Codice di Procedura Penale art. 197 - Incompatibilità con l'ufficio di testimone. (1).

Pierluigi Di Stefano

Incompatibilità con l'ufficio di testimone. (1).

1. Non possono essere assunti come testimoni:

a) i coimputati del medesimo reato o le persone imputate in un procedimento connesso a norma dell'articolo 12, comma 1, lettera a), salvo che nei loro confronti sia stata pronunciata sentenza irrevocabile di proscioglimento, di condanna o di applicazione della pena ai sensi dell'articolo 444 (2);

b) salvo quanto previsto dall'articolo 64, comma 3, lettera c), le persone imputate in un procedimento connesso a norma dell'articolo 12, comma 1, lettera c), o di un reato collegato a norma dell'articolo 371, comma 2, lettera b), prima che nei loro confronti sia stata pronunciata sentenza irrevocabile di proscioglimento, di condanna o di applicazione della pena ai sensi dell'articolo 444 (2);

c) il responsabile civile [83] e la persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria [89];

d) coloro che nel medesimo procedimento svolgono o hanno svolto la funzione di giudice, pubblico ministero o loro ausiliario nonché il difensore che abbia svolto attività di investigazione difensiva e coloro che hanno formato la documentazione delle dichiarazioni e delle informazioni assunte ai sensi dell'articolo 391-ter (3).

(1) Per la responsabilità degli enti per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato, v. art. 44, comma 2, d.lg. 8 giugno 2001, n. 231.

(2) Lettera così sostituita dall'art. 5 l. 1° marzo 2001, n. 63.

(3) Lettera così modificata dall'art. 3 l. 7 dicembre 2000, n. 397.

Inquadramento

A fronte della regola generale posta dal primo comma dell’art. 196 c.p.p., secondo cui vige il principio di “universalità” della capacità di testimoniare, l’art. 197 c.p.p. introduce alcune eccezioni, prevedendo specifiche ipotesi di “incompatibilità con l’ufficio di testimone” per soggetti che, rispetto al singolo processo, si trovano in particolari rapporti.

Si tratta, invero, di previsioni eterogenee, ciascuna sorretta da una propria ratio:

– sono incompatibili (lett. d) coloro che nel procedimento abbiano svolto attività di giudice, pubblico ministero, difensore che abbia svolto attività di investigazione difensiva e i loro ausiliari; in questo caso la norma intende evitare indebite sovrapposizioni di ruoli e condizionamenti, salvaguardando l’efficienza del processo;

– sono incompatibili (lett. c) il responsabile civile e la persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria, soggetti assimilabili all’imputato. Avendo il medesimo interesse, quindi, non è possibile imporre a tali soggetti l’obbligo di rispondere e di dire la verità, anche contro il proprio interesse.

– Sono incompatibili i soggetti indicati alle lettere a) e b), imputati nel medesimo reato o in reati connessi/collegati, sino a quando nei loro confronti non sia pronunciata sentenza irrevocabile o, limitatamente ai soggetti di cui alla lettera b), quando abbiano accettato di rendere dichiarazioni nei confronti dell’imputato (rectius, in sede di interrogatorio, ammoniti ex art. 63, comma 3, lett. c), non si siano avvalsi della facoltà di non rispondere e abbiano reso dichiarazioni su fatti concernenti la responsabilità di terzi). Rileva il rapporto tra i reati a prescindere dal fatto che si proceda separatamente o in processo riunito.

Quest’ultimo è il caso più rilevante e decisamente il più complesso. L’attuale norma è il frutto della riforma della legge 63 del 2001 che adeguava il codice ai principi del “giusto processo”, in particolare in ragione della costituzionalizzazione del principio del contraddittorio.

L’incompatibilità prevista dall’art. 197 c.p.p. per i soggetti in posizione assimilabile a quella dell’imputato trova fondamento nel principio del nemo tenetur se detegere, in quanto le loro dichiarazioni potrebbero compromettere la propria posizione processuale, dovendo riferire sullo stesso fatto o su fatti che condizionano l’accertamento anche della propria responsabilità. Perciò, a tali soggetti viene riconosciuto uno status analogo a quello dell’imputato, con la conseguenza che possono essere esaminati soltanto ai sensi dell’art. 210 c.p.p. (“esame di persona imputata in un procedimento connesso”). Quindi, con diritto al silenzio e senza l’obbligo di dire la verità.

La norma vigente dal 2001, pur confermando la necessità di tutelare tali soggetti confermando la incompatibilità a testimoniare, ne ha però limitato l’ambito rispetto alla previsione originaria del codice, dovendo garantire il diritto al contraddittorio sulla prova.

La disposizione va allora letta unitamente agli artt. 64 e 197 bis c.p.p., che hanno introdotto, per i soggetti di cui alle lettere a) e b) dell’articolo in esame, la particolare figura del “testimone assistito”:

la incompatibilità viene meno quando il soggetto abbia visto definita la propria posizione con sentenza irrevocabile o perché (nei casi dell’art. 197 lett. b), accetti di rendere dichiarazioni a carico di terzi anche dopo l’ammonimento ex art. 64, comma 3 lett. c), c.p.p. che in tale modo assumerà la condizione di testimone; ma la testimonianza sarà soggetta a modalità, limiti e criterio legale di valutazione dell’art. 197 bis c.p.p.

In particolare, rileva la estensione alla valutazione delle dichiarazioni del testimone che sia imputato o già imputato in reato collegato o connesso della regola dell’art. 192, comma 3, c.p.p., ovvero la necessità di “riscontri esterni” (“sono valutate unitamente agli altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità”).

Da ciò si ricava che la ratio dell’incompatibilità prevista dall’art. 197 c.p.p., per i soggetti delle lett. a) e b), non risiede in una generale sfiducia nell’attendibilità della loro prova (come anche affermò qualche remota decisione), bensì esclusivamente nella tutela del diritto al silenzio e a non autoincriminarsi.

Venute meno le ragioni di tale tutela, la testimonianza diviene ammissibile, con conseguente obbligo di rispondere e di dire la verità.

La disposizione in esame, “stante il suo sostanziale valore di limite alla regola generale di cui al primo comma dell’art. 196” (Cass. S.U., n. 33583/2015), è di stretta interpretazione, criterio fondamentale per definire le situazioni dubbie, considerato che, al di là della previsione espressa di inutilizzabilità dell’art. 64, comma 3-bis, c.p.p. per il caso di mancato ammonimento del dichiarante che renda poi dichiarazioni nei confronti di terzi, la sanzione per il mancato rispetto della disposizione in esame è chiaramente la inutilizzabilità ex art. 191 c.p.p. per violazione di un divieto probatorio.

L’incompatibilità dei concorrenti nello stesso reato

L'art. 197, lett. a), c.p.p. prevede la radicale incompatibilità a rendere testimonianza per le persone coimputate per lo stesso reato o imputate in procedimento connesso ex art. 12 lett. a). Ovvero, nei confronti di chi sia sottoposto attualmente a processo per lo stesso reato “commesso da più persone in concorso o cooperazione fra loro, o se più persone con condotte indipendenti hanno determinato l'evento”. Si tratta di una connessione “forte” in quanto la eventuale testimonianza avrebbe immediato riferimento anche alla posizione del dichiarante, potendola pregiudicare e, comunque, sussiste tipicamente la spinta a dire il falso per favorire sé stessi.

La presenza di questo forte interesse, tale da condizionare la genuinità della deposizione, è la ragione per la quale non è prevista la possibilità, come per i soggetti di cui alla lettera b), di accettare di rendere dichiarazioni prima della definizione della propria posizione con sentenza irrevocabile.

La individuazione dei casi in cui si applica la disposizione non dà luogo a dubbi, non risultando dalla giurisprudenza alcuna particolare problematica se non quella, di cui appresso, in tema di archiviazione.

L’incompatibilità degli imputati di reati connessi o collegati

La lettera b) riguarda gli imputati di reati diversi da quello oggetto del processo, ma ad esso connessi o collegati, in modo tale che le loro dichiarazioni possano verosimilmente incidere sulla loro stessa posizione processuale.

In base al richiamo esplicito della norma, si tratta del caso in cui “ ... dei reati per cui si procede gli uni sono stati commessi per eseguire o per occultare gli altri” (connessione ex art. 12, comma 1, lett. c) nonché dei

– “reati dei quali gli uni sono stati commessi in occasione degli altri”;

– reati commessi “per conseguirne o assicurarne al colpevole o ad altri il profitto, il prezzo, il prodotto o l'impunità

– reati “commessi da più persone in danno reciproco le une delle altre;

– caso in cui “la prova di un reato o di una sua circostanza influisce sulla prova di un altro reato o di un'altra circostanza”.

Ipotesi, queste, previste dall'art. 371, comma 2, lettera b), c.p.p.

Anche in questi casi, la incompatibilità è giustificata dal presumibile interesse di tali soggetti: la loro posizione sostanziale nel proprio procedimento ben può essere condizionata strettamente dalle proprie dichiarazioni e, quindi, per le stesse ragioni non sono possono essere loro imposti l'obbligo di rispondere e l'obbligo di dire la verità.

Quindi, permane, l'incompatibilità alla testimonianza, come per la connessione “forte” dell'art. 197, lett. a), sino a quando intervenga una decisione definitiva sul reato contestato al dichiarante.

Nel caso della lett. b), in quanto connessione “debole”, la disposizione prevede che la incompatibilità venga meno anche nella ipotesi in cui il soggetto, per propria scelta - consapevole dovendo avere (a pena di inutilizzabilità) l'espresso avviso di cui all'articolo 64, lettera c) – abbia già reso dichiarazioni a carico dell'imputato.

Il venir meno della garanzia della incompatibilità, in sostanza, è rimessa alla specifica volontà della parte; resta una forma peculiare di testimonianza cd “assistita”, come risulta dal successivo articolo.

Con riferimento all'applicazione della disposizione, il tema maggiormente considerato in giurisprudenza riguarda la corretta individuazione dei casi in cui operano le ragioni di connessione/collegamento probatorio,

Ai fini del collegamento “occasionale” ritenuto rilevante ai fini in esame, la giurisprudenza individua comunque la necessità di un “legame spazio-temporale tra i reati e l'identità soggettiva degli autori degli stessi”, nel senso, quindi, che un reato, in stretto collegamento naturalistico (Cass. II, n. 26819/2008), abbia “favorito, consentito, propiziato o motivato l'altro” (Cass. VI, n. 58089/2017; Cass. VI, n. 43022/2003). È, ad es., la situazione rilevata da Cass. II, n. 7802/2020 in un caso di cessione di droga da destinare allo spaccio (la decisione precisa che i due imputati rispondevano ciascuno di diverse e autonome condotte monosoggettive dell'art. 73, d.P.R. 309/1990).

Anche quanto ai reati commessi in danno reciproco, la giurisprudenza chiarisce che deve sussistere un effettivo legame spazio-temporale, affermazione resa in particolare nei frequenti casi in cui l'imputato denunci la persona offesa per calunnia; a parte l'argomento, solo occasionalmente presente in giurisprudenza, per il quale non potrebbero sussistere entrambi i reati (Cass. VI, n. 45206/2013, la calunnia presuppone che non sia stato commesso il reato oggetto di falsa denuncia), proprio in tale caso si afferma che una lettura ragionevole e costituzionalmente orientata della previsione dell'art. 371, comma 2, lett. b), c.p.p. imponga di escludere che la connessione ricomprenda reati che, pur se formalmente reciproci, siano stati commessi in contesti spaziali e temporali del tutto diversi (Cass. II, n. 4128/2015; Cass. VI, n. 6938/2019). La ragione è chiara: proprio perché la incompatibilità deriva dalla presumibile incidenza anche nei propri confronti delle dichiarazioni rese contro l'imputato, non avrebbe alcuna ragionevolezza applicarla a fatti del tutto slegati. L'incompatibilità, infatti, è relativa a rapporti tra i fatti e non tra le persone, non si tratta di una incompatibilità per inimicizia.

Altro caso di reciprocità rilevante, è quello delle lesioni reciproche (Cass. V, n. 13267/2020).

Quanto al collegamento probatorio, va considerato che il medesimo articolo 371 alla lett. c), c.p.p. escluso dalle ipotesi di incompatibilità, prevede il caso del “se la prova di più reati deriva, anche in parte, dalla stessa fonte”; ciò dimostra, a contrario, che la connessione probatoria rilevante ai fini della incompatibilità (ex lett. b) del medesimo art. 371 c.p.p. ricorra esclusivamente in presenza di ragioni oggettive per le quali l'accertamento di un reato sia destinato ad influire su quello degli altri (Cass. V, n. 33170/2009), e non in caso di relazione generica (ad es. tra reati che siano manifestazione del conflitto tra opposte organizzazioni criminali, non risultando per ciò solo né un collegamento probatorio né una ipotesi di reati in danno reciproco, Cass. VI, n. 58089/2017).

Va infine considerato il particolare caso del cosiddetto “agente provocatore” rispetto al quale potrebbe ipotizzarsi la formale commissione di reati che imporrebbero quantomeno l'applicazione dell'articolo 197-bis c.p.p. Invero, si osserva che l'attività (frequente il caso dell'acquisto simulato di droga, caratterizzato dalla riserva mentale dell'investigatore che si finge acquirente) dell'agente provocatore solitamente non integra l'oggettività del reato perché la sua azione è esclusivamente fittizia (Cass. VI, n. 47672/2023); in altri casi, si afferma che la sussistenza del reato dell'agente provocatore è comunque esclusa perché scriminato per adempimento del dovere (Cass. IV, n. 9188/2010; Cass. VI, n. 9299/1995).

Accertamento della posizione di incompatibilità – qualificazione del soggetto

La giurisprudenza è stata a lungo incerta sull’essere necessario che, per applicare la disciplina in esame, sia necessaria la qualità formale di indagato o imputato e che, quindi, non sussista incompatibilità in assenza di iscrizione formale.

Al riguardo è sufficiente dare conto dell’intervento “definitivo” delle Sezioni Unite (Cass. S.U., n. 15208/2010) che, nel comporre il contrasto, hanno considerato come le ragioni che impongono il riconoscimento della garanzia dell’incompatibilità in favore dei coimputati, ovvero non obbligare costoro a rendere dichiarazioni che potrebbero danneggiare loro stessi, portino ad una conclusione univoca: conta il dato sostanziale e, quindi, al di là del riscontro di indici formali, come l’eventuale già intervenuta iscrizione nominativa nel registro delle notizie di reato, spetta al giudice il potere di verificare in termini sostanziali l’attribuibilità della qualità di indagato al dichiarante.

Chiarito tale punto, la giurisprudenza successiva, con riferimento alla situazione di cui alla lett. b), ha affermato che, ove le condizioni della incompatibilità non risultino dagli atti e, quindi, non siano percepibili dal giudice, la stessa debba essere dedotta prima dell’esame, escludendo quindi la inutilizzabilità della testimonianza resa da soggetto non ammonito ai sensi dell’art. 64, comma 3, c.p.p. in un caso di reati in danno reciproco ( Cass. V, n. 13391/2019). Cass. III, n. 40196/2007 rileva che la norma sulla incompatibilità, che quindi impone l’esame ai sensi dell’art. 210 c.p.p. con assistenza del difensore, tutela il dichiarante e, quindi, egli è onerato alla relativa eccezione; questa, invece, non può essere proposta dall’imputato, privo di interesse sul punto (la tesi, però, lascia qualche dubbio in quanto non considera che l’imputato ha interesse a riconoscere le condizioni dalle quali consegue l’applicazione del più rigido regime di valutazione della prova ex art. 192, comma 3, c.p.p.).

Un contrasto interpretativo ha riguardato anche il tema della qualifica da ritenere prevalente laddove lo stesso soggetto rivesta sia qualità di persona offesa che di imputato in procedimento connesso (tipica situazione dei reati in danno reciproco), la prima consentendo la testimonianza comune, la seconda imponendo le più stringenti regole ex artt. 197-bis e 210 c.p.p.

La giurisprudenza, inizialmente, aveva in larga parte affermato che avesse maggiore “pregnanza” la posizione di persona offesa e, quindi, che vi fosse compatibilità con la testimonianza e, soprattutto, operasse pienamente il principio di valutazione libera della prova, non necessitante di riscontri oggettivi.

Le Sezioni Unite, però, hanno infine affermato che Il soggetto che riveste la qualità di imputato in procedimento connesso ai sensi dell’art. 12, comma primo lett. c), c.p.p. o collegato probatoriamente, anche se persona offesa dal reato, deve essere assunto nel procedimento relativo al reato connesso o collegato con le forme previste per la testimonianza cd “assistita” (Cass. S.U., n. 12067/2010). La decisione rileva che la tesi della prevalenza della qualità di persona offesa era stata affermata prima della modifica dell’art. 111 Cost. ed era fondata sul principio di ricerca della verità, da ritenersi superato nel successivo contesto in un cui il sistema prescelto dal legislatore costituzionale prevede che il principio del nemo tenetur se detegere prevalga anche laddove comporti in concreto “la impossibilità di acquisire una prova nella peculiare situazione di reati commessi da più persone in danno reciproco le une delle altre” (Corte cost., ord. n. 291/2002). Non vi è, quindi, alcuna attuale base normativa per escludere la incompatibilità prevista testualmente nell’art. 197 c.p.p.

Archiviazione e sentenza di non luogo a procedere – indagato e imputato – altri casi

La disposizione, come si è detto, fonda l’incompatibilità sul diritto del coimputato al silenzio e a non rendere dichiarazioni dannose per sé stesso. Ma, a tutela dell’opposto diritto al contraddittorio e di difesa, dispone che tale incompatibilità venga meno quando intervenga il giudicato sul fatto contestato al dichiarante il quale, condannato o assolto che sia, non può più essere sottoposto ad ulteriore processo per la medesime vicenda, applicandosi il divieto del bis in idem. Ovvero, non può più subire alcun danno in sede penale (Cass. S.U., n. 12067/2010).

Atteso il tenore letterale della disposizione (“sentenza irrevocabile di proscioglimento, di condanna o di applicazione della pena”), la sua natura eccezionale, e, soprattutto, la sua ratio, la giurisprudenza esclude che l’incompatibilità possa venire meno sulla base di una sentenza di non luogo a procedere a seguito di udienza preliminare. Tale sentenza, difatti, pur quando non più impugnabile, resta però revocabile alle condizioni di cui all’art. 434 c.p.p.; perciò, non viene meno il rischio di incriminazione a carico del dichiarante (Cass. I, n. 46966/2004).

Tale stessa linea giurisprudenziale, però, afferma che la incompatibilità a testimoniare venga meno nel caso in cui la revoca non possa essere più utilmente disposta (Cass. VI, n. 53436/2016), situazione che ricorre, ad esempio, nel caso di sentenze di non luogo a procedere per intervenuta prescrizione, poiché, una volta applicata tale causa di estinzione, l’effetto preclusivo è irreversibile, al pari di quello di cui all’art. 649 c.p.p. non potendosi configurare neppure in via ipotetica la sopravvenienza di presupposti per un nuovo esercizio dell’azione penale (Cass. VI, n. 31945/2007).

La lettera della disposizione non considera neanche il caso del soggetto nei cui confronti sia stata pronunciato decreto di archiviazione per fatti connessi o collegati; parte della giurisprudenza aveva quindi ritenuto che, essendo in tale caso possibile riaprire le indagini ex art. 414 c.p.p. dopo la archiviazione, permanga un interesse al silenzio dell’ex indagato; in tal modo valorizzava il silenzio della legge in termini di esclusione.

Il contrasto, però, è stato risolto in altri termini dalle S.U., sent. 12067/2010, che hanno affermato che la intervenuta archiviazione faccia venir meno del tutto le condizioni della incompatibilità e il soggetto vada ritenuto testimone “comune” e non “assistito” ai sensi dell’art. 197-bis c.p.p. La ragione è, oltre al dato testuale che fa riferimento costantemente all’“imputato”, qualificazione che non comprende l’indagato, nel fatto che l’archiviazione rappresenta un’ipotesi in cui il pubblico ministero non ha ritenuto sussistere le condizioni per l’esercizio dell’azione penale, e la eventualità della riapertura ex art. 414 è «sostanzialmente assimilabile, e anzi probabilisticamente inferiore, a quella della possibile “apertura” nei confronti di qualsiasi soggetto”. Inoltre, se rilevasse la mera iscrizione pur non in grado di condurre ad alcuna ipotesi di accusa concreta si offrirebbe all’accusato la possibilità di rendere inutilizzabili le dichiarazioni del suo potenziale accusatore con una denuncia pretestuosa.

La condizione di soggetto definitivamente condannato, che quindi può essere sentito quale testimone assistito, sussiste anche per colui la cui posizione sia stata separatamente definita nel procedimento minorile per positiva messa alla prova, che è equiparabile ad una sentenza di condanna (Cass. IV, n. 79642013) nonché per il destinatario di decreto penale divenuto definitivo.

Responsabile civile e la persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria

La individuazione dei soggetti incompatibili di cui alla lett. c) non pone particolari problemi, essendo il responsabile civile e la persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria tali in base ad una qualificazione formale assunta nel processo. È evidente che la ragione della scelta normativa è lo stretto collegamento esistente fra la loro posizione e quella dell'imputato; ricorrono quindi le stesse esigenze di diritto al silenzio, ovvero le ragioni che escludono la testimonianza dell'imputato.

Questa previsione, invece, è stata considerata quale indice di irragionevole difforme trattamento rispetto alla parte civile per la quale non è prevista incompatibilità e che, anzi, l'art. 208, comma 1, c.p.p. testualmente indica quale possibile testimone.

Invero, tale diverso trattamento è chiaramente giustificato dalla ratio della incompatibilità, che si rinviene nella necessità di garantire il diritto al silenzio e non, invece, nella prevenzione del rischio di una testimonianza non genuina. Perciò non sono comparabili le posizioni della persona offesa e dei soggetti della lettera c).

Peraltro, investita del tema, la Corte costituzionale con la sentenza n. 115/1992 ha ritenuto costituzionalmente legittima la mancata estensione della incompatibilità alla parte civile.

Persone che hanno svolto funzioni nel procedimento

Pochi problemi pone la previsione delle incompatibilità del giudice e del pubblico ministero, sia quanto alla individuazione dei casi di applicazione che della ragione della esclusione della loro testimonianza.

La Corte costituzionale, con sentenza n. 66/2014, ha ritenuto infondata la denuncia di incostituzionalità della previsione dell'incapacità di testimoniare anche nel caso di richiesta di deposizione del giudice finalizzata ad accertare l'esistenza di un errore di un verbale del processo.

Taluni problemi interpretativi, invece, si pongono per l'individuazione dell'ausiliario.

La giurisprudenza chiarisce che la norma è riferita all'ausiliario in senso tecnico, personale della segreteria e della cancelleria, con riferimento alle attività in tema di assistenza tecnica e documentazione degli atti e non, invece, con riferimento allo svolgimento delle attività di indagine (Cass. V, n. 17951/2020).

In conseguenza, è del tutto escluso che possa vedersi in tale disposizione una ragione di incompatibilità alla testimonianza della polizia giudiziaria che ha indagato essendo, anzi, proprio tale prova la modalità per portare il giudice a conoscenza delle attività svolte dagli operanti (Cass. II, n. 36483/2011). Né, per la previsione testuale, che fa riferimento all'ausiliario di Pm o giudice, si può estendere l'incompatibilità all'ausiliario della polizia giudiziaria, peraltro chiamato a svolgere attività non di documentazione ma di contributo alle indagini (Cass. III, n. 6/2019).

Si chiarisce, comunque, che l'incompatibilità dell'ausiliario è limitata alla testimonianza sulle circostanze apprese nell'espletamento dell'incarico e non ha, quindi, natura di incompatibilità assoluta (Cass. IV, n. 17043/2009).

Le regole di incompatibilità sono le medesime con riferimento ai soggetti esterni all'amministrazione di cui si avvalga il P.m.: è compatibile, ovviamente, il consulente tecnico che abbia svolto attività finalizzate alla raccolta della prova, essendo peraltro prevista espressamente la sua audizione in dibattimento (Cass. III, n. 8377/2008); non lo sono invece i soggetti che abbiano prestato assistenza assimilabile a quella della segreteria, come nel caso dell'esperto di neuropsichiatria o psicologo infantile, nominato ausiliario per assistenza del Pm nell'assunzione di sommarie informazioni di un minorenne, con il compito di valutarne l'attendibilità/affidabilità (Cass. III, n. 4526/2002; Cass. III, n. 45976/2005).

Non rientra in tale ambito di incompatibilità il soggetto chiamato a svolgere attività di interprete, non essendo qualificabile quale ausiliario; quindi, mancando una previsione esplicita; né rileva in via di analogia, non consentita per la materia di stretta interpretazione, la previsione dell'art. 144, comma 1, lett. d), c.p.p., che prevede la incompatibilità del testimone a prestare successivamente alla deposizione l'ufficio di interprete (Cass. V, n. 4561/2024; Cass. II, n. 26011/2008).

Per la nuova figura del mediatore nel procedimento di giustizia riparativa, si veda il commento all'art. 200 c.p.p.

Il difensore e i suoi ausiliari

La previsione della incompatibilità del difensore soltanto nel caso in cui abbia svolto attività di investigazioni difensive (estesa ai soggetti che hanno formato la relativa documentazione) è di chiara applicazione e segue la logica della incompatibilità del giudice e del pubblico ministero.

Tale incompatibilità alla testimonianza sul contenuto dell'attività d'indagine difensiva permane anche dopo la dismissione del mandato difensivo, non potendosi in tal modo aggirare la disposizione (Cass. V, n. 8756/2014).

L'art.197 c.p.p., invece, non prevede alcuna incompatibilità per il difensore al di fuori dello svolgimento di attività di indagini difensive, trattandosi di questione che attiene alla sfera deontologica del professionista (ed è, difatti, disciplinata dal codice deontologico degli avvocati). La Corte costituzionale, con ord. n. 433/2001, ha espressamente escluso la incostituzionalità della omessa previsione.

La giurisprudenza, in accordo con i principi espressi dalla Corte costituzionale con l'ordinanza indicata e con la sentenza n. 215/1997, ha però affermato che, in assenza di una norma di legge specifica, sussiste incompatibilità così detta alternativa all'assunzione dell'ufficio di testimone per l'avvocato che, in atto, sia difensore dell'imputato nel procedimento nel quale la testimonianza verrebbe assunta, rinvenendo una inconciliabilità tra l'obbligo di dire la verità, che caratterizza la testimonianza, e la funzione difensiva nel contraddittorio processuale (Cass. I, n. 46207/2021; Cass. I, n. 26861/2010).  

 

Bibliografia

Aimonetto, Sull’incompatibilità a testimoniare del responsabile civile-parte, in Giur. cost. 1992, 4341; Ceresa Gastaldo, L’incompatibilità a testimoniare dei magistrati e dei loro ausiliari: profili sistematici e aspetti applicativi, in Riv. it. dir. proc. pen. 1996, 917; Coletta, Diritto al silenzio della persona già sottoposta ad indagini preliminari e compatibilità con l’ufficio di testimone, in Arch. n. proc. pen. 2002, fasc. 6; Conti, Emersione «tardiva» del collegamento probatorio e status del dichiarante in dibattimento, in Dir. pen. e proc. 2002, fasc. 6; Conti, Le Sezioni Unite ed il silenzio della sfinge: dopo l’archiviazione l’ex indagato è testimone comune, in Cass. pen. 2010, 2583; Conti, Assolto irrevocabile per insussistenza del fatto: la Consulta elimina difensore e “corroboration” ma la testimonianza resta coatta, in Dir. pen. e proc. 2017, 465; Fanuli - Laurino, Incompatibilità a testimoniare e archiviazione dopo la legge sul c.d. giusto processo: un nodo apparentemente irrisolto, in Cass. pen. 2002 fasc., 12; Giostra, Sull’incompatibilità a testimoniare anche dopo il provvedimento di archiviazione, in Giur. cost. 1992, 989; Morosini, Associazione di stampo mafioso e «testimonianza» dell’imputato aliunde, in Dir. pen. e proc. 2003, fasc. 4; Tetto, Capacità di testimoniare e garanzie difensive del «dichiarante»: la difficile collocazione processuale dell’esame del «testimone»/indagato per un reato probatoriamente collegato destinatario di provvedimento di archiviazione, in Arch. n. proc. pen. 2003, fasc. 4.

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