevale il primo, salvo l'ipotesi in cui le espressioni offensive siano gratuite, ossia non abbiano relazione con l'esercizio del diritto di difesa e siano oggettivamente ingiuriose; pertanto non commette illecito disciplinare l'avvocato che, in un atto del giudizio, usi espressioni forti per effettuare valutazioni generali attinenti alla materia del contendere e a scopo difensivo (CNF n. 120/2017).

Bibliografia

Calamandrei, Il processo come giuoco, in Riv. dir. proc. 1950, I, 23; Cavallone, In difesa della veriphobia (considerazioni amichevolmente polemiche su un libro recente di Michele Taruffo), in Riv. dir. proc. 2010, 1; Chiarloni, Giusto processo, garanzie processuali, giustizia della decisione, in Riv. trim. dir. e proc. civ. 2008, 129; Redenti, Diritto processuale civile, I, Milano, 1953; Scarselli, Le spese giudiziali civili, Milano, 1998; Taruffo, La semplice verità. Il giudice e la costruzione dei fatti, Roma-Bari, 2009; Taruffo, Contro la veriphobia. Osservazioni sparse in risposta a Bruno Cavallone, in Riv. dir. proc. 2010, 995.

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