Codice di Procedura Civile art. 738 - Procedimento.

Rosaria Giordano

Procedimento.

[I]. Il presidente nomina tra i componenti del collegio un relatore, che riferisce in camera di consiglio.

[II]. Se deve essere sentito il pubblico ministero [70, 71], gli atti sono a lui previamente comunicati ed egli deposita le sue conclusioni 1.

[III]. Il giudice può assumere informazioni.

[1] Le parole «deposita le sue conclusioni» sono state sostituite alle parole «stende le sue conclusioni in calce al provvedimento del presidente» dall'art. 3, comma 8,  lett. n), d.lgs. 31 ottobre 2024, n. 164.  Ai sensi dell’art. 7, comma 1, del medesimo decreto, le disposizioni di cui al d.lgs. n. 164/2024 cit. si applicano ai procedimenti introdotti successivamente al 28 febbraio 2023.   

Inquadramento

Il procedimento camerale è disciplinato in modo scarno dalla norma in esame: è evidente, pertanto, che opera pienamente il principio di libertà delle forme purché le stesse siano idonee al raggiungimento dello scopo e venga realizzato, specie nei procedimenti contenziosi e comunque in quelli coinvolgenti più soggetti, almeno il nucleo essenziale del contraddittorio.

Sebbene non sia previsto un termine entro il quale il ricorso deve essere notificato rispetto alla data di fissazione dell'udienza di comparizione delle parti (con inoperatività, in particolare, dell'art. 163-bis), tale termine deve essere congruo per l'esercizio del diritto di difesa. Il contraddittorio può tuttavia realizzarsi anche in forma soltanto scritta (Cass. n. 28985/2008).

L'ultimo comma prevede, quanto all'istruttoria, che il giudice assume sommarie informazioni: sulla scorta di tale generica previsione, si ritiene che l'istruttoria abbia carattere inquisitorio e si svolga con le modalità ritenute congrue dal giudice nei limiti consentiti dalla cognizione sommaria che caratterizza il procedimento. Nella giurisprudenza di legittimità è stato tuttavia chiarito che il giudice, al fine di garantire il contraddittorio, l'esercizio del diritto di difesa e l'effettività della tutela giurisdizionale, deve esercitare poteri ufficiosi anche mediante l'applicazione estensiva ed analogica delle disposizioni del processo di cognizione, sicché è tenuto a indicare alle parti le questioni rilevabili d'ufficio richiedendo i necessari chiarimenti ex art. 183, comma 4, e, se del caso, assumendo sommarie informazioni da soggetti terzi ex art. 738, comma 3, sempreché tale modalità di acquisizione di elementi di giudizio non sia impiegata per supplire all'onere probatorio o con finalità meramente esplorative (Cass. n. 4412/2015).

Quanto al potere/dovere del tribunale di liquidare le spese ex art. 91, il criterio principale adottato è quello della sussistenza o meno di una contrapposizione di interessi tra le parti nell'ambito dei procedimenti camerali di carattere bilaterale (Asprella, 44 ss.).

Premessa

La norma in commento disciplina in modo molto scarno il procedimento in camera di consiglio che, pertanto, è diretto dal giudice e improntato al principio della libertà delle forme purché idonee al raggiungimento dello scopo ex artt. 121 e 156, fermo il rispetto del principio del contraddittorio nei procedimenti contenziosi ed in quelli, anche non contenziosi, che coinvolgano più parti.

Notifica del ricorso e comparizione delle parti

Nei procedimenti di impugnazione che si svolgono con rito camerale, il gravame è ritualmente proposto con il tempestivo deposito del ricorso in cancelleria, mentre la notifica dello stesso e del decreto presidenziale di fissazione dell'udienza risponde esclusivamente alla finalità di assicurare l'instaurazione del contraddittorio, sicché la scadenza del termine all'uopo fissato, non preceduta dalla notifica o dalla presentazione di un'istanza di proroga, non comporta alcuna preclusione, ma implica soltanto la necessità di fissare un nuovo termine per notificare, a meno che la controparte non si sia costituita in giudizio sanando ogni vizio con efficacia ex "tunc" (v., tra le altre, Cass. n. 2414/2020; Cass. n. 14731/2016).

In particolare, sebbene non sia previsto un termine entro il quale il ricorso deve essere notificato rispetto alla data di fissazione dell'udienza di comparizione delle parti (con inoperatività, in particolare, dell'art. 163-bis), tale termine deve essere congruo per l'esercizio del diritto di difesa (Cass. I, n. 18973/2013).

Peraltro, la declinazione in concreto del principio del contraddittorio nei procedimenti in camera di consiglio rientra nel potere discrezionale del tribunale e non implica necessariamente la fissazione dell'udienza per la comparizione delle parti, potendo la parte interessata essere anche soltanto ammessa al presentazione di memorie ed alla produzione di documenti (Cass. n. 28985/2008; per un’applicazione con riferimento all’istanza di riesame del trattenimento dello straniero nel territorio dello Stato e la sua proroga v. Cass. n. 2459/2011).

Comunicazione degli atti al Pubblico Ministero

Nei procedimenti nei quali il Pubblico Ministero è interventore necessario ex art. 70 o che lo stesso avrebbe potuto promuovere (ad esempio, procedimento di interdizione), è previsto che debbano essere comunicati gli atti affinché possa formulare le conclusioni. Per la disciplina generale si veda Commento all'art. 70.

Istruttoria

Rispetto all'istruttoria nei procedimenti in camera di consiglio, la norma in commento si limita a prevedere, all'ultimo comma, che il giudice può assumere informazioni.

Sulla scorta di tale generica previsione, si ritiene che l'istruttoria ha carattere inquisitorio e si svolge con le modalità ritenute congrue dal giudice nei limiti consentiti dalla cognizione sommaria che caratterizza il procedimento.

Invero, I'ultimo comma della norma in esame, secondo cui "il giudice può assumere informazioni", implica che il il giudice, senza che sia necessario il ricorso alle fonti di prova disciplinate dal codice di procedura civile, risulta di fatto svincolato dalle iniziative istruttorie delle parti e procede con i più ampi poteri inquisitori, i quali si estrinsecano attraverso l'assunzione di informazioni che, espressamente consentita dalla menzionata disposizione, non resta subordinata all'istanza di parte. Inoltre, tale assunzione, essendo oggetto di una mera facoltà, non implica alcun obbligo per il giudice, sicché la mancata estensione dell'indagine non determina l'inosservanza delle norme disciplinanti il procedimento camerale e risulta incensurabile in cassazione, sotto il profilo della violazione di legge, in ordine al mancato esercizio della predetta facoltà, soprattutto quando la decisione si fondi sopra elementi istruttori raccolti "aliunde" rispetto alle informazioni dell'art. 738 e dei quali il giudice, attraverso la motivazione, abbia dato esauriente conto (Cass. n. 14227/2004; Cass. n. 1947/1999).

In giurisprudenza è stato ribadito, tuttavia, che resta fermo l'onere del ricorrente di allegare in modo specifico i fatti costitutivi della fattispecie invocata, che il giudice non può integrare d'ufficio (Cass. n. 19197/2015).

Inoltre, mediante l'esercizio dei poteri istruttori officiosi il giudice non può supplire all'onere probatorio vertente in capo alle parti, né svolgere indagini di carattere esplorativo (Cass. n. 4412/2015).

Più in generale, sulla questione, nella giurisprudenza di legittimità è stato chiarito che nel procedimento camerale, il giudice, al fine di garantire il contraddittorio, l'esercizio del diritto di difesa e l'effettività della tutela giurisdizionale, deve esercitare poteri ufficiosi anche mediante l'applicazione estensiva ed analogica delle disposizioni del processo di cognizione, sicché è tenuto a indicare alle parti le questioni rilevabili d' ufficio richiedendo i necessari chiarimenti ex art. 183, comma 4, e, se del caso, assumendo sommarie informazioni da soggetti terzi ex art. 738, comma 3, purché tale modalità di acquisizione di elementi di giudizio non sia impiegata per supplire all'onere probatorio o con finalità meramente esplorative (Cass. n. 4412/2015).

Rientra invece nel potere-dovere del giudice verificare l'attendibilità di tali allegazioni attraverso indagini di ufficio e, in particolare, acquisizioni di informazioni e documenti (v. Cass. n. 7333/2015; così, ad esempio, la S.C. ha precisato, di recente, che, in tema di protezione internazionale nel giudizio disciplinato dall'articolo 35-bis del d.lgs. n. 25/2008, qualora il ricorrente non abbia allegato al ricorso introduttivo il provvedimento di diniego della richiesta protezione internazionale emesso dalla commissione territoriale, il tribunale deve richiederlo, ai sensi dell'art. 738, comma 3, al ricorrente, ovvero alla stessa commissione territoriale, sempre che il ricorrente abbia specificatamente indicato gli estremi del provvedimento al fine della sua corretta individuazione ed i dati fattuali necessari ai fini dello scrutinio circa la tempestività del ricorso: Cass. n. 2763/2021).

Sotto altro profilo, nei procedimenti camerali non operano le preclusioni istruttorie proprie del giudizio ordinario di cognizione sicché documenti nuovi possono essere prodotti anche nel corso dell'udienza di comparizione delle parti (con onere della controparte di chiedere un eventuale termine o rinvio dell'udienza per contro dedurre: Cass. n. 20670/2005). Pertanto, è possibile decidere in base a documenti depositati tardivamente, a condizione che sui medesimi si sia instaurato pieno e completo contraddittorio (Cass. n. 5876/2012). Si è ritenuto, in tale prospettiva, che fermo il necessario rispetto del principio del contraddittorio i documenti possono essere depositati sino all'udienza di discussione in camera di consiglio (Trib. Milano, XI, 2 ottobre 2013).

I procedimenti in camera di consiglio sono decisi dal collegio: peraltro, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno da lungo tempo chiarito che Il principio generale, secondo cui un giudice può essere delegato dal collegio alla raccolta di elementi probatori da sottoporre, successivamente, alla piena valutazione dell'organo collegiale, in difetto di esplicite norme contrarie trova applicazione anche nelle ipotesi di procedimento camerale applicato a diritti soggettivi per quelle ragioni di celerità e sommarietà delle indagini, cui tale particolare tipo di procedimento è ispirato, tenuto anche conto del fatto che la delega comunque non concerne l'ammissione delle prove, demandata al giudice collegiale, il quale soltanto può valutarne l'ammissibilità e la rilevanza, bensì la loro mera assunzione (Cass. S.U., n. 5629/1996).

Sotto altro profilo, la S.C. ha chiarito che la disposizione di cui all'art. 38, che ha introdotto una generale barriera temporale alla possibilità di rilevare tutti i tipi di incompetenza, fissandola nella prima udienza di trattazione, deve ritenersi applicabile non soltanto ai processi di cognizione ordinaria, ma anche ai processi di tipo camerale, qualora questi siano utilizzati dal legislatore per la tutela giurisdizionale di diritti (Cass. I, n. 5257/2012).

In ogni caso nei procedimenti camerali è ammessa la proposizione, avverso la decisione, del regolamento di competenza ed essendo detta competenza inderogabile può essere esperito anche il regolamento di competenza d'ufficio. Sul punto è stato invero affermato che è ammissibile il regolamento di competenza, ad istanza di parte o d'ufficio, proposto avverso provvedimenti che non abbiano carattere definitivo e decisorio, quali devono ritenersi quelli emessi in sede di volontaria giurisdizione, anche ove pronuncino solo sulla competenza, attesa la necessità di garantire ai titolari dei diritti che ne chiedono il riconoscimento una risposta pronta e sicura del giudice di legittimità circa l'applicazione delle regole e dei criteri sulla competenza (Cass. n. 2259/2016).

È poi consolidato il principio per il quale il potere riconosciuto al giudice dall'art. 738, comma 2, di assumere informazioni costituisce oggetto di una mera facoltà e non di un obbligo, sicché il suo mancato esercizio non determina l'inosservanza delle norme che disciplinano il procedimento camerale e risulta incensurabile in cassazione (Cass. n. 24965/2011).

Taluni mezzi istruttori si ritengono incompatibili con la peculiare celerità e duttilità di forme propria del procedimento in camera di consiglio.

In tal senso si è affermato, ad esempio, che le disposizioni di cui agli artt. 214 ss., sul riconoscimento e la verificazione della scrittura privata, non sono applicabili nel procedimento per la dichiarazione di fallimento, tenuto conto del carattere sommario e camerale che tale procedimento ha conservato anche dopo la riforma della legge fallimentare e degli ampi poteri istruttori officiosi che spettano al giudice. Invero, tribunale può accertare la genuinità della scrittura privata anche d'ufficio e con ogni mezzo (Cass. I, n. 11494/2014).

In dottrina, è stato osservato che il giudizio, nell'ambito di un procedimento camerale, si potrà fondare su mezzi di prova che di per sé non hanno alcuna efficacia probatoria ove una siffatta possibilità sia prevista dal legislatore (come avviene nel caso della disposizione della prova testimoniale senza previa formulazione di capitoli) e, più radicalmente, che la decisione finale potrà fondarsi anche su una semiplena probatio (Cecchella, 226).

In una pronuncia, la S.C. ha chiarito che nei procedimenti camerali contenziosi che si svolgono in grado d'appello è legittima la delega allo svolgimento dell'udienza di comparizione delle parti ad uno dei componenti del collegio, poiché tale possibilità è prevista dall'art. 350, comma 1 per il giudizio a cognizione piena, le norme processuali relative al quale, ove non incompatibili, integrano quelle dettate per i procedimenti camerali (Cass. n. 26200/2015, in Ilprocessocivile.it, 8 agosto 2016, con nota di Petrolati).

Per una recente applicazione nei procedimenti di protezione internazionale v. Cass. n. 18787/2020.

Istruttoria nel procedimento di opposizione ex lege  Pinto

Nell'ambito del procedimento di equa riparazione per i danni derivanti dall'irragionevole durata del processo, l'art. 738 era integrato, nel modulo processuale antecedente alla riforma realizzata dalla l,. n. 134/2012, dal disposto dell'art. 3, comma 5, l. n. 89/2001 secondo cui l'autorità giudiziaria poteva sempre acquisire d'ufficio atti e documenti.

Come osservato in dottrina in sede di primo commento alla legge c.d. Pinto, l'introduzione di tale disposizione poneva l'interprete di fronte a quattro soluzioni ermeneutiche differenti rispetto a quella di per sé derivante dall'operare del terzo comma dell'art. 738 e, di qui, del modello inquisitorio di istruttoria proprio dei procedimenti in camera di consiglio, ossia: a) ritenere pleonastica ed inutile la norma, lasciando operare la regola generale sugli ampi poteri istruttori officiosi del giudice nei procedimenti camerali; b) considerare l'art. 738, comma 3, applicabile in genere anche nel nostro procedimento, con la sola eccezione degli atti e documenti del processo presupposto; c) ritenere che nel procedimento per l'equa riparazione dei danni da irragionevole durata del processo non viga l'art. 738, comma 3, con conseguente applicazione del principio dispositivo in relazione a tutti i mezzi istruttori; d) l'ordine di acquisizione in questione dovrebbe essere equiparato all'ordine di esibizione ex art. 210 ed emanabile, peraltro, a fronte dell'istanza di parte anche a prescindere da presupposti per l'emanazione dell'ordine in questione (Ronco, 296 ss.).

Nella giurisprudenza della S.C. era stato chiarito che, in tema di equa riparazione, il potere officioso di acquisizione di atti e documenti ex art. 3, comma 5, l. n. 89/2001, non consente, in presenza di una espressa richiesta della parte in ordine a tale acquisizione, di considerarla onerata, della produzione di atti e documenti del processo presupposto sia per la prova della tempestività della domanda formulata, sia per la dimostrazione dei fatti costitutivi della spiegata pretesa, i.e. degli elementi concreti dai quali è desumibile l'irragionevole durata di tale processo (Cass. n. 4103/2013).

Peraltro, la stessa Corte di legittimità aveva precisato, al contempo, anche in riferimento al procedimento camerale in tema di equa riparazione dei danni determinati dall'irragionevole durata del processo, che il potere riconosciuto al giudice dall'art. 738, comma 3, di assumere informazioni costituisce oggetto di una mera facoltà e non di un obbligo, sicché il suo mancato esercizio non determina l'inosservanza delle norme che disciplinano il procedimento camerale e risulta incensurabile in cassazione (Cass. n. 24965/2011). In altre parole, sebbene non operino le regole generali sul riparto dell'onere probatorio, la sostanziale deroga delle stesse mediante l'esercizio dei poteri d'ufficio di acquisire documenti è sempre stata considerata discrezionale anche nel procedimento di equa riparazione.

Nella giurisprudenza di legittimità le conseguenze pratiche derivanti dalla natura discrezionale dei poteri istruttori officiosi del Giudice nei procedimenti camerali con riguardo alla legge Pinto erano state temperate, con riferimento al modello processuale anteriore alle modifiche introdotte dalla l. n. 134/2012, mediante la precisazione secondo cui qualora la parte si sia avvalsa della facoltà — prevista dall'art. 3, comma 5, l. n. 89/2001 — di richiedere alla corte d'appello di disporre l'acquisizione degli atti del processo presupposto, il giudice non può addebitare alla mancata produzione documentale, da parte dell'istante, di quegli atti la causa del mancato accertamento della addotta violazione della ragionevole durata del processo, in quanto la parte ha un onere di allegazione e di dimostrazione, che però riguarda la sua posizione nel processo, la data iniziale di questo, la data della sua definizione e gli eventuali gradi in cui si è articolato, mentre, in coerenza con il modello procedimentale, di cui agli artt. 737 ss. prescelto dal legislatore, spetta al giudice — sulla base dei dati suddetti, di quelli eventualmente addotti dalla parte resistente e di quelli acquisiti dagli atti del processo presupposto — verificare, in concreto e con riguardo alla singola fattispecie, se vi sia stata violazione del termine ragionevole di durata, tenuto anche conto che nel modello processuale della l. n. 89/2001 sussiste un potere d'iniziativa del giudice, che gli impedisce di rigettare la domanda per eventuali carenze probatorie superabili con l'esercizio di tale potere (v., tra le altre, Cass. n. 16367/2011; Cass. n. 21093/2005).

In sostanza, quindi, ferma la natura discrezionale del potere ex art. 738, comma 3, c.p.c., nel procedimento disciplinato dal previgente art. 3 l. n. 89/2001, la Corte d'appello, a fronte di una formale richiesta di acquisizione del fascicolo del processo presupposto, formulata ai sensi del comma 5 del citato art. 3, non poteva respingere, in accordo con la giurisprudenza di legittimità, la domanda sulla base di carenze probatorie documentali superabili con l'esercizio di tale potere di acquisizione, senza giustificare con congrua motivazione il mancato accoglimento dell'istanza (Cass. n. 18337/2016; Cass. n. 9381/2011).

Nel modulo procedimentale della legge c.d. Pinto, così come modificata dalla l. n. 134/2012, non è più prevista la facoltà della parte di richiedere al giudice di disporre l'acquisizione di atti e documenti relativi al processo presupposto. Inoltre, come evidenziato, la stessa parte ricorrente è tenuta, secondo quanto stabilito dal disposto dell'art. 3, comma 3, l. n. 89/2001, ad allegare al ricorso depositato nella fase monitoria la copia autentica di una serie di atti concernenti il giudizio presupposto, i.e. l'atto di citazione, il ricorso, le comparse e le memorie relativi al procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata; i verbali di causa ed i provvedimenti del giudice; il provvedimento che ha definito il giudizio, ove questo si sia concluso con sentenza od ordinanza irrevocabili.

Peraltro, come evidenziato anche dalla S.C., la parte può integrare la documentazione depositandola nella fase di opposizione. È stato infatti chiarito che, poiché l'opposizione di cui all'art. 5-ter l. n. 89/2001 non introduce un autonomo giudizio di impugnazione del decreto che ha deciso sulla domanda, ma realizza, con l'ampio effetto devolutivo di ogni opposizione, la fase a contraddittorio pieno di un unico procedimento, avente ad oggetto la medesima pretesa fatta valere con il ricorso introduttivo, sicché non è precluso alcun accertamento od attività istruttoria, necessari ai fini della decisione di merito, e la parte può produrre, per la prima volta, i documenti che avrebbe dovuto produrre nella fase monitoria ai sensi dell'art. 3, comma 3, della citata legge, abbia o meno il giudice invitato la parte a depositarli, come previsto dal richiamato art. 640, comma 1 (Cass. n. 19348/2015).

Alla luce dell'assetto normativo così complessivamente delineato occorre chiedersi se nell'ipotesi in cui la parte ricorrente abbia omesso, sia nella fase monitoria che in quella successiva di opposizione, il deposito della documentazione relativa al giudizio presupposto in tutto o in parte necessaria ai fini dell'accoglimento del ricorso, la Corte possa, facendo uso del proprio potere di assumere d'ufficio informazioni ex art. 738, disporre nondimeno le necessarie acquisizioni documentali.

Invero, laddove la fase di opposizione non fosse disciplinata nelle forme del procedimento in camera di consiglio ex artt. 737 ss. dovrebbe essere senz'altro esclusa, nel sistema attuale, tale possibilità in applicazione delle incontroverse regole in tema di riparto dell'onere della prova tra le parti nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo.

Al riguardo non è superfluo ricordare che, secondo un consolidato orientamento, tale giudizio non ha ad oggetto la legittimità del provvedimento concesso quanto la sussistenza o meno della pretesa creditoria che, peraltro, nel procedimento di opposizione, a cognizione piena ed esauriente, deve essere accertata mediante gli ordinari mezzi istruttori e non in forza della documentazione di provenienza unilaterale che, eccezionalmente, stante l'art. 634, è ammessa nella fase sommaria inaudita altera parte del procedimento. In sostanza, quindi, nel giudizio di opposizione, l'onere della prova del fatto costitutivo del diritto di credito consacrato dal decreto ingiuntivo continua a gravare ex art. 2697 c.c. sul ricorrente, in virtù della domanda di pagamento da questi proposta e la formazione del convincimento del giudice sarà nuovamente regolata, agli effetti della decisione in merito all'opposizione, dalle norme vigenti in un giudizio ordinario di cognizione (v., tra le molte, Trib. Nola II, 28 giugno 2010; Trib. Teramo 19 aprile 2010 n. 143).

Per converso, l'opponente, quale convenuto sostanziale nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, dovrà invece, sempre in applicazione della regola generale di cui all'art. 2697 c.c., fornire prova dei fatti impeditivi, modificativi ed estintivi dell'avversa pretesa dedotti con l'opposizione (v., di recente, Giordano, II, 489 ss.).

Una piana applicazione di siffatte regole nel procedimento di opposizione promosso ai sensi della legge c.d. Pinto comporterebbe che, qualora il ricorrente non abbia depositato, anche nella fase a cognizione piena ed esauriente, tutta la documentazione concernente il giudizio presupposto idonea a dimostrare la sussistenza della spiegata pretesa di equa riparazione, la domanda dello stesso dovrebbe essere rigettata, non essendo stata rispettata la regola posta dall'art. 2697 c.c. È peraltro opportuno precisare che, in questo caso, non si avrebbe necessariamente un accoglimento dell'opposizione proposta dall'Amministrazione essendo legittimato il medesimo ricorrente privato a proporre opposizione avverso il decreto di pagamento per l'ipotesi di accoglimento parziale del ricorso monitorio e ciò quale effetto «naturale» della formazione del giudicato sul rigetto dello stesso, eccezionalmente previsto dalla legge Pinto a differenza del sistema generale di cui agli artt. 634 ss. 

Nella delineata prospettiva, coerente con l'operatività dei richiamati principi generali in tema di procedimento monitorio, autorevole dottrina ha evidenziato che l'espressa previsione da parte della l. n. 89/2001, così come modificata dalla l. n. 134/2012, dell'onere del ricorrente di depositare in copia autentica gli atti e documenti di causa dovrebbe operare anche nel procedimento camerale aperto dal ricorrente nell'ipotesi di rigetto, totale o parziale, della domanda monitoria proprio in ragione della carenza documentale relativa al giudizio presupposto, senza che il collegio possa supplire d'ufficio alle eventuali carenze probatorie ex art. 738  (cfr., sebbene in una prospettiva critica rispetto ad un assetto che, così come configurato, diviene eccessivamente oneroso per il ricorrente privato, Consolo-Negri, 2013, 1438 ss.).

Peraltro, occorre considerare la giurisprudenza di legittimità in omaggio alla quale, anche nei procedimenti camerali c.d. su diritti, sebbene operino il principio della domanda e quello dell'onere della prova, ciò deve intendersi in una prospettiva più attenuata rispetto a quanto avviene nei procedimenti disciplinati secondo il rito di cognizione ordinario ed, in particolare, nel senso che alla parte interessata spetta il potere di allegazione, deduzione ed eccezione, esercitato il quale, nondimeno, l'autorità giudiziaria potrà attivare i propri poteri istruttori officiosi (Cass. n. 14200/2004).

Gli atti e documenti relativi al giudizio presupposto costituiscono prova fondamentale dei fatti costitutivi del diritto all'equa riparazione fatto valere dal ricorrente nei confronti dello Stato per l'irragionevole durata dei processi. Pertanto, l'istruttoria, per tali aspetti, anche nel procedimento di opposizione sarà soprattutto scritta (Ronco, 298).

Ai fini della dimostrazione del dedotto danno, invece, potrebbero essere ritenuti rilevanti ulteriori mezzi istruttori da parte della Corte d'Appello e ciò, attesa l'ormai consolidata presunzione nel senso della ricorrenza del danno non patrimoniale in base al criterio dell'id quod plerumque accidit (v., tra le molte, Cass. n. 7559/2010), in particolare laddove venga richiesto dal cittadino anche il danno patrimoniale subito per effetto dell'irragionevole durata del processo, dovendo tale danno essere per converso oggetto di specifica e puntuale allegazione e prova.

È consolidato, invero, il principio in forza del quale la l. n. 89/2001, nel ricollegare l'equa riparazione alla mera constatazione dell'avvenuto superamento del termine di ragionevole durata del processo, attribuisce alla relativa obbligazione natura indennitaria, la quale esclude la necessità di una verifica in ordine all'elemento soggettivo della violazione, non vertendosi in tema di obbligazione ex delicto, ma non comporta alcun automatismo in favore del soggetto che lamenti l'inosservanza dell'art. 6, par. 1, Cedu, non configurandosi il pregiudizio patrimoniale indennizzabile come «danno evento», riconducibile al fatto in sé dell'irragionevole protrazione del processo, pertanto incombe al ricorrente l'onere di fornire la prova della lesione della propria sfera patrimoniale prodottasi quale conseguenza diretta ed immediata della violazione, sulla base di una normale sequenza causale (Cass. n. 1616/2011).

Il danno in questione, correlato ad esempio alla mancata disponibilità di un immobile o di una somma di denaro per un periodo rilevante, potrebbe essere dimostrato mediante una consulenza tecnica d'ufficio.

Casistica

In tema di sottrazione internazionale di minori, nel giudizio dinanzi al Tribunale per i minorenni, di cui all'art. 7 della l. n. 64/1994, il P.M. ha l'onere di provare l'esistenza del diritto di affidamento in capo al ricorrente e il fatto della sottrazione del minore, mentre l'allegazione e la prova dei fatti impeditivi del rientro grava in linea generale, ai sensi dell'art. 13 della Convenzione dell'Aja del 25 ottobre 1980, sul soggetto che si oppone ad esso, fermi restando, tuttavia, i poteri di indagine officiosa del Tribunale, ai sensi dell'art. 738, comma 3, in particolare quanto alla verifica dei fatti impeditivi, senza che esso sia vincolato alle decisioni del giudice dello Stato di residenza del minore, né sussistendo alcuna limitazione delle fonti di prova, ivi compresa la c.t.u., e potendo il Tribunale decidere sulla base di semplici "informazioni", giustificandosi tale connotazione officiosa del procedimento con l'esigenza di tutela del minore da trasferimenti illeciti, scopo ultimo della Convenzione (Cass. n. 15714/2019).

In tema di risarcimento del danno ex art. 35-ter, comma 3, l. n. 354/1975, l'applicazione al procedimento del modello processuale camerale e la natura giuridica dei diritti coinvolti inducono a ritenere sufficiente l'allegazione specifica dell'avvenuta detenzione e della sua durata, potendo il giudice, nel caso in cui ritenga il quadro probatorio incompleto, assumere informazioni, in applicazione dell'art. 738, ultimo comma (Cass. n. 5255/2018).

Invero, in tema di violazione dell'art. 3 Cedu nei confronti di soggetti detenuti o internati, il rimedio di cui all'art. 35-ter l. n. 354/1975 presuppone una responsabilità di tipo contrattuale, derivante dallo stretto rapporto che si instaura tra lo Stato e il detenuto, la quale dà luogo ad una obbligazione indennitaria ex lege: pertanto, sotto il profilo del riparto dell'onere probatorio, spetta all'amministrazione penitenziaria, chiamata a rispondere della violazione di obblighi di protezione e di norme di comportamento, provare l'adempimento conforme ai principi della Convenzione, mentre compete al detenuto fornire la dimostrazione del danno lamentato e del nesso causale tra quest'ultimo e il dedotto inadempimento, salva la possibilità di avvalersi, oltre che delle presunzioni e del principio di non contestazione, dei poteri integrativi ed officiosi del giudice propri del rito camerale prescelto dal legislatore, quali, in particolare, il potere di assumere informazioni previsto dall'art. 738, comma 3, che costituisce - in funzione della salvaguardia del principio di effettività della tutela giurisdizionale di diritti di indubbia matrice costituzionale e convenzionale - utile meccanismo riequilibratore nell'ambito di un procedimento caratterizzato da una situazione di squilibrio tra la parte pubblica, titolare della potestà punitiva, e il soggetto privato che la subisce (Cass. n. 31556/2018).

Forma della decisione

Fatta eccezione per le ipotesi nelle quali, ad esempio per l’attribuzione della competenza al giudice tutelare, la decisione è assunta in forma monocratica, la regola è che la pronuncia conclusiva dei procedimenti in camera di consiglio sia costituita da un decreto adottato dal collegio.

La pronuncia nel procedimento di equa riparazione per irragionevole durata del processo

L'opposizione è decisa dalla Corte d'Appello all'esito di un procedimento modellato secondo il rito camerale di cui agli artt. 737 e ss., mediante decreto impugnabile per cassazione, decreto che è immediatamente esecutivo.

Poiché in tema di equa riparazione per violazione del termine di durata ragionevole del processo il provvedimento conclusivo del relativo procedimento è emesso nella forma del decreto immediatamente esecutivo, impugnabile per cassazione, lo stesso,  nonostante la forma collegiale ed il contenuto decisorio, che lo rendono sostanzialmente assimilabile ad una sentenza, richiede la sottoscrizione del solo presidente del collegio e non anche la contestuale firma del giudice relatore, ex art. 135, comma 4, (v., tra le altre, Cass. n. 2134/2010; Cass. n. 2969/2006).

Nonostante il silenzio normativo sul punto, la circostanza che il decreto in questione si pronunci su diritti soggettivi e sia ricorribile per cassazione comporta che lo stesso debba essere congruamente motivato, nel rispetto, peraltro, del disposto dell'art. 111 Cost. (Martino, 595), a ciò non ostando il disposto dell'art. 135 secondo cui il decreto non deve essere motivato salva una diversa previsione di legge essendo precisato dallo stesso art. 737 che il decreto conclusivo del procedimento in camera di consiglio deve essere motivato (Ronco, 307).

 La necessità che il decreto emesso all'esito del giudizio di opposizione dalla Corte d'Appello sia motivato deriva, inoltre, anche dai principi affermati dalla Corte europea dei diritti dell'uomo in relazione all'art. 6 Cedu. Invero, la Corte di Strasburgo ha affermato, almeno a partire dalla pronuncia concernente il caso Hiro Balani c. Spagna, che l'obbligo di motivare ragionevolmente le sentenze costituisce parte essenziale delle garanzie del processo equo, sebbene non sia espressamente contemplata dall'art. 6 Cedu (Corte Edu, 9 dicembre 1994, Hiro Balani c. Spagna, in Dalloz, 1996, somm. com. 202, con osservazione di Fricero).

La Corte di Strasburgo ha quindi individuato il nucleo essenziale della garanzia in esame, precisando, in primo luogo, che l'obbligo di motivazione non comporta quello del giudice di rispondere in maniera dettagliata a ciascuna argomentazione delle parti (Corte Edu, 9 marzo 1999, Soc. Immeuble groupe Kosser c. Francia; Corte Edu 19 aprile 1994, Van de Hurck c. Paesi Bassi, in Ajda, 1995, 138, con nota di Flauss) e che, in generale, la portata dell'obbligo di motivazione può variare a seconda della natura della decisione e deve quindi essere esaminata alla luce delle circostanze del caso concreto (Corte Edu, 9 dicembre 1994, Hiro Balani c. Spagna).

La medesima Corte di Strasburgo ha poi chiarito che la motivazione delle pronunce, comunque sia, non deve avere carattere meramente apparente (Corte Edu, 29 maggio 1997, Georgiadis c. Grecia, in Riv. trim. dir. civ., 2000, 493, con osservazione di Marguénaud) o essere completamente omessa (Corte Edu, 19 febbraio 1998, Higgins c. Francia).

Con riferimento specifico alla questione in esame, la Corte di Cassazione ha confermato la necessità che il decreto della Corte d'Appello che si pronuncia sulla domanda di equa riparazione debba essere motivato, avendo a riguardo chiarito che in tema di equa riparazione per il mancato rispetto del termine di ragionevole durata del processo, ai sensi della l. n. 89/2001, il giudice è tenuto, ai fini della liquidazione del danno in via equitativa (Cass. n. 8/2003), a fornire indicazioni sui criteri che lo hanno guidato nel giudicare proporzionata una certa misura del risarcimento, precisando che sebbene la relativa motivazione possa assumere, trattandosi di provvedimento adottato con decreto, anche caratteri di sommarietà, purché si riescano ad individuare, almeno per grandi linee ed anche dall'insieme delle indicazioni espresse nel provvedimento, i fondamentali elementi di giudizio sui quali la decisione è basata (Cass. n. 3934/2013). In altre e più chiare parole, la sufficienza della motivazione del decreto con cui la corte di appello si pronuncia sulla domanda di equa riparazione proposta ai sensi della l. n. 89/2001, occorre sia valutata in coerenza con il tipo del provvedimento — benché esso abbia natura sostanziale di sentenza — e con le esigenze di speditezza che il legislatore ha inteso evidentemente privilegiare, di talché l'onere motivazionale deve ritenersi adempiuto qualora si accerti che il giudice dell'equa riparazione ha dato conto, anche sinteticamente, dei criteri in base ai quali ha formulato il giudizio, dimostrando di avere avuto riguardo ai parametri fattuali a questo scopo indicati dall'art. 2, comma secondo, legge citata ed esplicitando le ragioni del suo convincimento, mentre non è invece necessario che egli ripercorra analiticamente tutti i passaggi del processo oggetto d'esame, sempre che le argomentazioni e le ragioni svolte non siano intrinsecamente contraddittorie (Cass. n. 21020/2006).

Si è anche ritenuto, in proposito, che il giudizio di irragionevolezza della durata del processo espresso nel decreto della corte territoriale non richiede, in coerenza con le esigenze di speditezza che il legislatore ha inteso privilegiare con la previsione del tipo di provvedimento destinato a definire detto procedimento, una motivazione particolarmente diffusa ove le conclusioni raggiunte non si discostino dalle linee fondamentali della giurisprudenza europea in ordine allo standard medio di durata ragionevole del processo, che costituiscono le linee guida per il giudice nazionale (Cass. n. 28864/2005; Cass. n. 1600/2003; cfr. anche Cass. n. 6939/2004, secondo cui il danno non patrimoniale cagionato dalla irragionevole durata del processo, indennizzabile ai sensi dell'art. 2 l. n. 89/2001, deve essere liquidato in ragione del tempo eccedente il suo termine ragionevole, da determinare non con riferimento a parametri astratti, ma in concreto, tenuto conto della complessità del caso e degli altri elementi indicati dall'art. 2, comma 2 della detta legge; pertanto è viziato per difetto di motivazione il decreto con il quale la Corte d'appello abbia quantificato l'equa riparazione del danno non patrimoniale senza determinare quale dovesse essere nel caso concreto la ragionevole durata del processo).

Tuttavia, poiché il danno non patrimoniale cagionato dalla irragionevole durata del processo, indennizzabile ai sensi dell'art. 2 l. n. 89/2001, deve essere liquidato in ragione del tempo eccedente il suo termine ragionevole, da determinare non con riferimento a parametri astratti, ma in concreto, tenuto conto della complessità del caso e degli altri elementi indicati dall'art. 2 , comma 2 della detta legge, è viziato per difetto di motivazione il decreto con il quale la Corte d'appello abbia quantificato l'equa riparazione del danno non patrimoniale senza determinare quale dovesse essere nel caso concreto la ragionevole durata del processo (Cass. n. 7297/2005).

Sotto altro profilo, è stato chiarito in sede di legittimità che in materia di equa riparazione ai sensi della l. n. 89/2001, la competenza del giudice adito costituisce presupposto processuale e non già requisito di ammissibilità della domanda, sicché la corte d'appello, adita con l'opposizione di cui all'art. 5-ter della stessa legge, ove ritenga di non essere investita della competenza a provvedere, non può rigettare la domanda, ma deve dichiarare la propria incompetenza e, indicato il giudice competente, fissare il termine di riassunzione del procedimento in applicazione dell'art. 50 (Cass. n. 17380/2015).

Disciplina delle spese

In ordine alla sussistenza all'esito del procedimento camerale del potere/dovere del giudice di statuire in ordine alle spese di lite sulla scorta della generale previsione contenuta nell'art. 91, il criterio principale adottato — pur ferme talune incertezze emerse in dottrina come nella giurisprudenza di legittimità anche in ragione della complessità della materia — è quello della sussistenza o meno di una contrapposizione di interessi tra le parti nell'ambito dei procedimenti camerali di carattere bilaterale (Asprella, 44 ss.).

Analogamente, in giurisprudenza, si è evidenziato che i procedimenti di volontaria giurisdizione assumono le caratteristiche del giudizio contenzioso se vi partecipano soggetti che contrastano la domanda del ricorrente, il cui accoglimento pregiudicherebbe i loro interessi, sicché deve svolgersi in contraddittorio ed il decreto conclusivo è sostanzialmente una sentenza, che deve pronunciare sulle spese secondo il principio della soccombenza (Trib. Milano, 23 dicembre 1988, in Giust. civ., 1989, I, 1693, con nota di Santarsiere).

Più in particolare, infatti, la S.C. ha a riguardo affermato che le disposizioni degli artt. 91 e ss., in tema di spese processuali, trovano applicazione analogica nei procedimenti camerali, ove il provvedimento che li definisca non si esaurisca in un intervento del giudice di tipo sostanzialmente amministrativo, ma statuisca su posizioni soggettive in contrasto (Cass., n. 23955/2013; Cass. n. 1416/1989).

In sostanza, le spese del procedimento di volontaria giurisdizione, nel quale non è ravvisabile un contrasto di posizioni soggettive, concorrendo le parti al perseguimento di un interesse comune, si sottraggono alla disciplina dettata dagli artt. 91 ss. (Cass. n. 650/2003).

Casistica

Tra i procedimenti di giurisdizione volontaria in senso stretto nell'ambito dei quali non deve essere pronunciata dal giudice adito una condanna alle spese rientrano, in primo luogo, quelli di carattere unilaterale instaurati dal ricorrente per ottenere un provvedimento che produca effetti esclusivamente nella propria sfera giuridica, ad esempio il procedimento instaurato per ottenere l'autorizzazione a vendere i beni del minore (Cass. n. 4211/1981, in Riv. not., 1982, 902).

Il procedimento avverso il rifiuto del Conservatore dei registri immobiliari (oggi Agenzia del territorio) di eseguire una trascrizione, previsto dall'art. 745, cui rinvia l'art. 113 bis disp. att. c.c., ha natura di volontaria giurisdizione non contenziosa, avendo esso ad oggetto non la risoluzione di un conflitto di interessi, ma il regolamento, secondo la legge, dell'interesse pubblico alla pubblicità immobiliare, cosicché in esso non è ravvisabile una parte vittoriosa o soccombente: pertanto, in tale procedimento, non può provvedersi alla condanna alle spese, che, se assunta, legittima al ricorso per cassazione, ai sensi dell'art. 111 Cost., avendo tale pronuncia valenza decisoria (Cass., n. 2095/2011).

Nel procedimento per correzione di errore materiale non possono essere liquidate a vantaggio del ricorrente le spese di procedura, sulla base del solo fatto che la controparte, non costituendosi nella procedura, non abbia aderito alla domanda: invero, il procedimento di correzione degli errori materiali ha natura di procedimento di volontaria giurisdizione sicché si sottrae all'operatività degli artt. 91 e ss. che postulano, come più volte evidenziato, l'identificabilità di una parte vittoriosa e di una parte soccombente all'esito di un conflitto di tipo contenzioso (Cass. n. 11483/2002).

In assenza di espressa regolamentazione normativa in punto di regime delle spese concernenti la procedura di amministrazione di sostegno, deve farsi ricorso ai principi generali in tema di volontaria giurisdizione: ne deriva che il giudice è tenuto a liquidare le spese processuali ponendole a carico dell'una o dell'altra parte sempre che la stessa sia qualificabile “soccombente” rispetto all'altrui richiesta e di conseguenza solo laddove individui “un contrasto di pretese”, cosicché il procedimento venga ad assumere struttura contenziosa (Trib. Modena, II, 13 marzo 2008, con riferimento ad una fattispecie concreta nella quale ricorrente ed un parente del beneficiario si avvalevano della difesa tecnica, richiedendo entrambi il rimborso delle spese processuali, da porre a carico del beneficiario: poiché, tuttavia, ambedue concordavano sulla nomina di un amministratore di sostegno individuabile preferibilmente in un terzo estraneo rispetto alla famiglia, il giudice — in applicazione del principio di cui in massima — ha compensato le spese tra le parti).

Il decreto camerale volto alla nomina dell'amministratore giudiziario di un condominio non deve contenere, in quanto rientrante nell'ambito dei procedimenti di volontaria giurisdizione, condanna alla rifusione delle spese processuali, che, pertanto, rimarranno a carico del soggetto ricorrente che le abbia anticipate (Trib. Ariano Irpino 6 febbraio 2008, in Arch. loc., 2008, n. 3, 274).

Le spese del procedimento di volontaria giurisdizione promosso ai sensi dell'art. 1105, comma 4, c.c., poiché hanno ad oggetto una materia in relazione alla quale non è identificabile una parte vittoriosa ed un'altra soccombente in esito a giudizio contenzioso, non possono essere liquidate dal giudice adito, alla stregua dei principi stabiliti dagli artt. 91 e ss., ma devono rimanere a carico del soggetto che le abbia anticipate assumendo l'iniziativa giudiziaria o interloquendo nel procedimento (App. Salerno 7 settembre 2004, in Giur. mer., 2005, n. 6, 1324).

Il principio per il quale l'art. 91 trova applicazione anche ai provvedimenti di natura camerale e non contenziosa, come quelli in materia di revoca dell'amministratore di condominio, purché sussista una contrapposizione tra gli interessi delle parti (v., tra le altre, Cass. n. 14742/2006).

La questione avente ad oggetto la sussistenza del potere/dovere del giudice di provvedere sulle spese di lite nel procedimento di denunzia al Tribunale delle irregolarità sociali ex art. 2409 c.c. è, invece, oggetto di un vivace dibattito in dottrina come in giurisprudenza, a monte del quale vi è quello relativo alla controversa natura del predetto procedimento, considerato da alcuni quale finalizzato alla tutela non di diritti soggettivi contrapposti quanto di interessi di tipo amministrativo e pubblicistico correlati ad una corretta gestione societaria mentre per altri si tratta di un procedimento di carattere contenzioso su diritti.

Espressione della prima impostazione interpretativa è pertanto quella giurisprudenza di merito secondo cui la natura non decisoria di diritti soggettivi dei provvedimenti conseguenti alla denuncia di gravi irregolarità ex art. 2409 c.c. non consente l'applicazione del principio della soccombenza processuale ex art. 91, con la conseguenza che nell'ipotesi di rigetto del ricorso, non può farsi luogo alla condanna del ricorrente alla rifusione delle spese del procedimento (cfr., ex ceteris, App. Cagliari 13 febbraio 2004, in Società, 2004, 976, con nota di Spagnuolo; Trib. Modena 6 dicembre 2002, in Gius, 2003, 2057; Trib. Nocera Inferiore 22 ottobre 2002, in Dir. prat. soc., 2003, n. 6, 84, con nota di Liace; App. Bologna 29 giugno 2001, in Società, 2001, 1474, con nota di Bonavera; App. Brescia 8 febbraio 2001, in Foro it., 2001, I, 3383). Anche la S.C. ha evidenziato che all'esito del procedimento di volontaria giurisdizione, previsto dall'art. 2409 c.c. per il riassetto amministrativo e contabile delle società di capitali, non può essere pronunziata condanna del ricorrente alla rifusione delle spese sostenute dalla società per partecipare al procedimento, in quanto la natura di questo non consente tale partecipazione, non potendosi identificare nella società una parte contrapposta al socio ricorrente, nè configurare, di conseguenza, una vera e propria situazione di soccombenza di quest'ultimo nei confronti dell'indicata società (Cass. n. 498/1996, in Giust. civ., 1996, I, 947, con nota di Salafia).

Secondo la tesi dominante, che trova conforto anche nella giurisprudenza di legittimità per converso, nel procedimento ex art. 2409 c.c. è ammissibile la statuizione sulle spese in virtù del criterio della soccombenza, già riconosciuta anche nel previgente regime, stante il fatto che il giudizio, pur seguendo il rito camerale e, pur concludendosi con un decreto privo di attitudine al giudicato, coinvolge (ancorché indirettamente) diritti ed obblighi (del socio, degli amministratori e degli organi di controllo) mettenti rispettivamente capo a parti contrapposte (Cass. n. 293/2005; Cass. n. 9828/2002; in sede di merito cfr., tra le altre, Trib. Roma 6 luglio 2004, in Società, 2005, 359, con nota di Patelli; App. Trento 27 marzo 2001, ivi, 2001, 1479, con nota di Bonavera; App. Milano 12 marzo 2004, in Giur. comm., 2004, II, 633, con nota di Pandolfi).

È consolidata , inoltre, la giurisprudenza di legittimità che ritiene applicabili gli artt. 90 e ss. in tema di spese processuali anche all'esito del procedimento per l'equa riparazione dei danni cagionati dall'irragionevole durata del processo (Cass., n. 20932/2010).

Almeno nell'esperienza applicativa, sembra non rilevare, invece, la distinzione tra procedimenti camerali unilaterali o bilaterali ovvero di giurisdizione volontaria o contenziosa in ordine alla sussistenza del potere/dovere del collegio in sede di reclamo avverso il decreto pronunciato nell'ambito di un procedimento in camera di consiglio di provvedere sulle spese applicando i criteri dettati dagli artt. 91 e ss. In accordo con l'indirizzo dominante nella giurisprudenza della S.C., si ritiene infatti legittima la condanna alle spese giudiziali nel procedimento promosso in sede di reclamo, ex art. 739, avverso provvedimento reso in camera di consiglio, atteso che ivi si profila comunque un conflitto tra parte impugnante e parte destinataria del reclamo, la cui soluzione implica una soccombenza che resta sottoposta alle regole dettate dagli artt. 91 ss. e che, inoltre, se lo sviluppo del procedimento nella fase di impugnazione non può ovviamente conferire al procedimento stesso carattere contenzioso in senso proprio, si deve tuttavia riconoscere che in tale fase le posizioni delle parti con riguardo al provvedimento concesso assumono un rilievo formale autonomo, che dà fondamento all'applicazione estensiva dell' art. 91 (v., tra le altre, Cass., n. 1856/2006).

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