Codice di Procedura Penale art. 546 - Requisiti della sentenza.Requisiti della sentenza. 1. La sentenza contiene: a) l'intestazione «in nome del popolo italiano» e l'indicazione dell'autorità che l'ha pronunciata; b) le generalità dell'imputato o le altre indicazioni personali che valgono a identificarlo nonché le generalità delle altre parti private; c) l'imputazione [429, 450, 456, 464, 516-518, 521, 552]; d) l'indicazione delle conclusioni delle parti [523]; e) la concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto su cui la decisione è fondata, con l’indicazione dei risultati acquisiti e dei criteri di valutazione della prova adottati e con l’enunciazione delle ragioni per le quali il giudice ritiene non attendibili le prove contrarie, con riguardo: 1) all’accertamento dei fatti e delle circostanze che si riferiscono all’imputazione e alla loro qualificazione giuridica; 2) alla punibilità e alla determinazione della pena, secondo le modalità stabilite dal comma 2 dell’articolo 533, e della misura di sicurezza; 3) alla responsabilità civile derivante dal reato; 4) all’accertamento dei fatti dai quali dipende l’applicazione di norme processuali1; f) il dispositivo, con l'indicazione degli articoli di legge applicati; g) la data [111] e la sottoscrizione [110] del giudice. 2. La sentenza emessa dal giudice collegiale è sottoscritta dal presidente e dal giudice estensore. Se, per morte o altro impedimento, il presidente non può sottoscrivere, alla sottoscrizione provvede, previa menzione dell'impedimento, il componente più anziano del collegio; se non può sottoscrivere l'estensore, alla sottoscrizione, previa menzione dell'impedimento, provvede il solo presidente [426 2]. 3. Oltre che nel caso previsto dall'articolo 125 comma 3, la sentenza è nulla se manca o è incompleto nei suoi elementi essenziali il dispositivo ovvero se manca la sottoscrizione del giudice. [1] Lettera così sostituita dall’art. 1, comma 52, l. 23 giugno 2017, n. 103. Ai sensi dell’art. 1, comma 95, l. n. 103, cit., la stessa legge entra in vigore il trentesimo giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta ufficiale. InquadramentoLa sentenza viene generalmente intesa in una duplice accezione: da un punto di vista sostanziale, come decisione della fattispecie concreta sottoposta a giudizio; da un punto di vista formale, come documento che contiene la decisione stessa e ne esplicita le ragioni. La norma in esame indica i requisiti costitutivi della sentenza come documento (SIRACUSANO, il Giudizio), stabilendo che essa debba contenere l'intestazione in nome del Popolo Italiano, l'autorità giudiziaria che la pronunzia, le generalità dell'imputato, l'imputazione, le conclusioni rese dalle parti, l'indicazione concisa dei motivi di fatto e diritto che fondano la decisione, delle prove ritenute fondanti e delle ragioni per cui le prove contrarie non sono state considerate dirimenti, ed infine il dispositivo, completo degli articoli di legge applicati e della sottoscrizione del giudice, quest'ultima apposta dal presidente del collegio e dal giudice estensore. Va fin da ora rimarcato che tali requisiti non sono previsti a pena di nullità della sentenza, fatta eccezione per la mancanza o incompletezza del dispositivo; la mancanza di sottoscrizione del giudice; la mancanza della motivazione (art. 125 comma 3). Va peraltro segnalato che nella riforma del codice di procedura penale recentemente varata (l. 23 giugno 2017, n. 103), il legislatore è intervenuto sulla struttura della sentenza, riscrivendo il contenuto della lett. e) dell'art. 546, e prevedendo che essa debba anche indicare i risultati acquisiti e i criteri di valutazione della prova adottati, avendo riguardo: - all'accertamento dei fatti e alle circostanze relative all'imputazione e alla loro qualificazione giuridica; - alla punibilità̀ e alla determinazione della pena e della misura di sicurezza; - alla responsabilità̀ civile da reato; - all'accertamento dei fatti dai quali dipende l'applicazione di norme processuali. In dottrina si è osservato che tale intervento riformatore deve essere letto nella prospettiva di determinare in modo il più possibile puntuale casi e condizioni delle impugnazioni, nel senso che – individuata con maggiore precisione la struttura della sentenza – i motivi di impugnazione ad essa correlati siano delimitati in maniera rigorosa, con riferimento ai capi e ai punti della decisione: la modifica normativa va infatti raccordata con il nuovo art. 581, in cui vengono riscritti i requisiti di forma e contenuto dell'atto di impugnazione (SPANGHER). In giurisprudenza si è precisato che con la riforma il legislatore ha inteso imporre al giudice di non limitarsi a una mera rassegna degli elementi di prova assunti nel corso del processo, ma di sintetizzarne in modo critico i contenuti in modo da rendere comprensibile la base fattuale del suo ragionamento (Cass. III, n. 38478/2019). L’intestazione e l’indicazione dell’autorità che ha pronunciato la sentenzaLa sentenza deve innanzitutto contenere l’intestazione “In nome del popolo italiano”, in armonia con l’art. 101 della Costituzione, il quale solennemente afferma che la giustizia è amministrata in nome del popolo. Deve inoltre contenere l’indicazione dell’autorità che l’ha pronunciata, ovvero dell’ufficio giudiziario, e il nome del giudice (o dei giudici) che ha emesso la decisione (CERQUA, sub artt. 545-548). Tuttavia, l'omessa indicazione dei nomi dei componenti del collegio giudicante non è causa di nullità della sentenza, non rientrando detto incombente fra quelli previsti dalla legge a pena di nullità ex art. 546 comma 3 (Cass. V, n. 34680/2015); sotto altro profilo, l'indicazione - nell'intestazione della sentenza - di un componente del collegio diverso da quello che ha preso effettivamente parte alla deliberazione, e che risulta dal verbale di udienza, è un errore materiale emendabile con il rimedio della correzione ex art. 547 (Cass. V, n. 2809/2014), così come è emendabile con il procedimento di correzione l'intestazione che rechi, per errore, nominativi dei giudici popolari diversi da quelli che hanno firmato il provvedimento (Cass. V, n. 44900/2001). Le generalità dell’imputato e delle altre parti privateLa norma in esame, al comma 1, lett. b), prescrive, nel contenuto della sentenza, le generalità dell'imputato o le altre indicazioni personali che valgono ad identificarlo, nonché le generalità delle altre parti private. È stato però precisato che l'incertezza sull'identificazione anagrafica dell'imputato è irrilevante quando sia certa l'identità fisica della persona nei cui confronti sia iniziata e proseguita l'azione penale, potendosi in seguito pur sempre provvedere alla rettifica delle generalità erroneamente attribuite a norma dell'art. 130 (Cass. V, n. 32641/2018). Quanto alle altre parti private, e cioè parte civile, responsabile civile e civilmente obbligato, non costituisce motivo di nullità della sentenza l'omessa indicazione delle generalità di tali soggetti (in particolare, quanto alla parte civile (Cass. V, n. 1137/2009). Non è richiesta l'indicazione del nominativo del P.M., comunque rilevabile dal verbale di udienza. L’imputazioneNella sentenza deve essere indicata l'imputazione, ovvero deve essere enunciato in forma chiara e precisa il fatto contestato, con l'indicazione delle norme violate, delle circostanze aggravanti e di quelle che possono determinare l'applicazione di una misura di sicurezza. Tuttavia, anche tale requisito non è previsto a pena di nullità della sentenza, qualora sia comunque ricavabile dal corpo del provvedimento: è stato quindi affermato che non è affetta da alcuna invalidità la sentenza la cui epigrafe non riporta i capi di imputazione, ben potendo l'enunciazione dei fatti e delle circostanze che formano oggetto della contestazione essere desunti dal contenuto complessivo della decisione, rilevato altresì che l'art. 546, comma 3, sanziona a pena di nullità la sola mancanza o incompletezza del dispositivo (Cass. III, n. 48348/2017). In particolare, la mancata trascrizione dei capi di imputazione nell'epigrafe della sentenza non determina alcuna invalidità, ben potendo l'enunciazione dei fatti e delle circostanze che formano oggetto della contestazione essere contenuta nel corpo del provvedimento, in quanto l'art. 546, co. 3 c.p.p. sanziona, a pena di nullità, la sola mancanza o incompletezza del dispositivo (Cass. III, n. 28675/2020). Le conclusioni delle partiÈ stato osservato che l'obbligo dell'inserimento delle conclusioni delle parti in sentenza – e cioè la richiesta del P.M. e quelle dei difensori – risponde all'esigenza di riflettere, anche visivamente nel documento-sentenza, il principio del contraddittorio cui è ispirato l'intero dibattimento, e consente inoltre di verificare la congruenza della motivazione rispetto alle deduzioni delle parti (Siracusano, Il Giudizio). Tuttavia, l'omessa indicazione nell'intestazione della sentenza delle conclusioni delle parti non costituisce motivo di nullità della pronuncia (Cass. IV, n. 48770/2019), così come non costituisce causa di nullità la mancata presentazione delle conclusioni da parte della difesa, quando essa dipenda dall'inerzia del difensore, presente in udienza e rimasto inattivo per sua scelta; diversamente, è configurabile una causa di nullità nel caso in cui l'omessa presentazione delle conclusioni dipenda dal totale impedimento alla difesa di proporre le proprie richieste finali, o dal mancato accoglimento della richiesta di prendere per ultima la parola (Cass. V, n. 11905/2016). Peraltro, l'asserita mancata verbalizzazione di richieste difensive o delle conclusioni della difesa non è idonea a produrre alcuna nullità ove non vengano specificate nell'impugnazione sia il contenuto delle richieste non verbalizzate che il pregiudizio derivato dal loro mancato esame (Cass. IV, n. 22090/2019). La motivazioneL’obbligo di motivazione è previsto innanzitutto ed in via generale, a pena di nullità, per tutti i provvedimenti giurisdizionali, dall’art. 125: analogamente, l’art. 546 indica la motivazione, a pena di nullità, tra i requisiti della sentenza. Essa consiste – così come si evince dalla lettera della norma in esame – in una esposizione dei motivi di fatto e di diritto su cui la decisione si fonda, e cioè delle ragioni che sorreggono la sentenza. Costituisce poi una novità del codice del 1988 l’obbligo imposto al giudice di elencare – nella redazione dei motivi – le prove che sono state poste alla base della decisione, e di dare conto delle ragioni per cui non sono state ritenute attendibili le prove contrarie (TONINI). Si è molto dibattuto circa i fondamenti dell’obbligo motivazionale, che sono molteplici: di carattere psicologico, nella misura in cui il giudice è incentivato ad usare in maniera corretta i propri poteri decisionali, e le parti sono poste nella condizione di conoscere le ragioni della decisione, e di rendersene consapevoli; di carattere tecnico-giuridico, nella misura in cui attraverso la motivazione è soddisfatta l’esigenza di poter controllare l’operato del giudicante, e sottoporlo alla verifica del giudice di legittimità, attraverso lo strumento approntato dall’art. 606, lett. e). La motivazione – si è osservato in dottrina – deve essere completa, corretta, analitica e intrinsecamente coerente (MORSELLI, La sentenza penale) e, quanto alla struttura, deve contenere l’indicazione delle prove poste a fondamento della decisione, e l’enunciazione delle ragioni per le quali non sono state ritenute attendibili le prove contrarie, in attuazione di quanto disposto dagli artt. 192 e 546 comma 1, che vanno letti congiuntamente, essendo tra loro complementari (NAPPI), nonchè in coordinamento con l’art. 533 comma 1, che pone la regola dell’oltre ogni ragionevole dubbio: in altri termini, nella motivazione il giudice dovrà dare conto – con argomentazioni intrinsecamente logiche e coerenti – non solo delle prove ritenute dirimenti ai fini della decisione adottata, ma anche del perché le ipotesi alternative a quella prescelta non siano state ritenute ragionevoli. Di avviso parzialmente diverso la giurisprudenza, secondo cui la regola posta dall’art. 546 comma 1 lett. e) circa la “concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto su cui la decisione è fondata” comporta che il giudice, nell’adempimento del proprio obbligo motivazionale, non sia tenuto a dare conto della valutazione di ogni deposizione assunta e di ogni prova, come di altre possibili ricostruzioni dei fatti che possano condurre a eventuali soluzioni diverse da quella adottata, egualmente fornite di coerenza logica, ma deve indicare le fonti di prova di cui ha tenuto conto ai fini del suo convincimento, poiché quelle contrarie devono considerarsi implicitamente disattese. Più precisamente, il dovere di motivazione della sentenza è adempiuto attraverso la valutazione globale delle deduzioni delle parti e delle risultanze processuali, non essendo necessaria l'analisi approfondita e l'esame dettagliato delle predette, essendo sufficiente che si spieghino le ragioni che hanno determinato il convincimento, dimostrando di aver tenuto presente ogni fatto decisivo, nel qual caso devono considerarsi implicitamente disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata (Cass. VI, n. 20092/2011). Va poi rimarcato che la motivazione deve essere anche leggibile, cosicchè viola il contraddittorio tra le parti ed ostacola una efficace difesa in vista della impugnazione, una sentenza graficamente indecifrabile (Cass. I, n. 18462/2006), ma non è affetta da nullità la sentenza redatta a mano dal relatore con grafia di difficile lettura, qualora il testo non sia assolutamente inintellegibile, ma consenta alla parte di intenderne il contenuto e di esercitare il diritto di impugnazione, ed al giudice "ad quem" il relativo sindacato (Cass. V, n. 841/2017). L’assenza di motivazione L'assenza totale di motivazione, non determina l'inesistenza della pronuncia, dato che il dispositivo letto in udienza è ex se provvedimento decisorio idoneo a passare in giudicato, ma rende la sentenza suscettibile di annullamento ove impugnata dalla parte interessata (Cass. V, n. 35722/2013). In altri termini, la totale assenza di motivazione della sentenza non configura un'ipotesi di inesistenza, ma di mera nullità, suscettibile di sanatoria per effetto del giudicato formatosi sul dispositivo non oggetto di impugnazione (Cass. I, n. 47068/2018). Peraltro, va qui ricordato che secondo la dottrina, il vizio di motivazione non è deducibile come causa di nullità in appello (Cordero, Nappi), poiché per il principio di conservazione degli atti e di economia processuale, il giudice d'appello può sostituirsi al giudice di primo grado nella valutazione del fatto, correggendo, integrando ed anche redigendo integralmente la motivazione. In giurisprudenza, l'orientamento prevalente — espresso anche dalle Sezioni unite — afferma che, in caso di carenza o mancanza di motivazione della sentenza di primo grado, il giudice d'appello deve integrarla redigendo la motivazione, anche integralmente, atteso che la mancanza di motivazione della sentenza non rientra tra i casi, tassativamente previsti dall'art. 604, per i quali il giudice di appello deve dichiarare la nullità della sentenza appellata e trasmettere gli atti al giudice di primo grado, verificandosi invece una nullità ai sensi dell'art. 125 comma 3, alla quale, allorquando la sentenza è appellabile, il giudice di appello può rimediare in forza dei poteri di piena cognizione e valutazione del fatto assegnatigli dalla legge (Cass. S.U. , n. 3287/2009; Cass. VI, n. 58094/2017 ). Pertanto è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 604 c.p.p. nella parte in cui non prevede che il giudice di appello, in caso di mancanza grafica della motivazione della sentenza appellata, ne dichiari la nullità e trasmetta gli atti al giudice di primo grado, in quanto non sussiste contrasto né con l'art. 111, comma, Cost. che, limitandosi a stabilire che tutti i provvedimenti giurisdizionali debbono essere motivati, demanda alla legge ordinaria la disciplina delle conseguenze dell'inosservanza di tale prescrizione, né con l'art. 24 Cost., posto che la garanzia del doppio grado di giurisdizione di merito non ha copertura costituzionale e, in ogni caso, va intesa nel senso che deve essere data la possibilità di sottoporre tali questioni a due giudici di diversa istanza, anche se il primo non le abbia decise tutte (Cass. VI, n. 32373/2019). Qualche decisione ha però ritenuto che, nel diverso caso in cui il giudice dell'appello non sia investito da motivi inerenti al merito della vicenda, ma esclusivamente della cognizione della nullità della sentenza del giudice a quo per sentenza composta del solo dispositivo letto in udienza, o per totale mancanza di motivazione in quanto afferente a diversa vicenda processuale, o graficamente illeggibile, questi non potrà sostituirsi al primo giudice redigendo la motivazione omessa, ma dovrà dichiarare la nullità della sentenza appellata e trasmettere gli atti al giudice di primo grado, non potendosi privare l'imputato di un grado di giudizio (Cass. V, n. 21795/2017; Cass. II, n. 28467/2011). Nel giudizio di legittimità la nullità della sentenza impugnata carente di motivazione va dichiarata, ed all'esito dell'annullamento il giudice del rinvio non è vincolato dalla decisione, ma è destinatario della devoluzione dell'intero giudizio, sicché deve assumere nuova autonoma decisione (Cass. VI, n. 24059/2014). Al tema in esame appartengono anche i casi della:
Alla fattispecie della indecifrabilità grafica della sentenza (quando non limitata ad alcune parole e non produttiva di una difficoltà di lettura agevolmente superabile), è assimilabile quella della sentenza recante imputazione e motivazione afferente ad altra e diversa vicenda processuale: in tal caso il giudice d'appello, a cui sia devoluta esclusivamente la cognizione della nullità della sentenza, non può sostituirsi al primo giudice correggendo la motivazione nell'ambito del potere di integrazione, ma deve trasmettergli gli atti per non privare l'imputato di un grado del giudizio (Cass. V, n. 21795/2017). La motivazione implicita In giurisprudenza si è affermato che la sentenza costituisce un tutto coerente ed organico, con la conseguenza che, ai fini del controllo critico sulla sussistenza di un valido percorso giustificativo, ogni punto non può essere autonomamente considerato, ma deve essere posto in relazione agli altri, con la conseguenza che la ragione di una determinata statuizione può anche risultare da altri punti della sentenza ai quali sia stato fatto richiamo, sia pure implicito (Cass. II, n. 38818/2019). Si è ad es. affermato che l'assenza dei presupposti per l'applicabilità della causa di non punibilità per la particolare tenuità del fatto può essere rilevata anche con motivazione implicita, da altri passaggi della sentenza (Cass. V, n. 24780/2017; Cass. V, n. 15658/2019); tuttavia, il diniego delle circostanze attenuanti generiche e la rilevata presenza di numerosi precedenti penali, non possono costituire "implicita" motivazione del mancato accoglimento della richiesta di applicazione di tale causa di non punibilità, poiché i parametri di valutazione previsti dall'art. 131-bis comma 1 c.p., hanno natura e struttura oggettiva (Cass. V, n. 45533/2016). In relazione alla suddetta causa di non punibilità rilevano infatti la pena edittale, le modalità e la particolare tenuità della condotta, nonchè la esiguità del danno, mentre gli aspetti da valutare ai fini della concessione delle circostanze attenuanti generiche sono prevalentemente collegati ai profili soggettivi del reo (Cass. V, n. 17246/2020). Così, ancora, la richiesta di concessione delle circostanze attenuanti generiche deve ritenersi disattesa con motivazione implicita allorché sia adeguatamente motivato il rigetto della richiesta di attenuazione del trattamento sanzionatorio, fondata su analogo ordine di motivi (Cass. I, n. 12624/2019). Più in generale, non è censurabile in sede di legittimità, la sentenza che non motivi espressamente su una specifica deduzione prospettata con il gravame, quando ne risulti il rigetto dalla motivazione della sentenza complessivamente considerata (Cass. V, n. 6746/2019). Pertanto il giudice, se ha indicato esaurientemente le ragioni del proprio convincimento, non è tenuto ad es. a rispondere in motivazione a tutti i rilievi del consulente tecnico della difesa, in quanto la consulenza tecnica costituisce solo un contributo tecnico a sostegno della parte e non un mezzo di prova che il giudice deve necessariamente prendere in esame in modo autonomo (Cass. II, n. 15248/2020). La motivazione per relationem Costituisce orientamento costante della giurisprudenza di legittimità — affermato in particolare in materia di appello - che le motivazioni delle sentenze di primo e di secondo grado – quando siano concordanti – si integrano a vicenda, costituendo un unicum organico ed inscindibile, la cui congruità va esaminata nel suo complesso. Si parla infatti di cd. " doppia conforme ", quando la sentenza di appello, nella sua struttura argomentativa, si salda con quella di primo grado sia attraverso ripetuti richiami a quest'ultima sia adottando gli stessi criteri utilizzati nella valutazione delle prove, sicchè le due sentenze possono essere lette congiuntamente costituendo un unico complessivo corpo decisionale (Cass. II, n. 37295/2019), In tale ottica — si è precisato — il giudice dell'appello può motivare per relazione se l'impugnazione si limita a riproporre questioni di fatto o di diritto già esaminate e correttamente risolte dal primo giudice, oppure prospetta critiche generiche, superflue o palesemente infondate, mentre, qualora siano formulate censure specifiche o introduttive di rilievi non sviluppati nel giudizio anteriore, è affetta da vizio di motivazione la sentenza di appello che si limiti a respingere le deduzioni proposte con formule di stile o in base ad assunti meramente assertivi o distonici rispetto alle risultanze istruttorie (Cass. VI, n. 5224/2020). E’ stato altresì affermato che in presenza di un atto di appello non inammissibile per carenza di specificità, il giudice d’appello non può limitarsi al mero e tralaticio rinvio alla motivazione della sentenza di primo grado, in quanto, anche laddove l’atto di appello riproponga questioni già di fatto dedotte e decise in primo grado, egli ha l’obbligo di motivare, onde non incorrere nel vizio di motivazione apparente, in modo puntuale e analitico su ogni punto a lui devoluto (Cass. II, n. 52617/2018). E' invece nulla per difetto assoluto di motivazione la sentenza di appello che si limita a riprodurre la motivazione della sentenza di primo grado nella parte oggetto dell'impugnazione, senza dare conto delle ragioni di tale condivisione (Cass, III, n. 38011/2019). È stato tuttavia precisato che la mancata enunciazione delle ragioni per le quali il giudice ritiene non attendibili le prove contrarie, con riguardo all'accertamento dei fatti e delle circostanze che si riferiscono all'imputazione, non determina automaticamente la nullità della sentenza d'appello per mancanza di motivazione, ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p., neppure alla luce dell'art. 546 c.p.p., così come riformato dalla legge n. 103/2017, ove tali prove non risultino decisive e se il vaglio sulla loro attendibilità possa comunque essere ricavato "per relationem" dalla lettura della motivazione: la riforma dell'art. 546 c.p.p. introdotta dalla l. n. 103/2017 in materia di requisiti della sentenza, non ha infati eliminato la possibilità per il giudice dell'impugnazione di motivare la sentenza per relationem (Cass. III, n. 8065/2019). Il ricorrente in cassazione, a sua volta, non può limitarsi a dedurre l'illegittimità della sentenza d'appello solo perché motivata per relationem alla decisione di primo grado, ma dovrà indicare i punti dell'atto di appello non valutati nella decisione impugnata, pena l'inammissibilità del ricorso (Cass. III, n. 37352/2019). Anche la sovrapponibilità della sentenza di primo grado rispetto all'ordinanzacautelare, non implica di per sé solo la nullità della sentenza, in quanto il requisito dell'autonoma valutazione, previsto a pena di nullità solo con riferimento all'ordinanza cautelare in coerenza con la sua natura di provvedimento inaudita altera parte, non è invece contemplato dall'art. 546(Cass. VI, n. 38060/2019). La motivazione contraddittoria o manifestamente illogica La motivazione deve essere: a) effettiva, ovvero realmente idonea a rappresentare le ragioni che il giudicante ha posto a base della decisione adottata; b) non "manifestamente illogica", perché sorretta, nei suoi punti essenziali, da argomentazioni non viziate da evidenti errori nell'applicazione delle regole della logica; c) non "contraddittoria", ovvero esente da insormontabili incongruenze tra le sue diverse parti o da inconciliabilità logiche tra le affermazioni in essa contenute; d) non logicamente "incompatibile" con "altri atti del processo" (indicati in termini specifici ed esaustivi dal ricorrente nei motivi posti a sostegno del ricorso), in misura tale da risultarne vanificata o radicalmente inficiata sotto il profilo logico (Cass. I, n. 41738/2011). Così, è affetta dal vizio di illogicità e di carenza della motivazione la decisione del giudice di merito che, anziché basarsi su massime di esperienza - caratterizzate da generalizzazioni tratte con procedimento induttivo dalla esperienza comune, conformemente agli orientamenti diffusi nella cultura e nel contesto spazio-temporale in cui matura la decisione - utilizzi semplici congetture, cioè ipotesi fondate su mere possibilità, non verificate in base all' id quod plerumque accidit ed insuscettibili, quindi, di verifica empirica (Cass. VI, n. 1686/2013). Per ulteriori approfondimenti, vedi sub art. 606. La motivazione della penaCon riferimento alla determinazione della pena, la giurisprudenza è costante nel ritenere che laddove venga irrogata una pena al di sotto della media edittale, non è necessaria una specifica e dettagliata motivazione da parte del giudice, se il parametro valutativo è desumibile dal testo della sentenza nel suo complesso argomentativo e non necessariamente solo dalla parte destinata alla quantificazione della pena (Cass. III, 38251/2016). Quando si proceda per reati puniti alternativamente con la pena detentiva o pecuniaria, la scelta del giudice di applicare la meno grave sanzione pecuniaria, anche se in misura superiore a quella media tra il minimo e il massimo edittale, deve ritenersi sufficientemente giustificata dalla qualificazione di essa come "congrua" o "equa", e dal mero richiamo alle circostanze indicate all'art. 133 c.p., ove la rilevanza di queste, in relazione alla gravità del reato ed alla capacità a delinquere del reo, risultino già desumibili dal complesso della motivazione (Cass. I, n. 8560/2014). Peraltro, poichè le sentenze di primo e di secondo grado, ai fini del controllo di congruità della motivazione, si integrano a vicenda, confluendo in un risultato organico ed inscindibile, ben può il giudice di appello, in caso di conferma della sentenza di condanna di primo grado, integrarne la motivazione, ove riscontri un difetto in ordine alla individuazione della pena base e dell'aumento a titolo di continuazione, perché l'omessa indicazione dei criteri di determinazione della pena, anche nel caso di reato continuato, non dà luogo ad una nullità ma ad una lacuna di motivazione (Cass. V, n. 13435/2022 ). Fermo restando l'obbligo del giudice – in caso di riconoscimento della continuazione tra diversi reati - di fornire indicazione e motivazione non solo in ordine alla individuazione della pena base, ma anche in ordine all'entità dell'aumento ex art. 81 c.p. (Cass. III, n. 1446/2018), qualora esso infligga la pena nella misura minima edittale, la aumenti per la continuazione in modo esiguo, non vi è un obbligo di motivazione esplicita: in tal caso deve infatti escludersi che abbia abusato del potere discrezionale conferitogli dall'art. 132 c.p., e deve ritenersi che abbia implicitamente valutato gli elementi obbiettivi e subiettivi del reato, risultanti dal contesto complessivo della sua decisione (Cass. III, n. 24979/2018; Cass. V, n. 20803/2018). È' stato anche affermato che laddove la sentenza di primo grado ometta nel dispositivo l'indicazione della pena, che invece risulti indicata nella motivazione, è legittima la decisione del giudice d'appello, il quale, su impugnazione del pubblico ministero, riproponga la relativa motivazione del giudice di primo grado, condividendola, e indichi la misura della pena corrispondente nel proprio dispositivo (Cass. V, n. 31997/2018). In tema di circostanze, è stato affermato in via generale che la specifica e dettagliata motivazione in ordine alla quantità di pena irrogata, specie in relazione alle diminuzioni o aumenti per circostanze, è necessaria soltanto se la pena sia di gran lunga superiore alla misura media di quella edittale, potendo altrimenti essere sufficienti a dare conto dell'impiego dei criteri di cui all'art. 133 c.p. le espressioni del tipo: "pena congrua", "pena equa" o "congruo aumento", come pure il richiamo alla gravità del reato o alla capacità a delinquere (Cass. II, n. 36245/2009). In tema di concorso di circostanze, il giudizio di comparazione è sufficientemente motivato quando il giudice, nell'esercizio del potere discrezionale previsto dall'art. 69 c.p., scelga la soluzione dell'equivalenza, anziché della prevalenza delle attenuanti, ritenendola quella più idonea a realizzare l'adeguatezza della pena irrogata in concreto (Cass. II, n. 31531/2017). Tuttavia, la discrezionalità del giudice nell'applicare la diminuzione derivante dalla ritenuta ricorrenza di una o più circostanze attenuanti, deve trovare giustificazione nella motivazione della sentenza e il relativo onere è tanto più intenso quanto più contenuta è l'incidenza del beneficio rispetto alla pena in concreto stabilita (Cass. III, n. 42121/2019). In tema di recidiva facoltativa, è richiesta al giudice una specifica motivazione sia che egli affermi sia che escluda la sussistenza della stessa (Cass. VI, n. 56972/2018: In motivazione la Corte ha chiarito che tale dovere risulta adempiuto nel caso in cui, con argomentazione succinta, si dia conto del fatto che la condotta costituisce significativa prosecuzione di un processo delinquenziale già avviato) e in caso di diniego delle circostanze attenuanti generiche, la motivazione può implicitamente ricavarsi anche mediante il raffronto con le considerazioni poste a fondamento del loro avvenuto riconoscimento, riguardo ad altre posizioni esaminate nella stessa sentenza, quando gli elementi oggetto di apprezzamento siano gli stessi la cui mancanza ha assunto efficacia determinante nell'ambito di una valutazione generalmente negativa (Cass. VI, n. 14556/2011). Ancora, è stato affermato che quando il giudice, concessa un'attenuante, diminuisca la pena in misura prossima al massimo consentito dalla legge, non ha l'obbligo di esporre le ragioni per le quali la pena non è stata ridotta nella misura massima (Cass. IV, n. 48541/2013). La motivazione sulla sospensione condizionale della penaIn tema di sospensione condizionale della pena, il giudice, nell'esprimere il giudizio prognostico richiesto dalla legge sul comportamento futuro dell'imputato, deve prendere in considerazione tutte le circostanze indicate dall'art. 133 c.p., con riguardo alla personalità dell'imputato stesso, e, qualora taluni elementi vengano ritenuti prevalenti in senso ostativo alla concessione del beneficio, mentre altri inducano a propendere per un diverso esito, è necessario che dia conto, con adeguata motivazione, di tale prevalenza, al fine di consentire un controllo sull'uso del potere discrezionale esercitato (Cass. III, n. 42737/2016). Tuttavia, non vi è un obbligo di motivare il diniego della sospensione condizionale della pena quando essa non sia concedibile per difetto dei presupposti di legge, ai sensi dell'art. 164, comma 2, c.p. (Cass. III, n. 6573/2017), mentre l'omessa pronuncia da parte della corte d'appello sulla richiesta di concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena astrattamente concedibile, determina l'annullamento della sentenza impugnata con rinvio, non potendo la Corte di cassazione operare una valutazione che coinvolga questioni di merito, anche con riferimento al giudizio prognostico di cui all'art. 164 c.p. (Cass. IV, n. 3746/2020). La motivazione della sentenza nel giudizio abbreviatoIn forza del rinvio contenuto nell'art. 442, comma 1 alle norme dettate per la sentenza emessa a seguito del dibattimento, anche per la sentenza pronunciata all'esito del giudizio abbreviato - ai sensi dell'art. 546, lett. e) - è requisito essenziale, sancito a pena di nullità, l'indicazione, sia pure sintetica, degli elementi fattuali e probatori acquisiti nel procedimento, che costituiscono l'oggetto della valutazione del giudicante (Cass. III, n. 26263/2018). La motivazione della sentenza di patteggiamentoÈ pacifico in giurisprudenza che in caso di patteggiamento ai sensi dell'art.444, l'accordo intervenuto esonera l'accusa dall'onere della prova, e comporta che la sentenza che recepisce l'accordo fra le parti sia da considerare sufficientemente motivata con una succinta descrizione del fatto (deducibile dal capo d'imputazione), con l'affermazione della correttezza della qualificazione giuridica di esso, con il richiamo all'art. 129 per escludere la ricorrenza di alcuna delle ipotesi ivi previste, con la verifica della congruità della pena patteggiata ai fini e nei limiti di cui all'art. 27 Cost. Con la ulteriore precisazione che il suddetto accordo implica per l'imputato "l'impegno ad eseguire la pena o sanzione richiesta od accettata, ed altresì per tutte le parti la rinuncia ad ogni questione od eccezione che abbiano interesse a prospettare. In particolare, non è concepibile un "patteggiamento con riserva" che consenta di acquisire i rilevanti vantaggi previsti dall'art. 444 e poi di contrastare l'accusa ovvero la difesa mediante il ricorso per Cassazione, che può ritenersi giustificato e, quindi, ammissibile, solo in caso di palese violazione di legge (Cass. IV, n. 34494/2006). La sentenza così resa può essere oggetto di controllo di legittimità, per vizio di motivazione, soltanto se dal testo di essa appaia evidente la sussistenza di una causa di non punibilità ex art. 129 c.p.p. (Cass. II, n. 39159/2019). Ma se ciò non accade, non è necessario che il giudice dia conto, nella motivazione, della esclusione di tale causa, "essendo sufficiente anche una implicita motivazione" al riguardo (Cass. V, n. 31250/2013). Il dispositivoLa giurisprudenza, conformemente alla dottrina penalistica, riconosce la categoria della inesistenza giuridica, in quanto immanente al sistema e comprendente tutta quell'area di vizi non rientranti nelle ipotesi di nullità, vizi talmente gravi che impediscono all'atto di sorgere in quanto, mancando degli elementi costitutivi ed identificativi suoi propri, lo rendono inidoneo a produrre effetti giuridici. Si precisa che la differenza fra atto nullo e atto inesistente è quasi di natura ontologica perché, mentre il primo, pur affetto da patologia, è conforme alla tipologia voluta dal legislatore ed è ben identificabile, possedendo gli elementi costitutivi previsti dalla normativa di riferimento, l'atto inesistente è invece estraneo al sistema giuridico, essendo affetto da patologie talmente gravi che risulta privo di una sua fisionomia. In conformità a tali criteri ermeneutici, è stato precisato che, nella sequenza processuale, il dispositivo costituisce parte integrante ed ineludibile della sentenza, essendo l'atto conclusivo del processo, ossia l'atto dichiarativo con il quale il giudice, in esplicazione della volontà sovrana dello Stato, decide, immediatamente, all'esito del dibattimento, sopra una pretesa punitiva contro una determinata persona esistente. Ne deriva che laddove nel dispositivo sia omessa la pronuncia nei confronti dell'imputato, la sentenza deve ritenersi inesistente. Ciò detto, è altresì evidente che il dispositivo di cui parla l'art. 546, lett. f), e la cui mancanza o incompletezza costituisce motivo di nullità della sentenza, non è il dispositivo come atto decisorio, ma il dispositivo come documento. In altre parole, la causa di nullità ex art. 546 comma 3, derivante dalla mancanza del dispositivo, si realizza allorchè, pur essendo stata la decisione assunta - attraverso la lettura del dispositivo stesso - quest'ultimo, inteso come documento, non è più rinvenibile fra gli atti processuali e non è neppure ricostruibile ex art. 113. Al contrario, l'ipotesi dell'omessa pronuncia, collocandosi fuori dall'intero sistema processuale, integra gli estremi dell'inesistenza giuridica vera e propria (Cass. II, n. 29427/2011), sicchè la sentenza che manchi del dispositivo per omessa statuizione decisoria su un capo di imputazione per il quale è stato disposto il rinvio a giudizio dell'imputato è inesistente, e tale vizio, rilevabile d'ufficio, è insuscettibile di essere sanato dal giudicato (Cass. VI, n. 39435/2017). Quanto al caso della incompletezza del dispositivo, esso è incompleto e determina la nullità della sentenza soltanto quando manchino gli elementi idonei a identificare la statuizione del giudice, come nel caso della omessa indicazione della pena inflitta (Cass. III, n. 19537/2015), che costituisce omissione insuscettibile di essere integrata nelle fasi successive (Cass. I, n. 16627/2022). Non costituisce invece causa di incompletezza del dispositivo l'omessa indicazione della pena accessoria, quando sia predeterminata per legge (Cass. II, n. 40611/2012); del termine per il deposito dei motivi (Cass. I, n. 40282/2013), e della sottoscrizione, al pari di ogni atto pronunziato in udienza (Cass. III, n. 38355/2013). Deve poi rimarcarsi la netta prevalenza del dispositivo “letto” in udienza rispetto a quello “scritto” (quale risulta, cioè, dalla sentenza successivamente redatta completa di motivazione), sicchè l'eventuale difformità tra dispositivo letto e dispositivo scritto non è causa di nullità della sentenza (che ricorre nei soli casi in cui difetti totalmente il dispositivo), ma è sanabile mediante il procedimento di correzione dell'errore materiale (Cass. VI, n. 18372/2017). Il dispositivo deve contenere gli articoli di legge applicati, ma è principio costante in giurisprudenza che la mancata menzione di essi non è causa di nullità della sentenza (Cass. III, n. 364/2020). Contrasto tra dispositivo e motivazioneNell'economia della sentenza penale, il dispositivo (elemento volitivo), è la parte che attua la volontà della legge del caso concreto, mentre la motivazione (elemento logico) assume una funzione meramente strumentale, correlata alla necessità di dare ragione dell'iter logico seguito dal giudice, e serve soltanto alla interpretazione del dispositivo. Ne consegue che il giudicato si forma limitatamente al dispositivo della sentenza, sicché ogni parte della motivazione, in qualunque affermazione si sostanzi, se non trova la sua conclusione nel dispositivo, non è di per sè suscettibile di conseguenze giuridiche (Cass. III, n. 19537/2015). Logico corollario di questo principio è che il contrasto tra dispositivo e motivazione non determina nullità della sentenza, ma piuttosto si risolve nella prevalenza dell'elemento decisionale su quello giustificativo, potendosi eliminare eventualmente la divergenza mediante ricorso alla semplice correzione dell'errore materiale della motivazione in base al combinato disposto degli artt. 547 e 130 (Cass. VI, n. 7980/2017;Cass. VI, n. 19851/2016). Ma il criterio della prevalenza del dispositivo sulla motivazione non è assoluto e va contemperato, tenendo conto del caso specifico, con la valutazione dell'eventuale pregnanza degli elementi, tratti dalla motivazione, significativi della effettiva volontà decisoria del giudice (Cass. III, n. 3969/2019): così, ad es., l'affermazione in sentenza di una circostanza attenuante può essere desunta dalla motivazione, pur se in dispositivo non se ne faccia menzione, a condizione che l'esame della motivazione consenta di ricostruire chiaramente ed inequivocabilmente il procedimento seguito dal giudice per determinare la pena (Cass. VI, n. 1397/2016). Analogamente per la concessione della sospensione condizionale della pena, omessa nel dispositivo della sentenza di primo grado, e chiaramente enunciata in motivazione (Cass. V, n. 44867/2015). Così, qualora la divergenza tra dispositivo e motivazione dipenda da un errore materiale, obiettivamente riconoscibile, contenuto nel dispositivo, è legittimo il ricorso alla motivazione per individuare l'errore medesimo ed eliminarne i relativi effetti (Cass. VI, n. 24157/2018;Cass. II, n. 35424/2022) Nel caso di sentenza con motivazione contestuale (in cui, cioè, dispositivo e motivazione sono materialmente contenuti in un unico documento), è pienamente legittimo interpretare o anche integrare il dispositivo sulla base della motivazione (Cass. IV, n. 48766/2019): la sentenza sarà affetta da nullità solo se il contrasto tra dispositivo e motivazione sia insanabile. Conseguenza di tutto quanto fin qui detto, è che anche la radicale divergenza tra dispositivo e motivazione non rientra tra le cause di nullità della sentenza, espressamente e tassativamente previste dall'art. 604, cosicchè il giudice dell'appello deve prendere atto, nei limiti dell'effetto devolutivo, del predetto contrasto e procedere alla valutazione dei motivi di appello (Cass. VI, n. 28212/2018). Data e sottoscrizioneLa sentenza deve contenere la data e la sottoscrizione del giudice (art. 546 comma 1 lett. g): si tratta della parte autenticativa della sentenza, poichè con la sottoscrizione il giudice certifica la sua paternità rispetto al provvedimento completo di motivazione e dispositivo (SIRACUSANO, Il Giudizio). La mancanza o l'evidente erroneità della data non è causa di nullità, ed è emendabile con il procedimento di correzione degli errori materiali, allorché essa possa ricavarsi con esattezza dagli atti (Cass. III, n. 19156/2018), ed in particolare dal verbale dell'udienza in cui la sentenza fu pubblicata (Cass. V, n. 17188/2009), Quanto alla sottoscrizione, la norma prevede che la sentenza collegiale debba essere sottoscritta dal presidente e dal giudice estensore, e la duplicità delle firme è necessaria ed inscindibile, non autorizzando il dato normativo alcuna distinzione, atteso che la sottoscrizione del presidente del collegio ha la funzione evidente di assicurare che il dispositivo corrisponda a quello pubblicato in udienza, e che la motivazione si conformi ai singoli passaggi logici e procedimentali della deliberazione collegiale come disciplinati dall'art. 527 (Cass. S.U. n. 14978/2013). Appare ormai consolidato l'orientamento secondo cui la mancanza di sottoscrizione della sentenza, da parte del presidente del collegio o del giudice estensore, ovvero da parte del giudice monocratico, integra una causa di nullità che può tuttavia essere sanata, attraverso l'annullamento della sentenza-documento, e la regressione del processo allo stato e grado in cui si è verificata la nullità, affinchè il giudice che ha emesso l'atto nullo provveda ad una nuova redazione della sentenza, sottoscrivendola regolarmente (Cass. III, n. 3386/2017). In altri termini, siamo di fronte ad una causa di nullità relativa del provvedimento, per violazione dell'art. 546, comma 3, sanabile con la mera rinnovazione dell'atto viziato, e cioè attraverso una nuova redazione del medesimo (Cass. V, n. 28650/2016). La conseguenza pratica più rilevante è che i termini di impugnazione decorreranno, ai sensi dell'art. 585, dalla notificazione e comunicazione dell'avviso di deposito della sentenza nuovamente depositata (Cass. III, n. 26341/2014; conformeCass. II, n. 20223/2019). Qualora nessuna indicazione di designazione di un estensore diverso dal giudice relatore emerga dagli atti, e il relatore abbia effettivamente sottoscritto la sentenza unitamente al Presidente, non integra alcuna nullità la mancata sottoscrizione di essa da parte del componente del collegio indicato come estensore nell'intestazione del provvedimento, indicazione che deve pertanto ritenersi frutto di mero errore materiale (Cass. II, n. 8273/2018). Se il presidente è anche estensore della motivazione della sentenza, è sufficiente la sola firma di esso per ritenere rispettata la norma, poiché ciò che rileva ai fini della validità della sottoscrizione della sentenza da parte del solo presidente è il fatto che egli sia l'estensore della motivazione, non il fatto che tale sua qualità sia attestata di seguito alla sottoscrizione (Cass. V, n. 51252/2014; Cass. IV, n. 28167/2021). Peraltro, non è possibile dedurre, quale causa di nullità della sentenza - salvo l'esperimento di querela di falso - che il giudice che ha pubblicato mediante lettura la sentenza stessa non sia l'estensore ed il sottoscrittore del provvedimento, qualora quest'ultimo rechi l'attestazione, da parte del cancelliere, di conformità all'originale redatto in camera di consiglio e depositato il giorno stesso della deliberazione (Cass. IV, n. 6363/2017). Sono poi espressamente previste le ipotesi:
Quanto all'ipotesi sub a), l‘impedimento del presidente – diverso dalla morte - che legittima la sottoscrizione della sentenza da parte del giudice più anziano del collegio, deve essere effettivo, serio, grave e duraturo, e il giudice anziano deve certificarne l'esistenza al momento della sottoscrizione, ma non è obbligato a specificarne la natura, e neanche a formulare un generico richiamo "agli atti d'ufficio” (Cass. I, n. 20446/2014 ; conf. Cass. II, n. 10093/2020). In tal caso, ove egli sia anche estensore del provvedimento, può limitarsi ad apporre un'unica sottoscrizione, non essendo richiesto che, a differenza di quanto previsto per il presidente del collegio, debba sottoscrivere l'atto due volte, una in qualità di estensore e l'altra come magistrato eccezionalmente esercente funzioni presidenziali (Cass. III, n. 26341/2014). Va precisato che la sottoscrizione della sentenza da parte dell'estensore e del componente anziano del collegio in luogo del presidente, senza l'indicazione dell'impedimento di quest'ultimo, è equiparabile alla mancata sottoscrizione del presidente, dalla quale consegue una nullità relativa che non incide né sul giudizio, né sulla decisione, ma che comporta, come sopra già specificato, la mera rinnovazione dell'atto viziato (Cass. S.U. n. 14978/2013). Quanto all'ipotesi sub b) , se, cioè, è il giudice estensore ad esser impedito, sottoscrive il solo presidente. Costituiscono impedimento rilevante: il collocamento a riposo (Cass. VI, n. 3920/2009) e il trasferimento ad altra sede (Cass. I, n. 8452/2007), ma non il congedo per ferie (Cass. II, n. 10083/2008). Quanto, infine, all'ipotesi di morte o impedimento del giudice monocratico, si applica la speciale disposizione di cui all'art. 559 comma 4: la sentenza è sottoscritta dal presidente del tribunale previa menzione della causa della sostituzione (Cass. II, n. 49395/2003), ed in tal caso il potere di sostituzione del presidente del tribunale si estende non solo alla sottoscrizione della sentenza, ma anche alla redazione dei motivi, per la quale può delegare altro giudice del tribunale (Cass. fer, n. 39182/2013; Cass. S.U., n. 3287/2009). Da ultimo, va segnalato che per quanto riguarda i provvedimenti collegiali diversi dalle sentenze, si ritiene possano essere sottoscritti dal solo presidente, anche se diverso dal giudice estensore, e ciò perché la doppia sottoscrizione è prevista dal codice di procedura penale per le sole sentenze (Cass. I, n. 22748/2007). I rimediCome osservato in premessa, il regime delle nullità della sentenza è particolarmente semplificato, in quanto costituiscono causa di nullità esclusivamente: - la mancanza della motivazione - la mancanza o incompletezza del dispositivo in uno dei suoi elementi essenziali - la mancanza di sottoscrizione del giudice - la contraddittorietà o incoerenza logica della motivazione (cfr. art. 606 comma 1 let. “e”). In tutti gli altri casi, e sempre che non sia configurabile una causa di nullità di ordine generale, la sentenza priva o incompleta in uno o più dei suoi requisiti può essere integrata mediante il ricorso al procedimento di correzione degli errori materiali. CasisticaNon è nulla la sentenza nel caso in cui il dispositivo segua la motivazione senza interposizione della dicitura Pqm o simili (Cass. I, n. 11247/2009). Non è nulla la sentenza che non riporti i nomi dei giudici componenti il collegio nell'intestazione (Cass. III, n. 34808/2009), ma emendabile mediante correzione di errore materiale (Cass. V, n. 2809/2014). Non è nulla la sentenza la cui motivazione sia del tutto eccentrica rispetto al caso deciso, se prima della scadenza del termine per proporre impugnazione sia depositata altra motivazione correlata al caso deciso e la difesa abbia potuto prenderne conoscenza (Cass. VI, n. 8990/2015). È nulla per carenza assoluta di motivazione la sentenza manoscritta graficamente indecifrabile (Cass. V, n. 46124/2014). Non è nulla la sentenza nel caso in cui la grave incompletezza del dispositivo si emendabile mediante il riferimento al contenuto della motivazione (Cass. fer., n. 47576/2014). Non è nullo il dispositivo privo di sottoscrizione del presidente, se ne è stata data lettura in udienza (Cass. III, n. 38355/2013). In tema di assistenza linguistica, non sussiste il diritto dell'imputato alloglotta alla traduzione del dispositivo della sentenza letto in udienza, trattandosi di atto non ricompreso tra quelli per i quali l'art. 143, comma secondo, anche nel testo vigente introdotto dall'art. 1, comma primo, lett. b)d. lgs. 4 marzo 2014, n. 32, prevede tale obbligo (Cass. III, n. 1915/2015). Nell'ipotesi in cui la discrasia tra dispositivo e motivazione della sentenza (nella specie, di tipo contestuale) dipenda da un errore nella materiale indicazione della pena nel dispositivo e dall'esame della motivazione emerga in modo chiaro ed evidente la volontà del giudice, potendosi ricostruire il procedimento seguito per determinare la sanzione, la motivazione prevale sul dispositivo con la conseguente possibilità di rettifica dell'errore in sede di legittimità, secondo la procedura prevista dall'art. 619, non essendo necessarie, in tal caso, valutazioni di merito (Cass. IV, n. 26172/2016); tuttavia l'eventuale contrasto tra dispositivo letto in udienza e motivazione, non dedotto nella fase di cognizione, non può essere rilevato nella fase esecutiva con la richiesta di correzione di errore materiale (Cass. I, n. 43048/2012). E' illegittima l'ordinanza di correzione di errore materiale mediante la quale il giudice d'appello abbia provveduto ad emendare il dispositivo, inserendo la condanna nei confronti di un imputato il cui nominativo era stato pretermesso, a nulla rilevando che nella motivazione sia stata esaminata la relativa posizione (Cass. VI, n. 8396/2017). Non sono denunciabili in cassazione vizi di motivazione della sentenza impugnata con riferimento ad argomentazioni giuridiche delle parti, in quanto, se il giudice ha errato nel non condividerle, si configura il diverso motivo della violazione di legge, mentre, se fondatamente le ha disattese, non ricorre alcuna illegittimità della pronuncia, anche alla luce della possibilità, per la Corte di cassazione, di correggere la motivazione del provvedimento ex art. 619 (Cass. I, n. 49237/2017). BibliografiaTonini, Manuale di procedura penale, Milano, 2013; D'Andria, Art. 546, in Lattanzi-Lupo, Codice di procedura penale. Rassegna di giurisprudenza e dottrina, Milano, 2012. |