Codice di Procedura Penale art. 194 - Oggetto e limiti della testimonianza.

Pierluigi Di Stefano

Oggetto e limiti della testimonianza.

1. Il testimone è esaminato sui fatti che costituiscono oggetto di prova [187]. Non può deporre sulla moralità dell'imputato [234 3], salvo che si tratti di fatti specifici, idonei a qualificarne la personalità [133 c.p.] in relazione al reato e alla pericolosità sociale [203 c.p.].

2. L'esame può estendersi anche ai rapporti di parentela e di interesse che intercorrono tra il testimone e le parti o altri testimoni nonché alle circostanze il cui accertamento è necessario per valutarne la credibilità. La deposizione sui fatti che servono a definire la personalità della persona offesa dal reato è ammessa solo quando il fatto dell'imputato deve essere valutato in relazione al comportamento di quella persona [472 3-bis].

3. Il testimone è esaminato su fatti determinati [499]. Non può deporre sulle voci correnti nel pubblico [234 3] né esprimere apprezzamenti personali salvo che sia impossibile scinderli dalla deposizione sui fatti.

Inquadramento

La testimonianza, non a caso primo dei mezzi di prova disciplinati dal codice, è storicamente la prova più tipica del processo penale tanto da non essere neanche definita, a ciò bastando la comune nozione. Nella disciplina del codice vigente tale centralità è particolarmente evidente perché, con il modello accusatorio, si è introdotto il diritto delle parti di interrogare e controinterrogare i testimoni e, tendenzialmente, la impossibilità di utilizzare le dichiarazioni assunte fuori del contraddittorio.

Tale modello è stato poi rafforzato con la riforma, ex l. cost. n. 2/1999, dell'art. 111 della Costituzione che espressamente riconosce rango superiore alla dialettica del contraddittorio dibattimentale rispetto al “principio di non dispersione degli elementi di prova” (valorizzato dalla Corte costituzionale, con la sentenza n. 255/1992, per ritenere utilizzabili quali prove le dichiarazioni raccolte al di fuori del contraddittorio).

L'art. 194 c.p.p. invero, si occupa di definire l'oggetto e i limiti della testimonianza.

Tale prova può essere definita quale dichiarazione resa da una persona in ordine a quanto a sua conoscenza sui “fatti che costituiscono oggetto di prova”, fondamentalmente “i fatti che si riferiscono all'imputazione”.

Si deve trattare di fatti caduti sotto la diretta percezione del testimone: anche nel caso, ad es., di testimonianza indiretta, il testimone riferisce il fatto percepito (“la data persona ha detto questo”). Quindi, in qualsiasi caso di testimonianza, la prova si riconosce per questa caratteristica (si veda Cass. III, n. 12019/2015 che distingue tra le percezioni sensoriale dei testi e le loro valutazioni sulle stesse).

La “testimonianza” è solo quella resa innanzi al giudice, nel processo e in contraddittorio, essendo le dichiarazioni raccolte dalle parti (Pm, pg e difesa) disciplinate e definite diversamente.

Anticipando quanto sarà sviluppato nei commenti agli articoli successivi, il codice prevede

– che, in termini generali, “ogni persona ha la capacità di testimoniare”, escludendo, invece, rispetto al processo, la testimonianza sia dell'imputato (il nostro ordinamento non prevede la testimonianza in re propria) che quella di soggetti che abbiano una posizione strettamente collegata a quella dell'imputato (es. responsabile civile, imputato in reato connesso etc.) o partecipino al procedimento in veste di giudice, Pm o ausiliari).

– Il soggetto la cui testimonianza è ammessa dal giudice ha l'obbligo di comparire nel processo e di rispondere alle domande con completezza e verità. Il rispetto di tali doveri è assicurato dalla previsione del reato proprio di falsa o reticente testimonianza (art. 372 c.p.), a parte altri possibili reati (tipicamente calunnia e favoreggiamento personale) integrati da dichiarazioni false.

La centralità della prova testimoniale e la importanza del rispetto delle corrette forme di acquisizione per la finalità del cd “giusto processo” è evidenziato, come già detto, dalla espressa previsione sia dell'art. 111 Cost. che dell'art. 6, terzo paragrafo, lett. d) Cedu del diritto dell'imputato di interrogare o fare interrogare persone che rendono dichiarazioni al suo carico, di ottenere convocazione e interrogatori di persone a sua difesa.

Per la testimonianza opera pienamente il principio della libera valutazione della prova e del libero convincimento del giudice, non essendo previsti limiti o criteri particolari, ad eccezione del caso della testimonianza indiretta, per la quale trova applicazione la regola speciale di cui all'art. 192, comma 3. c.p.p..

La testimonianza, però, indubbiamente è un tipo di prova che pone problemi nell'apprezzamento della sua attitudine a dimostrare i fatti di interesse. Difatti, la dichiarazione del testimone non è la diretta, indiscutibile e verificabile rappresentazione di un fatto bensì è la rappresentazione della percezione del fatto.

Ovvie quali siano le conseguenze in tema di affidabilità, sotto vari punti di vista, del risultato della prova. Ne sono spia, del resto, le regole, essenzialmente di cautela, dell'art. 195 c.p.p. per la testimonianza indiretta e dello stesso art. 194 c.p.p. che indica espressamente, nell'oggetto della prova, domande eccentriche rispetto al tema del processo ma finalizzate alla verifica della credibilità soggettiva e oggettiva del testimone

Perciò, sulla base di un'ampia casistica, dottrina e giurisprudenza hanno elaborato regole ispirate soprattutto a massime di esperienza. Si tratta di criteri flessibili, ma significativi nella valutazione dell'efficacia dimostrativa della prova. In particolare, essi consentono di individuare categorie di testimoni, utili a qualificare in via generale le condizioni di credibilità e attendibilità del dichiarante rispetto alla vicenda narrata; in tale modo, si individuano dei criteri di valutazione differenziati:

– innanzitutto, il testimone che sia anche persona offesa o danneggiata dal reato, eventualmente interessato in modo particolare all'esito del processo, soprattutto se è costituito anche parte civile. Per tale testimone, si individuano regole di particolare attenzione nella valutazione di attendibilità. E, in tale ambito, si considera anche la più particolare persona offesa rispetto a reati peculiari quali quelli in materia familiare, di violenza sessuale, etc., sia per vulnerabilità della vittima che per la frequente peculiarità dei rapporti tra imputato e testimone che può condizionare la deposizione.

– Poi, il testimone che abbia operato nei compiti di polizia giudiziaria, normalmente assistito da una particolare attendibilità ma anche dal peculiare divieto di testimonianza dell'art. 195 c.p.p.

– E, poi, il testimone “esperto”, categoria riferita alla Pg ma anche a soggetti quali periti o tecnici che, fuori dei casi di consulenza o perizia, siano ammessi quali testimoni a rendere dichiarazioni che vanno aldilà della mera esposizione di un fatto essendo loro richiesto anche di offrire delle valutazioni.

Oggetto della testimonianza

La disposizione individua l'oggetto primario della testimonianza nei “fatti che costituiscono oggetto di prova”, ovvero i “fatti riferibili alla imputazione” quali definiti all'articolo 187 c.p.p.

Innanzitutto, non consente che il testimone deponga sulla moralità dell'imputato salvo che si faccia riferimento a fatti specifici “idonei a qualificarne la personalità in relazione al reato e alla pericolosità sociale”. La ragione della disposizione è evidente, esprime la logica del diritto penale del fatto, che sanziona condotte lesive, e non la moralità del singolo.

Per la testimonianza, però, per la sua peculiarità, oltre alla previsione che debba rispondere su “fatti determinati”, come precisa il terzo comma, si individua un ulteriore oggetto: “L'esame può estendersi anche ai rapporti di parentela e di interesse che intercorrono tra il testimone e le parti o altri testimoni nonché alle circostanze il cui accertamento è necessario per valutarne la credibilità”. Ovvero, oggetto della prova testimoniale può essere anche ogni tema necessario per valutare la credibilità del testimone, ad es. la presenza in luoghi incompatibili, la pendenza di contenziosi, affari comuni etc.

Lo stesso tema principale, i fatti oggetto della prova, non sono rigidamente inquadrati dall'imputazione ma si applica la regola dell'art. 187 c.p.p. che introduce il principio di pertinenza della prova disponendo che ne siano oggetto i “fatti riferibili alla imputazione”. La corretta lettura del principio comporta che la pertinenza non significa che l'interrogatorio del teste debba essere strettamente incentrato sulla specifica vicenda di cui all'imputazione poiché “al giudice è dunque consentito conoscere, nel rispetto del principio del contraddittorio, di tutte le circostanze fattuali ritenute idonee a condurre all'accertamento della verità; e tale accertamento, ove necessario, può legittimamente estendersi anche al di là della condotta tipica descritta dalla norma incriminatrice per ricomprendere tutti quei fatti e quelle situazioni, anche di contorno, che ad essa sono inerenti e si mostrano utili per la verifica dibattimentale delle ipotesi ricostruttive formulate dalle parti.” (Cass. II, n. 2622/2004).

Non essendovi, però, una espressa previsione di nullità o inutilizzabilità della prova testimoniale che non rispetti i suoi limiti, non vi sono conseguenze dirette per l'atto; l'effetto di una prova raccolta oltre il suo oggetto e i suoi limiti interni andrà considerato sotto altri profili (violazione del contraddittorio se utilizzata in altri processi, violazione della presunzione di innocenza di terzi (Cass. VI, n. 14838/2025).

Valutazione della testimonianza, libero convincimento e riscontri

La testimonianza è una rappresentazione soggettiva di un fatto e, quindi, pone problemi di affidabilità delle informazioni fornite, sotto un profilo di accuratezza (il testimone può sbagliare, ricordare male, aver mal percepito, riferire circostanze vaghe) e, soprattutto, di veridicità (può mentire, in tutto in parte, tacere, etc.).

Quindi, su un piano logico prima che giuridico, la valutazione della testimonianza impone sempre, ancorché implicitamente nei casi più lineari, una verifica dell'attendibilità del testimone, prodromica alla valutazione in concreto della sua attitudine alla prova del fatto.

La scelta normativa è chiara: siamo dell'ambito di piena applicazione del principio di libera valutazione della prova, salvo quanto si dirà per le previsioni specifiche dell'art. 195 c.p.p. in tema di testimonianza indiretta e dell'art. 197-bis c.p.p. per i soggetti imputati o già imputati per reati connessi o collegati.

La vasta giurisprudenza sul tema ha così elaborato regole che, più che strettamente giuridiche, assumono la forma di veri e propri “protocolli”, utili a fornire linee guida nelle diverse tipologie di situazioni. La natura di tali regole emerge chiaramente quando, in sede di legittimità, se ne contesta il mancato rispetto: non si tratta infatti di violazione di legge, bensì di vizio di motivazione. Quest'ultimo può consistere, ad esempio, in illogicità quando la decisione contrasta con regole prudenziali consolidate, oppure in carenza motivazionale quando il giudice omette di approfondire profili doverosi in presenza di situazioni ritenute indicative del rischio di inattendibilità.

Si consideri che la legge, pur non prevedendo regole in tema di valutazione in concreto o esclusione di prove (con le limitate eccezioni citate), ha previsto modalità di raccolta della prova testimoniale che valgono a garantire la corretta verifica della sua credibilità, come dopo chiarito.

Il punto di partenza, comunque, è che la testimonianza ha piena natura di prova, pacificamente definibile “principe”, insieme alla chiamata in correità (almeno sino al dilagare delle prove elettroniche), e, secondo le regole generali dell'ordinamento penale, non può essere svalutata a priori: in assenza di elementi concreti, il giudice “non può assumere come base del proprio convincimento, l'ipotesi che il teste riferisca scientemente il falso, o si inganni sull'oggetto essenziale della sua deposizione” (Cass. VI, n. 39312/2022;Cass. IV, n. 6777/2013). Neanche l'esistenza in sé di un fattore esterno (quali minacce, offerte di denaro) è una automatica ragione per svalutare la testimonianza (Cass. II, n. 50323/2013).

È un tema che tocca, prima ancora, la ammissione della prova nel dibattimento, che non potrà essere rigettata sulla scorta di una pretesa inattendibilità di “posizione” (ad es. non ammettendo una testimonianza del coniuge dell'imputato sulla circostanza della sua presenza aliunde, escludendo l'attendibilità per esservi un forte interesse al mendacio).

È invece necessario che il giudice proceda ad una valutazione critica della testimonianza verificandone innanzitutto la attendibilità, il che significa valutarne logicità, coerenza, analiticità, plausibilità, eventuali contraddizioni con altri elementi di prova. In questo contesto, quindi, potranno e dovranno essere considerati quei fattori che possono certamente ritenersi significativi di un rischio di inaffidabilità della prova, ma sempre in base ad una valutazione non condizionata da criteri legali e rigidi preconcetti.

Qui, quindi, viene in questione il tema della inapplicabilità del principio di cui all'articolo 192, comma 3, c.p.p. ovvero della necessità o meno di riscontri esterni quando emergano fattori di possibile rischio di inaffidabilità (come nel caso della testimonianza della persona offesa).

È pacifico, sulla scorta della lettura delle disposizioni codicistiche, che il criterio dell'art. 192 cit. non sia imposto anche per la valutazione della testimonianza “comune” (diversa da quella del coimputato ex art. 197-bis c.p.p.) la quale può pertanto essere valorizzata anche in assenza di qualsiasi elemento di riscontro esterno, soltanto sulla base della sua astratta valenza probatoria e della concreta valutazione di affidabilità (Cass. I, n. 10600/2024).

Ben diverso, invece, e questo è il tema affrontato dalla giurisprudenza, la necessità che, a fronte di ragioni di dubbio nel caso concreto sulla attendibilità del teste (sia sul piano soggettivo – mendacio consapevole – sia sul piano oggettivo - scarsa affidabilità per la inadeguata capacità del teste di percezione/ricordo dei fatti narrati), si ritenga necessario, perché imposto per la peculiarità del caso concreto, ricercare elementi esterni di riscontro. Si tratta di applicare, “volontariamente”, quelle stesse regole logiche che l'art. 192, comma 3, c.p.p. ha reso cogenti per il suo limitato ambito di applicabilità.

La scindibilità delle dichiarazioni

Anche in materia di testimonianza si rileva, comunque, così come più ampiamente discusso in tema di chiamata in correità, che su un piano logico nulla impedisce di differenziare la valutazione delle varie parti di una testimonianza nel senso che non è precluso scinderne i vari segmenti ritenendone solo una parte attendibile.

Ciò non significa che la accertata falsità di una parte non possa giustificare una valutazione negativa anche sulle restanti dichiarazioni, solo perché non siano stati individuati riscontri contrari alla veridicità. Significa, piuttosto, che il giudice può ritenere veritiera una parte della deposizione e, nel contempo, disattendere altre parti sulla scorta di una valutazione rigorosa di cui, ovviamente, dovrà dare conto con adeguata motivazione. Ciò, ad es., per il testimone di una aggressione che neghi la presenza di una persona a sé legata da vincoli affettivi confermando invece quella di altri: sul piano logico una falsità “mirata” è ben possibile in un caso del genere e non mina di per sé la possibile veridicità della restante dichiarazione. Anche in questo caso, la giurisprudenza (Cass. II, n. 10193/2024) ricostruisce una vera e propria regola di giudizio partendo da massime di esperienza.

Le garanzie dell’affidabilità della prova testimoniale

Il tema della valutazione della prova testimoniale va considerato anche in ragione delle modalità di raccolta della prova che il codice prevede: in conformità al principio ormai costituzionalizzato della formazione della prova nel contraddittorio, già presente nella CEDU, la regola di raccolta è, con limitate eccezioni, quello dell'esame diretto effettuato dalle parti contrapposte, sotto il controllo del giudice; questa è la modalità con le quali possono essere fatte emergere le condizioni per confermare/negare la affidabilità della testimonianza.

Il dibattimento è il luogo privilegiato per la raccolta di tale prova attraverso il confronto dialettico; si applica, quindi, un misto di regole legali e regole logiche (art. 497 c.p.p. e ss.) per la ricostruzione del fatto attraverso la testimonianza, della cui valutazione si dovrà dare conto con motivazione, completa, logica e non contraddittoria, in modo da garantire che vi sia stato un apprezzamento equilibrato e non arbitrario.

Del resto, per il caso della impossibilità della audizione diretta del testimone mentre le originarie previsioni del codice consentivano (a seguito di interventi della Corte costituzionale, in particolare con la sentenza n. 255/1992) la piena utilizzazione di dichiarazioni rese in precedenza dalla stessa persona nel caso di sottrazione all'esame (fatta salva, ovviamente, una più attenta valutazione di attendibilità), dalle più rigide disposizioni conseguenti alla riforma dell'art. 111 della Costituzione e alla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo deriva una peculiare regola legale di valutazione della prova: non è di per sé preclusa l'utilizzazione della testimonianza raccolta al di fuori del contraddittorio con la persona che si sia sottratta volontariamente, ma tale dichiarazione non potrà essere da sola posta a base della valutazione di colpevolezza. Dovrà essere, se del caso, necessariamente accompagnata da altri elementi probatori, di fatto una regola analoga a quella articolo 192, comma terzo.

La giurisprudenza (Cass. S.U., n. 27918/2011; Cass. IV, n. 13384/2024), adeguandosi in particolare all'interpretazione – avente natura di “diritto consolidato” – espressa dalla Grande Camera della Corte EDU con le sentenze 15 dicembre 2011, Al Khawaja e Tahery c/ Regno Unito e 15 dicembre 2015, Schatschaachwili c/ Germania, afferma che le dichiarazioni predibattimentali acquisite ai sensi dell'art. 512 c.p.p. possono costituire la base “esclusiva e determinante” dell'accertamento di responsabilità, purché rese in presenza di “adeguate garanzie procedurali”, individuabili “nell'accurato vaglio di credibilità dei contenuti accusatori, effettuato anche attraverso lo scrutinio delle modalità di raccolta e nella compatibilità della dichiarazione con i dati di contesto”.  Ovvero, la difesa deve avere adeguati strumenti compensativi a fronte della impossibilità di interrogare la fonte di accusa.

Si conferma, quindi, che la valutazione della capacità probante della testimonianza deve essere basata sul rispetto di regole di formazione che valgono a consentirne una reale verificabilità.

La giurisprudenza, valorizzando la volontarietà del testimone di sottrarsi al contraddittorio, ammette una libera valutazione delle sole dichiarazioni predibattimentali nel caso del decesso del dichiarante esaminato nel corso delle indagini preliminari quale persona informata dei fatti. In tale caso, si esclude che vi sia violazione dell'art. 6 Cedu, ferma restando, ovviamente, la valutazione della reale capacità dimostrativa dei fatti (Cass. sez. fer., n. 43285/2019, con riferimento alla persona offesa). Invero, le linee guida pubblicate dalla Cedu, ver. 2025, facendo riferimento in particolare alla citata decisione Al Khawaja e Tahery c/ Regno Unito pongono sullo stesso piano, quale causa di mancato contraddittorio, l'assenza per morte o per paura di rappresaglia.

Testimone persona offesa

Il codice consente la testimonianza della persona offesa dal reato senza alcun limite oggettivo, né, in assoluto, quanto alla capacità a testimoniare, né imponendo modalità di valutazione della prova, quali quelle previste per la chiamata in correità.

Ciò vale anche nel caso nel quale nel medesimo processo la persona offesa (o la persona danneggiata) sia costituita parte civile: la ammissibilità di tale testimonianza e la inapplicabilità dei “limiti di prova stabiliti dalle leggi civili”, come statuito all'art. 193 c.p.p., consentono alla persona offesa non solo di testimoniare a sostegno della azione penale ma anche della propria azione civile.

Confermando quanto sopra detto, a fronte di una scelta normativa che non distingue la posizione del testimone persona offesa, la sua posizione di presumibile antagonismo non può neanche essere ritenuta a priori ragione di svalutazione della testimonianza.

Il tema, quindi, si sposta sulla individuazione di regole, come già detto, essenzialmente logiche di approccio a tale testimonianza per valutarne l'attendibilità.

Si considera, poi, come si debbano considerare anche le peculiarità delle singole vicende, categorizzando la tipologia di rapporti, ad es. quando vi sia un rapporto pregresso tra le parti (reati in materia contrattuale, di relazioni familiari etc.) e casi in cui la persona offesa sia una vittima sostanzialmente casuale, che potrebbe anche non avere mai avuto alcuna occasione anche solo di incontro con il reo (es. furto).

Le SS.UU. (n. 41461/2012) hanno effettuato una ricognizione dei principi in materia confermando come “le regole dettate dall'art. 192, comma 3, c.p.p. non trovano applicazione relativamente alle dichiarazioni della parte offesa: queste ultime possono essere legittimamente poste da sole a base dell'affermazione di penale responsabilità dell'imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della loro credibilità soggettiva e dell'attendibilità intrinseca del racconto”. Ma, sul piano valutativo, rilevano come la verifica della attendibilità della persona offesa debba essere più penetrante e rigoroso di quello del testimone indifferente, potendo essere “opportuno” riscontrare le dichiarazioni con altri elementi, soprattutto quando la persona offesa sia costituita parte civile e, quindi, sia “portatrice di una specifica pretesa economica la cui soddisfazione discenda dal riconoscimento della responsabilità dell'imputato” (Cass. I, n. 29372/2010).

Non manca, invero, giurisprudenza che ritiene che la condizione di persona offesa escluda la presunzione di credibilità del teste e imponga “una rigorosa e penetrante verifica di attendibilità intrinseca ed estrinseca del racconto accusatorio”. Il rischio segnalato da tale linea interpretativa è che, se si parte da una presunzione di attendibilità del testimone/persona offesa, rinunciando ad una piena verifica positiva della congruenza delle sue dichiarazioni sia in termini di logica che di corrispondenza agli altri elementi acquisiti, si finisca per imporre all'imputato un onere probatorio che, a ben vedere, diventerebbe imposizione della prova contraria rispetto all'accusa (Cass. III, n. 40849/2012). In questo come in altri casi, invero, rileva la considerazione delle vicende concrete.

Segue. Persona offesa in reati di violenza sessuale e assimilabili

Un ambito (anche statisticamente) rilevante di tipologia di persona offesa, anche per le problematiche comuni ai relativi processi, è quello della testimonianza della persona offesa per reati di violenza sessuale e reati che pongono problematiche analoghe (circonvenzione di incapace, casi di maltrattamenti in cui siano vittime minori e/o soggetti incapaci). Si tratta di reati che, attualmente, sono catalogati dalla legge per la presenza di problematiche comuni (l. n. 69/2019, cd “codice rosso”; l. n. 168/2023).

È un ambito nel quale vi è un tema di attendibilità (la citata Cass. III, n. 40849/2012 riguardava proprio tale materia) sul piano soggettivo, sia quanto al rischio di mendacio (non solo per la possibilità di false accuse ma anche di false ritrattazioni), che, sul piano oggettivo, quanto al pericolo di cattiva rappresentazione dei fatti soprattutto nella ipotesi di soggetti minori o di minore capacità mentale.

È in questione, oltre all'ovvio tema della corretta valutazione della affidabilità delle dichiarazioni, la necessità/utilità del ricorso a sostegno esterno per la valutazione. Al riguardo si devono scindere due momenti: il primo riguarda la possibile necessità di accertamento della concreta capacità di testimoniare, che potrà essere oggetto di consulenza/perizia trattandosi di appurare se il testimone sia in grado di percepire la realtà e riferire sui fatti di cui è a conoscenza senza influenze dovute a patologie (Cass. III, n. 15207/2020), il secondo la effettiva raccolta e valutazione delle dichiarazioni che, per quanto possa essere supportata da tecniche/esperti, resta atto del giudice (Cass. IV, n. 44644/2011, Cass. n. 24264/2010).

La regola generale, ovviamente, e che le dichiarazioni della vittima affetta da deficit psichico (da intendere anche quello connaturato all'essere di minima età), pur a fronte del rischio di erronea percezione e rappresentazione, suggestionabilità ad opera di terzi etc., non possono essere ritenute inattendibili “a prescindere“ (Cass. III, n. 44171/2023; Cass. II, n. 21977/2017) ma rendono sostanzialmente obbligatoria la verifica di attendibilità e la ricerca di eventuali elementi esterni di supporto.

Tendenzialmente (Cass. III, n. 2849/2023 in un caso di minore di anni tre), per il rischio intrinseco ed estrinseco (il condizionamento ad opera di terzi), il corretto criterio di raccolta valutazione della prova, tale da divenire di fatto una regola cogente, è quello dell'“esame giudiziale critico improntato a canoni di neutralità e rigore, che richiede l'opportuno ausilio delle scienze di pedagogia, psicologia e sessuologia”.

Il giudice, comunque, resta responsabile della valutazione di attendibilità potendo utilizzare il supporto degli esperti ma non delegare a periti e consulenti tecnici un giudizio definitivo di idoneità del teste riferire fatti (Cass. III, n. 189/2021).

Quanto all'utilizzo delle metodiche del tipo di quelle della cd. “Carta di Noto” (Cass. III, n. 648/2017; Cass. III, n. 23012/2020) e del cd. test di Rorschach, non potranno certo essere ritenute obbligatorie trattandosi di “meri suggerimenti diretti a garantire l'attendibilità delle dichiarazioni e la protezione psicologica del minore “ ma, potranno essere ritenute modalità il cui mancato rispetto dovrà essere giustificato.

Segue. Il testimone esperto

L'espressione testimone esperto, che non è una categoria normativa bensì creata in via interpretativa, è talora utilizzata sia in riferimento alla polizia giudiziaria che testimonia sulle attività di indagine che a soggetti che intervengono nelle forme della testimonianza per aver svolto attività tecniche durante le indagini o, eventualmente, perché chiamati per le loro capacità tecniche rispetto all'oggetto del processo (fuori dai casi della perizia/consulenza di cui all'art. 501).

Innanzitutto, si tratta di casi (soprattutto con riferimento alla polizia giudiziaria) in cui la valutazione di attendibilità è tendenzialmente implicita per ovvie ragioni di affidabilità delle forze dell'ordine e indifferenza del dichiarante rispetto al tema di testimonianza salvo, ovviamente, le considerazioni del caso concreto– qui, anticipando il tema degli “apprezzamenti” si precisa che si tratta di soggetti per i quali tendenzialmente si ritengono ammissibili sia dichiarazioni che “valutazioni”.

Per rientrare nell'ambito della prova testimoniale si deve, però, trattare di dichiarazioni su dati di fatto, sia pur nella percezione “qualificata” consentita dalle speciali conoscenze del testimone esperto e non, invece, della loro valutazione dei medesimi dati di fatto secondo un apprezzamento soggettivo del testimone; le valutazioni, difatti, potrebbero entrare a far parte del materiale probatorio soltanto attraverso una consulenza tecnica (od una perizia) (Cass. II, n. 40840/2007). Nella casistica il tema è sviluppato quanto all'accertamento mediante testimonianza della contraffazione di marchi o modelli, spesso svolto ricorrendo alla testimonianza di soggetti qualificati per l'attività svolta nel settore (Cass. II, n. 4128/2020) o della contraffazione di documenti, dimostrata con la testimonianza di appartenenti alla polizia (Cass. V, n. 38221/2008).

Il terzo comma

Il terzo comma offre innanzitutto ulteriori indicazioni sull'oggetto della testimonianza: la prima, “Il testimone è esaminato su fatti determinati”, previsione cui corrisponde la regola in tema di svolgimento della prova (art. 499, c.p.p.) “L'esame testimoniale si svolge mediante domande su fatti specifici”. Rinviandosi al relativo commento, si consideri come il ruolo centrale del giudice nel controllo dell'esame incrociato è innanzitutto nel garantire il rispetto di questa regola.

La indicazione dell'oggetto non riguarda, comunque, il modo in cui il testimone abbia avuto conoscenza dei fatti dei quali riferisce e, al riguardo, rileva quanto prevede la seconda parte del terzo comma, che introduce dei limiti: “ Non può deporre sulle voci correnti nel pubblico né esprimere apprezzamenti personali salvo che sia impossibile scinderli dalla deposizione sui fatti”.

Il tema dell'”apprezzamento personale”, quale posto dalla norma, è in sé chiaro, dovendosi distinguere tra un non consentito apprezzamento che sia distinto dal fatto (es: “ per quanto capitatogli, sono sicuro che avesse desiderio di vendetta”), e un apprezzamento inevitabile (es: “per la luce ambientale, credo che fosse primo pomeriggio”).

Un ambito tipico nel quale l'apprezzamento personale è ammesso è quello già detto del “testimone esperto”. Al di fuori di tale ambito, non risultano particolari questioni: la regola sarà applicata dal giudice nella conduzione dell'esame testimoniale, non consentendo di formulare domande in ordine a meri apprezzamenti personali. Peraltro, va considerata la tendenziale inutilità di una testimonianza che consista in tali apprezzamenti: non potrà essere ritenuto dimostrato alcunché sulla sola base della valutazione personalistica del dichiarante.

Segue. Voci correnti nel pubblico

Nella sua sintesi, l'espressione è riferibile alle notizie e/o opinioni che circolano tra gruppi indistinti di persone, senza alcuna base verificabile. Insomma, è ciò che “si dice in giro”, in contesti più o meno ampi.

La previsione del divieto, già presente nella codificazione precedente, ha più ragioni, ben comprensibili. Difatti, al carattere di testimonianza indiretta, non riferendo il testimone di fatti caduti sotto la sua percezione, si aggiunge la impossibilità di individuazione della fonte originaria, tanto che una risalente giurisprudenza la assimilò al concetto di scritto anonimo (SS.UU. n. 1653/1993: “snatura il carattere principale di informazione diretta proprio della testimonianza, si risolve nella introduzione nel giudizio di fonti assimilabili agli scritti anonimi”)

Invero, alla chiara regola di inutilizzabilità formale (la disposizione è interpretabile quale divieto probatorio) corrisponde una ben netta sostanziale inutilità.

Difatti, è su un piano logico improbabile che la informazione introdotta dalla testimone quale voce corrente possa avere la capacità di dimostrare un fatto. Per fare un esempio, pur se il teste dovesse affermare “tutti dicevano che era stato lui”, il “fatto” (la voce corrente) oggetto della sua prova non avrebbe alcuna capacità di dimostrare la responsabilità di “lui”.

Resta al di fuori, ovviamente, il caso in cui oggetto di prova sia il fatto che esisteva una “voce corrente”: ad esempio, nel caso in cui si debba dimostrare che l'aggressione da parte dell'imputato sia stata motivata per esserci una voce corrente che indicava la vittima quale autore di una data condotta.

Lo scopo della disposizione, quindi, è, oltre quello di affermare un divieto probatorio, quello di evitare l'introduzione nel processo di una informazione che potrebbe essere comunque suggestiva e inquinare la qualità della testimonianza.

Si sono, però, considerate situazioni in cui il concetto diventa labile rispetto a notizie riferite dal testimone che non hanno la genericità della “voce corrente”, dubitandosi se si debba trattare di prove comunque inutilizzabili.

La giurisprudenza è sostanzialmente stabile nell'affermare che il concetto di “voci correnti nel pubblico, prevista dall'art. 194, comma terzo, c.p.p., non è applicabile alle notizie circoscritte ad una cerchia ben determinata ed individuabile di persone, come gli appartenenti ad una associazione per delinquere ed i parenti dell'imputato” (Cass. I, n. 11969/1994). Si tratta, invero, nelle situazioni sostanzialmente assimilabili a quella della testimonianza indiretta in cui il testimone riferisce di circostanze apprese da persone determinate, ancorché non identificate (Cass. II, n. 6861/2024; Cass. II, n. 47404/2011; Cass. VI, n. 31721/2008).

Segue . Fatto notorio e fonti aperte

La voce corrente nel pubblico è nozione che può essere avvicinata a quella di “fatto notorio”, in quanto circostanza che non consente una chiara individuazione di una fonte.

Il fatto notorio è una notizia di dominio pubblico, conosciuta dalla generalità delle persone, che non richiede di essere dimostrata essendo una verità universalmente riconosciuta.

Invero, non dovrebbe esservi difficoltà a distinguerla dalla “voce corrente” né dovrebbero porsi problemi in tema di prova testimoniale al riguardo. Innanzitutto, in quanto fatto notorio non dovrebbe esservi necessità che sullo stesso intervenga una prova testimoniale essendo per definizione un fatto che non richiede prova perché la sua verità è universalmente riconosciuta. Va però considerato come, in tempi più recenti, per gli effetti delle diffusione di informazioni via Internet, sia frequentemente affrontato il tema delle cosiddette “fonti aperte” (Cass. I, n. 24117/2024; Cass. II, n. 47883/2023), sostanziale evoluzione del fatto notorio nella società della informazione e in giurisprudenza si sia rilevato come vi sia il rischio che, laddove il testimone sia sentito su vicende complesse, possa introdurre nel processo notizie pur apprese da cd “fonti aperte” che, però, siano a loro volta basate su informazioni generiche (equivalente, quindi, delle voci correnti). Cass. VI, n. 14838/2025, coerentemente, ritiene inutilizzabili tali notizie acquisibili da Internet, ma di provenienza incontrollabile, inserite nel processo attraverso la testimonianza della polizia giudiziaria su indagini consistenti in ricerche online (cd open source intelligence) senza validazione dei risultati.

Testimonianza su documenti-intercettazioni. Ricognizioni Testimonianza su documenti-intercettazioni. Ricognizioni

L'assenza di limiti al contenuto della testimonianza consente di utilizzarla anche per acquisire informazioni diversamente verificabili, in particolare documenti (di qualsiasi natura, anche fotografie).

Quindi è utilizzabile la testimonianza sul contenuto di un documento. L'evidente maggior tasso di errore della prova dichiarativa non incide sulla inutilizzabilità ma, come in generale per la prova testimoniale, sulla sua affidabilità (applicazioni in Cass. VI, n. 37367/2014 e, con riferimento a fotografie, Cass. III, n. 47666/2022).

Si rinvia al commento all'art. 213 c.p.p. in ordine alla testimonianza avente ad oggetto il riconoscimento di persone o cose.  

 

Bibliografia

AA.VV., Il minorenne fonte di prova nel processo penale, a cura di Cesari, Milano, 2005; AA.VV., Il testimone vulnerabile, a cura di Carponi Schittar, Milano, 2005; Aprile, La prova penale, Milano, 2002; Aprile - Silvestri, Strumenti per la formazione della prova penale, Milano, 2009, 307; Avanzini, La prova dichiarativa nel processo penale, in Foro ambr. 2004, 134; Balsamo, Art. 194, in Lattanzi-Lupo (a cura di), Codice di procedura penale. Rassegna di giurisprudenza e dottrina, Milano, 2020, 67; Balsamo, La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e il principio del contraddittorio: fra tradizione e innovazione, in Cass. pen. 2006, 3017; Ramajoli, La prova nel processo penale, Padova, 1995; Tonini, La prova penale, Padova 1997; Tonini - Conti, Il diritto delle prove penali, Milano, 2012.

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