Codice di Procedura Penale art. 303 - Termini di durata massima della custodia cautelare 1 2 .

Franco Fiandanese

Termini di durata massima della custodia cautelare   1 2.

1. La custodia cautelare [284-286] perde efficacia quando [2511 trans.]:

a) dall'inizio della sua esecuzione [297] sono decorsi i seguenti termini senza che sia stato emesso il provvedimento che dispone il giudizio [429, 450, 456, 552] o l'ordinanza con cui il giudice dispone il giudizio abbreviato ai sensi dell'articolo 438, ovvero senza che sia stata pronunciata la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti:

1) tre mesi, quando si procede per un delitto per il quale la legge stabilisce la pena della reclusione non superiore nel massimo a sei anni;

2) sei mesi, quando si procede per un delitto per il quale la legge stabilisce la pena della reclusione superiore nel massimo a sei anni, salvo quanto previsto dal numero 3);

3) un anno, quando si procede per un delitto per il quale la legge stabilisce la pena dell'ergastolo o la pena della reclusione non inferiore nel massimo a venti anni ovvero per uno dei delitti indicati nell'articolo 407, comma 2, lettera a), sempre che per lo stesso la legge preveda la pena della reclusione superiore nel massimo a sei anni 3;

b) dall'emissione del provvedimento che dispone il giudizio [429, 450, 456, 552] o dalla sopravvenuta esecuzione della custodia [297] sono decorsi i seguenti termini senza che sia stata pronunciata sentenza di condanna di primo grado [448, 533]:

1) sei mesi, quando si procede per un delitto per il quale la legge stabilisce la pena della reclusione non superiore nel massimo a sei anni;

2) un anno, quando si procede per un delitto per il quale la legge stabilisce la pena della reclusione non superiore nel massimo a venti anni, salvo quanto previsto dal numero 1;

3) un anno e sei mesi, quando si procede per un delitto per il quale la legge stabilisce la pena dell'ergastolo o la pena della reclusione superiore nel massimo a venti anni;3-bis) qualora si proceda per i delitti di cui all'articolo 407, comma 2, lettera a), i termini di cui ai numeri 1), 2) e 3) sono aumentati fino a sei mesi. Tale termine è imputato a quello della fase precedente ove non completamente utilizzato, ovvero ai termini di cui alla lettera d) per la parte eventualmente residua. In quest'ultimo caso i termini di cui alla lettera d) sono proporzionalmente ridotti 4;

b-bis) dall'emissione dell'ordinanza con cui il giudice dispone il giudizio abbreviato o dalla sopravvenuta esecuzione della custodia sono decorsi i seguenti termini senza che sia stata pronunciata sentenza di condanna ai sensi dell'articolo 442:

1) tre mesi, quando si procede per un delitto per il quale la legge stabilisce la pena della reclusione non superiore nel massimo a sei anni;

2) sei mesi, quando si procede per un delitto per il quale la legge stabilisce la pena della reclusione non superiore nel massimo a venti anni, salvo quanto previsto nel numero 1;

3) nove mesi, quando si procede per un delitto per il quale la legge stabilisce la pena dell'ergastolo o la pena della reclusione superiore nel massimo a venti anni 5;

c) dalla pronuncia della sentenza di condanna di primo grado [442, 4482, 533] o dalla sopravvenuta esecuzione della custodia [297] sono decorsi i seguenti termini senza che sia stata pronunciata sentenza di condanna in grado di appello [605]:

1) nove mesi, se vi è stata condanna alla pena della reclusione non superiore a tre anni;

2) un anno, se vi è stata condanna alla pena della reclusione non superiore a dieci anni;

3) un anno e sei mesi, se vi è stata condanna alla pena dell'ergastolo o della reclusione superiore a dieci anni;

d) dalla pronuncia della sentenza di condanna in grado di appello [605] o dalla sopravvenuta esecuzione della custodia [297] sono decorsi gli stessi termini previsti dalla lettera c) senza che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile [648] di condanna, salve le ipotesi di cui alla lettera b), numero 3-bis). Tuttavia, se vi è stata condanna in primo grado, ovvero se la impugnazione è stata proposta esclusivamente dal pubblico ministero, si applica soltanto la disposizione del comma 4 6

2. Nel caso in cui, a seguito di annullamento con rinvio da parte della corte di cassazione [623] o per altra causa [23, 24, 604], il procedimento regredisca a una fase o a un grado di giudizio diversi ovvero sia rinviato ad altro giudice, dalla data del provvedimento che dispone il regresso o il rinvio ovvero dalla sopravvenuta esecuzione della custodia cautelare [297] decorrono di nuovo i termini previsti dal comma 1 relativamente a ciascuno stato e grado del procedimento7.

3. Nel caso di evasione [385 c.p.] dell'imputato sottoposto a custodia cautelare, i termini previsti dal comma 1 decorrono di nuovo, relativamente a ciascuno stato e grado del procedimento, dal momento in cui venga ripristinata la custodia cautelare.

4. La durata complessiva della custodia cautelare, considerate anche le proroghe previste dall'articolo 305, non può superare i seguenti termini [3044]:

a) due anni, quando si procede per un delitto per il quale la legge stabilisce la pena della reclusione non superiore nel massimo a sei anni;

b) quattro anni, quando si procede per un delitto per il quale la legge stabilisce la pena della reclusione non superiore nel massimo a venti anni, salvo quanto previsto dalla lettera a);

c) sei anni, quando si procede per un delitto per il quale la legge stabilisce la pena dell'ergastolo o della reclusione superiore nel massimo a venti anni 8.

 

[1] Articolo così sostituito dall'art. 2 d.l. 9 settembre 1991, n. 292, conv., con modif., in l. 8 novembre 1991, n. 356. Per la riduzione dei termini di cui al presente articolo per i reati commessi da minorenni, v. art. 233 min. V. inoltre art. 11 d.lgs. 15 febbraio 2016, n. 29, per il computo della custodia cautelare sofferta all'estero.

[2]  Con riferimento alle misure urgenti per contrastare l'emergenza epidemiologica da COVID-19,   v. art. 83, comma 9, d.l. 17 marzo 2020, n. 18, conv. con modif., in l. 24 aprile 2020, n. 27, e art. 24,  d.l. 9 novembre 2020, n. 149, per la sospensione dei termini di cui al presente articolo (dall'entrata in  vigore del citato decreto fino al 31 gennaio 2021, v. anche comma 2 dell'art. 24). Successivamente l'intero decreto è stato abrogato dall'articolo 1, comma 2, della legge 18 dicembre 2020, n. 176. Restano validi gli atti e i provvedimenti adottati e sono fatti salvi gli effetti prodottisi e i rapporti giuridici sorti sulla base del medesimo decreto. V. ora l'art. 23-ter del d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, conv., con modif., in l. 18 dicembre 2020, n. 176. 

[3] Lettera così modificata dall'art. 11 lett. a)d.l. 7 aprile 2000, n. 82, conv., con modif., in l. 5 giugno 2000, n. 144. La disposizione si applica anche ai giudizi abbreviati in corso alla data di entrata in vigore del decreto (9 aprile 2000) sempre che la custodia cautelare non abbia già perso efficacia (art. 4 1 d.l. n. 82, cit.). I termini stabiliti alla lett. b-bis) decorrono dalla data dell'emissione dell'ordinanza con cui il giudice ha disposto il giudizio abbreviato o dalla data in cui ha avuto esecuzione la custodia cautelare, se successiva alla medesima ordinanza (art. 42).

[4] Numero aggiunto, in sede di conversione, dall'art. 2d.l. 24 novembre 2000, n. 341, conv., con modif., in l. 19 gennaio 2001, n. 4.

[5] Lettera inserita dall'art. 1 1 lett. b) d.l. n. 82/2000, cit. Per l'applicazione della disposizione anche ai giudizi abbreviati in corso alla data di entrata in vigore del decreto v. nota 2.

[6] Lettera così modificata, in sede di conversione, dall'art. 21-bis d.l. n. 341, cit.

[7] La Corte cost., con sentenza 22 luglio 2005, n. 299, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del presente comma nella parte in cui «non consente di computare ai fini dei termini massimi di fase determinati dall'art. 304, comma 6, dello stesso codice, i periodi di custodia cautelare sofferti in fasi o in gradi diversi dalla fase o dal grado in cui il procedimento è regredito».

[8] La Corte cost., con sentenza 18 luglio 1998, n. 292, ha dichiarato non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale del presente comma, sollevata in riferimento all'art. 3 Cost., affermando che «il superamento di un periodo di custodia pari al doppio del termine stabilito per la fase presa in considerazione [art. 3046 c.p.p.], determina la perdita di efficacia della custodia, anche se quei termini [...] sono cominciati a decorrere nuovamente a seguito della regressione del processo».

Inquadramento

L'art. 303 disciplina la durata massima della custodia cautelare nel procedimento di primo grado e nei successivi gradi di giudizio e un termine massimo complessivo e riguarda, appunto, le misure cautelari custodiali (custodia in carcere o in luogo di cura ovvero arresti domiciliari ex art. 284, comma 5), mentre la durata delle altre misure coercitive non detentive e delle misure interdittive è fissata nell'art. 308.

La norma prevede una durata predeterminata per la limitazione della libertà personale per ciascuna fase processuale e per la durata complessiva della misura che si differenzia in base alla tipologia di reati per i quali si procede o in base alla condanna.

Se si superano i limiti enunciati dalla norma, la misura cautelare perde efficacia e il giudice deve disporre l'immediata liberazione del soggetto che è sottoposto alla misura.

A norma del comma 1 lett. a) e b), nella fase delle indagini preliminari, la durata della misura è collegata alla gravità del reato per il quale si procede; a norma del comma 1 lett. c) e d) è collegata, invece, alla gravità del reato giudicata nella sentenza.

In genere

Il computo dei termini di custodia cautelare è regolato dall'art. 303 che lo disciplina in relazione a quattro distinte fasi (indagini preliminari, giudizio di primo grado, giudizio di appello e fase successiva sino alla sentenza irrevocabile). Nelle due prime fasi il termine massimo va determinato in base al combinato disposto degli artt. 278 e 303, con riferimento esclusivo alla pena stabilita dalla legge per il reato per il quale si procede, senza considerare, perché successive, le statuizioni contenute nella sentenza di condanna, che eventualmente incidono sulla contestazione nel senso di escluderla o qualificarla diversamente.

Nelle due fasi successive, anche per il diverso calcolo del termine (ancorato non più alla pena legislativamente prevista, bensì a quella concretamente irrogata) non può prescindersi dalla intervenuta pronuncia di condanna che produce i seguenti effetti: a) interrompe il decorso del termine; b) costituisce il momento iniziale della fase successiva; c) sostituisce in tale fase «al reato per cui si procede» (contestazione formale) quello in concreto ritenuto in sentenza, che è espressione aggiornata del primo (Cass. IV, n. 31338/2005).

In forza del principio dell'autonomia dei termini di fase prefissati dall'art. 303 comma 1, l'imputato ha diritto alla scarcerazione per il vano decorso del termine massimo proprio della fase o grado in cui pende il procedimento, e non già per la scadenza del termine eventualmente verificatasi in una fase o grado antecedenti ed ormai conclusi. Ed infatti, una volta definita una delle fasi previste dal citato articolo 303 comma 1, la durata della custodia cautelare in detta fase non espande i suoi effetti su quella successiva, che è governata da altro autonomo termine massimo, fermo restando che la stessa ha rilievo ai fini della maturazione del termine massimo complessivo di cui all'art. 303 comma 4 (Cass. V, n. 2488/2000; Cass. V, n. 24104/2002).

In caso di successione di leggi concernenti i termini di durata della custodia cautelare, data la loro natura processuale, si applica, in forza del principio tempus regit actum, quella in vigore al momento in cui la custodia è tuttora legittimamente in corso (Cass. VI, n. 30417/2010).

In tema, le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno affermato che il principio di necessaria retroattività della disposizione più favorevole, affermato dalla sentenza della Corte Edu 17 settembre 2009, nel caso Scoppola contro Italia, non è applicabile in relazione alla disciplina dettata da norme processuali, che è regolata dal principio tempus regit actum, e che, data l’autonomia dei termini di custodia cautelare di fase, la lex mitior derivante dalla reviviscenza del trattamento sanzionatorio più favorevole per le droghe leggere, quale effetto della sentenza della Corte cost. n. 32/2014, non produce effetti sulle fasi esaurite, poiché queste ultime costituiscono segmenti autonomi che compongono un’attività complessa. Pertanto, la sentenza della Corte cost. n. 32/2014, con la quale è stata dichiarata l’incostituzionalità degli artt. 4-bis e 4-vicies ter d.l. n. 272/2005, conv. con modif. in l. n. 49/2006, concernente il trattamento sanzionatorio unificato per le droghe leggere e per quelle pesanti, con la conseguente reviviscenza del trattamento sanzionatorio differenziato previsto dal d.P.R. n. 309/1990, non comporta la rideterminazione retroattiva « ora per allora » dei termini di durata massima per le precedenti fasi del procedimento, ormai esaurite prima della pubblicazione della sentenza stessa, attesa l’autonomia di ciascuna fase. Peraltro, l’avvenuta reviviscenza, per effetto della citata sentenza della Corte costituzionale, del trattamento sanzionatorio più favorevole per la detenzione illecita delle cosiddette « droghe leggere » impone di riconsiderare i presupposti applicativi delle misure cautelari personali in atto, atteso che la cornice edittale di riferimento incide sulla scelta della misura oltre che sulla sua stessa applicabilità, stante la necessaria valutazione in ordine alla concedibilità della sospensione condizionale della pena (Cass. S.U., n. 44895/2014).

L'avvenuta scadenza del termine massimo di custodia cautelare non è deducibile davanti al giudice del riesame, la cui cognizione è limitata alla valutazione della sussistenza delle condizioni di legittimità e di merito per l'emissione del provvedimento cautelare; la valutazione delle condizioni di successiva inefficacia, tra le quali è compresa la scadenza suddetta, rientra viceversa nella competenza funzionale del giudice per le indagini preliminari, davanti al quale le relative questioni devono essere dedotte ed il cui provvedimento è soggetto all'appello di cui all'art. 310 (Cass. II, n. 2284/1995).

Fase delle indagini preliminari

In genere

A norma del comma 1 lett. a), la custodia cautelare perde efficacia se, nella fase delle indagini preliminari, non viene emesso il provvedimento che dispone il giudizio o l'ordinanza che dispone il giudizio abbreviato o la sentenza che applica la pena su richiesta, decorsi i seguenti termini dall'inizio della sua esecuzione: 3 mes i se per il delitto per cui si procede è prevista la reclusione non superiore nel massimo a 6 anni; 6 mesi se per il delitto per cui si procede è prevista la reclusione superiore nel massimo a 6 anni; un anno quando si procede per un delitto punito con la pena dell'ergastolo o della reclusione non inferiore nel massimo a venti anni ovvero quando si procede per uno dei delitti indicati nell'articolo 407 comma 2 lettera a), sempre che per lo stesso la legge preveda la pena della reclusione superiore nel massimo a sei anni.

Ai fini del computo del termine di fase delle indagini preliminari si deve aver riguardo al reato contestato nel provvedimento restrittivo, costituito dalla reciproca integrazione dell'ordinanza cautelare emessa dal giudice per le indagini preliminari e di quella pronunciata ex art. 309 dal tribunale del riesame, in quanto il «delitto per cui si procede» è quello enunciato nell'imputazione del provvedimento restrittivo, anche se l'azione penale sia stata esercitata successivamente per un delitto diverso (Cass. II, n. 35195/2006; Cass. VI, n. 7470/2009; Cass. I, n. 24123/2016).

Ai fini della determinazione dei termini di durata massima della custodia cautelare relativi al reato di partecipazione a un'associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti (art. 74 d.P.R. n. 309/1990), del quale è espressamente prevista dalla legge la sola pena edittale minima e non quella massima, quest'ultima va individuata in ventiquattro anni di reclusione, secondo la regola generale dettata dall'art. 23, comma 1, c.p. (Cass. S.U., n. 26350/2002).

 

Provvedimento che dispone il giudizio

Il provvedimento che dispone il giudizio può essere il decreto che dispone il giudizio emesso dal giudice all'esito dell'udienza preliminare, il decreto di citazione diretta a giudizio davanti al Tribunale in composizione monocratica, il decreto di giudizio immediato, il decreto di citazione per il giudizio direttissimo o l'atto con il quale il pubblico ministero presenta direttamente l'imputato in udienza per il giudizio direttissimo. Irrilevante è il momento della notifica del provvedimento medesimo all'imputato (Cass. VI, n. 9378/2012; Cass. II, n. 9220/2017).

Nel giudizio direttissimo atipico il decreto di citazione previsto dall'art. 450, comma 2, tiene luogo del «provvedimento che dispone il giudizio» indicato dall'art. 303, comma 1, lett. a) stesso codice ai fini dell'individuazione del momento di passaggio dalla fase delle indagini a quella del giudizio e pertanto, una volta emesso, è idoneo a rendere operativi i termini di cui alla successiva lett. b) (Cass. I, n. 20331/2006).

Per quanto riguarda la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti, bisogna prendere come riferimento la sentenza emessa nel corso delle indagini preliminari ex art 447 o la sentenza emessa all'udienza preliminare.

Le disposizioni sui termini massimi di durata della custodia cautelare hanno carattere tassativo e, pertanto, non sono suscettibili di interpretazioni analogiche. Ne consegue che la richiesta del pubblico ministero di citazione a giudizio, in quanto atto di parte inidoneo da solo ad ordinare il giudizio, non ha efficacia interruttiva dei termini (Cass. fer., n. 2648/1990).

Circostanze aggravanti

Per la determinazione della pena agli effetti dell'applicazione di una misura cautelare personale e, segnatamente, della individuazione dei corrispondenti termini di durata massima delle fasi processuali precedenti la sentenza di merito di primo grado, deve tenersi conto, nel caso di concorso di più circostanze aggravanti ad effetto speciale, oltre che della pena stabilita per la circostanza più grave, anche dell'ulteriore aumento complessivo di un terzo, ai sensi dell'art. 63 comma 4, c.p., per le ulteriori omologhe aggravanti meno gravi.

La Suprema Corte ha precisato che il criterio di calcolo di cui all'art. 63, comma 4, c.p. non opera nella diversa ipotesi di concorso di più aggravanti ad effetto speciale per le quali l'incremento sanzionatorio è autonomamente indicato ex lege, trovando in tal caso applicazione il criterio cumulativo di calcolo a fini cautelari, previsto dall'art. 278, comma 1 (Cass. S.U., n. 16/1998; Cass. S.U., n. 38518/2015).

Circostanze attenuanti

Ai fini del computo dei termini di durata della custodia cautelare, nella determinazione della pena prevista per il reato per cui si procede si tiene conto anche delle circostanze attenuanti ad effetto speciale, solo se figurino ab initio nel fatto contestato dal P.M., ovvero se vengano riconosciute sussistenti dal giudice per le indagini preliminari, in sede di applicazione della misura coercitiva, o dal tribunale della libertà, in sede di riesame o di appello, nell'ambito del rispettivo potere di qualificazione giuridica del fatto stesso (Cass. IV, n. 41269/2001; Cass. VI, n. 32636/2006).

Tentativo

Nel caso di tentativo di reato con circostanze aggravanti per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato o ad effetto speciale, per il computo dei termini indicati dall'art. 303 deve dapprima individuarsi la pena massima stabilita per il reato circostanziato consumato, per poi operare su di essa la riduzione minima indicata dall'art. 56 c.p. (Cass. I, n. 4298/1998; Cass. II, n. 7995/2011).

Delitti indicati nell'art. 407, comma 2 lett. a)

La durata massima della custodia nella fase delle indagini preliminari è aumentata, ai sensi dell'art. 303, comma 1 lett. a) n. 2 e 3, da sei mesi ad un anno per i delitti consumati indicati nell'art. 407, comma 2 lett. a) n. 7 bis, ma rimane ferma a mesi sei per gli stessi delitti ove integrati a livello di tentativo, ostandovi il principio di tassatività ed atteso che ove il legislatore ha voluto ricomprendervi i delitti tentati, come nel n. 2 lett. a) del comma 2 art. 407, ciò è avvenuto espressamente (Cass. III, n. 25458/2004). È stato,invece, ritenuto che il termine di un anno, previsto per la fase delle indagini preliminari e dell'udienza preliminare dagli artt. 303, comma 1, lett. a), n. 3, e 407, comma 2, lett. a), n. 3, qualora si proceda per i delitti commessi per agevolare l'attività delle associazioni di stampo mafioso, o comunque avvalendosi delle condizioni di cui all'art. 416-bis c.p., si applica anche ai delitti tentati, sempre che la legge ne preveda la punizione con la reclusione superiore nel massimo a sei anni. La S.C. ha evidenziato che la disposizione di cui al n. 3 dell'art. 407, comma 2, lett. a), come quella di cui al n. 4, e a differenza di quanto stabilito nelle previsioni di cui ai nn. 1, 2, 5, 6, 7 e 7 bis, non contiene un elenco di fattispecie incriminatrici, ma conferisce rilievo a qualsiasi delitto commesso per le finalità o avvalendosi delle condizioni da essa indicate (Cass. II, n. 21394/2015).

La norma dell'art. 303, comma 1, lett. a), n. 3 — che eleva ad un anno il termine relativo ai delitti di cui alla lett. a) del comma 2 dell'art. 407, a condizione che per gli stessi sia prevista una pena superiore nel massimo a sei anni — si riferisce alla pena computata secondo il disposto dell'art. 278, e dunque anche ai delitti la cui sanzione edittale ecceda i sei anni solo per la concorrenza di circostanze aggravanti ad effetto speciale o che comportino l'applicazione di pena di specie diversa da quella ordinaria del reato. È stato escluso, inoltre, che, riguardo a delitti segnati dall'uso del metodo mafioso o dal fine di agevolazione delle associazioni mafiose — per tale ragione aggravati secondo il disposto dell'art. 7 del d.l. n. 152/1991, ed al tempo stesso ricondotti alla previsione dell'art. 407, comma 2, lett. a), n. 3 — possa configurarsi una indebita duplicazione di effetti sfavorevoli, posto che il legislatore può ben valorizzare la particolare gravità di un fatto sia in senso quantitativo che in senso qualitativo (Cass. I, n. 25041/2002; Cass. I, n. 35540/2012).

L'ambito di operatività dell'art.303, comma 1, lett. a), n. 3, seconda parte, è subordinato a due condizioni: anzitutto, occorre che il reato per cui si procede rientri tra quelli previsti dall'art.407, comma 2, lett. a) ed in secondo luogo che la pena edittale prevista sia superiore nel massimo a sei anni. Ricorrono entrambe le dette condizioni con riguardo al reato previsto dall'art.73, aggravato ex art.80, comma 2, d.P.R. n. 309/1990 (produzione e traffico illecito di sostanze stupefacenti) in quanto, da un lato, esso costituisce uno dei delitti previsti dall'art.407, comma 2, lett. a) n. 6; dall'altro, la pena prevista per il delitto in questione è nel massimo superiore a sei anni posto che, ex art.278, si deve tener conto dell'aumento derivante dall'applicazione dell'art. 80, comma 2, del d.P.R. n. 309/1990, trattandosi di disposizione che configura un'aggravante ad effetto speciale, che comporta l'aumento della pena edittale da un terzo alla metà (Cass. IV, n. 3477/2003).

In tema di durata massima della custodia cautelare per delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell'ordinamento costituzionale, il termine previsto dall'art. 303, comma 1, lett. a), n. 3, opera solo ove per i delitti in questione siano realizzate le condizioni di pena edittale previste nell'art. 407, comma 2, lett. a), n. 4, e non sulla base del solo titolo di reato (Cass. I, n. 1526/1999).

Fase del giudizio

A norma del comma 1 lett. b), la custodia cautelare perde efficacia se, nella fase del giudizio, non viene emessa la sentenza di condanna di primo grado decorsi i seguenti termini dall'emissione del provvedimento che dispone il giudizio o dalla sopravvenuta esecuzione della custodia: 6 mesi se per il delitto per cui si procede sia prevista la reclusione non superiore nel massimo a 6 anni; 1 anno se per il delitto per cui si procede sia prevista la reclusione non superiore nel massimo a 20 anni; 1 anno e 6 mesi se si procede per delitto punito con la pena dell'ergastolo o della reclusione superiore nel massimo a venti anni; qualora si proceda per uno dei delitti indicati nell'articolo 407 comma 2 lett. a), i suddetti termini sono aumentati fino a 6 mesi.

Ai fini del computo del termine massimo di custodia cautelare nella fase del giudizio non può tenersi conto delle nuove contestazioni effettuate nel dibattimento dal pubblico ministero, dovendosi fare riferimento esclusivamente all'imputazione formulata nell'originario provvedimento coercitivo, a meno che non sia intervenuta un'ulteriore ordinanza cautelare comprensiva della contestazione suppletiva; ove peraltro il giudice nel corso del dibattimento si sia limitato a dare al medesimo fatto per cui si procede una diversa qualificazione giuridica, al titolo di reato così ritenuto deve aversi riguardo ai fini predetti (Cass.S.U., n. 24/2000). La ratio decidendi delle Sezioni Unite, è quella per cui — in virtù dei principi generali, a tutela della libertà personale, sanciti dalla Costituzione (art. 13,27 e 111 Cost. e della CEDU) — l'unica causa efficiente degli effetti dell'applicazione delle misure cautelari è l'ordinanza cautelare emessa dal giudice che procede e, prima dell'esercizio dell'azione penale, dal giudice per le indagini preliminari (art. 279): non si rinviene nel sistema un modello equipollente idoneo ad incidere automaticamente sull'azione cautelare con effetti peggiorativi dello status custodiae. Ne consegue che la tesi favorevole all'adeguamento automatico della contestazione cautelare all'evoluzione del processo porta all'elusione dei presidi di garanzia e di controllo previsti dal sistema. Con l'ulteriore conseguenza che la contestazione suppletiva operata dal Pubblico Ministero in sede di dibattimento, deve ritenersi tamquam non esset, a meno che non sia contenuta in un nuovo provvedimento cautelare. La conclusione è che non sono ammissibili nella materia de libertate equipollenti all'ordinanza cautelare. Sulla stessa linea si pongono le successive Cass.S.U. n. 39915/2002, allorquando affermano che il decreto che dispone il giudizio, non può costituire in alcun modo titolo idoneo a riverberare la sua efficacia nell'ambito cautelare, sì da legittimare la restrizione della libertà personale dell'imputato. E ciò in quanto "la asimmetria delle garanzie contenutistiche e procedurali assicurate per i distinti giudizi (giudizio posto a base dell'ordinanza applicativa della misura cautelare e giudizio in ordine alla disposizione del rinvio a giudizio) impedisce di riconoscerne l'equivalenza e, con essa, la sovrapponibilità della valutazione compiuta dal giudice all'esito dell'udienza preliminare, rispetto all'autonomo apprezzamento dei gravi indizi di colpevolezza nel provvedimento de libertate, rischiandosi viceversa di legittimare una grave elusione delle garanzie poste dall'ordinamento a presidio della libertà personale.

Il mutamento della qualificazione giuridica del fatto non influisce sui termini di custodia cautelare delle fasi esaurite, con la conseguenza che, qualora con la sentenza di primo grado venga esclusa l'esistenza di un'aggravante i termini di custodia cautelare per la fase di primo grado vanno commisurati in relazione alla qualificazione giuridica del fatto contenuta nel provvedimento che dispone il giudizio, mentre il contenuto del dispositivo della sentenza di primo grado rileva ai fini della commisurazione della custodia cautelare per quel che attiene alla fase successiva (Cass. IV, n. 15429/2002; Cass. VI, n. 35681/2015  Cass. VI, n. 46497/2019).

Analogamente, si è ritenuto che la conferma in appello della sentenza di condanna per il reato meno grave con il contestuale proscioglimento per il reato più grave, rispetto al quale sono stati computati i termini di fase della custodia cautelare non comporta la rideterminazione retroattiva dei termini di durata del giudizio di primo grado, in ragione dell'autonomia delle singole fasi del procedimento (Cass. V, n. 46835/2007; Cass. IV, n. 5079/2011) e che la sentenza di condanna in appello che, in parziale riforma di quella di primo grado, riconosca un'attenuante ad effetto speciale, non comporta la rideterminazione retroattiva dei termini di durata massima per le precedenti fasi del procedimento (Cass. VI, n. 7199/2013).

L'elemento nuovo costituito dall'esclusione di una o più circostanze aggravanti ad effetto speciale, stabilita da una sentenza definitiva emessa nei confronti di coimputati giudicati separatamente, pur essendo valutabile nel procedimento in corso ai fini dell'apprezzamento di una riduzione dei termini di custodia cautelare, con eventuale scadenza degli stessi, non soggiace ad alcun automatismo, attesa la libera valutazione del compendio probatorio da parte del giudice cautelare, né, comunque, pur se condivisa, comporta la rideterminazione retroattiva dei termini di durata massima per le precedenti fasi del procedimento, stante l'autonomia di ciascuna di esse (Cass. I, n. 44424/2017; Cass. VI, n. 14943/2018).

L'art. 303 comma 1 lett. b), n. 3-bis, prevede l'aumento fino a sei mesi della fase dibattimentale di primo grado, con riferimento ai delitti di cui all'art. 407 comma 2 lett.a); tale aumento, è automatico, in quanto esplicitamente voluto dal legislatore in ragione della rilevante gravità di una particolare categoria di delitti; ne consegue che, ai fini dell'operatività di tale aumento, non è necessario alcun provvedimento del giudice (Cass. I, n. 3043/2005). È stata, inoltre, ritenuta manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 303 comma 1 lett. b) n. 3 bis per contrasto con gli artt. 13 e 24 Costituzione, nella parte in cui ricollega detto aumento al semplice nomen iuris del reato contestato e non richiede uno specifico provvedimento del giudice, atteso che l'art. 3 della Costituzione garantisce trattamento uguale in situazioni uguali mentre la disciplina citata è in particolare prevista dal legislatore in relazione alla speciale gravità dei reati. D'altro canto, dai principi di cui all'art. 5 — che garantisce che ogni persona arrestata o detenuta (...) ha diritto ad essere giudicata entro un termine ragionevole oppure posta in libertà — non può dedursi in via astratta la durata ragionevole del tempo di detenzione preventiva, ma occorre valutare le circostanze caso per caso (Cass. II, n. 40401/2008).

L'ulteriore termine di sei mesi, previsto dall'art. 303, comma 1, lett. b) n. 3 bis per i reati di cui all'art. 407, comma 2, lett. a), qualora non utilizzato completamente dal giudice di primo grado, può essere imputato alla fase delle indagini preliminari oppure a quella del giudizio di cassazione ma non può essere utilizzato nel corso del giudizio di appello (Cass. IV, n. 36472/2013; Cass. II, n. 41180/2013).

In tema di durata della custodia cautelare nei procedimenti per uno dei delitti di cui all'art. 407, comma 2, lett. a), qualora il termine di fase sia stato sospeso per la particolare complessità del dibattimento o del giudizio abbreviato, ai sensi dell'art. 304, comma 2, il termine massimo di durata della custodia, fissato nel doppio dei termini di fase dal comma 6 dell'art. 304, non può essere superato sommando ad esso l'ulteriore termine eventualmente utilizzato, nella fase del giudizio per uno dei delitti citati, ai sensi dell'art. 303, comma 1, lett. b), n. 3 bis (Cass.S.U., n. 29556/2014).

Giudizio abbreviato

Il comma 1 lett. b-bis, inserito dal d.l. n. 82/2000, conv. con modif. in l. 144/2000, ha introdotto la previsione di termini autonomi per la fase del giudizio abbreviato.

La custodia cautelare perde efficacia se, a decorrere dall'emissione dell'ordinanza con cui il giudice dispone il giudizio abbreviato o dalla sopravvenuta esecuzione della custodia, sono decorsi i seguenti termini senza che sia stata emessa la sentenza di condanna di primo grado: 3 mesi se per il delitto per cui si procede è prevista la reclusione non superiore nel massimo a 6 anni; 6 mesi se per il delitto per cui si procede è prevista la reclusione non superiore nel massimo a 20 anni; 9 mesi se per il delitto per cui si procede è prevista la pena dell'ergastolo o della reclusione superiore nel massimo a venti anni.

I termini di durata massima della custodia cautelare per la fase del giudizio abbreviato, anche nella ipotesi di rito non subordinato ad integrazione probatoria e disposto a seguito di richiesta di giudizio immediato, decorrono dall'ordinanza con cui si dispone il giudizio abbreviato e non dall'emissione del decreto di fissazione dell'udienza di cui all'art. 458, comma 2 (Cass. S.U, n. 30200/2011). È stato ulteriormente precisato che i termini di durata massima si commisurano a quelli propri della fase del giudizio dibattimentale per il periodo antecedente all'ordinanza ammissiva del rito alternativo, e a quelli previsti per quest'ultimo in relazione al periodo successivo, con la precisazione che gli stessi, complessivamente considerati, non possono estendersi per un tempo maggiore rispetto a quello che legge assegna alla fase del giudizio ex art. 303, comma 1, lett. b) (Cass. VI, n. 9088/2013; Cass. V, n. 28682/2016).

Qualora l'ordinanza venga annullata, per vizio procedurale quale l'omesso avviso al difensore, si verifica un caso di regressione alla fase anteriore e autonoma delle indagini preliminari con la conseguenza che il lasso di tempo intercorrente tra l'emissione dell'ordinanza, poi annullata, e la nuova che ridispone il rito abbreviato, va computato come termine della fase delle indagini preliminari (Cass. I, n. 129/2007).

Il meccanismo di «recupero» indicato nell'art. 303, comma 1, lett. b ), n. 3- bis, che consente il prolungamento dei termini di fase attraverso imputazione a termini di fasi diverse, proprio per la sua eccezionalità, giustificata dal particolare allarme sociale dei delitti ai quali si applica, non può estendersi al caso previsto dalla lettera b- bis del medesimo comma, concernente il regime applicabile in caso di giudizio abbreviato, nella quale non vi è cenno alcuno, neanche indiretto, a tale eccezionale sistema di recupero, la cui utilizzabilità non può nemmeno farsi discendere dalla assimilazione del giudizio abbreviato a quello ordinario disposta dall'art. 304, comma 1, lett. c-bis, dato che quest'ultima disposizione si riferisce alla sospensione, e non alla proroga, dei termini di durata massima della custodia cautelare (Cass. VI, n. 12907/2003).

Giudizio di appello

A norma del comma 1 lett. c), la custodia cautelare perde efficacia se dalla sentenza di condanna di primo grado o dalla sopravvenuta esecuzione della custodia, sono decorsi i seguenti termini, senza che sia stata pronunciata sentenza di condanna in grado di appello: 9 mesi se vi è stata condanna alla pena della reclusione non superiore a 3 anni; 1 anno se vi è stata condanna alla pena della reclusione non superiore a 10 anni; 1 anno e 6 mesi se vi è stata condanna alla pena della reclusione superiore a 10 anni.

L'espressione «senza che sia stata pronunciata condanna in grado di appello», non va intesa in senso letterale ma in armonia con la ratio e l'impianto sistematico del codice, nel senso che, ai fini dell'operatività dei termini correlati alla pronuncia, è sufficiente che la sentenza di condanna di primo grado oggetto di gravame sia stata convalidata in grado di appello (Cass. IV, n. 36590/2003). In applicazione di tale principio, si è ritenuto che l'ordinanza di inammissibilità dell'appello, precludendo al giudice di esaminare le ragioni poste a fondamento della decisione, è equiparata ad una conferma della sentenza di condanna, inidonea a provocare la scadenza dei termini di fase della custodia cautelare prevista dall'art. 303, comma 1, lett. c) (Cass. III, n. 14023/2012).

Per determinare il termine di durata della custodia cautelare relativo alla fase che va dall'emissione della sentenza di primo grado all'emissione di quella d'appello, occorre fare riferimento alla pena irrogata in concreto, non a quella edittale (Cass. II, n. 41180/2013; Cass. VI, n. 45626/2013), comprensiva dell'aumento per la recidiva (Cass. I, n. 8840/2010).

Fase precedente la sentenza irrevocabile

A norma del comma 1 lett. d ) dell'art. 303, la custodia cautelare perde efficacia se dalla sentenza di condanna in grado di appello o dalla sopravvenuta esecuzione della custodia, sono decorsi gli stessi termini previsti dalla lettera c) senza che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna. Tuttavia, se vi è stata condanna in primo grado confermata in appello (c.d. doppia conforme) ovvero se l'impugnazione è stata proposta esclusivamente dal pubblico ministero, i termini di custodia cautelare da applicare sono quelli complessivi di cui all'art. 303, comma 4, per il cui computo deve farsi riferimento alla pena edittale prevista per il reato ritenuto in sentenza e non a quella irrogata in concreto con la medesima (Cass. VI, n. 27408/2010;  Cass. II, n. 16752/2021).

Con riferimento al giudizio di cassazione, l'eccezione alla regola del rispetto del termine di fase, prevista dall'art. 303, comma 1, lett. d), ultima parte, per l'ipotesi di cosiddetta «doppia conforme», postula che la doppia conformità riguardi unicamente i reati oggetto di cautele, a non anche le eventuali ulteriori imputazioni (Cass. IV, n. 13172/2008; Cass. VI, n. 27175/2011; Cass. IV, n. 27747/2014).

È stato sollevato il quesito se il legislatore, con la locuzione «se la impugnazione è stata proposta esclusivamente dal pubblico ministero» abbia inteso fare riferimento soltanto al ricorso per cassazione contro la sentenza di condanna di secondo grado, ovvero anche all'appello contro la sentenza di proscioglimento di primo grado e si è affermato che essa non può non fare riferimento che ad ipotesi per le quali appare ragionevolmente giustificato l'eccezionale affievolirsi della presunzione di non colpevolezza (giustificazione obiettivamente non ravvisabile, per contro, nella più ordinaria ipotesi dell'appello del pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento di primo grado) e delle quali non è consentita perciò un'applicazione estensiva; pertanto, la collocazione sistematica della disposizione e la ratio della speciale deroga privilegiano l'interpretazione restrittiva, secondo la quale l'esclusiva impugnazione del pubblico ministero deve essere identificata soltanto nel ricorso per cassazione contro una sentenza di condanna emessa nel giudizio d'appello, in riforma di quella di proscioglimento di primo grado, perché ritenuta eccessivamente mite quanto al nomen juris del reato o all'entità del trattamento sanzionatorio, condanna rispetto alla quale l'imputato abbia invece fatto acquiescenza (Cass. fer., n. 34120/2001 ; Cass. I, n. 18374/2002; Cass. V, n. 14737/2002).

Condanna per più reati e continuazione

Ai fini sia dell'articolo 303, comma primo, lett. c), sia dell'art. 300, comma 4, nel caso di condanna per più reati avvinti dalla continuazione, per alcuni dei quali soltanto (nella specie per i reati satelliti) mantenga efficacia la custodia cautelare, per «condanna» e per «pena inflitta» devono, rispettivamente, intendersi la condanna e la pena inflitte per questi ultimi reati, e non la condanna e la pena inflitte per l'intero reato continuato, in quanto l'unificazione legislativa di più reati nel reato continuato va affermata là dove vi sia una disposizione apposita in tal senso o dove la soluzione unitaria garantisca un risultato favorevole al reo, non potendo dimenticarsi che il trattamento di maggior favore per il reo è alla base della ratio del reato continuato (Cass. S.U., n. 1/1997).

Allorché il giudice di merito, nell'infliggere la pena per il reato continuato, non abbia suddiviso la pena irrogata per i reati satelliti e la suddivisione o distinzione rilevi per il calcolo dei termini di durata massima della custodia cautelare o per l'accertamento dell'avvenuta espiazione della pena, il giudice della misura cautelare deve porsi il relativo problema e determinare, ai soli fini della misura, la pena per ciascun reato in continuazione, non potendo l'omessa suddivisione o distinzione essere di ostacolo al riacquisto della libertà, se di questo riacquisto ricorrono le condizioni. E la suddivisione o distinzione della pena può essere fatta anche dalla Corte di cassazione allorché i reati satelliti siano altrettanti episodi della medesima figura criminosa commessi, in tempi diversi, in danno di persone diverse e non risulti o non sia allegato un diverso grado di gravità dei vari fatti-reato (Cass. S.U., n. 1/1997).

Ai fini della individuazione del termine di fase allorché vi sia stata sentenza di condanna, in primo o in secondo grado, occorre aver riguardo alla pena complessivamente inflitta per tutti i reati per i quali è in corso la misura della custodia cautelare, e quindi alla pena unitariamente quantificata a seguito dell'applicazione del cumulo materiale o giuridico per effetto del riconoscimento del vincolo della continuazione (Cass. S.U., n. 23381/2007; nonché: Cass. fer., n. 35012/2012; Cass. II, n. 6613/2014: la Corte ha altresì affermato che nell'individuazione della pena in concreto irrogata, cui parametrare il calcolo del termine di fase, non incide l'eventuale operatività del limite massimo di aumento della pena fissato dall'art. 78 c.p.).

Scarcerazione «ora per allora»

La scarcerazione dell'imputato per decorrenza dei termini di fase della custodia cautelare alla quale non si sia tempestivamente provveduto deve essere disposta nella fase successiva (cd. scarcerazione ora per allora), purché la scadenza di detti termini riguardi tutte le imputazioni oggetto del provvedimento coercitivo e non solo alcune di esse, dovendosi escludere, in quest'ultimo caso, un interesse concreto dell'imputato a un provvedimento cui non consegua il riacquisto della libertà (Cass. S.U., n. 26350/2002).

Il giudice procedente che ritenga doversi disporre la cessazione della custodia cautelare per intervenuto decorso dei relativi termini non è tenuto ad acquisire preventivamente il parere del pubblico ministero, mancando nel vigente codice di procedura penale una norma corrispondente all'art. 76, comma 1, del codice abrogato, secondo cui il giudice, nel corso del procedimento penale, non poteva comunque deliberare se non sentito il pubblico ministero, salvi i casi eccettuati dalla legge (Cass. V, n. 45942/2005).

Peraltro, occorre tenere presente che il comma 1 dell'art. 303 disciplina il passaggio tra le varie fasi processuali e soltanto la mancata emissione degli atti che comportano il passaggio da una fase processuale all'altra, e non anche la loro invalidità, può dar luogo alla perdita di efficacia della custodia cautelare per il superamento dei termini relativi alla fase precedente (Cass. VI, n. 16542/2010; Cass. I, n. 39691/2010; Cass. II, n. 9400/2015;  Cass. II, n. 5056/2021).

Regresso del procedimento o rinvio ad altro giudice

In genere

Il comma 2 prevede l'ipotesi in cui, a seguito di annullamento con rinvio da parte della Corte di Cassazione o per altra causa, il procedimento regredisca a una fase o a un grado di giudizio diversi ovvero sia rinviato ad altro giudice. In questo caso, dalla data del provvedimento che dispone il regresso o il rinvio o dalla sopravvenuta esecuzione della custodia cautelare decorrono di nuovo i termini previsti dal comma 1 relativamente a ciascuno stato e grado del procedimento.

La Corte cost. n. 292/1998, con sentenza interpretativa di rigetto, ha dichiarato non fondata la questione sollevata, in riferimento all'art. 3 Cost., riguardo ai limiti di durata della carcerazione preventiva, sulla legittimità costituzionale dell'art. 303, nella parte in cui, nell'ipotesi, contemplata nel comma 2, di nuovo inizio della decorrenza dei termini per la regressione del procedimento, in seguito ad annullamento con rinvio da parte della Cassazione o per altra causa, ad una fase o a un grado di giudizio diversi, o di rinvio ad altro giudice, prevedrebbe che possa essere causa di scarcerazione solo il superamento del termine complessivo di durata massima, stabilito dallo stesso articolo al comma 4. Infatti, secondo quella che si appalesa l'unica soluzione ermeneutica enucleabile dal sistema ed in linea con i valori della Carta fondamentale, deve ritenersi che anche nella suddetta ipotesi possa essere causa di scarcerazione, se più favorevole, anche il superamento del doppio del termine di fase previsto dall'art. 304, comma 6. Tale soluzione — alla quale non è di ostacolo la collocazione della norma in un articolo concernente i casi di sospensione dei termini (per impedimento dell'imputato o del difensore ecc.) trattandosi di una previsione che rispetto al corpo dell'articolo era e resta autonoma - si impone in forza di vari e concorrenti argomenti, di carattere storico — legati alla genesi e funzione dell'istituto già durante la vigenza del vecchio codice — testuali e logico-sistematici (quali l'uso, nel comma in parola, dell'avverbio «comunque»; il richiamo, oltre che al comma 1, ai commi 2 e 3 dell'art. 303; il fatto che, mentre nei casi di sospensione, il prolungamento dei termini può essere conseguenza di una eventuale condotta ostruzionistica e defatigatoria dell'imputato, nei casi di regressione o di rinvio ad altro giudice deriva di regola da un errore in cui è incorsa la stessa autorità giudiziaria e senza colpa dell'imputato, per cui sarebbe paradossale limitare l'operatività del limite di fase soltanto ai primi) e soprattutto in forza della stessa logica dell'art. 13 della Carta fondamentale, la quale richiede di individuare, fra più interpretazioni, quella che riduca al minimo il sacrificio per la libertà personale. Tale interpretazione è stata ribadita dalla stessa Corte con successive decisioni (Corte cost. n. 429/1999 e Corte cost. n. 214/2000), con le quali si ribadisce che soluzione ermeneutica costituzionalmente obbligata è quella secondo la quale il superamento di un periodo di custodia pari al doppio del termine stabilito per la fase presa in considerazione, determina la perdita di efficacia della custodia, anche se quei termini sono stati sospesi, prorogati o sono cominciati a decorrere nuovamente a seguito della regressione del processo; né ad una diversa considerazione della questione possono indurre orientamenti tra loro contrastanti, anche della Corte di cassazione, antecedenti e successivi alla pronuncia n. 292 del 1998.

In applicazione della interpretazione fornita dalla Corte costituzionale, si è affermato che, in caso di regressione del procedimento, il termine «finale» del doppio del termine di fase, in base al combinato disposto degli art. 303, comma 2, e 304, comma 6, decorre dal primo termine iniziale della fase in cui il procedimento è regredito, computato anche il periodo di custodia cautelare decorso nelle fasi o gradi successivi prima del provvedimento che ha disposto la regressione (Cass. VI, n. 3090/1999). Peraltro, secondo un diverso orientamento giurisprudenziale, invece, in caso di annullamento con rinvio da parte della Corte di cassazione, i termini di custodia cautelare decorrono nuovamente, pur dopo la sentenza Corte cost. n. 292/1998, dalla data della sentenza di annullamento e non da quella originaria di inizio della fase alla quale il processo è regredito, mentre i termini di custodia cautelare di fase vanno calcolati, per ciascuna fase alla quale si riferiscono, sommando i vari periodi di carcerazione sofferta in quella fase o nello stesso grado di giudizio (Cass. I, n. 2091/1999; Cass. V, n. 5826/2000).

Annullamento con rinvio

Anche la pronuncia di annullamento senza rinvio della Corte di cassazione, con trasmissione degli atti al giudice competente per il merito, rientra tra le cause che determinano la regressione del procedimento ed una nuova decorrenza dei termini di custodia cautelare, ai sensi dell'art. 303, comma 2 (Cass. VI, n. 39266/2013: fattispecie relativa ad annullamento senza rinvio di una sentenza di applicazione della pena ai sensi dell'art. 444, con trasmissione degli atti al tribunale; Cass. VI, n. 47240/2021).

Nell'ipotesi in cui il giudice di legittimità abbia disposto l'annullamento con rinvio limitatamente alla determinazione della pena della sentenza di appello conforme a quella pronunciata in primo grado, deve ritenersi che sull'affermazione di responsabilità dell'imputato si sia formato il giudicato, con la conseguenza che i termini di custodia cautelare cui deve farsi riferimento sono, ai sensi dell'art. 303, comma 1, lett. d), quelli stabiliti per la durata massima delle misure cautelari dal quarto comma dello stesso articolo e non invece quelli di fase rapportati alla pena in concreto irrogata (Cass. VI, n. 4971/2009; Cass. VI, n. 273/2014; Cass. II, n. 8846/2014 ; Cass. II, n. 45095/2017).

Nel caso in cui la sentenza di appello sia stata annullata con rinvio, ed in applicazione del divieto di reformatio in pejus (operante anche nel giudizio di rinvio) la pena già determinata dal giudice dell'appello non possa essere aggravata all'esito del giudizio di rinvio, il termine cautelare di fase relativo a quest'ultimo va determinato facendo riferimento non alla maggior pena inflitta con la sentenza di primo grado, bensì a quella minore inflitta con la sentenza di appello (Cass. VI, n. 3090/1999; Cass. II, n. 10091/2008).

Rinvio per altra causa

La locuzione «per altra causa», usata dal legislatore si riferisce non solo agli annullamenti o dichiarazioni di nullità delle sentenze o dei provvedimenti in genere che determinano il passaggio del processo ad un grado o ad una fase successiva, ma a qualunque altra decisione in grado di determinare il regresso del processo a fase o grado di giudizio diversi, senza alcuna distinzione, compresa la sentenza del giudice di appello nelle ipotesi di cui all'art. 604 o nel caso in cui rileva l'incompetenza del giudice di primo grado, nei casi di cui all'art. 23; la trasmissione degli atti al P.M. presso il giudice competente, invece che direttamente a quest'ultimo, prevista dall'art. 23, comma 1, dopo la sentenza Corte cost. n. 76/1993, implica la regressione del procedimento per una causa diversa dell'annullamento disposto dal giudice di diritto, ma con eguali effetti sul piano della custodia cautelare, e cioè la nuova decorrenza dei termini previsti per la fase, fermo quello massimo (Cass. VI, n. 76/1993; Cass. I, n. 4361/1995).

Detta decorrenza ex novo non opera nel caso in cui la declaratoria di nullità sia pronunciata dal giudice dell'udienza preliminare, in quanto, in tal caso, l'annullamento opera nell'ambito della stessa fase in cui il fatto genetico del vizio è intervenuto, con la conseguenza che non sussiste alcuna cesura nel decorso del termine di fase (Cass. II, n. 24498/2006; Cass. V, n. 28536/2010). In particolare, i termini di durata massima non decorrono nuovamente qualora, nel corso dell'udienza preliminare, il giudice – ritenendo che per il reato contestato debba procedersi con citazione diretta a giudizio – pronunci ordinanza di trasmissione degli atti al pubblico ministero, ai sensi dell'art. 33-sexies, per l'emissione del decreto di citazione (Cass. II, n. 43666/201 6).

Ugualmente, i termini di durata della custodia cautelare, stabiliti per la fase che inizia con l'esecuzione della misura cautelare e che si conclude con il provvedimento che dispone il giudizio, non decorrono nuovamente nel caso in cui nella fase del giudizio sia dichiarata la nullità del decreto di giudizio immediato per un difetto di notifica, perché la declaratoria di nullità interviene nell'unica fase ancora non conclusa e non determina la regressione del procedimento ad una fase diversa (Cass. VI, n. 34786/2008)

Con riferimento al termine di durata della custodia cautelare, ripristinata per effetto della regressione del processo dalla fase esecutiva alla fase di cognizione, non è pacifica la ripresa della decorrenza, che, secondo una interpretazione, deve calcolarsi dalla data di pronuncia della sentenza di primo grado e non già dalla data del provvedimento del giudice dell'esecuzione che ha disposto il regresso (Cass. I, n. 33121/2011; Cass. IV, n. 25954/2021); secondo una interpretazione contrastante, invece, i termini di fase della custodia decorrono nuovamente dalla data del provvedimento di restituzione nel termine per impugnare emesso dal giudice dell'esecuzione (Cass. VI, n. 34204/2014; Cass. I, n. 29821/2021; Cass. VI, n. 38153/2021).

Rinvio ad altro giudice

Nel caso di misura cautelare emessa da giudice incompetente, si è affermato che il termine di fase della custodia cautelare comincia a decorrere dalla data di emissione del provvedimento che dispone la trasmissione degli atti al giudice competente e non dal momento in cui viene emessa la nuova misura cautelare (Cass. VI, n. 22035/2012; Cass. VI, n. 25713/2016; Cass. I, n. 51902/2018). Altri arresti giurisprudenziali, in contrasto, affermano, invece, che il provvedimento di custodia cautelare disposto dal giudice che, contestualmente, si dichiari incompetente, viene a tutti gli effetti sostituito dalla ordinanza pronunciata nei termini indicati dall'art. 27 dal giudice competente, sicché i termini di durata della custodia cautelare decorrono ex novo dall'emissione di quest'ultima (Cass. VI, n. 27975/2009; Cass. I, n. 5896/2012; Cass. VI, n. 41974/2014).

Per l'ipotesi di rinvio del processo ad altro giudice per ragione di connessione, non possono farsi nuovamente decorrere ex art. 303 comma 2 i termini di durata della custodia cautelare. In tal caso invero non v'è regressione del procedimento e l'applicazione estensiva della norma di cui sopra sarebbe contraria ai principi di garanzia dettati dal nuovo codice in materia di libertà personale a favore degli indagati i quali oltre ad essere penalizzati da decisioni facoltative sulla competenza contro le quali non è data impugnazione autonoma, vedrebbero violate ingiustificatamente le disposizioni relative alla scadenza dei termini attraverso l'adozione di provvedimenti analoghi a quelli contenenti «contestazione a catena» che non possono incidere sulla decorrenza in questione (Cass. VI, n. 17/1996).

In ipotesi di regressione del procedimento, il termine di fase inizia nuovamente a decorrere, ai sensi del comma 2 dell'art. 303, anche nel caso di misure diverse dalla custodia in carcere, in considerazione del fatto che il rinvio operato dall'art. 308 all'art. 303 riguarda la intera disciplina dei termini delle misure cautelari, con la conseguenza che la specifica previsione che l'art. 303, comma 2 fa con riguardo alla custodia cautelare carceraria non è di ostacolo alla operatività della norma, anche nei confronti delle misure cautelari diverse da quelle intramurarie; è evidente che non trattasi di interpretazione analogica, ma di interpretazione estensiva su base logico- sistematica, derivante dalla coordinata lettura del disposto degli artt. 282 ter, 287, 297, 303 e 308 (Cass. V, n. 18021/2013; Cass., n. 16777/2019).

Dichiarazione di illegittimità costituzionale

La Corte cost. n. 299/2005 ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l'art. 303, comma 2, nella parte in cui non consente di computare ai fini dei termini massimi di fase determinati dall'art. 304, comma 6, dello stesso codice, i periodi di custodia cautelare sofferti in fasi o in gradi diversi dalla fase o dal grado in cui il procedimento è regredito. Infatti, la tutela della libertà personale che si realizza attraverso i limiti massimi di custodia voluti dall'art. 13, comma 5, Cost. è un valore unitario e indivisibile, che non può subire deroghe o eccezioni riferite a particolari e contingenti vicende processuali, ovvero desunte da una ricostruzione dell'attuale sistema processuale che non consenta di tenere conto, ai fini della garanzia del termine massimo finale di fase, dei periodi di custodia cautelare «comunque» sofferti nel corso del procedimento.

A seguito della parziale declaratoria di incostituzionalità dell'art. 303, comma 2, operata dalla Corte Costituzionale con la sentenza Corte cost. n. 299/2005, quando ha luogo il regresso del procedimento a seguito di annullamento con rinvio da parte della Corte di Cassazione, ai fini del computo dei termini massimi di fase determinati dall'art. 304, comma 6, si deve tenere conto, oltre che dei tempi di custodia maturati dall'imputato nella medesima fase del procedimento prima della regressione, anche del periodo di custodia cautelare sofferto durante la pendenza del procedimento in cassazione. Tuttavia, nel caso in cui sia stata pronunciata doppia sentenza conforme sulla responsabilità, non annullata sul punto in sede di legittimità, sono applicabili soltanto i termini di durata complessiva della custodia cautelare previsti dagli artt. 303 comma 4 e 304 comma 6 (Cass. I, n. 7785/2008; Cass. VI, n. 28984/2013; Cass. VI, n. 1735/2019; Cass. V, n. 4049/2019).

Evasione

Ai sensi del comma 3 dell'art. 303, nel caso di evasione dell'imputato sottoposto a custodia cautelare, i termini previsti dal comma 1 decorrono di nuovo, relativamente a ciascuno stato e grado del procedimento, dal momento in cui venga ripristinata la custodia cautelare.

La decorrenza ex novo dei termini di custodia cautelare a seguito dell'evasione dell'imputato si giustifica con il ripristino della custodia cautelare, non essendo necessario che abbia inizio il procedimento penale per il fatto dell'evasione (Cass. VI, n. 32866/2009).

Una parte della giurisprudenza afferma che la configurabilità del reato di evasione, come previsto dall'articolo 385 c.p., presuppone l'esistenza di un legale titolo di detenzione, sicché va esclusa la sussistenza di detto reato nei confronti di soggetto sottrattosi all'esecuzione della custodia cautelare quando, pur in assenza di un formale provvedimento dell'autorità giudiziaria, la suindicata misura abbia perso efficacia per l'avvenuto decorso del relativo termine massimo di durata (Cass. VI, n. 10282/2001). Pertanto, non integra il reato di evasione l'allontanamento dal luogo degli arresti domiciliari del soggetto nei cui confronti sia già intervenuta sentenza di condanna a pena non detentiva, ancorché non sia ancora stato adottato un formale provvedimento di scarcerazione, stante la natura meramente dichiarativa di quest'ultimo (Cass. VI, n. 21211/2001). Un diverso orientamento giurisprudenziale, invece, ritiene che integri il reato di evasione la condotta di colui che si allontani ingiustificatamente dal luogo degli arresti domiciliari dopo il passaggio in giudicato della sentenza di condanna a una pena detentiva di durata superiore al periodo di custodia cautelare sofferto, poiché in tale situazione l'agente non può considerarsi formalmente libero sino alla notificazione dell'ordine di esecuzione della pena definitiva, dovendosi ritenere l'imputato agli arresti domiciliari in stato di custodia cautelare e non potendosi equiparare detto regime allo stato di libertà, per le rilevanti restrizioni che comporta, né il passaggio in giudicato della sentenza è previsto fra le cause di estinzione delle misure cautelari di cui agli artt. 300 e 303 (Cass. VI, n. 7685/2000; Cass. VI, n. 1364/2006; Cass. VI, n. 18733/2008).

Limiti massimi di durata complessiva

Il comma 4 dell'art. 303 stabilisce i limiti massimi di durata complessiva della misura cautelare, considerate anche le proroghe previste dall'art. 305, che individua in: 2 anni, quando si procede per un delitto per il quale la legge stabilisce la pena della reclusione non superiore nel massimo a sei anni; 4 anni, quando si procede per un delitto per il quale la legge stabilisce la pena della reclusione non superiore nel massimo a venti anni, salvo quanto previsto dalla lettera a); 6 anni, quando si procede per un delitto per il quale la legge stabilisce la pena dell'ergastolo o della reclusione superiore nel massimo a venti anni. 

Ai fini del calcolo del termine di durata massima della custodia cautelare nel giudizio abbreviato non può tenersi conto della riduzione di un terzo prevista dall'art. 442, non incidendo essa sulla misura edittale della pena ( Cass. II n. 18558/2020).

La limitazione della libertà non può essere protratta oltre tali termini, a meno che il giudice non adotti un provvedimento di proroga o di sospensione dei termini ma in ogni caso, non estendibile oltre il limite previsto dall'art. 304, comma 6.

In caso di condanna non ancora definitiva per reato considerato come unito per continuazione ad altro per il quale vi sia già stata condanna irrevocabile, non può considerarsi come «custodia cautelare», ai fini del non superamento dei termini di durata massima previsti dall'art. 303, comma 4, la privazione della libertà sofferta in espiazione della pena a suo tempo inflitta con la condanna irrevocabile (Cass. I, n. 1976/1996).

In caso di estradizione dall'estero, ai fini della determinazione dei termini di durata massima della custodia cautelare, va computato il periodo di detenzione all'estero sofferta in conseguenza della domanda di estradizione, a nulla rilevando che, comunque deliberata l'estradizione, l'effettiva consegna del soggetto sia stata differita per volontà dello Stato estero, mentre non va computato il periodo di detenzione riconducibile a titoli esecutivi esteri (Cass. I, n. 3862/2009).

In caso di estradizione per l'estero, quando il Ministro della giustizia sospende, a norma dell'art. 709, l'esecuzione «a soddisfatta giustizia italiana», non sono applicabili alle misure coercitive in corso di esecuzione all'atto della sospensione i termini di durata massima previsti dagli artt. 303, comma 4, e 308 (Cass. S.U., n. 41540/2006).

Quando l'esecuzione della consegna viene sospesa per effetto dell'attivazione della procedura diretta ad ottenere il riconoscimento della protezione internazionale a norma del d.lgs. n. 25/2008, non è applicabile alle misure coercitive in corso di esecuzione all'atto della sospensione la disciplina dei termini di durata massima previsti dagli artt. 303, comma 4, e 308, ma quella prevista dall'art. 708, comma 6 (Cass. VI, n. 25866/2013).

Quando la mancata consegna sia impedita dalla pronuncia del giudice amministrativo di un'ordinanza di sospensione dell'efficacia del provvedimento ministeriale, non è applicabile alle misure coercitive in corso di esecuzione all'atto della sospensione la disciplina dei termini di durata massima previsti dagli artt. 303, comma 4, e 308, ma quella prevista dall'art. 708, comma 6 (Cass. VI, n. 4338/2015 ; Cass. VI, n. 6943/2019).

In tema di mandato di arresto europeo, il periodo di tempo occorrente per la effettiva consegna della persona richiesta dall'autorità giudiziaria italiana, quando la stessa sia stata sospesa o differita per fatti o determinazioni attribuibili allo Stato estero, non può essere computato ai fini della decorrenza del termine, massimo o di fase, della custodia cautelare in Italia, se la persona da consegnare sia rimasta in stato di custodia all'estero per effetto di altro e diverso titolo cautelare o detentivo ivi emesso (Cass. IV, n. 24583/2010; Cass. III, n. 9203/2013; Cass. VI, n. 36677/2015; Cass. VI, n. 6943/2019).

Il periodo di custodia cautelare scontato all'estero in esecuzione di un mandato di arresto europeo deve essere computato nella determinazione dei termini di fase (Cass. II, n. 35139/2008). Tali principi sono conseguenza della dichiarazione di illegittimità costituzionale dell'art. 33 l. n. 69/2005, nella parte in cui non prevede che la custodia cautelare all'estero, in esecuzione del mandato d'arresto europeo, sia computata anche agli effetti della durata dei termini di fase previsti dall'art. 303, commi 1, 2 e 3. La condizione del destinatario del provvedimento restrittivo, a seguito di mandato d'arresto europeo, non può risultare — quanto a garanzie in ordine alla durata massima della privazione della libertà personale — deteriore né rispetto a quella dell'indagato destinatario di una misura cautelare in Italia, né, tanto meno, rispetto a quella dell'estradando, non essendo dato rinvenire alcuna ragione giustificativa di un diverso e meno favorevole trattamento del soggetto in questione (Corte cost. n. 143/2008). Peraltro, mentre una parte della giurisprudenza afferma che il periodo di custodia cautelare scontato all'estero in esecuzione di un mandato di arresto europeo deve essere computato nella determinazione dei termini di fase, pur quando il soggetto detenuto all'estero sia al contempo sottoposto ad espiazione di una pena detentiva e non sia stato posto nella disponibilità della giurisdizione italiana (Cass. I, n. 21056/2010); altra parte della giurisprudenza sostiene, invece, che ai fini della computabilità della custodia cautelare all'estero, è necessario da un lato che la persona richiesta dall'Italia sia sta posta a disposizione della giurisdizione italiana e dall'altro che la custodia cautelare sia stata sofferta in esecuzione del mandato d'arresto europeo (Cass. VI, n. 30894/2008; Cass. I, n. 11496/2010; Cass. VI, n. 6943/2019).

Bibliografia

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