Codice di Procedura Civile art. 420 - Udienza di discussione della causa 1 .

Mauro Di Marzio

Udienza di discussione della causa1.

[I]. Nell'udienza fissata per la discussione della causa il giudice interroga liberamente le parti presenti, tenta la conciliazione della lite e formula alle parti una proposta transattiva o conciliativa. La mancata comparizione personale delle parti, o il rifiuto della proposta transattiva o conciliativa del giudice, senza giustificato motivo, costituiscono comportamento valutabile dal giudice ai fini del giudizio [116, 117]. Le parti possono, se ricorrono gravi motivi, modificare le domande, eccezioni e conclusioni già formulate, previa autorizzazione del giudice 2 3 4.

[II]. Le parti hanno facoltà di farsi rappresentare da un procuratore generale o speciale, il quale deve essere a conoscenza dei fatti della causa. La procura deve essere conferita con atto pubblico [2699 c.c.] o scrittura privata autenticata [2702 ss. c.c.] e deve attribuire al procuratore il potere di conciliare [183 3, 185] o transigere [1965 ss. c.c.] la controversia [84 2]. La mancata conoscenza, senza gravi ragioni, dei fatti della causa da parte del procuratore è valutata dal giudice ai fini della decisione [116 2].

[III]. Il verbale di conciliazione ha efficacia di titolo esecutivo [474 2 n. 1].

[IV]. Se la conciliazione non riesce e il giudice ritiene la causa matura per la decisione, o se sorgono questioni attinenti alla giurisdizione [37] o alla competenza5 [409, 413] o ad altre pregiudiziali la cui decisione può definire il giudizio [187 2, 420-bis], il giudice invita le parti alla discussione e pronuncia sentenza anche non definitiva [279 2 n. 4] dando lettura del dispositivo.

[V]. Nella stessa udienza ammette i mezzi di prova già proposti dalle parti e quelli che le parti non abbiano potuto proporre prima, se ritiene che siano rilevanti, disponendo, con ordinanza resa nell'udienza, per la loro immediata assunzione 6.

[VI]. Qualora ciò non sia possibile, fissa altra udienza, non oltre dieci giorni dalla prima, concedendo alle parti, ove ricorrano giusti motivi, un termine perentorio [153] non superiore a cinque giorni prima dell'udienza di rinvio per il deposito [in cancelleria] di note difensive7.

[VII]. Nel caso in cui vengano ammessi nuovi mezzi di prova, a norma del quinto comma, la controparte può dedurre i mezzi di prova che si rendano necessari in relazione a quelli ammessi, con assegnazione di un termine perentorio [153] di cinque giorni. Nell'udienza fissata a norma del precedente comma il giudice ammette, se rilevanti, i nuovi mezzi di prova dedotti dalla controparte e provvede alla loro assunzione.

[VIII]. L'assunzione delle prove deve essere esaurita nella stessa udienza o, in caso di necessità, in udienza da tenersi nei giorni feriali immediatamente successivi.

[IX]. Nel caso di chiamata in causa a norma degli articoli 102, secondo comma, 106 e 107, il giudice fissa una nuova udienza e dispone che, entro cinque giorni, siano notificati al terzo il provvedimento nonché il ricorso introduttivo e l'atto di costituzione del convenuto, osservati i termini di cui ai commi terzo, quinto e sesto, dell'articolo 415. Il termine massimo entro il quale deve tenersi la nuova udienza decorre dalla pronuncia del provvedimento di fissazione.

[X]. Il terzo chiamato deve costituirsi non meno di dieci giorni prima dell'udienza fissata, depositando la propria memoria a norma dell'articolo 416.

[XI]. A tutte le notificazioni e comunicazioni [136, 137 ss.] occorrenti provvede l'ufficio.

[XII]. Le udienze di mero rinvio sono vietate [151 att.].

 

[1] Articolo sostituito dall'art.1, comma 1, l. 11 agosto 1973, n. 533.

[2] Comma così modificato dall'art. 31 l. 4 novembre 2010 n. 183. Il testo recitava: «Nell'udienza fissata per la discussione della causa il giudice interroga liberamente le parti presenti e tenta la conciliazione della lite. La mancata comparizione personale delle parti, senza giustificato motivo, costituisce comportamento valutabile dal giudice ai fini della decisione. Le parti possono, se ricorrono gravi motivi, modificare le domande, eccezioni e conclusioni già formulate, previa autorizzazione del giudice».

[3] L' articolo 77, comma 1, lettera b), del d.l. 21 giugno 2013, n. 69, conv., con modif., in l. 9 agosto 2013, n. 98, ha aggiunto, sia nel primo sia nel secondo periodo, dopo la parola: «transattiva», le parole: «o conciliativa».

[4] La Corte cost., con sentenza 14 gennaio 1977, n. 13, ha dichiarato non fondate, nei sensi di cui in motivazione, le questioni di legittimità costituzionale del presente comma, sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost.

[5] V. ora l'art. 279, comma 1, per il quale le decisioni relative alle sole questioni di competenza sono assunte con ordinanza e non con sentenza.

[6] La Corte cost., con sentenza 14 gennaio 1977, n. 13, ha dichiarato non fondate, nei sensi di cui in motivazione, le questioni di legittimità costituzionale del presente comma, sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost.

[7] Comma così modificato dall'art. 3, comma 5, lett. e) , d.lgs. 31 ottobre 2024, n. 164,  che ha soppresso  le parole  tra le parentesi quadre . Ai sensi dell’art. 7, comma 1, del medesimo decreto, le disposizioni di cui al d.lgs. n. 164/2024 cit. si applicano ai procedimenti introdotti successivamente al 28 febbraio 2023.

Inquadramento

Alla norma il Correttivo alla c.d. Riforma Cartabia ha apportato modifiche dirette ad armonizzala con le regole del processo telematico. Tutte le attività svolte nella fase introduttiva vanno infine a confluire nell'udienza di discussione, la quale costituisce il momento fondamentale del processo del lavoro. L'idea di fondo che sorregge quest'ultimo è quella dell'unicità della menzionata udienza, la quale dovrebbe condurre, dalle iniziali verifiche concernenti la rituale instaurazione del contraddittorio nonché dall'interrogatorio libero delle parti e dal tentativo di conciliazione (fase preparatoria), attraverso l'ammissione ed assunzione dei mezzi istruttori (fase istruttoria) alla discussione e decisione della causa con la pronuncia della sentenza, mediante lettura del dispositivo e, se del caso, della sentenza (fase decisoria).

In questa prospettiva possono riassumersi, in sintesi, le diverse attività che, nelle menzionate fasi, dovrebbero — e talora effettivamente possono — coniugarsi, elencate secondo un ordine non necessariamente cronologico, nell'arco dell'unica udienza di discussione:

i) verifica della regolare instaurazione del contraddittorio attraverso lo scrutinio della regolarità della notificazione del ricorso introduttivo e dell'eventuale domanda riconvenzionale; ordine di rinnovazione della notificazione nulla ex art. 291, sempre che l'udienza non sia andata deserta;

ii) verifica della regolarità del ricorso e, in caso di nullità della vocatio in ius ovvero della editio actionis, pronuncia dei provvedimenti di rinnovazione dell'atto, integrazione del medesimo o fissazione di una nuova udienza di cui all'art. 164;

iii) verifica della regolare costituzione delle parti, con invito — reiterabile in qualsiasi momento — alle medesime, ove necessario, a completare e regolarizzare gli atti e documenti difettosi (art. 421, comma 1); assegnazione alle parti del termine per la costituzione della persona cui spetta la rappresentanza con l'assistenza, ovvero per il rilascio delle necessarie autorizzazioni, salve le decadenze verificatesi, in caso di rilevazione di un difetto di rappresentanza, di assistenza o di autorizzazione (art. 182);

iv) verifica della regolare instaurazione del contraddittorio con riguardo alla disciplina dettata dagli artt. 102 e 107 (integrazione necessaria del contraddittorio e chiamata in causa iussu iudicis); fissazione, eventualmente, di una nuova udienza per gli adempimenti indicati dall'art. 420, comma 9 (notifica al terzo, entro cinque giorni, del provvedimento del giudice nonché del ricorso introduttivo e dell'atto di costituzione del convenuto, osservati i termini a comparire di cui all'art. 415, commi 3, 5 e 6);

v) ammissione, ai sensi dello stesso art. 420, comma 9, della chiamata del terzo formulata dal convenuto a pena di decadenza nella memoria difensiva ovvero dall'attore alla (prima in ordine cronologico) udienza di discussione; la disposizione del comma 9 dell'art. 420 non implica un automatico obbligo di adozione dei provvedimenti conseguenti all'istanza di chiamata in causa, in quanto il giudice conserva, secondo i principi generali, il potere di valutare la comunanza della causa e le ragioni d'intervento del terzo, sicché è configurabile un vizio del processo, tale da comportare il rinvio della causa al giudice di primo grado a norma dell'art. 383 solo in caso di omesso esame dell'istanza stessa ovvero di omesso rilievo del difetto del contraddittorio in costanza di litisconsorzio necessario (Cass. n. 2522/2016);

vi) interrogatorio libero e tentativo di conciliazione (art. 420, comma 1);

vii) autorizzazioni all'attività di emendatio consentita dall'art. 420, comma 1, in concorso di « gravi motivi »;

viii) invito alle parti a discutere la causa, se matura per la decisione ovvero se sorgono questioni attinenti alla giurisdizione o alla competenza o ad altre pregiudiziali la cui decisione può definire il giudizio, con conseguente pronuncia della sentenza mediante lettura del dispositivo (art. 420, comma 4);

ix) ammissione dei mezzi di prova già proposti dalle parti e di quelli nuovi che le stesse non abbiano potuto proporre prima, con immediata successiva assunzione (art. 420, comma 5); assegnazione di un termine per la deduzione dei mezzi di prova necessitati dai nuovi mezzi di prova da ultimo menzionati (art. 420, comma 7); esercizio dei poteri istruttori officiosi del giudice (art. 421);

x) pronuncia delle ordinanze anticipatorie consentite eventualmente richieste;

xi) discussione orale e pronuncia della sentenza (art. 429, comma 1).

Ecco, di seguito, i necessari approfondimenti.

Interrogatorio libero delle parti e tentativo di conciliazione

La materia dell'interrogatorio libero delle parti e del tentativo di conciliazione è disciplinata nei primi tre commi dell'art. 420.

In proposito occorre sottolineare che, secondo il fermo indirizzo della S.C., l'omissione dell'interrogatorio libero non determina alcuna nullità processuale (Cass. n. 1171/1978; Cass. n. 9430/1995; Cass. n. 5710/1998; Cass. n. 9908/2003). Ed anzi, è stato ritenuto che il giudice sia titolare di un vero e proprio potere discrezionale di valutare prognosticamente l'utilità dell'esperimento del tentativo di conciliazione, omettendolo se del caso (Cass. n. 6815/2003; Cass. n. 12500/2003).

Parimenti ininfluente, sul piano istruttorio, può risultare la mancata conoscenza dei fatti di causa, in sede di interrogatorio libero delle parti, da parte del rappresentante legale di una società convenuta, qualora si tratti di fatti risalenti all'epoca antecedente alla sua nomina (Cass. n. 12259/2003).

Nel rito del lavoro, poi, il principio per cui il thema decidendum della lite va individuato sulla base degli atti introduttivi non esclude che rispetto alle difese ivi indicate le parti possano in sede di interrogatorio libero prospettarne altre e diverse, con conseguente legittimità di una attività istruttoria disposta dal giudice per effetto degli elementi nuovi emersi dall'interrogatorio stesso (Cass. n. 9612/1997).

Ciò detto, occorre sottolineare che le risultanze del libero interrogatorio delle parti non hanno rilievo di mezzo di prova, dal momento che l'interrogatorio non formale, reso a norma dell'art. 420, comma 1, non è preordinato a provocare la confessione della parte, ma diretto a chiarire i termini della controversia, con l'ulteriore conseguenza che le dichiarazioni in esso contenute devono considerarsi meri elementi chiarificatori e sussidiari di convincimento. Rientra perciò nel potere discrezionale del giudice di merito la scelta relativa alla concreta utilizzazione di tale strumento processuale, non suscettibile di sindacato in sede di legittimità, e che la mancata considerazione delle sue risultanze, da parte del giudice, non integra il vizio di omesso esame di un punto decisivo della controversia (Cass. n. 12500/2003).

Tuttavia, proprio perché soggette alla regola del libero apprezzamento da parte del giudice, tra le risultanze possono invece avere notevolissimo rilievo a fini istruttori, in vista della formazione del convincimento posto a base della decisione (Cass. n. 7350/2003; Cass. n. 4685/2002).

Anche il mancato esperimento del tentativo di conciliazione, quantunque obbligatorio, è stato ritenuto irrilevante, al pari dell'interrogatorio libero, ai fini della validità del processo. Ed allo stesso modo è stato ritenuto che il giudice disponga in proposito di un potere discrezionale di valutazione dell'opportunità di procedervi (Cass. n. 8310/2002; Cass. n. 16141/2004).

Dopo la novella del 2010 — nella scia del d.lgs. n. 28/2010 — il nuovo comma 1 dell'art. 420 prevede che il giudice, al fine di promuovere la conciliazione della causa, debba egli stesso formulare alle parti una proposta transattiva.

Ove si realizzi, la conciliazione giudiziale prevista dagli artt. 185 e 420 c.p.c. è una convenzione non assimilabile ad un negozio di diritto privato puro e semplice, caratterizzandosi, strutturalmente, per il necessario intervento del giudice e per le formalità di cui all'art. 88 disp. att. c.p.c. e, funzionalmente, per l'effetto processuale di chiusura del giudizio nel quale interviene e per gli effetti sostanziali derivanti dal negozio giuridico contestualmente stipulato dalle parti; essa è pertanto valida anche se ha ad oggetto diritti indisponibili, poichè l'art. 2113, ultimo comma, c.c. fa salve le conciliazioni intervenute ai sensi degli artt. 185, 410 e 411 c.p.c., in cui l'intervento in funzione di garanzia del terzo (autorità giudiziaria, amministrativa o sindacale), diretto a superare la presunzione di condizionamento della libertà di espressione del consenso del lavoratore, viene a proteggere adeguatamente la sua posizione (Cass. n. 8898/2024).

Con riguardo alla fase d'appello, infine, occorre dire che la preclusione di cui all'art. 437, comma 2, non opera anche nei confronti dell'interrogatorio libero delle parti che, quindi, ben può essere disposto anche dal giudice di secondo grado ove lo ritenga, sia pure implicitamente, indispensabile onde ricavarne elementi sussidiari del proprio convincimento, da valutare secondo il proprio prudente apprezzamento (Cass. n. 519/2001).

La modificazione delle domande, eccezioni e conclusioni

A differenza di quanto accade nel rito ordinario, nel quale è ammessa, in corso del giudizio, una attività sia pure circoscritta di mutatio libelli — giacché l'attore può proporre le domande e le eccezioni che sono conseguenza della domanda riconvenzionale o delle eccezioni proposte dal convenuto, ai sensi dell'art. 183, comma 5, mentre il convenuto può successivamente proporre le eccezioni che sono conseguenza delle domande nuove dell'attore, ai sensi dell'art. 183, comma 6, n. 2, —, il rito del lavoro, all'udienza di discussione, stando alla lettera dell'art. 420, consente la sola attività, per di più condizionata alla sussistenza di gravi motivi, di emendatio libelli: le parti, infatti, possono soltanto «se ricorrono gravi motivi, modificare le domande, eccezioni e conclusioni già formulate, previa autorizzazione del giudice» (art. 420, comma 1).

Nel rito del lavoro, cioè, ricorrendo gravi motivi e previa autorizzazione del giudice, le parti possono modificare, ex art. 420, domande, eccezioni e conclusioni già formulate, ma non anche proporre domande nuove per causa petendi o petitum, neppure con il consenso della controparte (esplicito, mediante l'espressa accettazione del contraddittorio, ovvero implicito nella difesa nel merito); la valutazione circa la sussistenza dei gravi motivi comporta un accertamento di fatto, riservato al giudice di merito, il cui esito può risultare dall'istruttoria ed essere manifestato per implicito (Cass. n. 6728/2019, che ha ritenuto incensurabile l'implicita valutazione circa l'insussistenza dei gravi motivi in una fattispecie nella quale la ricorrente, che nel costituirsi in appello aveva depositato essa stessa il contratto di locazione ricevuto del legale della controparte, aveva chiesto di essere autorizzata a modificare la domanda in ragione del contegno omissivo dei conduttori, i quali da un lato si erano rifiutati di inviarle il suddetto contratto, se non all'atto della costituzione in primo grado, e dall'altro avevano comunicato di averlo registrato soltanto in occasione di un'udienza, di oltre un anno posteriore all'espletamento della formalità).

Ad esempio, in tema di domanda di risarcimento danni derivanti da attività di dequalificazione e mobbing del datore di lavoro (nella specie, il Ministero per i beni ambientali e culturali), deve ritenersi domanda nuova — e come tale preclusa in appello — quella volta ad accertare comportamenti posti in essere dal datore di lavoro dopo il deposito del ricorso introduttivo del giudizio in primo grado, in quanto la domanda giudiziale si basa su uno specifico accadimento, produttivo di danni, determinato nel tempo e nello spazio. Ne consegue che, in relazione ai fatti verificatisi dopo il deposito del ricorso in primo grado, non può essere ammessa alcuna attività istruttoria poiché il disposto dell'art. 420, comma 5, si riferisce ai mezzi di prova relativi a fatti comunque anteriori al deposito del ricorso (Cass. n. 23949/2013).

Si è visto, però, nel commento all'art. 418, che la simmetricità della posizione dell'attore nei confronti del convenuto che abbia proposto domanda riconvenzionale fa sì che anche l'attore, convenuto in riconvenzione, abbia gli stessi poteri del convenuto e, dunque, possa contrapporre ad essa le pertinenti eccezioni e l'eventuale reconventio reconventionis. Ma, come si è già detto, tale attività di mutatio può trovare ingresso soltanto in una fase antecedente all'udienza di discussione, ossia nel termine di dieci giorni prima della nuova udienza di discussione, mediante deposito di un atto di contenuto analogo alla memoria difensiva (Cass. n. 2672/1981).

Nel rito del lavoro, la disciplina della fase introduttiva del giudizio — e a maggior ragione quella del giudizio d'appello — risponde ad esigenze di ordine pubblico attinenti al funzionamento stesso del processo, in aderenza ai principi di immediatezza, oralità e concentrazione che lo informano, con la conseguenza che, ai sensi dell'art. 437, non sono ammesse domande nuove, né modificazioni della domanda già proposta, sia con riguardo al petitum che alla causa petendi, neppure nell'ipotesi di accettazione del contraddittorio ad opera della controparte, e non è, pertanto, consentito addurre in grado di appello, a sostegno della propria pretesa, fatti diversi da quelli allegati in primo grado, anche quando il bene richiesto rimanga immutato, essendo nella fase di appello precluse le modifiche (salvo quelle meramente quantitative) che comportino anche solo una emendatio libelli, permessa solo all'udienza di discussione di primo grado, previa autorizzazione del giudice e della ricorrenza dei gravi motivi previsti dalla legge (Cass. n. 17176/2014).

E, dunque, all'udienza di discussione resta consentita esclusivamente, come stabilisce la norma, un'attività di emendatio — giustificata dall'esigenza di provvedere in modo definitivo alla rideterminazione del thema decidendum sulla scorta di quanto può emergere dalle risultanze del libero interrogatorio e, più in generale, in sede di replica alle difese compiute reciprocamente dalle parti ovvero ai rilievi sollevati dal giudice d'ufficio —, non mai un'attività di mutatio. Sorge, di qui, la questione della distinzione tra le figure della mutatio ed emendatio, sulla quale, come si sa, esistono vasti apporti della dottrina ed assai numerose pronunce di giurisprudenza. Sarà però sufficiente, in questa sede, limitarsi a rammentare che per la S.C., mentre è consentita, sia pure previa autorizzazione del giudice e per gravi motivi, la modificazione della domanda, non è invece consentita la proposizione di una domanda nuova e diversa da quella fatta valere davanti al giudice di primo grado, domanda nuova che ricorre in ipotesi di immutazione dei suoi elementi costitutivi (Cass. n. 7594/2003).

In breve, si ha semplice emendatio quando ricorra soltanto a « una attività di precisazione che non incide sull'oggetto o sui fatti costitutivi (per l'attore) o estintivi, modificativi ed impeditivi (per il convenuto) » (Trisorio Liuzzi, 127). Per aversi emendatio, in definitiva, occorre che non vengano immutati, oltre alle personae, né il petitum né la causa petendi.

In tale prospettiva è stato anche di recente ribadito che nel rito introdotto con la l. n. 92/2012 (c.d. rito Fornero), come nel rito generale del lavoro, mentre è consentita, previa autorizzazione del giudice, la modificazione della domanda (emendatio libelli), non è ammissibile la proposizione di domanda nuova per mutamento della causa petendi, ossia introduttiva di un tema d'indagine di fatto completamente diverso (nella specie, la deduzione di un motivo ritorsivo alla base del licenziamento), effettuata soltanto in sede di opposizione all'ordinanza di cui all'art. 1, comma 49, della l. n. 92/2012 (Cass. n. 19142/2015). 

Peraltro, sempre nel rito cd. Fornero, la fase di opposizione, a seguito della fase sommaria, non è una revisio prioris istantiae, ma una prosecuzione del giudizio di primo grado, ricondotto in linea di massima al modello ordinario; pertanto, non costituisce domanda nuova, inammissibile per mutamento della causa petendi, la deduzione in fase di opposizione di una modulazione del rapporto subordinato diversa da quella prospettata nella fase sommaria (Cass. n. 5993/2019, che ha affermato che la Corte d' appello, adita in sede di reclamo, erroneamente aveva ritenuto tardive ed inammissibili le domande proposte dal lavoratore solo in fase di opposizione inerenti lo svolgimento - nel medesimo arco temporale - oltre che delle mansioni di colf, come già prospettato in fase sommaria, anche di assistente di scena).  

Nel rito del lavoro, previa autorizzazione del giudice ex art. 420, comma 1, è possibile la modifica della domanda che dipenda dalle allegazioni in fatto contenute nella memoria di costituzione avversaria (e, pertanto, dei fatti di cui la controparte in tal modo dimostri di avere già conoscenza), non attuandosi in questo caso alcuna pregiudizievole estensione del thema probandum e rimanendo pienamente integra la parità delle parti nel processo (Cass. n. 6597/2018, che ha cassato la sentenza di appello che aveva ritenuto inammissibile mutatio libelli il nuovo motivo di impugnazione del licenziamento per violazione della l. n. 223/1991, svolto dal ricorrente alla luce delle allegazioni contenute nella memoria difensiva del datore di lavoro, in risposta all'originaria domanda di accertamento dell'illegittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo).

Né le strette maglie previste dalla norma possono allargarsi in dipendenza del consenso delle parti, le quali, acconsentendo alla mutatio, abbiano dato luogo all'accettazione del contraddittorio su domande nuove, connotate da un diverso petitum o causa petendi, giacché la rigida disciplina della fase introduttiva del giudizio risponde ad esigenze di ordine pubblico attinenti al funzionamento del processo, in aderenza ai principi di immediatezza, oralità e concentrazione che lo informano Cass. n. 13727/2000; Cass. n. 10619/1997; Cass. n. 4555/1995; Cass. n. 1506/1995).

L'autorizzazione all'emendatio, condizionata alla sussistenza di gravi motivi, appartiene al potere discrezionale del giudice del merito e, secondo il costante insegnamento della S.C., può essere data, ovvero negata, anche in forma implicita (Cass. n. 4702/2016; Cass. n. 12539/2000; Cass. n. 22906/1996; Cass. S.U., n. 6423/1981).

L'integrazione necessaria del contraddittorio e la chiamata in causa iussu iudicis

Del comma 9 dell'art. 420 si è già discorso con riguardo alla chiamata in causa del terzo ad istanza di parte, nel commento all'art. 416. Resta dunque soltanto da dire, in proposito, dell'integrazione necessaria del contraddittorio e della chiamata in causa iussu iudicis.

In entrambi i casi, secondo quanto stabilisce la norma, il giudice deve fissare una nuova udienza di discussione e disporre che, entro cinque giorni, siano notificati al terzo il provvedimento con cui l'integrazione del contraddittorio ovvero la chiamata in causa iussu iudicis sono state disposte nonché il ricorso introduttivo e l'atto di costituzione del convenuto, osservati i termini di cui ai commi 3, 5 e 6 dell'art. 415. Il termine massimo entro il quale deve tenersi la nuova udienza decorre dalla pronuncia del provvedimento di fissazione.

Quanto all'integrazione necessaria del contraddittorio, pare indubitabile che essa non solo possa, ma debba essere disposta in qualsiasi momento giacché, in mancanza di essa, la sentenza finirebbe per essere inutiliter data.

Anche la chiamata in causa iussu iudicis — nonostante il dissenso di parte della dottrina, per la quale vale richiamare Tarzia, 1999, 133, secondo cui il potere del giudice di ordinare l'intervento si consumerebbe con l'ordinanza di ammissione delle prove — può essere disposta secondo la giurisprudenza della S.C. — e la prevalente dottrina, tra cui Trisorio Liuzzi, 2005, 125 — durante l'intero arco del giudizio di primo grado, secondo la regola generale stabilita dall'art. 270, comma 1 (Cass. n. 5670/1984).

Dal punto di vista dell'ampiezza del potere del giudice di ordinare in intervento, merita sottolineare che esso — sulla base di una valutazione che costituisce espressione di un potere discrezionale riservato al giudice del primo grado, il cui esercizio non è suscettibile di sindacato nelle fasi successive, né, in particolare, in sede di legittimità — può esplicarsi anche nel caso in cui, di fronte a difese del convenuto dirette a far accertare la propria estraneità al rapporto controverso, il giudice ritenga di dover indurre o autorizzare chi agisce ad estendere la propria domanda nei confronti del terzo indicato come titolare del rapporto medesimo (Cass. n. 5082/1995). Anche di recente è stato ribadito che, fuori dalla ipotesi di litisconsorzio necessario ex art. 102, il provvedimento del giudice di merito che concede o nega l'autorizzazione a chiamare in causa un terzo ai sensi dell'art. 106, coinvolge valutazioni assolutamente discrezionali che, come tali, non possono formare oggetto di appello e di ricorso per cassazione (Cass. n. 25676/2014).

Come si è già avuto modo di evidenziare discorrendo della chiamata in causa del terzo istanza di parte, gli adempimenti derivanti dall'applicazione dell'art. 420, comma 9, gravano sulla cancelleria, di guisa che la mancata chiamata del terzo non comporta l'applicazione delle conseguenze sanzionatorie previste dagli artt. 102, comma 2, e 270, comma 2, in relazione all'art. 307 (Cass. n. 7338/1986). Pertanto la conseguenza della mancata tempestiva notifica al terzo del provvedimento del giudice e degli atti di causa ad opera sia dell'ufficio che della parte interessata comporta soltanto l'obbligo per il giudice di fissare un nuovo termine per il compimento degli atti omessi.

Questioni di giurisdizione, competenza o altre pregiudiziali. Causa matura per la decisione

A chiusura della fase preparatoria, dopo il fallimento del tentativo di conciliazione, può accadere che sorgano questioni attinenti alla giurisdizione o alla competenza — con conseguente applicabilità dell'art. 38, comma 3, secondo cui le questioni di competenza sono decise sono decise allo stato degli atti ovvero, nei casi previsti, assunte sommarie informazioni — o ad altre pregiudiziali la cui decisione può definire il giudizio, ovvero che il giudice ritenga la causa matura per la decisione senza l'assunzione di mezzi di prova, nel qual caso egli invita le parti alla discussione e pronuncia sentenza anche non definitiva dando lettura del dispositivo (art. 420, comma 4).

In questa fase la pronuncia della sentenza può essere altresì richiesta dall'esigenza di definire una questione preliminare di merito (Cass. n. 17780/2003; Cass. n. 9265/2003).

La previsione dell'art. 420, comma 4, secondo cui il giudice, dinanzi ad una questione di giurisdizione, competenza o altra pregiudiziale « invita le parti alla discussione e pronuncia sentenza anche non definitiva », non sta a significare che egli deve in ogni caso decidere in tal senso, ma che può farlo, nell'esercizio di un potere discrezionale, così come può ritenere preferibile pronunciarsi su dette questioni unitamente al merito (Cass. n. 2795/1983; Cass. n. 9389/1993).

Ammissione ed assunzione dei mezzi istruttori

L'altra strada che il processo può prendere, dopo il fallimento del tentativo di conciliazione, qualora non sussistono i presupposti per una decisione immediata, è quella dello svolgimento dell'istruzione probatoria. A tal riguardo sono dettati quattro commi dell'art. 420, i quali dispongono che il giudice:

i) ammette i mezzi di prova già proposti dalle parti e quelli che le parti non abbiano potuto proporre prima, se ritiene che siano rilevanti;

ii) quando non sia possibile l'assunzione immediata, fissa altra udienza concedendo alle parti, ove ricorrano giusti motivi, un termine perentorio non superiore a cinque giorni prima dell'udienza di rinvio per il deposito in cancelleria di note difensive;

iii) nel caso in cui vengano ammessi nuovi mezzi di prova la controparte può dedurre i mezzi di prova che si rendano necessari in relazione a quelli ammessi, con assegnazione di un termine perentorio di cinque giorni; nell'udienza fissata a norma del precedente comma il giudice ammette, se rilevanti, i nuovi mezzi di prova dedotti dalla controparte e provvede alla loro assunzione;

iv) l'assunzione delle prove deve essere esaurita nella stessa udienza o, in caso di necessità, in udienza da tenersi nei giorni feriali immediatamente successivi.

Con riguardo ai mezzi istruttori, in generale, occorre anzitutto dire che, una volta che essi siano stati dedotti negli atti introduttivi, non occorre ai fini della loro ammissione una ulteriore istanza delle parti interessate (Cass. n. 12004/2003; Cass. n. 9791/2003; Cass. n. 2258/1996).

Ed inoltre, nelle controversie soggette al rito del lavoro, la parte, la cui prova non sia stata ammessa nel giudizio di primo grado, deve dolersi di tale mancata ammissione attraverso un apposito motivo di gravame, senza che possa attribuirsi significato di rinuncia o di acquiescenza al fatto di non avere ripetuto l'istanza di ammissione nelle conclusioni di primo grado, in quanto non essendo previste, in detto rito, udienze di mero rinvio o di precisazione delle conclusioni, ogni udienza è destinata alla decisione e, pertanto, qualora le parti abbiano tempestivamente articolati mezzi di prova nei rispettivi atti introduttivi, il giudice non può desumere l'abbandono delle istanze istruttorie dalla mancanza di un'ulteriore richiesta di ammissione nelle udienze successive alla prima (Cass. n. 4717/2014).

È poi utile rammentare subito che le disposizioni dettate dall'art. 420 in tema di istruzione probatoria vanno sempre lette nel contesto della complessiva disciplina prevista a tal riguardo per il rito di cognizione ordinaria. Così, ad esempio, nonostante qualche iniziale incertezza connessa al carattere di concentrazione, oralità e immediatezza del rito in esame, si è ritenuto ammissibile il ricorso alla delega per l'assunzione fuori dalla circoscrizione del tribunale (Cass. n. 2040/1986; Cass. n. 7670/1996), ovvero alla rogatoria di cui all'art. 204 (Cass. n. 11906/1992).

Le prove che le parti non abbiano potuto proporre prima

La norma in commento pone anzitutto la questione dell'identificazione dei mezzi di prova che le parti non abbiano potuto proporre prima.

In proposito si è da taluni evidenziato che nella menzionata nozione andrebbero ricompresi non soltanto i casi di impedimento oggettivo, ma anche gli impedimenti dovuti a fattori soggettivi che, altrimenti, rientrerebbero nell'ambito di applicazione dell'art. 184-bis (abrogato), oggi dell’art. 153, ultimo comma. Altri hanno ritenuto che la norma si riferisca ai mezzi di prova relativi a fatti allegati o verificatisi dopo il deposito degli atti introduttivi, ovvero resi necessari a seguito della contestazione di controparte su fatti ritenuti ragionevolmente pacifici (tra gli altri Trisorio Liuzzi, 129).

La S.C., aderendo a quest'ultima prospettazione, ha ritenuto corretta l'applicazione della norma grazie alla quale l'attore era stato ammesso a dimostrare uno dei fatti costitutivi della propria pretesa, in ordine al quale non aveva indicato prove nel ricorso, facendo affidamento sull'atteggiamento di implicita ammissione tenuto stragiudizialmente dal convenuto. La pronuncia contiene un'approfondita ed apprezzabile — giacché utile a favorire un'applicazione adeguatamente elastica di una disciplina altrimenti eccessivamente rigida — disamina del significato da attribuire all'espressione in questione è, dunque, merita di essere letta per esteso (Cass. n. 1509/1995). 

Più di recente si è detto che, nel rito del lavoro, la valutazione, ex art. 420, comma 5, in ordine alla rilevanza dei mezzi di prova, ed al fatto che la loro proposizione tempestiva non fosse altrimenti possibile - o perché la necessità della richiesta sia sorta per effetto di fatti addotti a difesa dalla controparte o a sostegno di domande riconvenzionali, ovvero in relazione ad una inaspettata contestazione sollevata dall'avversario su di una circostanza che poteva ragionevolmente considerarsi pacifica, o anche a seguito della contestazione della prova documentale allegata ab origine, ritenuta dalla parte istante quale prova idonea a sostenere i fatti dedotti in giudizio - appartiene all'apprezzamento discrezionale del giudice di merito e non è preclusa ove si siano tenute precedenti udienze in cui non è stata svolta alcuna attività perché le parti avevano concordemente richiesto rinvii finalizzati al componimento della lite (Cass. n. 1916/2018). 

In caso di deduzione tardiva di una prova, naturalmente, la controparte va posta in condizioni di dedurre la prova contraria, secondo la disciplina dell'art. 420, comma 7.

Aspetti peculiari della disciplina della prova testimoniale

In linea generale la disciplina della prova testimoniale non è dettata dalle norme sul rito del lavoro, ma dagli artt. 244 ss. Proprio la norma che apre il paragrafo dedicato alla prova per testimoni, stabilisce che quest'ultima «deve essere dedotta mediante indicazione specifica delle persone da interrogare e dei fatti, formulati in articoli separati, sui quali ciascuna di esse deve essere interrogata» (art. 244).

L'interferenza di questa disposizione con il rito del lavoro, tuttavia, determina una rilevante modificazione del regime applicabile proprio per quanto attiene alla capitolazione della prova e all'indicazione dei testimoni. Con riguardo al primo aspetto, la S.C. ha più volte ribadito che nel rito del lavoro la norma di cui all'art. 244, secondo la quale la prova testimoniale deve essere dedotta con indicazione specifica dei fatti, formulati in articoli separati, sui quali ciascuna persona deve essere interrogata, va interpretata alla luce del disposto dell'art. 421, sui poteri officiosi del giudice del lavoro, e dell'art. 420 sulla funzione integrativa del libero interrogatorio, sicché, quando i fatti materiali siano compiutamente enunciati nel ricorso introduttivo del giudizio, il giudice non può rigettare la richiesta di prova testimoniale sol perché i fatti non sono capitolati a norma dell'art. 244 (Cass. n. 4180/2003; Cass. n. 15820/2000).

Secondo tale indirizzo il giudice, dinanzi alla richiesta di ammissione di una prova testimoniale non capitolata deve d'ufficio assegnare alla parte un termine per una sua formulazione conforme al dettato dell'art. 244. Eguale atteggiamento si rinviene con riguardo all'esigenza che la deduzione della prova testimoniale contenga l'indicazione dei testimoni da escutere (Cass. n. 5413/1998; Cass. n. 3530/1998; Cass. S.U., n. 262/1997; Cass. n. 14465/2000).

Di recente è stato però affermato che nel rito del lavoro, qualora la parte abbia, con l'atto introduttivo del giudizio, proposto capitoli di prova testimoniale mediante indicazione specifica dei fatti, formulati in articoli separati, ma omettendo l'enunciazione delle generalità delle persone da interrogare, incorre nella decadenza della relativa istanza istruttoria, con la conseguenza che il giudice non può fissare un termine, ai sensi dell'art. 421, per sanare la carente formulazione (Cass. n. 5950/2014).

Inoltre, la riformulazione dei capitoli di prova testimoniale, attività funzionale ad emendare un'irregolarità che non consente l'ammissione delle istanze istruttorie, è possibile, previa assegnazione del termine perentorio di cinque giorni anteriore all'udienza di discussione ex art. 420, comma 6, c.p.c., la cui inosservanza comporta la decadenza dalla richiesta prova testimoniale (Cass. n. 6470/2024).

Dopo aver a lungo ribadito che la mancata citazione dei testimoni a comparire per l'udienza di discussione fissata ai sensi dell'art. 420 determina decadenza dalla prova, la S.C. ha chiarito che, al contrario, la parte può far comparire i testimoni per l'udienza di discussione fissata con l'iniziale decreto dal giudice, ma non è tenuta a farlo, giacché l'intimazione ai testimoni presuppone il provvedimento del giudice ammissivo del mezzo (Cass. n. 3275/1997).

Con riguardo alla citazione dei testimoni, infine, bisogna precisare che essa non ricade nell'ambito di applicazione dell'art. 420, comma 11, secondo cui « a tutte le notificazioni e comunicazioni occorrenti provvede l'ufficio », dal momento che tale previsione si riferisce esclusivamente alle notificazioni e comunicazioni necessarie per l'instaurazione del contraddittorio soltanto nelle ipotesi (contemplate dall'ottavo e dal nono comma dello stesso articolo) di chiamata in causa a norma degli artt. 102, comma 2, 106 e 107 e, pertanto, non è applicabile alla citazione dei testimoni, che è disciplinata dalla regola generale dell'art. 250, secondo cui l'intimazione di comparire è rivolta ai testi dall'ufficiale giudiziario su richiesta della parte interessata, con la conseguenza, in caso di ingiustificata inerzia della medesima, della sua decadenza dalla prova ai sensi dell'art. 104 disp. att. (Cass. n. 7371/1998; Cass. n. 10385/1990).

La mancata ammissione della prova testimoniale può essere denunciata in sede di legittimità per vizio di motivazione in ordine all'attitudine dimostrativa di circostanze rilevanti ai fini del decidere (Cass. n. 66/2015, la quale ha statuito che erroneamente la corte territoriale — con riguardo da una domanda di condanna al pagamento di differenze retributive avanzata da un'addetta al call center — non aveva ammesso la prova testimoniale sulla natura subordinata del rapporto di lavoro, ritenendo i relativi capitoli vertenti su circostanze oggetto di prova documentale, ovvero inidonei alla prova e generici nonostante l'indicazione delle mansioni espletate, del numero di ore lavorate e delle circostanze della cessazione del rapporto, senza esaminare i documenti ed esercitare i poteri istruttori ex art. 421).

Le prove precostituite

Con l'espressione «prove precostituite», dottrina e giurisprudenza intendono riferirsi essenzialmente ai documenti per sottolineare l'inapplicabilità ad essi del rigido sbarramento preclusivo previsto invece per le prove cosiddette «costituende». In tal senso si trova ripetuta in numerosissime occasioni l'affermazione secondo cui, nel rito del lavoro, la produzione di prove precostituite è consentita anche nell'udienza di discussione, finché non sia iniziata la discussione orale, in modo che alla controparte sia data la possibilità di avere adeguata cognizione del loro contenuto (p. es., Cass. n. 12966/2000). L'atteggiamento della giurisprudenza è profondamente mutato, e si è affermato che la decadenza sancita dall'art. 416, comma 3, si riferisce anche alla prova documentale, sicché il convenuto costituitosi tardivamente, oltre il termine di cui all'art. 416, non ha facoltà di produrre documenti, salvo l'ipotesi di documenti formati successivamente al termine di costituzione, ovvero di provata difficoltà a procurarsi il documento, ovvero nel caso che la relativa produzione sia giustificata dallo sviluppo del giudizio (Cass. n. 11607/2010; Cass. n. 16265/2003). A queste ipotesi va aggiunta quella che la produzione abbia ad oggetto documenti « destinati a provare un fatto di cui, con ragionevole attendibilità, non era prevedibile una particolare contestazione » (Cass. n. 775/2003).

Si rinvengono nondimeno talora, anche di recente, massime improntate all'idea, sicuramente errata, che le produzioni documentali siano tutt'ora rimesse all'accordo delle parti: si trova ad esempio affermato che nel rito del lavoro, l'omessa indicazione dei documenti prodotti nell'atto di costituzione in giudizio, e l'omesso deposito degli stessi contestualmente a tale atto, determinano la decadenza dal diritto di produrli, salvo che si siano formati successivamente alla costituzione in giudizio o la loro produzione sia giustificata dall'evoluzione della vicenda processuale, sicché, nel caso in cui sia chiesta da una parte la produzione di documenti all'udienza di discussione e la controparte non proponga tempestivamente, nel termine perentorio fissato dal giudice, proprie istanze istruttorie o comunque non si opponga alla produzione, deve ritenersi che la parte nei cui confronti è chiesta la produzione abbia accettato il provvedimento di ammissione (Cass.  n. 10102/2015, che ha ritenuto tempestiva la produzione documentale in primo grado dell'elenco delle domande di disoccupazione agricola con apposto il timbro dell'INPS, avverso la quale non vi era stata contestazione da parte dell'Istituto nell'ulteriore corso del processo; analogamente Cass. n. 19810/2013). Per il resto, si rinvia al commento dell'art. 416.

La diserzione dell'udienza di discussione

Questione di rilievo pratico tutt'altro che trascurabile è quella dell'identificazione della disciplina applicabile nel caso che tutte le parti costituite non compaiano all'udienza di discussione.

Secondo un primo indirizzo, il divieto delle udienze di mero rinvio sancito dall'art. 420, ultimo comma, renderebbe incompatibile con rito del lavoro l'applicazione dell'art. 181, cui rinvia l'art. 309 per il caso che nessuna delle parti si presenta all'udienza del corso del processo. Secondo altra impostazione, tali norme sarebbero applicabili anche al rito del lavoro.

La S.C. a Sezioni Unite ha in un primo tempo affermato che la lacuna relativa alla disciplina, nel rito del lavoro, dell'inattività delle parti, rispetto alla quale il rito ordinario provvede sia per il giudizio di primo grado (artt. 181 e 309) che per quello di appello (art. 348), non è colmabile, attese le peculiarità strutturali e funzionali del processo delineato dalla l. n. 533/1973, mediante l'applicazione analogica delle disposizioni citate (Cass. S.U., n. 1884/1982).

Quest'ultima impostazione non ha però sopito il contrasto, che ha dato luogo ad un nuovo intervento, di segno diametralmente opposto, secondo cui la disciplina dell'inattività delle parti dettata dal c.p.c., con riguardo sia al giudizio di primo grado che a quello di appello, si applica anche alle controversie individuali di lavoro (Cass. S.U., n. 5839/1993).

Questo secondo indirizzo si è poi stabilizzato (Cass. n. 6334/2001; Cass. n. 5643/2009).

Divieto di udienze di mero rinvio

Il divieto delle udienze di mero rinvio comporta che in ciascuna udienza sia compiuta una determinata attività processuale. Val quanto dire che la previsione non esclude la possibilità che il procedimento si svolga in una pluralità di udienze non di mero rinvio (Cass. n. 10015/1994). Il divieto di mero rinvio ha funzione meramente sollecitatoria, non sanzionata (Cass. S.U., n. 363/1992).

Dal divieto di udienze di mero rinvio è fatta discendere l'insussistenza di un obbligo per il giudice di rinviare la decisione della causa in assenza del difensore di una delle parti (Cass. n. 7866/2004).

Il divieto di udienze di mero rinvio è altresì posto a fondamento della regola secondo cui nel rito del lavoro il giudice non è tenuto ad invitare le parti a precisare le conclusioni al termine dell'udienza in cui si è trattata la causa e prima della pronunzia della sentenza (Cass. n. 19056/2003).

La sostituzione del giudice in corso di causa

La Corte costituzionale ha dichiarato manifestamente infondata, in riferimento agli artt. 3, 24 comma 2 e 111, comma 1 e 2, Cost., la questione di legittimità costituzionale degli artt. 420, 161, comma 2, e 429, comma 1, nella parte in cui, nell'ipotesi di mutamento della persona fisica del giudice rispetto a quello originariamente designato, non prevedono, rispettivamente, la rinnovazione dell'assunzione delle prove, l'emissione della sentenza da parte dello stesso giudice che ha provveduto all'istruzione e la sanzione della nullità per la sentenza pronunciata da un giudice diverso da quest'ultimo (Corte cost. n. 317/2004).

In caso, invece, di impedimento del giudice istruttore sorto dopo l'inizio della discussione, quest'ultima deve essere reiterata dopo la sostituzione (Cass. n. 18156/2006; Cass. n. 18126/2016).

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