Codice di Procedura Penale art. 581 - Forma dell'impugnazione 1 .

Beltrani Sergio

Forma dell'impugnazione 1.

1. L’impugnazione si propone con atto scritto nel quale sono indicati il provvedimento impugnato, la data del medesimo e il giudice che lo ha emesso, con l’enunciazione specifica, a pena di inammissibilità:

a) dei capi o dei punti della decisione ai quali si riferisce l’impugnazione;

b) delle prove delle quali si deduce l’inesistenza, l’omessa assunzione o l’omessa o erronea valutazione;

c) delle richieste, anche istruttorie;

d) dei motivi, con l’indicazione delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta.

1-bis. L'appello è inammissibile per mancanza di specificità dei motivi quando, per ogni richiesta, non sono enunciati in forma puntuale ed esplicita i rilievi critici in relazione alle ragioni di fatto o di diritto espresse nel provvedimento impugnato, con riferimento ai capi e punti della decisione ai quali si riferisce l'impugnazione2.

[1-ter. Con l'atto d'impugnazione delle parti private e dei difensori è depositata, a pena d'inammissibilità, la dichiarazione o elezione di domicilio, ai fini della notificazione del decreto di citazione a giudizio]3.

1-quater. Nel caso di imputato rispetto al quale si è proceduto in assenza, con l'atto d'impugnazione del difensore di ufficio è depositato, a pena d'inammissibilità, specifico mandato ad impugnare, rilasciato dopo la pronuncia della sentenza e contenente la dichiarazione o l'elezione di domicilio dell'imputato, ai fini della notificazione del decreto di citazione a giudizio4.

[1] Articolo così sostituito dall’art. 1, comma 55, l. 23 giugno 2017, n. 103. Ai sensi dell’art. 1,  comma 95, l. n. 103, cit., la  stessa legge entra in vigore il trentesimo giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale (G.U. n. 154 del 4 luglio 2017).  Il testo precedente era il seguente: "Forma dell'impugnazione.1. L'impugnazione si propone con atto scritto nel quale sono indicati il provvedimento impugnato, la data del medesimo, il giudice che lo ha emesso, e sono enunciati: a) i capi o i punti della decisione ai quali si riferisce l'impugnazione; b) le richieste; c) i motivi, con l'indicazione specifica delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta."

[2] Comma inserito dall'articolo 33, comma 1, lett. d) d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150Per le disposizioni transitorie in materia di videoregistrazioni e di giudizi di impugnazione vedi quanto disposto  dall'art. 94, comma 2, d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, come modificato dall’ art. 5-duodecies, comma 1, d.l. 31 ottobre 2022, n. 162, conv., con modif., in l. 30 dicembre 2022, n. 199 e da ultimo, dall'art. 17, comma 1, d.l. 22 giugno 2023, n. 75, conv., con modif., in l. 10 agosto 2023, n. 112.

[3] Comma inserito dall'articolo 33, comma 1, lett. d) d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150Per le disposizioni transitorie in materia di videoregistrazioni e di giudizi di impugnazione vedi quanto disposto  dall'art. 94, comma 2, d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, come modificato dall’ art. 5-duodecies, comma 1, d.l. 31 ottobre 2022, n. 162, conv., con modif., in l. 30 dicembre 2022, n. 199 e da ultimo, dall'art. 17, comma 1, d.l. 22 giugno 2023, n. 75, conv., con modif., in l. 10 agosto 2023, n. 112. Il presente comma è stato  successivamente abrogato dall'art. 2, comma 1, lettera o), legge  9 agosto 2024, n. 114.

[4] Comma inserito dall'articolo 33, comma 1, lett. d) d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150Per le disposizioni transitorie in materia di videoregistrazioni e di giudizi di impugnazione vedi quanto disposto  dall'art. 94, comma 2, d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150. Il presente comma è stato modificato dall'art. 2, comma 1, lettera o), legge  9 agosto 2024, n. 114, che ha inserito le parole «di ufficio» dopo le parole: «del difensore».

Inquadramento

Con l'art. 581, il legislatore, allo scopo di evitare impugnazioni generiche o dilatorie, ha inteso sottolineare «l'opportunità di consentire in sede di legittimità la verifica della non manifesta infondatezza del ricorso [art. 606, comma 3], [...], nonché di permettere la verifica dell'interessa ad impugnare»; per tale ragione, si è ritenuto di tipizzare gli elementi che il gravame deve enunciare in modo specifico (Relazione al Progetto preliminare del codice di procedura penale, 288 s.).

La disposizione è stata integralmente novellata dalla l. n. 103/2017, che ne ha, peraltro, lasciato immutato l'impianto di base.

Le impugnazioni (appello o ricorso per cassazione) devono essere proposte con atto scritto, nel quale devono essere indicati:

1 ) il provvedimento impugnato;

2 ) la sua data di emissione;

3 ) il giudice (inteso come ufficio giudiziario) che lo ha emesso.

Nell'atto d'impugnazione devono essere specificamente enunciati, a pena d'inammissibilità:

a ) i capi o i punti della decisione ai quali si riferisce l'impugnazione;

b ) le prove delle quali si deduce l'inesistenza, l'omessa assunzione o l'omessa o erronea valutazione;

c ) le richieste, anche istruttorie;

d ) i motivi, con l'indicazione delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta.

 

Il legislatore del 2017 ha ritenuto di ribadire specificamente che l'enunciazione degli elementi di cui alle lettere da a) a d) è prevista a pena d'inammissibilità; l'indicazione è, peraltro, superflua, in presenza della previsione generale di cui all'art. 591, comma 1, lettera c), c.p.p., a norma della quale, nel caso in cui non siano osservate le disposizioni dell'art. 581, l'impugnazione è inammissibile.

La giurisprudenza ha tradizionalmente  chiarito che quest'ultima disposizione non va letta isolatamente, bensì nel contesto normativo complessivo concernente le impugnazioni, che denota la scelta legislativa del favor impugnationis, al quale l'interprete deve costantemente fare riferimento nei casi dubbi (Cass. S.U., n. 10296/1993).

L'unitarietà dell'impugnazione

Nel sistema del codice di procedura penale vigente (a differenza di quanto previsto nel c.p.p. previgente) l'atto di impugnazione è un negozio processuale unitario, di cui costituiscono parte integrante sia la dichiarazione di impugnazione sia i motivi; l'unificazione, nell'unico atto di impugnazione, dei due momenti (nella vigenza del precedente codice temporalmente ed ontologicamente distinti) della dichiarazione e della presentazione dei motivi, esclude che ragioni di inammissibilità possano essere ricondotte a meri aspetti formali inerenti a tale dicotomia, ormai venuta meno: «l'impugnazione, in coerenza con la logica di razionalizzazione e semplificazione che ispira il codice di rito vigente, deve essere proposta, a norma dell'art. 581, con un unico atto scritto contenente i due elementi di cui consta, ossia la dichiarazione e i motivi, i quali integrano rispettivamente la volontà di non prestare acquiescenza al provvedimento impugnato e il sostrato argomentativo che esplicita le ragioni per le quali si ritiene ingiusta o contra legem la decisione impugnata» (Cass. S.U., n. 12602/2016).

La giurisprudenza ritiene, di conseguenza, che, quando dai motivi di impugnazione sia dato desumere l'effettiva volontà del sottoscrittore di gravare il provvedimento ivi indicato, non è necessario, ai fini dell'ammissibilità del gravame, l'uso di formule esplicite per la dichiarazione d'impugnazione (quali, ad esempio, «dichiaro di proporre appello», «dichiarazione di appello» e simili), essendo sufficiente che l'atto scritto presentato contenga tutti gli elementi di cui all'art. 581 (Cass. II, n. 2533/1994).

I motivi possono anche ora essere presentati separatamente (ovvero successivamente) rispetto alla dichiarazione di impugnazione, ma a patto che, entro il termine stabilito dalla legge per la presentazione dell'impugnazione, l'atto di impugnazione risulti completo di tutti i suoi elementi costitutivi: in applicazione del principio, la S.C. ha dichiarato inammissibili sia l'appello dell'imputato, proposto nei termini previsti, ma con dichiarazione priva dei motivi, sia l'appello del difensore, completo di motivi, ma depositato oltre la scadenza fissata (Cass. VI, n. 50101/2013); si è precisato che, anche con riguardo all'opposizione contro il provvedimento del magistrato di sorveglianza che dispone l'espulsione del cittadino extracomunitario (art. 16 d.lgs. n. 286 del 1998), si applicano (secondo quanto previsto dal comma quinto dello stesso articolo) le regole generali vigenti in materia di impugnazioni, e quindi i motivi possono essere formulati successivamente alla dichiarazione, purché entro il termine stabilito per la presentazione dell'impugnazione (Cass. I, n. 41753/2013).

La forma dell'impugnazione

Le impugnazioni si propongono con atto scritto, risultando altrimenti inesistenti.

L’atto di impugnazione deve essere redatto in lingua italiana: è stata, pertanto, dichiarata inammissibile l’impugnazione redatta (interamente, od in uno dei suoi elementi costitutivi indefettibili, indicati dall’art. 581), proposta in lingua straniera da soggetto legittimato (nella specie, estradando) che non conosca la lingua italiana, atteso che questi, esercitando una facoltà personale e discrezionale, può valersi dell’assistenza di un proprio interprete di fiducia, a spese dello Stato in caso di indigenza (Cass. S.U., n. 36541/2008).

È stata ritenuta ammissibile l’impugnazione contestuale di più provvedimenti per mezzo di un unico atto di impugnazione, purché siano analiticamente esposti i motivi di gravame relativi a ciascuno di essi (Cass. II, n. 42997/2011: fattispecie relativa all’istanza di riesame avente ad oggetto una pluralità di decreti di sequestro; conforme, Cass. IV, n. 13199/2008, in un caso nel quale, con il medesimo ricorso, erano stati  impugnati avanti al giudice di legittimità il provvedimento con cui il G.i.p. convalida il fermo e quello con cui applica all’esito dell’udienza di convalida una misura cautelare personale, ma con la precisazione che, in tal caso, il procedimento deve seguire le forme di cui all’art. 127 anche per la trattazione del ricorso avente ad oggetto il provvedimento della convalida del fermo - cui altrimenti andrebbe  applicata la procedura di cui agli artt. 610 e 611 c.p.p. – “in quanto maggiormente conformate (…) al rispetto del principio del contraddittorio”).

Quest’ultima affermazione non può essere condivisa: una cosa è, infatti, ritenere l’ammissibilità della proposizione di un atto d’impugnazione contestualmente contro più provvedimenti, altra cosa è ritenere che per tali plurime impugnazioni contestualmente proposte sia d’obbligo il simultaneus processus anche in presenza, come nella specie, di forme di trattazione differenziate, poiché nessuna disposizione di legge legittima tale assunto; ciascuna delle contestuali impugnazioni dovrà, pertanto, essere trattata, previa separazione, con le forme sue proprie tassativamente previste dal codice di rito.

Segue. La sottoscrizione

La sottoscrizione dell'atto con cui, a norma dell'art. 581, si deve proporre l'impugnazione, costituisce requisito formale implicito dell'atto stesso, implicato dalla  sua natura di dichiarazione di volontà, produttiva di importanti e immediati effetti processuali, tali da esigere, già nel momento in cui viene posto in essere, la sua riferibilità in modo certo, attraverso un'inequivoca assunzione di responsabilità, che solo la firma può dare, a uno dei soggetti legittimati (Cass. IV, n. 38467/2006: fattispecie nella quale l'atto recava in calce il nome del difensore dattiloscritto, ma privo della firma del difensore medesimo).

In applicazione del principio, è stata ritenuta l'inammissibilità dell'impugnazione proposta da imputato analfabeta con segno di croce: «il segno di croce apposto in calce all'atto da parte dell'analfabeta è un semplice elemento grafico convenzionale indicante che una persona non sa scrivere, e, non essendo idoneo ad individuare l'autore, non può costituire equipollente della sottoscrizione, con la conseguenza che deve ritenersi inoperante la funzione stessa dell'autenticazione. Pertanto, mentre va esclusa, nei riguardi dell'analfabeta, l'applicabilità dell'art. 110, comma 3, che si riferisce alla persona che non è in grado di scrivere per causa diversa dall'analfabetismo, deve, altresì, escludersi l'applicabilità dell'art. 39 disp. att. c.p.p., che conferisce al difensore il mero potere di autenticazione della sottoscrizione, e non anche quello di formazione dell'atto di nomina che, nel caso specifico, deve necessariamente essere ricevuto dal pubblico ufficiale a ciò autorizzato, ai sensi dell'art. 96, comma 2, con la conseguenza dell'inammissibilità dell'impugnazione proposta dall'analfabeta il cui «crocesegno» sia stato autenticato dal difensore, del quale ultimo difetta la legittimazione alla proposizione del gravame» (Cass. VI, n. 5573/1998); è stata, peraltro, ritenuta l'ammissibilità dell'impugnazione recante sottoscrizione con crocesegno presentata ai sensi dell'art. 123 da soggetto ristretto in carcere al direttore del carcere (Cass. I, n. 2498/1994) o da soggetto sottoposto ad arresti domiciliari al locale Comando di stazione dei Carabinieri (Cass. I, n. 21672/2008), «poiché da un lato la presentazione ai sensi dell'art. 123 è del tutto equipollente a quella di presentazione al cancelliere, in considerazione della particolare fede attribuita alle certificazioni di soggetti imparziali ed istituzionalmente preposti a tali adempimenti e, da altro lato, la certezza della provenienza della impugnazione dall'imputato, che la presenta personalmente, impone che sia salvaguardata la volontà dello stesso una volta esplicitata» (Cass. I, n. 21672/2008).

È pacificamente ritenuta inammissibile l'impugnazione proposta dal difensore mediante telegramma il cui testo sia dettato al telefono, trattandosi di una modalità che non garantisce certezza in ordine all'autenticità della provenienza e all'identità dell'impugnante (Cass. I, n. 44660/2009), in quanto la prescelta forma di comunicazione non trasforma in atto scritto, corredato della sottoscrizione, l'originaria comunicazione orale, e pertanto non soddisfa i requisiti di forma imposti dalla legge (Cass. II, n. 52740/2014), a differenza della spedizione del telegramma da un ufficio postale (Cass. II, n. 10404/2011). Tutte le applicazioni in argomento hanno riguardato istanze di riesame di misure cautelari.

Segue.L'indicazione del provvedimento impugnato, della data di emissione e del giudice che lo ha emesso

L'atto di impugnazione deve contenere indicazione del provvedimento impugnato, della data di emissione e del giudice che lo ha emesso.

La giurisprudenza è ferma nel ritenere, in virtù del principio del favor impugnationis, che l'omessa od errata indicazione degli estremi del provvedimento impugnato (numero del procedimento, data del medesimo e giudice che lo ha emesso) possa determinare l'inammissibilità del gravame non di per sé, ma solo se ed in quanto produca in concreto incertezza nell'individuazione del predetto atto (Cass. I, n. 23932/2013: fattispecie nella quale la S.C. ha escluso l'inammissibilità di un'impugnazione in un caso nel quale l'instante aveva erroneamente citato la data del provvedimento impugnato – di sequestro di un'autovettura –, ma aveva correttamente indicato il numero di iscrizione del procedimento penale e quello di targa del veicolo, consentendo al giudice dell'impugnazione – il Tribunale del riesame – di individuare il provvedimento impugnato; Cass. VI, n. 13832/2015: fattispecie nella quale la S.C. ha annullato un'ordinanza dichiarativa della inammissibilità della richiesta di riesame di un decreto di sequestro preventivo, pronunciata dal Tribunale del riesame per avere il ricorrente erroneamente indicato come atto impugnato il decreto oggetto di precedente una richiesta di riesame, ed annullato dal medesimo Tribunale, anziché quello reiterato dal Gip all'esito dell'annullamento; Cass. II, n. 10795/2016, fattispecie nella quale il ricorso per cassazione contro la sentenza della Corte di appello che aveva disposto la confisca di alcuni beni immobili già in sequestro faceva continuamente riferimento al decreto di sequestro – provvedimento avente natura cautelare, ed emesso diversi anni prima –, non alla statuizione di confisca, e concludeva chiedendo dichiararsi «l'illegittimità ed abnormità del provvedimento di sequestro per equivalente», sulla base di doglianze comunque prive della necessaria specificità; Cass. I, n. 28028/2024: fattispecie relativa a rigetto dell'eccezione di inammissibilità del ricorso al quale era allegata una procura speciale che indicava erroneamente il numero del procedimento e la data del provvedimento).

L'impugnazione delle ordinanze dibattimentali

Secondo la giurisprudenza è inammissibile l'impugnazione (nel caso di specie, appello) contro un'ordinanza dibattimentale laddove nell'atto unico di gravame proposto contro la sentenza manchi l'espressa dichiarazione di impugnazione anche dell'ordinanza, ed in mancanza dell'esplicitazione delle ragioni che rendono illegittima quest'ultima (Cass. II, n. 25313/2012); tuttavia, la circostanza che nell'atto unico di impugnazione proposto contro la sentenza manchi l'espressa dichiarazione di impugnazione anche dell'ordinanza non può essere ritenuta motivo di inammissibilità dell'impugnazione contro un'ordinanza dibattimentale, quando nel predetto atto venga denunciata l'illegittimità dell'ordinanza, con esposizione delle relative ragioni (Cass. S.U., n. 10296/1993: fattispecie relativa ad ordinanza dichiarativa della contumacia; Cass. V, n. 50330/2014: fattispecie relativa ad ordinanza che aveva rigettato una eccezione di incompetenza).

L’impugnazione presentata prima del deposito della motivazione del provvedimento impugnato

Un orientamento tradizionale della giurisprudenza riteneva che la presentazione dell'impugnazione prima del deposito della motivazione non fosse di per sé causa d'inammissibilità del gravame, quando le censure dedotte si riferiscano ad aspetti della decisione evincibili inequivocabilmente anche dal solo dispositivo, ed il vizio denunziato sia, pertanto, immediatamente apprezzabile, senza necessità di fare ricorso alla motivazione (Cass. IV, n. 40942/2015: fattispecie nella quale il P.m. aveva impugnato la sentenza di primo grado conoscendone il solo dispositivo, prima del deposito della motivazione, lamentando il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche e la mancata subordinazione della sospensione condizionale della pena ad uno degli adempimenti di cui all'art. 165, commi 1 e 2, c.p. – motivo di gravame poi accolto dalla Corte di appello – inequivocabilmente evincibili dalla conoscenza del solo dispositivo, poiché il secondo motivo integrava una palese violazione dì legge, ed il primo – essendo tutti gli elementi poi utilizzati dal giudice a tal fine chiaramente evincibili dall'incarto processuale – poteva essere apprezzabile senza necessità di fare ricorso alla motivazione; conforme, Cass. II, n. 50099/2017 che, peraltro,  ha dichiarato inammissibile il ricorso in quanto l'imputato lamentava l'omesso esame di tutte le richieste avanzate nei motivi di appello e nei motivi aggiunti, censura valutabile soltanto previo esame della non ancora depositata motivazione)..

L'orientamento non poteva , all'evidenza, essere condiviso, poiché l'impugnazione “anticipata” prescinde necessariamente dalle motivazioni della decisione impugnata – non ancora note – ed è, quindi, inevitabilmente privo di specificità, non potendo confrontarsi con le avverse argomentazioni .

Appare ormai dominante l'orientamento contrario , per il quale  è inammissibile per difetto di specificità l'impugnazione con la quale si censuri un provvedimento la cui motivazione non sia stata ancora depositata, in quanto l'ammissibilità di un gravame non può essere valutata ex post, richiedendosi, invece, che i relativi requisiti siano apprezzabili in presenza del provvedimento gravato nel suo insieme, costituito tanto dalla parte dispositiva, quanto da quella motivazionale  (Cass. III, n. 50790/2019; Cass. II, n. 23938/2020).

Il contenuto dell’impugnazione: le modifiche introdotte dalla l. n. 103 del 2017 (c.d “riforma Orlando”)

La legge n. 103/2017(c.d. “riforma Orlando”)ha integralmente novellato l'art. 581, senza, peraltro, stravolgerne l'impianto di base.

Diversamente dalla precedente formulazione della disposizione (che prevedeva la necessità di indicare specificamente soltanto, nell'ambito dell'enunciazione dei motivi, le ragioni di diritto e gli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta), la nuova formulazione della disposizione prevede, espressamente a pena d'inammissibilità, l'enunciazione specifica:

a ) dei capi o dei punti della decisione ai quali si riferisce l'impugnazione (lett. a). In precedenza, di tali elementi era richiesta la mera enunciazione, non la «enunciazione specifica», e quindi, la sanzione d'inammissibilità [ex art. 591, comma 1, lett. c)] non operava in presenza di un'enunciazione non specifica, ma soltanto in difetto dell'enunciazione;

b ) delle prove delle quali si deduce l'inesistenza, l'omessa assunzione o l'omessa od erronea valutazione (lett. b);

c ) delle richieste, anche istruttorie (lett. c): la loro indicazione  in precedenza non era richiesta;la novella comporta l'inammissibilità per difetto di specificità delle richieste soltanto implicitamente desumibili, in precedenza ritenute dalla giurisprudenza ammissibili;

d ) dei motivi, con l'indicazione delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta (lett. d): l'indicazione di tali elementi in precedenza era già necessaria, ed in difetto operava la sanzione d'inammissibilità ex art. 591, comma 1, lett. c), c.p.p.

  La novella  perseguiva lodevolmente l'esigenza di propiziare una maggiore specificità degli atti d'impugnazione, particolarmente sentita, in particolare, con riferimento ai ricorsi per cassazione (non rientrando tra i poteri-doveri del giudice di legittimità l'indiscriminato accesso agli atti). Invero, il carattere autonomo di ogni atto di impugnazione postula che esso sia idoneo a consentire il controllo devoluto al giudice superiore; in difetto, i motivi di gravame non potrebbero assolvere la loro tipica funzione di critica, ma si risolverebbero in una mera apparenza.

Tutte le impugnazioni trovano fondamento giuridico nell'esigenza di consentire alla parte legittimata, che vi abbia interesse, di far valere asserite discordanze tra un determinato provvedimento emesso da un giudice penale e le acquisite risultanze fattuale o la legge, che rendano il provvedimento contra ius; in difetto, si sarebbe al cospetto di una “non impugnazione”.

Nessuna disposizione di legge, nazionale o sovranazionale, attribuisce, peraltro, all'imputato  il diritto di proporre impugnazione unicamente  per lucrare sui tempi necessari ai fini della disamina dell'impugnazione stessa e quindi, in definitiva, sulla protrazione dei tempi necessari per giungere al giudicato. Di qui l'esigenza, evidentemente condivisa dal legislatore, di imporre alle parti più rigorosi oneri di specificità (e, contestualmente, di prevedere forme semplificate e tempi più celeri per la definizione delle impugnazioni puramente dilatorie: cfr. sub art. 610 c.p.p.), per evitare strumentalizzazioni dell'istituto, e riservare tutte le risorse alla disamina delle impugnazioni proposte da quanti abbiano effettivamente qualcosa da lamentare.

Segue. L'enunciazione dei «capi» o «punti» della decisione cui si riferisce l'impugnazione

A norma del combinato disposto degli artt. 581 e 591, l'impugnazione deve contenere, a pena di inammissibilità, l'enunciazione dei capi o punti della decisione cui si riferisce l'impugnazione.

Per la definizione dei rispettivi concetti, abitualmente adoperati dalla dottrina e dalla giurisprudenza per individuare l'ambito dell'effetto devolutivo dei mezzi di impugnazione e le situazioni processuali in presenza delle quali è giustificato configurare il giudicato, non può che farsi riferimento alla brillantissima disamina contenuta in una sentenza che va certamente considerata come una delle pietre miliari del c.d. “diritto vivente”, Cass. S.U., n. 1/2000, Tuzzolino (successivamente richiamata adesivamente da Cass. S.U., n. 10251/2007):

- «nel sistema delle impugnazioni la nozione di «capo della sentenza» è riferita soprattutto alla sentenza plurima o cumulativa, caratterizzata dalla confluenza nell'unico processo dell'esercizio di più azioni penali e dalla costituzione di una pluralità di rapporti processuali, ciascuno dei quali inerisce ad una singola imputazione, sicché per capo deve intendersi ciascuna decisione emessa relativamente ad uno dei reati attribuiti all'imputato. Recependo le posizioni di una autorevole dottrina — risalente, ma tuttora riconosciuta di indiscussa validità logica e sistematica — può, quindi, affermarsi che il capo corrisponde ad «un atto giuridico completo, tale da poter costituire da solo, anche separatamente, il contenuto di una sentenza»: ond'è che la sentenza che conclude una fase o un grado del processo può assumere struttura monolitica o composita, a seconda che l'imputato sia stato chiamato a rispondere di un solo reato o di più reati, nel senso che, nel primo caso, nel processo è dedotta un'unica regiudicanda, mentre, nel secondo, la regiudicanda è scomponibile in tante autonome parti quanti sono i reati per i quali è stata esercitata l'azione penale»;

- «il concetto di «punto della decisione» ha una portata più ristretta, in quanto riguarda tutte le statuizioni suscettibili di autonoma considerazione necessarie per ottenere una decisione completa su un capo, tenendo presente, però, che non costituiscono punti del provvedimento impugnato le argomentazioni svolte a sostegno di ciascuna statuizione: ditalché, se ciascun capo è concretato da ogni singolo reato oggetto di imputazione, i punti della decisione, ai quali fa espresso riferimento l'art. 597, comma 1, c.p.p. coincidono con le parti della sentenza relative alle statuizioni indispensabili per il giudizio su ciascun reato e dunque, in primo luogo, all'accertamento della responsabilità ed alla determinazione della pena, che rappresentano, appunto, due distinti punti della sentenza».

Ne consegue, secondo la citata decisione, che «ad ogni capo corrisponde una pluralità di punti della decisione, ognuno dei quali segna un passaggio obbligato per la completa definizione di ciascuna imputazione, sulla quale il potere giurisdizionale del giudice non può considerarsi esaurito se non quando siano stati decisi tutti i punti, che costituiscono i presupposti della pronuncia finale su ogni reato, quali l'accertamento del fatto, l'attribuzione di esso all'imputato, la qualificazione giuridica, l'inesistenza di cause di giustificazione, la colpevolezza, e — nel caso di condanna- l'accertamento delle circostanze aggravanti ed attenuanti e la relativa comparazione, la determinazione della pena, la sospensione condizionale di essa, e le altre eventuali questioni dedotte dalle parti o rilevabili di ufficio».

Casistica

Si è ritenuto che i singoli reati unificati dal vincolo della continuazione, in caso di condanna cumulativa, conservano la loro autonomia, poiché la disciplina del reato continuato ha valenza unificante esclusivamente sul piano sanzionatorio; ne consegue che la ritenuta ammissibilità dell'impugnazione per uno dei reati in continuazione non determina l'instaurazione di un valido rapporto processuale anche per gli altri reati in continuazione in relazione ai quali i motivi dedotti siano inammissibili, con la conseguenza che per questi ultimi, sui quali si è formato il giudicato parziale, è preclusa la possibilità di rilevare la prescrizione e di procedere alla rideterminazione della pena eliminando l'aumento per la continuazione (Cass. VI, n. 20525/2022).

Né possono essere dedotti in cassazione motivi attinenti al mancato riconoscimento della continuazione qualora, nel giudizio di appello, sia intervenuta rinuncia a tutti i motivi tranne quello relativo alla misura della pena, nel cui ambito non rientra la disciplina del reato continuato (Cass. VI, n. 5224/2020).

Si è, inoltre, ritenuto che riguardano punti distinti della decisione, come tali suscettibili di autonoma considerazione:

– la questione relativa all'adeguatezza del giudizio di bilanciamento tra le circostanze ex art. 69 c.p. (nel caso di specie, investita dall'appello originario) e quella inerente alla configurabilità dell'aggravante dell'ingente quantità di sostanza stupefacente exart. 80, comma 2, d.P.R. n. 309/1990 (nel caso di specie, costituente oggetto del motivo aggiunto proposto in sede di gravame, ritenuto, pertanto, non consentito perché tardivamente dedotto, in quanto non collegato al punto della decisione investito dal ricorso originario (Cass. VI, n. 73/2012);

– la questione relativa all'affermazione di responsabilità dell'imputato (nel caso di specie, investita dall'appello originario) e quella inerente alla configurabilità dell'aggravante del danno di speciale gravità ex art. 219 l. fall. (nel caso di specie, costituente oggetto di motivo nuovo proposto in sede di legittimità) (Cass. V, n. 4184/2015: fattispecie nella quale la difesa aveva sostenuto che la richiesta di assoluzione dell'imputato proposta con l'atto di appello ricomprendesse implicitamente anche la contestazione dell'aggravante del danno di speciale gravità, ritenuta dal giudice di primo grado, ma la S.C. ha ritenuto la diversità della statuizione sulla predetta aggravante rispetto a quella relativa all'affermazione di responsabilità, ritenendo la prima oggetto di motivo di ricorso proposto per la prima volta in sede di legittimità e, pertanto, inammissibile);

– il motivo inerente alla configurabilità della recidiva rispetto a quelli riguardanti altri aspetti della decisione inerenti alla determinazione della pena irroganda, sicché, ove l'appello originario abbia avuto riguardo ad altri aspetti del trattamento sanzionatorio (la configurabilità di un'aggravante, il riconoscimento delle attenuanti generiche, il bilanciamento tra le circostanze e la misura della pena), non ci si può dolere, con i motivi aggiunti, dell'insufficiente motivazione o della violazione delle disposizioni in tema di recidiva (Cass. V, n. 40390/2022).

Si è in seguito ritenuto, in applicazione delle norme che impongono, a pena di inammissibilità, la specificità dei motivi, che:

- l'impugnazione della decisione in punto di sussistenza della natura specifica della recidiva non può estendersi al punto relativo ai presupposti per il riconoscimento di tale aggravante (Cass. V, n. 19976/2024): in questo caso, risultava impugnato in appello il solo punto riguardante la natura reiterata della recidiva, non anche quello riguardante tout court il riconoscimento di essa, di tal che su tale ultimo punto il ricorso per cassazione non era consentito, poiché il motivo, pur deducibile, non era stato dedotto in appello;

- l'impugnazione riguardante la sola affermazione di responsabilità non contiene implicitamente doglianze in tema di trattamento sanzionatorio (Cass. IV, n. 9175/2024).

«Capi» e «punti» della decisione impugnata, e passaggio in giudicato

È opportuno chiarire che la mancata impugnazione sull'affermazione di responsabilità dell'imputato fa sorgere una preclusione processuale su tale punto della decisione, ma non basta a far acquistare alla statuizione sul relativo capo della decisione l'autorità di cosa giudicata quando, in relazione al medesimo capo, penda impugnazione avente ad oggetto un diverso punto, ad esempio riguardante la sussistenza di circostanze o la quantificazione della pena (Cass. III, n. 7676/2012: in applicazione del principio, la S.C. ha annullato l'ordinanza del Tribunale del riesame che, sul presupposto del ritenuto passaggio in giudicato della sentenza di condanna a seguito di ricorso per cassazione del P.m. avente ad oggetto la sola qualificazione del reato, aveva rigettato la richiesta di declaratoria di cessazione della custodia cautelare in carcere per decorrenza dei termini). Si è, pertanto, ritenuto che l'obbligo di immediata dichiarazione di una causa di non punibilità ex art. 129 (nel caso di specie, l'estinzione del reato per prescrizione) determina l'annullamento senza rinvio della sentenza di condanna, ove sia nel frattempo maturato il termine di prescrizione del reato, pur quando con il ricorso per cassazione siano state proposte plurime doglianze e risultino non inammissibili soltanto quelle inerenti al trattamento sanzionatorio (Cass. II, n. 10515/2015).

Per i rapporti tra inammissibilità dell’impugnazione ed operatività della prescrizione, si rinvia amplius infra, nonché sub § 15.

Segue. L’enunciazione delle prove delle quali si deduce l’inesistenza, l’omessa assunzione o l’omessa od erronea valutazione

L’onere di specifica indicazione delle prove delle quali si deduce l’inesistenza, l’omessa assunzione o l’omessa od erronea valutazione è stato introdotto dalla c.d. “riforma Orlando”, ma la sua necessità, pur se in precedenza non espressamente richiesta,  era desumibile (e correntemente desunta dalla giurisprudenza) dalla già prevista necessità di specifica indicazione degli elementi di fatto che sorreggevano ciascuna doglianza, sanzionata a pena d’inammissibilità ex art. 591, comma 1, lett. c) c.p.p.

La dottrina (Valentini, 221) ha osservato che, nel formulare la nuova lettera b), introdotta dalla l. n. 103 del 2017, <<il legislatore adopera un lessico tipico del ricorso in Cassazione per dipingere i tratti di questo nuovo requisito di forma delle impugnazioni in generale e si tratta di un dato coerente con l'intento originario di riformare l'appello, trasformandolo in un tipo d'impugnazione a critica vincolata>>; la riforma ha comportato l'effetto di restringere l'accesso al controllo del grado superiore in termini omogenei, sia che si tratti di appello, sia che si ricorra in cassazione, quando la ragione del gravame riguardi l'ammissione o la valutazione delle prove: <<a ciascuna doglianza dovrà corrispondere l'identificazione dell'atto probatorio di cui si discute (mancherebbe altrimenti la specificità) e ciascuna doglianza dovrà essere formulata nei termini vincolanti dei motivi descritti dall'art. 581, lett. b), sicché dovrà indicarsi se trattasi di prove non ammesse oppure ammesse, ma non assunte; se ci si duole di una motivazione radicata su prove inesistenti in atti o di una che ometta di esprimersi (…) su prove di cui si dimostri l'esistenza nel fascicolo; così come dovrà essere configurata nei termini esatti del significato della formula la censura relativa ad un “errore di valutazione”>>.

In tal modo, l'appello non costituisce più uno <<strumento omnibus, proponibile per qualsivoglia ragione>> (Bargis-Belluta 290), cercando di approfittare della <<benevolenza del giudice di secondo grado che paternalisticamente trovi un modo per salvare l'imputato o comunque ridurre la sua pena. L'appello diventa diventa questione da atto “serio e meditato”, per dirla (…) – con le parole di Alfredo Rocco>> (Valentini, 223).

Il nuovo sistema delle impugnazioni è condizionato anche dalle modifiche apportate all'art. 546 c.p.p. in tema di requisiti della motivazione:

- il nuovo art. 546 c.p.p.  impone al giudice di motivare in ordine: 1) all'accertamento dei fatti e delle circostanze che si riferiscono all'imputazione e alla loro qualificazione giuridica; 2) alla punibilità e alla determinazione della pena, secondo le modalità stabilite dal comma 2 dell'articolo 533 c.p.p., e della misura di sicurezza; 3) alla responsabilità civile derivante dal reato; 4) all'accertamento dei fatti dai quali dipende l'applicazione di norme processuali;

- <<l'impugnante, dal canto suo, con riferimento a questi stessi snodi, dovrà devolvere al giudice dell'impugnazione singoli e specifici motivi afferenti a ciascuna prova, chiedendo un nuovo giudizio che corregga l'eventuale errore di valutazione lamentato>> (Valentini 225).

Questo essendo il nuovo sistema delineato dal legislatore, può condividersi l'opinione di quanti concludono che <<sembra non esservi spazio per la sciatteria degli impugnanti, ma men che meno per quella del giudice (…) ad una precisa devoluzione da parte dell'atto di impugnazione dovrà corrispondere l'altrettanto precisa risposta del provvedimento che dell'impugnazione costituisce l'esito>> (Valentini 225 s.).

La modifica non ha originato significative applicazioni giurisprudenziali.

 

Segue. L’enunciazione delle richieste, anche istruttorie

L'atto di impugnazione deve indicare, a pena di inammissibilità (ex artt. 581 e 591), oltre ai capi e ai punti della decisione impugnata ed ai motivi specifici, anche «le richieste» (art. 581, lett. b), ossia l'indicazione dello scopo perseguito, cioè del risultato pratico richiesto.  

La necessità  di enunciare anche le richieste istruttorie (introdotta dalla l. n. 103/2017) vale, naturalmente, per il solo giudizio d'appello (ex art. 603), non essendovi attività istruttorie che sia possibile richiedere di svolgere in sede di legittimità.

Le richieste, tuttavia, non devono necessariamente essere enunciate in via autonoma: motivi e richieste, concettualmente distinti, possono anche essere formalmente uniti, ma le seconde possono essere desunte implicitamente dai motivi, quando da questi ultimi emerga in modo inequivoco la richiesta formulata, in quanto l'atto di impugnazione va valutato nel suo complesso, e sempre in applicazione del principio del favor impugnationis; ed è questione che attiene all'interpretazione dell'atto di impugnazione accertare se i motivi contengano implicitamente, ma inequivocabilmente, anche le richieste, poiché «l'interpretazione del giudice può solo supplire all'errore ed all'insufficienza di indicazioni in proposito, non alla mancanza di uno dei requisiti formali elencati nell'art. 581 cit.

Appare tuttora valido l’orientamento per il quale non può ritenersi che il solo fatto di avere proposto l’impugnazione comporti di per sé la richiesta di un nuovo giudizio e che ciò sia sufficiente ad integrare l’elemento della «richiesta», che costituisce il fondamento dell’effetto devolutivo» (Cass. VI, n. 11417/1993).

Il principio è stato più volte ribadito, ma le sue applicazioni non sempre sono apparse consequenziali: Cass. VI, n. 42764/2003, ha ritenuto inammissibile l'appello proposto dal pubblico ministero consistente in una memoria del tutto mancante di richieste, essendosi l'appellante limitato a richiedere i «provvedimenti conseguenti»; Cass. VI, n. 29235/2010, ha ritenuto ammissibile l'appello del P.m. privo di esplicite richieste, ma corredato da motivi particolarmente minuziosi e specifici, che evidenziavano inequivocabilmente la volontà di reiterare le richieste già esplicitate in primo grado; Cass. V, n. 42411/2009, ha censurato la decisione con cui il Tribunale aveva ritenuto l'inammissibilità dell'appello proposto dalla parte civile contro la sentenza di assoluzione del giudice di pace, in quanto «carente [...] dell'esplicita richiesta di riforma della prima decisione», limitandosi, dopo l'esposizione dei fatti ed i motivi dell'impugnazione a chiedere “una rivisitazione della vicenda” e non contenendo “espresso riferimento alla domanda civile [...] in uno con la richiesta risarcitoria”, osservando che detta specificazione può anche essere differita al momento della formulazione delle conclusioni in dibattimento.

Casistica

Ai fini dell'ammissibilità dell'impugnazione del P.m., il requisito previsto dall'art. 581, comma 1, lett. b), deve ritenersi soddisfatto anche soltanto dalla richiesta di condanna, senza che sia necessaria la presenza di conclusioni sull'entità della pena da infliggere (Cass. V, n. 42645/2004); è stato ritenuto ammissibile l'appello del P.m. contro la sentenza di assoluzione, pronunciata all'esito del giudizio abbreviato celebrato davanti al G.u.p., col quale si richieda erroneamente il rinvio a giudizio e non la condanna dell'imputato, purché i motivi contengano implicitamente anche tale richiesta (Cass. VI, n. 7742/2004 ; conforme, Cass. II, n. 50098/2017, con la precisazione che nessuna norma vieta di riservare al procuratore generale di udienza la mera quantificazione della pena irroganda, ed anzi tale possibilità può rivelarsi necessaria al fine di formulare una conclusiva richiesta di pena che tenga conto, anche in favore dell'imputato, del complessivo comportamento processuale tenuto dallo stesso, anche nel corso del giudizio di appello).

Sarebbe inammissibile il ricorso per cassazione che, pur contendo l'indicazione dei motivi, formuli richieste estranee alla fase di legittimità (nella specie richiesta di assoluzione e riduzione della pena), tra l'altro in violazione del “Protocollo d'intesa tra Corte di Cassazione e Consiglio Nazionale Forense sulle regole redazionali dei motivi di ricorso in materia penale”, sottoscritto il 17 dicembre 2015, che va considerato quale strumento esplicativo del dato normativo dettato dall'art. 606  (Cass. II, n. 24576/2018): l'orientamento non appare, peraltro, incondizionatamente condivisibile, in quanto l'annullamento senza rinvio della decisione impugnata perché l'imputato deve essere assolto (con una delle formule di rito) rientra tra i poteri della Corte di cassazione, che, non di rado, ne fa uso (cfr., ad es., Cass. II, n. 22519/2025e n. 2632/2025).

Una rilevante decisione ha affermato che, in appello, l'omessa indicazione dei dichiaranti da esaminare nel giudizio di secondo grado non costituisce causa di inammissibilità del gravame del P.M. avverso la sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa, in quanto il disposto dell'art. 603, comma 3-bis, c.p.p. non disciplina le modalità dell'impugnazione, ma fissa una regola processuale che dev'essere osservata dal giudice di secondo grado nel caso di ribaltamento di sentenza assolutoria in base a un diverso apprezzamento dell'attendibilità delle prove dichiarative (Cass. III, n. 15874/2025).

Segue. L’enunciazione dei motivi, con indicazione delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto

 Ai fini della sua giuridica esistenza, l'impugnazione deve naturalmente essere corredata da motivi: sarebbe, pertanto,  inammissibile l'impugnazione priva di motivi (il che accadeva con frequenza in riferimento a dichiarazioni di ricorso per cassazione inoltrate personalmente da imputati/indagati detenuti, con riserva della presentazione di motivi al difensore, poi non presentati); in tali casi, oltre che nei casi (purtroppo frequenti) di ricorsi per cassazione che tali appaiono soltanto nominalmente (è questo ad es. il caso di alcuni ricorsi seriali abitualmente redatti su uno stampato, con unico motivo con il quale si lamenta abitualmente  il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, al contrario generalmente o quasi già riconosciute), sarebbe probabilmente opportuno prendere atto che si è al cospetto di “non ricorsi”, i quali – in difetto di un valido petitum – dovrebbero essere archiviati de plano con provvedimento del Primo presidente, od in sua vece del magistrato addetto all'esame preliminare, senza aggravio di formalità per la cancelleria e senza scomodare il collegio, ovvero senza espletare neppure la procedura di definizione accelerata prevista dall'art. 610.

Si è ritenuto che la totale assenza dei motivi nell'atto di impugnazione è causa di inammissibilità che prevale su quella della sopravvenuta carenza di interesse alla decisione, perché integra una carenza originaria dell'atto, direttamente imputabile alla volontà della parte, con la conseguenza che, in caso di ricorso per cassazione proposto da una parte privata, questa deve essere condannata al pagamento delle spese processuali, nonché, eventualmente, di una somma in favore della Cassa delle ammende (Cass. VII, n. 30647/2015).

Sarebbe inammissibile l'atto di impugnazione che, pur individuando il punto della sentenza impugnata censurato che intende devolvere alla cognizione del giudice di appello nonché la diversa deliberazione sollecitata presso il giudice del gravame, sia privo dell'indicazione dei motivi di dissenso rispetto alla decisione appellata (Cass. II, n. 51738/2013), nonché quello nel quale manchi l'indicazione della correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell'atto d'impugnazione, atteso che quest'ultimo non può ignorare le affermazioni del provvedimento censurato (Cass. II, n. 11951/2014: fattispecie di ricorso per cassazione, nella quale la Corte di appello aveva spiegato di non poter concedere all'imputato il beneficio della sospensione condizionale della pena “per averne già precedentemente goduto e non ricorrendo i presupposti per riconoscergli nuovamente tale beneficio”, ed il ricorrente si era limitato a dolersi della mancata motivazione sul punto della mancata concessione dell'invocato beneficio, senza spiegare le ragioni per le quali – a suo dire – il ragionamento della Corte di merito sarebbe stato errato).

Ai fini della valutazione d'inammissibilità del ricorso per cassazione, la mancanza del motivo di ricorso è stata equiparata alla sua non attinenza al “decisum” della sentenza impugnata (Cass. III, n. 24624/2018: fattispecie in cui l'imputato del delitto di detenzione a fini di spaccio di sostanze stupefacenti, di diversa tipologia, ma tutte rientranti nel “genus” delle droghe pesanti, aveva proposto ricorso per violazione di legge e vizio di motivazione in ordine all'applicazione della continuazione, mentre la sentenza non aveva apportato alcun aumento di pena a tale titolo).

L’onere di specificità

L'art. 581, comma 1, come riformulato dalla l. n. 103 del 2017, richiede che ciascuno dei requisiti dell'impugnazione indicati nelle successive lettere da a) a d) della disposizione sia specificamente enunciato, a pena di inammissibilità. Il requisito della specificità dei motivi pone a carico della parte impugnante non soltanto l'onere di esplicitare le censure che intenda muovere su uno o più punti determinati della decisione gravata, ma anche quello di indicare con chiarezza e precisione gli elementi posti a fondamento di esse, sì da consentire al giudice dell'impugnazione di individuare i rilievi proposti ed esercitare quindi il proprio sindacato (Cass. III, n. 5020/2010: fattispecie nella quale il ricorrente si era limitato a sollevare « seri interrogativi » in merito alla competenza territoriale del giudice a quo); esso può ritenersi rispettato quando l'atto di impugnazione individua il punto che intende devolvere alla cognizione del giudice del gravame, enucleandolo con riferimento alla motivazione della sentenza impugnata, e specificando tanto i motivi di dissenso dalla decisione appellata che l'oggetto della diversa deliberazione sollecitata presso il giudice ad quem (Cass. II, n. 48422/2013: fattispecie nella quale la S.C. ha ritenuto specifico un unico succinto motivo di gravame riguardante i rapporti tra il soggetto locatario dell'imputato, che secondo la contestazione gli aveva consegnato l'assegno che si assumeva ricettato, e la società vittima della appropriazione indebita degli assegni, reato presupposto del delitto di ricettazione ascritto all'imputato; il che giustificava la richiesta di esame del predetto soggetto, anche in relazione ai rapporti che lo avrebbero legato all'imputato, e consentiva di individuare sia il punto della sentenza impugnata, sia la critica a quest'ultima mossa).

È stato considerato generico, con conseguente inammissibilità dell'impugnazione (nel caso di specie, dell'atto d'appello), il motivo che si era limitato ad una generica indicazione dell'articolo di legge asseritamente violato, senza esplicitare chiaramente la censura mossa, e senza illustrare le ragioni dell'asserita erronea valutazione delle prove, arrestandosi alla prospettazione di astratte plurime spiegazioni dei comportamenti ascritti ai soggetti coinvolti dall'accertamento penale (Cass. VI, n. 21873/2011).

Si è anche osservato che l'individuazione del contenuto di una censura o di una richiesta « subordinata » impone di tener conto, nel rispetto del principio devolutivo e della necessaria specificità dei motivi, sia del significato letterale delle parole che dell'effettiva intenzione dell'impugnante, desumibile dall'interesse alla censura o alla richiesta e dal contenuto dell'intero atto. (Cass. III, n. 18896/2011: la S.C. ha precisato che il giudice dell'impugnazione deve privilegiare l'effettiva intenzione dell'impugnante, nei limiti in cui sia possibile desumerla dal contesto dell'atto ed eventualmente da memorie integrative).

È stato dichiarato inammissibile per difetto di specificità il ricorso per cassazione «che si sviluppi mediante un'esposizione disordinata, generica, prolissa e caotica, che fuoriesca dai canoni di una ragionata censura del percorso motivazionale della sentenza impugnata senza consentire un ordinato inquadramento delle ragioni di doglianza nella griglia dei vizi di legittimità deducibili ai sensi dell'art. 606 c.p.p.» (Cass. II, n. 29607/2019: fattispecie relativa a ricorso sviluppato in 109 pagine, con numerazione non progressiva, recante parti espositive di doglianza alternate ad estratti di atti del giudizio di merito ed a parziali ripetizioni dei motivi di appello; conforme, Cass. II, n. 3126/2024: fattispecie relativa a un ricorso di 515 pagine, con parti espositive alternate ad atti del giudizio di merito e scritti difensivi dei gradi precedenti, con l'indicazione di 10 motivi aggiunti, corredati da atti e allegazioni documentali e da una memoria difensiva con ulteriori allegazioni).

E' inammissibile per difetto di specificità del motivo, il ricorso per cassazione con cui si deduca l'omesso rilievo "ex officio", da parte del giudice di merito, della prescrizione del reato, nel caso in cui il ricorrente non fornisca compiuta rappresentazione della sequela procedimentale e non dimostri, alla luce della stessa, l'intervenuta maturazione del termine di legge (Cass. IV, n. 13353/2025: fattispecie relativa a delitto di partecipazione ad associazione finalizzata al traffico di stupefacenti, con contestazione cd. "aperta", rispetto alla quale, nel ricorso, era stata omessa la prospettazione di elementi alla cui stregua evincere, rispetto a quanto statuito dal giudice di appello, una chiusura anticipata della contestazione, utile ai fini prescrizionali).

La parte che intende beneficiare della disciplina della continuazione in grado di appello ha l'onere di allegare elementi specifici e concreti a sostegno della richiesta, non essendo sufficienti, a pena di inammissibilità dell'impugnazione, né la mera produzione delle sentenze relative alle condanne di cui si chiede l'unificazione "quoad poenam" ex art. 81, comma 2, c.p., né la generica istanza di riconoscimento del beneficio (Cass. III, n. 24052/2024).

E' stato, infine, ritenuto inammissibile, per difetto di specificità, il ricorso per cassazione con cui si lamenti la limitazione delle facoltà difensive per effetto dell'esercizio, da parte del presidente del collegio, dei poteri di direzione di cui all'art. 523, comma 3, c.p.p., nel caso in cui non siano specificati i temi preclusi dall'intervento presidenziale e la loro pertinenza rispetto alla decisione (Cass. IV, n. 17681/2024).

L'indicazione di motivi non specifici nell'atto d'impugnazione non può essere superata mediante l'integrazione effettuata a mezzo di memorie presentate in sede di discussione o di motivi aggiunti, pur se depositati nei termini di legge (Cass. V, n. 2425/2025: fattispecie in tema di appello).

La specificità dell'atto di appello

Ai sensi dell'art. 606, comma 3, c.p.p., soltanto il ricorso per cassazione è inammissibile se proposto per motivi manifestamente infondati; l'appello (come anche il ricorso per cassazione) può, peraltro, essere inammissibile per difetto di specifictà dei motivi.

Ciò premesso, può convenirsi che l'inammissibilità dell'appello per genericità dei motivi sussiste quando la parte non abbia specificamente indicato il punto della sentenza che intenda sottoporre a nuovo scrutinio, né le ragioni di fatto e di diritto su cui si fondano le censure (Cass. VI, n. 7773/2016, con la precisazione che la valutazione sulla specificità dei motivi deve essere diversamente compiuta quando nell'atto di impugnazione si prospetta un diverso inquadramento giuridico dei fatti, sostanziali o processuali, rispetto a quella fatta dal giudice a quo, non potendovi essere in questo caso alcuna preclusione a che gli argomenti siano identici a quelli già prospettati in primo grado); è stato ritenuto inammissibile l'appello che si limiti alla mera riproposizione dei temi già valutati insufficienti o inidonei dal giudice di primo grado senza specifica confutazione del fondamento logico e fattuale degli argomenti svolti in sentenza, trattandosi di impugnazione inidonea ad orientare il giudice di secondo grado verso la decisione di riforma (Cass. VI, n. 25711/2016: in applicazione del principio, la S.C. ha annullato senza rinvio la sentenza di appello che aveva sovvertito il giudizio assolutorio di primo grado, sulla base dell'impugnazione del P.M., che invitava genericamente a contrapporre alla prima decisione una valutazione alternativa, plausibile, ma non sorretta inequivocamente da maggiore attendibilità).

La specificità che deve caratterizzare i motivi di appello viene correntemente intesa in rapporto alla funzione dell'impugnazione: si ritiene, in particolare, che il motivo, per indirizzare la richiesta decisione di riforma della sentenza impugnata, deve contenere nelle linee essenziali le ragioni che confutano o sovvertono sul piano logico e strutturale le valutazioni del primo giudice, non essendo sufficiente la mera riproposizione di temi reputati in primo grado insufficienti o inidonei; al tempo stesso, si precisa che la motivazione della sentenza di appello può essere censurata con ricorso per cassazione solo nei limiti in cui era sorto, sulla base di un ammissibile e specifico motivo di appello, l'obbligo del giudice di secondo grado di un'adeguata risposta alle censure formulate (Cass. VI, n. 546/2016).

Intervenendo in argomento, le Sezioni Unite (Cass. S.U., n. 8825/2017) hanno, peraltro, affermato che l'appello (al pari del ricorso per cassazione) è inammissibile per difetto di specificità dei motivi quando non risultano esplicitamente enunciati e argomentati i rilievi critici rispetto alle ragioni di fatto o di diritto poste a fondamento della sentenza impugnata, superando, quindi, l'orientamento secondo il quale la specificità dei motivi doveva essere valutata in considerazione della funzione e della struttura di ciascuna impugnazione, e con minor rigore per l'appello, rispetto al ricorso per cassazione. Nel caso specificamente esaminato dalle Sezioni Unite, in applicazione del principio, si è ritenuto che correttamente fosse stato dichiarato inammissibile un appello che constava della mera richiesta di riduzione della pena, in quanto «eccessiva in considerazione delle modalità del fatto»”, poiché « una richiesta così formulata risulta palesemente deficitaria sotto il profilo della motivazione, siccome del tutto priva sia di riferimenti ad elementi oggettivi di valutazione, sia di una critica dialettica rispetto alle argomentazioni svolte dal Tribunale » . 

Si è successivamente osservato che il principio, affermato dalla giurisprudenza civile di legittimità, secondo cui il mutamento non prevedibile della precedente e consolidata interpretazione di una norma processuale da parte della Corte di cassazione (cd. overruling) non si applica in pregiudizio della parte che abbia incolpevolmente confidato nella precedente interpretazione,  non può essere invocato con riferimento ai principi affermati dalla sentenza n. 8825/2017 delle Sezioni Unite, in tema d'inammissibilità dell'appello non sorretto da motivi specifici, che ha semplicemente puntualizzato la corretta interpretazione della norma nell'ambito delle diverse letture, più o meno restrittive, sino ad allora praticate (Cass. V, n. 13178/2019).

A seguito della riforma dell'art. 581 da parte della legge n. 103/2017, si è specificato (rispetto all'analoga, ma meno puntuale, previsione già presente nel previgente testo della disposizione) che a) i capi o i punti della decisione ai quali si riferisce l'impugnazione, b) le prove delle quali si deduce l'inesistenza, l'omessa assunzione o l'omessa o erronea valutazione, c) le richieste, anche istruttorie, d) i motivi, con l'indicazione delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta, devono, a pena d'inammissibilità, essere enunciati specificamente.

La giurisprudenza ha  chiarito che il giudice d'appello, a seguito della riforma dell'art. 581 da parte della legge n. 103/2017, può dichiarare l'inammissibilità dell'impugnazione solo quando i motivi difettino di specificità o non siano validamente argomentati o quando essi non affrontino la motivazione spesa nella sentenza impugnata, ma non quando siano ritenuti inidonei, anche manifestamente, a confutare l'apparato motivazionale (Cass. V, n. 11942/2020). Ciò comporta, ad esempio, che l'appello con il quale si solleciti una nuova valutazione di merito quanto al riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, al “bilanciamento” tra circostanze concorrenti, alla determinazione del complessivo trattamento sanzionatorio (tutte statuizioni in ipotesi motivate dal primo giudice, ma sfavorevoli per l'imputato), sarebbe al più manifestamente infondato, ma non certo carente di specificità: l'inammissibilità dell'appello per genericità dei motivi deve, infatti, essere esclusa quando siano identificabili, con accettabile precisione, i punti cui si riferiscono le doglianze e le ragioni essenziali delle medesime, in considerazione della natura di tale specifico mezzo di impugnazione, nonché del principio del favor impugnationis (Cass. VI, n. 3721/2016: in motivazione, la S.C. ha precisato che non sussiste la genericità dei motivi allorché siano esposte, in modo estremamente succinto, ma intellegibile, le ragioni dell'impugnazione, anche in considerazione della possibilità per il giudice dell'appello di accogliere l'impugnazione sulla base di argomentazioni proprie e diverse da quelle dell'appellante, purché inerenti ai punti della sentenze attinti dal gravame).

Il requisito della specificità dei motivi di appello ricorre se l'atto di appello individua il punto della sentenza di primo grado che intende devolvere alla cognizione del giudice di appello, enucleandolo con specifico riferimento alla motivazione della sentenza impugnata e precisando tanto i motivi di dissenso dalla decisione appellata che l'oggetto della diversa deliberazione sollecitata al giudice del gravame (Cass. V, n. 34504/2018).

Attualmente,  l'atto di appello, «per non cadere nel vizio di difetto di specificità, deve attaccare con argomenti critici ciascuna delle ragioni poste a fondamento della valutazione operata dal giudice a quo in relazione ad ogni punto rilevante della pronuncia oggetto di gravame» (Cass. II, n. 5253/2019; in applicazione del principio, la S.C. ha ritenuto privo di specificità il motivo di appello riguardante l'esito del “bilanciamento” tra circostanze concorrenti – che il primo giudice aveva ritenuto equivalenti –  che non si era confrontato con tutte le argomentazioni poste a fondamento della predetta statuizione dal Tribunale, che aveva, in particolare, negativamente valorizzato l'intervenuto ed ingiustificato abbandono da parte dell'imputato della conseguita messa alla prova).

Nel caso in cui l'appellante intenda dolersi della configurazione, in primo grado, di una circostanza aggravante, deve formulare nell'atto di appello, a pena di inammissibilità, per difetto di specificità, del gravame, una espressa richiesta di eliminazione della predetta aggravante, con specifica confutazione delle argomentazioni poste dal primo giudice a fondamento della contestata statuizione (Cass. II, n. 9945/2020); è inammissibile per difetto di specificità anche il motivo di appello con cui si richieda la concessione della causa di non punibilità di cui all'art. 131-bis c.p. senza confrontarsi, con rilievi critici, con tutte le argomentazioni esposte dal giudice di primo grado a sostegno della negativa conclusione sul punto (Cass. II, n. 35493/2019).

Casistica

È stato ritenuto inammissibile, per difetto di specificità, l'appello del P.M. che si limiti a riprodurre una memoria prodotta nel corso del giudizio di primo grado (Cass. III, n. 29612/2010).

L'onere di allegazione relativo allo specifico motivo di appello con il quale si invoca il riconoscimento della circostanza attenuante di cui all'art. 62, comma 1, n. 6 c.p., negata dal giudice di primo grado, deve ritenersi soddisfatto mediante la segnalazione degli elementi di fatto che possano condizionare il giudizio sull'esistenza della circostanza, spettando poi al giudice l'esercizio dei poteri officiosi per l'accertamento degli ulteriori elementi (nella specie, relativi alla congruità del risarcimento del danno) comprovanti la fondatezza delle deduzioni difensive (Cass. III, n. 45232/2014).

A fronte di una pronuncia di primo grado che affermi la responsabilità dell'imputato in relazione a più capi di imputazione sulla base di considerazioni separatamente svolte per ciascuno dei fatti contestati e in ragione della valutazione di elementi probatori differenti specificamente esposti per ciascuna imputazione, l'atto di appello non può limitarsi ad una generica contestazione della attribuibilità dei fatti all'imputato, ma deve indicare in riferimento a ciascun capo (ovvero a ciascun reato in ordine al quale l'imputato ha riportato condanna) le ragioni di fatto o di diritto per le quali contesta l'affermazione di responsabilità (Cass. II, n. 53482/2017; Cass. III, n. 12727/2019), fermo restando che tale onere di specificità, a carico dell'impugnante, è direttamente proporzionale alla specificità con cui le predette ragioni sono state esposte nel provvedimento impugnato (Cass. II, n. 51531/2019: fattispecie in cui la S.C. ha confermato la declaratoria di inammissibilità dell'appello presentato avverso sentenza di condanna per ricettazione, con il quale l'appellante si era limitato a richiamare la disciplina generale sull'errore e sull'incauto acquisto, senza specificare per quali motivi tali principi fossero applicabili al caso, a prospettare, senza argomentarne le ragioni, l'individuazione di un diverso “tempus commissi delicti” e, infine, a richiedere le attenuanti della lieve entità e le generiche, già riconosciute dal giudice di primo grado); nell'ipotesi di sentenza di condanna per diversi capi di imputazione, sulla base delle dichiarazioni di un'unica persona offesa, è onere dell'appellante, ai fini dell'ammissibilità dell'impugnazione, dedurre per ciascuno capo i profili di inattendibilità del narrato accusatorio (Cass. II, n. 49191/2017) . 

La specificità dell'atto di appello nel procedimento di prevenzione

 

Il principio secondo cui i motivi nuovi proposti a sostegno dell'impugnazione devono avere ad oggetto, a pena di inammissibilità, i capi o i punti della decisione impugnata che sono stati enunciati nell'originario atto di gravame, ai sensi dell'art. 581, comma 1, lett. a), trova applicazione anche al giudizio di appello nel procedimento di prevenzione (Cass. II, n. 15940/2016: fattispecie di appello avverso il decreto di rigetto della richiesta di revoca di una misura di prevenzione nella quale la S.C. ha ritenuto l'inammissibilità del motivo concernente l'illegittimità dell'aggravamento, perché disposto quando la misura aveva ormai perso efficacia, in quanto, nell'atto di impugnazione originario, era stata contestata la sola sussistenza della pericolosità sociale del proposto; Cass. II, n. 16553/2022: fattispecie nella quale l'appello non conteneva l'enunciazione di motivi riguardanti la persistenza della pericolosità del prevenuto, profilo ritenuto non esaminabile di ufficio).

È stato ritenuto inammissibile per difetto di specificità dei motivi l'atto di appello del pubblico ministero avverso il decreto di rigetto della proposta che, in violazione di quanto prescritto dall'art. 581, non contenga l'enunciazione specifica sia del capo oggetto di impugnazione che dei motivi e delle ragioni a sostegno della richiesta di revisione del giudizio di primo grado (Cass. VI, n. 28825/2018: in applicazione del principio, la S.C., in considerazione della possibilità di applicazione disgiunta della confisca dalla misura di prevenzione personale e della conseguente autonomia dei capi riguardanti ciascuna misura, ha annullato parzialmente il decreto della Corte di appello, la quale, ritenendo che, in caso di rigetto della proposta, il capo relativo al rigetto della misura di prevenzione patrimoniale non fosse autonomo, ma ricompreso in quello relativo al rigetto della misura di prevenzione personale, aveva accolto l'appello del pubblico ministero, riguardante esclusivamente il tema dell'attualità della pericolosità del proposto, ed aveva applicato al proposto sia la misura della sorveglianza speciale che quella confisca).

Segue. Le modifiche apportate dal d. lgs. n. 150 del 2022 (c.d. “riforma Cartabia”): il nuovo comma 1-bis

L'art. 33, comma 1, lett. d), d.lgs. n. 150 del 2022 (c.d. “riforma Cartabia”), in vigore dal 30/12/2022, ha introdotto, nell'art. 581, un nuovo comma 1-bis, riguardante unicamente l'appello, a norma del quale quest'ultima tipologia d'impugnazione è inammissibile per mancanza di specificità dei motivi quando, per ogni richiesta, non sono enunciati in forma puntuale ed esplicita i rilievi critici in relazione alle ragioni di fatto o di diritto espresse nel provvedimento impugnato, con riferimento ai capi e punti della decisione ai quali si riferisce l'impugnazione.

 In considerazione del fatto che la precedente modifica dell'art. 581 introdotta dalla c.d. “riforma Orlando” (l. n. 103 del 2007: cfr. sub § 6) sulla scia della allora dominante giurisprudenza (il riferimento è a Cass. S.U., n. 8825/2017, Galtelli) non aveva sortito gli effetti sperati in termini di maggiore specificazione delle doglianze costituenti motivo di gravame, nonché conseguentemente di deflazione dei ruoli dei giudici di appello (attraverso il ricorso – che si auspicava massiccio – alle declaratorie d'inammissibilità de plano dei gravami non specifici), la novella mira ad “innalzare il livello qualitativo dell'atto di impugnazione e del relativo giudizio in chiave di efficienza” (così la Relazione illustrativa del d.lgs. 324), oltre che, ad un tempo, a rafforzare i poteri dei giudici d'appello nella fase di delibazione preliminare dell'ammissibilità dei gravami.

Nella prospettiva della novella, viene rigettata l'idea di un appello come “giudizio a tutto campo”, accogliendo, invece, una visione del rimedio quale mezzo di controllo (v. Relazione illustrativa, 324), su specifici punti e ragioni, della decisione di prime cure: «al netto delle perplessità circa la collocazione sistematica della nuova previsione l'origine della previsione è chiara. Essa si ricollega, infatti, alla nota giurisprudenza delle sezioni unite, secondo cui l'appello, al pari del ricorso in cassazione, deve necessariamente enunciare in modo puntuale ed esplicito i rilievi critici rispetto alle ragioni di fatto o di diritto poste a fondamento della decisione censurata (cd. “specificità estrinseca”). Una giurisprudenza che già la “riforma Orlando” aveva cercato di cristallizzare, tramite però una riscrittura dell'art. 581 c.p.p. talmente maldestra da non aver convinto i commentatori» (Gialuz 2022).

Peraltro, come è stato correttamente evidenziato, «intanto può chiedersi che i motivi siano specifici, in quanto la motivazione della sentenza impugnata sia articolata e puntuale, non essendo concepibile – trattandosi di un giudizio di relazione – la specificità dei motivi che siano volti a censurare una motivazione lacunosa o imprecisa» (Oggero2022, 160); come specificato dalla dottrina, infatti, «nel caso in cui la motivazione del giudice su un punto manchi o sia aspecifica, anche nei confronti dei motivi d'appello non dovrebbero continuare a imporsi livelli di puntualità troppo rigidi. Per contro, nel caso in cui il decisore di primo grado adempia adeguatamente ai propri obblighi motivazionali, exartt. 192 e 546 c.p.p., allora anche l'appellante dovrà, in modo direttamente proporzionale, enunciare con la dovuta precisione i rilievi critici avverso le argomentazioni impiegate dal giudice» (Gialuz 2022).

Viene, in sintesi, per l'atto di appello ulteriormente ribadita la necessità (comune al ricorso per cassazione, ed invero già desumibile in base alla normativa preesistente, ma non adeguatamente avvertita e “coltivata” dai giudici di appello) della doppia specificità dell'impugnazione, sia intrinseca (da determinare avendo riguardo riguardo al contenuto intrinseco delle doglianze, alla loro intellegibilità, alla loro determinatezza ed alle argomentazioni che le sostengano, non meramente ipotetiche o congetturali, ma fondate su atti del processo espressamente e compiutamente menzionati), che estrinseca (da determinare avendo riguardo al rapporto di esse con le avversate argomentazioni della sentenza impugnata) (Bassi 2022, 275).

Si rinvia al riguardo amplius ai §§ 14 ss., contenenti un'amplissima disamina di applicazioni riguardanti il ricorso per cassazione, ma mutuabili anche in riferimento all'appello.

Resta fermo che, nel verificare la specificità dei motivi, il giudice dell'appello dovrà astenersi dal valutare piuttosto la eventualmente manifesta infondatezza dei motivi, che costituisce, ai sensi dell'art. 606, comma 3, c.p.p., causa speciale d'inammissibilità dei soli ricorsi per cassazione; infine, non potrà ritenersi non consentita la reiterazione di doglianze già formulate nei medesimi termini, e disattese, ma fondate.

A prescindere dall'impatto che la novella avrà sui giudizi di appello, riteniamo essa possa deflazionare di molto il carico della Corte di cassazione: resta, infatti, tuttora valida anche la disposizione di cui all'art. 591, comma 4, c.p.p., che prevede l'insanabilità dell'inammissibilità dell'impugnazione, e la possibilità di rilevarla, anche di ufficio, in ogni stato e grado del procedimento.

D'altro canto, la giurisprudenza di legittimità è ormai ferma nel ritenere che il difetto di motivazione della sentenza di appello in ordine a motivi generici, proposti in concorso con altri motivi specifici, non può formare oggetto di ricorso per cassazione, poiché i motivi generici restano viziati da inammissibilità originaria, quand'anche il giudice dell'impugnazione non abbia pronunciato in concreto tale sanzione (così da ultimo, nell'ambito di un orientamento pacifico, Cass. V, n. 44201/2022).

In applicazione della novella, si è ritenuto che è inammissibile, per difetto di specificità del motivo [ma lo sarebbe stato anche prima della novella: n. d'a.], l'atto di appello con cui il ricorrente si limiti a contestare un punto della decisione, senza indicare le ragioni, di fatto o di diritto, in base alle quali non sarebbero condivisibili le valutazioni del giudice di primo grado (Cass. IV, n. 36154/2024: in applicazione del principio, la Cassazione  ha annullato la declaratoria d'inammissibilità dell'appello, sul rilievo che l'impugnante, per escludere la configurabilità del delitto di cui all'art. 624-bis c.p., aveva contestato, tra l'altro, la qualifica dell'androne quale luogo di privata dimora stante la sua mancata chiusura e la facile accessibilità da parte di terzi).

La specificità del ricorso per cassazione

È da ritenersi inammissibile il ricorso per cassazione i cui motivi siano generici, ovvero non contengano la precisa prospettazione delle ragioni in fatto o in diritto da sottoporre a verifica (Cass. III, n. 16851/2010: fattispecie di ricorso con il quale si lamentava la mancata applicazione delle regole della logica nelle argomentazioni poste a fondamento della decisione), oppure si limitino genericamente a lamentare l'omessa valutazione di una tesi alternativa a quella accolta dalla sentenza di condanna impugnata, senza indicare precise carenze od omissioni argomentative ovvero illogicità della motivazione di questa, idonee ad incidere negativamente sulla capacità dimostrativa del compendio indiziario posto a fondamento della decisione di merito (Cass. n. 30918/2015).

È inammissibile, per difetto di specificità, il ricorso per cassazione fondato su una caotica esposizione delle doglianze, dal tenore confuso e scarsamente perspicuo, che renda particolarmente disagevole la lettura e che esuli dal percorso di una ragionata censura della motivazione del provvedimento impugnato (Cass. II, n. 7801/2014: fattispecie di ricorso redatto personalmente dall'imputato, soggetto non italiano); è anche inammissibile, per genericità dei motivi, il ricorso per cassazione che renda le ragioni dell'impugnazione incomprensibili a causa della tecnica espositiva, caratterizzata dall'utilizzo di formati diversi e dalla sovrapposizione di documenti e testi inconferenti rispetto al giudizio (nel caso di specie tratti dalle sacre scritture ed opere letterarie), dall'argomentare retorico e fondato su una pluralità di questioni eccentriche e tali da rendere l'illustrazione dei motivi ridonante e caotica (Cass. VI, n. 57224/2017, con la precisazione che, al fine della valutazione dell'ammissibilità dei motivi di ricorso,  il "Protocollo d'intesa tra Corte di Cassazione e Consiglio Nazionale Forense sulle regole redazionali dei motivi di ricorso in materia penale", sottoscritto il 17 dicembre 2015 può costituire strumento esplicativo del dato normativo dettato dall'art. 606).

È inammissibile, per difetto di specificità del motivo, il ricorso per cassazione con cui si deducano violazioni di legge verificatesi nel giudizio di primo grado, se l'atto di impugnazione non procede alla specifica contestazione del riepilogo dei motivi di appello contenuto nella sentenza impugnata, qualora questa abbia omesso di indicare che l'atto di impugnazione proposto avverso la decisione del primo giudice aveva anch'esso già denunciato le medesime violazioni di legge (Cass. II, n. 9028/2014).

Da ultimo, si è ritenuto che risulta privo della specificità necessaria ex art. 581, comma 1, lett. c), il ricorso per cassazione articolato in un numero abnorme di motivi (nel caso di specie, 79), concernenti gli stessi capi d'imputazione ed i medesimi punti e questioni oggetto della decisione impugnata, così da rendere confusa l'esposizione delle doglianze e difficoltosa l'individuazione delle questioni sottoposte al vaglio di legittimità (Cass. VI, n. 10539/2017); è anche inammissibile, per difetto di specificità, il ricorso per cassazione che si limiti alla critica di una sola delle diverse "rationes decidendi" poste a fondamento della decisione, ove queste siano autonome ed autosufficienti (Cass. III, n. 2754/2018).

L'onere di specificità dei motivi di ricorso non comporta per il ricorrente l'onere di confutare in modo specifico le considerazioni prospettate nella sentenza impugnata come "obiter dicta", estranei all'ambito del giudizio già deliberato (Cass. I, n. 24834/2017); peraltro, il necessario onere di confronto con la motivazione della sentenza impugnata impone al ricorrente, a pena di inammissibilità, di non limitare il proprio esame alla sola parte del provvedimento specificamente riferita alla questione posta, ma di considerare anche le argomentazioni contenute in altre parti comunque rilevanti rispetto al giudizio devoluto sul tema ( Cass. III, n. 3953/2022 ).

È inammissibile il ricorso per cassazione con cui si deduca, con unico motivo, una violazione di legge verificatasi nel giudizio di primo grado, se non si procede alla specifica contestazione del riepilogo dei motivi di appello, contenuto nella sentenza impugnata, che non menzioni la medesima violazione come doglianza già proposta in sede di appello, in quanto, in mancanza della predetta contestazione, il motivo deve ritenersi proposto per la prima volta in cassazione, e quindi tardivo (Cass. II, n. 31650/2017) .

È stato dichiarato inammissibile il motivo di ricorso per cassazione che si limitava a contestare l' affermazione, da parte del giudice di secondo grado, di aspecificità del motivo di appello, senza provvedere all'allegazione o alla trascrizione integrale di quest'ultimo motivo (Cass. I, n. 30438/2010): l'affermazione non può essere condivisa, poiché – in riferimento alle violazioni di natura processuale, quale quella in esame, ex art. 606, comma 1, lett. c), – alla Corte di cassazione è senz'altro consentito l'accesso agli atti trasmessi, tra i quali deve necessariamente figurare l'atto di appello.

E' stato da ultimo ribadito che è inammissibile, per aspecificità, ex artt. 581, comma 1 e 591, comma 1, lett. c), il motivo di ricorso per cassazione che denunci l'inosservanza e l'erronea applicazione della legge penale, nonché, in modo cumulativo, promiscuo e perplesso, la mancanza, la contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione, ove non sia indicato specificamente il vizio di motivazione dedotto per i singoli, distinti aspetti, con puntuale richiamo, alle parti della motivazione censurata (Cass. IV, n. 8294/2024).

 

Segue . Specificità del ricorso per cassazione e c.d. principio di autosufficienza

 

Il c.d. principio di autosufficienza

La giurisprudenza di legittimità penale aveva in passato accolto il principio della c.d. “autosufficienza del ricorso”, inizialmente elaborato dallagiurisprudenza di legittimità civile.

Valorizzando inizialmente la previgente formulazione dell'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.[per la quale, le sentenze pronunziate in grado d'appello o in unico grado possono essere impugnate con ricorso per Cassazione «(…) 5) per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile di ufficio»; la disposizione stabilisce attualmente, all'esito delle modifiche apportate dall'art. 54 d.l. n. 83/2012, convertito in l. n. 134/2012, che le sentenze pronunciate in grado d'appello o in unico grado possono essere impugnate con ricorso per cassazione «(…) 5) per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti»], e successivamente la formulazione (introdotta dal d.lgs. n. 40/2006) dell'art. 366, comma 1, n. 6, c.p.c.[per la quale il ricorso per cassazione deve contenere, a pena di inammissibilità: «(…) 6) la specifica indicazione degli atti processuali, dei documenti e dei contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda»], la giurisprudenza civile era giunta ad affermare che il ricorso per cassazione, in ossequio al principio dell'autosufficienza, risulta ammissibile quando sia dato evincere, in qualunque modo (non necessariamente riproducendo pedissequamente i motivi del gravame che era stato proposto contro la decisione del giudice di primo grado), ma senza la necessità di utilizzare atti diversi, la questione che era stata devoluta al giudice di appello e le ragioni che il ricorrente aveva inteso far valere in quella sede: tali elementi devono essere univocamente desumibili sia da quanto nel ricorso stesso viene riferito circa il contenuto della sentenza impugnata, sia dalle critiche che ad essa vengono rivolte (Cass. civ. II, n. 26234/2005Cass. lav., n. 14561/2012; Cass. civ. II, n. 17449/2015, per la quale, in particolare, «È inammissibile, per violazione del criterio dell'autosufficienza, il ricorso per cassazione col quale si lamenti la mancata pronuncia del giudice di appello su uno o più motivi di gravame, se essi non siano compiutamente riportati nella loro integralità nel ricorso, sì da consentire alla Corte di verificare che le questioni sottoposte non siano “nuove” e di valutare la fondatezza dei motivi stessi senza dover procedere all'esame dei fascicoli di ufficio o di parte»).

Tenuto conto dei principi e delle finalità complessivamente sottesi al giudizio di legittimità, la giurisprudenza di legittimità penale aveva, a sua volta, affermato che il principio di autosufficienza del ricorso, elaborato in sede civile, deve essere recepito ed applicato anche in sede penale.

Un orientamento aveva, in particolare, affermato che, «quando la doglianza abbia riguardo a specifici atti processuali, la cui compiuta valutazione si assume essere stata omessa o travisata, è onere del ricorrente suffragare la validità del suo assunto mediante la completa trascrizione dell'integrale contenuto degli atti specificamente indicati (ovviamente nei limiti di quanto era stato già dedotto in precedenza), posto che anche in sede penale – in virtù del principio di autosufficienza del ricorso come sopra formulato e richiamato – deve ritenersi precluso a questa Corte l'esame diretto degli atti del processo, a meno che il fumus del vizio dedotto non emerga all'evidenza dalla stessa articolazione del ricorso» (Cass. I, n. 16706/2008 e n. 6112/2009). Si è così ritenuto che è inammissibile per difetto di specificità il ricorso per cassazione che, deducendo il vizio di manifesta illogicità o di contraddittorietà della motivazione e richiamando atti specificamente indicati, non contenga la loro integrale trascrizione od allegazione e non ne illustri adeguatamente il contenuto, così da rendere lo stesso ricorso autosufficiente con riferimento alle relative doglianze (Cass. V, n. 11910/2010; Cass. II, n. 26725/2013: fattispecie nella quale il ricorrente, pur lamentando l'esistenza di due verbali relativi alla medesima udienza con indicazioni tra loro incompatibili, non ne aveva allegato copia; Cass. IV, n. 46979/2015: fattispecie nella quale il ricorrente, pur lamentando l'omessa valutazione di prova documentale e dichiarativa, aveva omesso sia di allegare sia di indicare i relativi atti processuali; Cass. II, n. 20677/2017: fattispecie nella quale il ricorrente, pur lamentando l'assenza di precedenti condanne per estorsione, non aveva allegato il certificato del casellario giudiziale, e non aveva indicato per quali altri fatti era già stato condannato).

Altro orientamento, meno severo , riteneva che il ricorso per cassazione che denuncia il vizio di motivazione deve contenere, a pena di inammissibilità ed in forza del principio di autosufficienza, le argomentazioni logiche e giuridiche sottese alle censure rivolte alla valutazione degli elementi probatori, e non può limitarsi a invitare la Corte alla lettura degli atti indicati, il cui esame diretto è alla stessa precluso (Cass. VI, n. 29263/2010); il ricorso per cassazione con cui si lamenti la mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione per l'omessa valutazione di circostanze acquisite agli atti non potrebbe, quindi, limitarsi, pena l'inammissibilità per difetto di specificità, ad addurre l'esistenza di atti processuali non esplicitamente presi in considerazione nella motivazione del provvedimento impugnato ovvero non correttamente od adeguatamente interpretati dal giudicante, ma dovrebbe, invece (Cass. VI, n. 45036/2010):

a ) identificare l'atto processuale cui fa riferimento;

b ) individuare l'elemento fattuale o il dato probatorio che da tale atto emerge e che risulta incompatibile con la ricostruzione svolta nella sentenza;

c ) dare la prova della verità dell'elemento fattuale o del dato probatorio invocato, nonchè della effettiva esistenza dell'atto processuale su cui tale prova si fonda;

d ) indicare le ragioni per cui l'atto inficia e compromette, in modo decisivo, la tenuta logica e l'intera coerenza della motivazione, introducendo profili di radicale “incompatibilità” all'interno dell'impianto argomentativo del provvedimento impugnato.

Si precisava che la condizione della “specifica indicazione degli altri atti del processo”, con riferimento ai quali, l'art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p., configura il vizio di motivazione denunciabile in sede di legittimità, può essere soddisfatta nei modi più diversi (quali, ad esempio, l'integrale riproduzione dell'atto nel testo del ricorso, l'allegazione in copia, l'individuazione precisa dell'atto nel fascicolo processuale di merito), purché detti modi siano comunque tali da non costringere la Corte di cassazione ad una lettura totale degli atti, dandosi luogo altrimenti ad una causa di inammissibilità del ricorso, in base al combinato disposto degli artt. 581, comma 1, lett. c), e 591 c.p.p. (Cass. III, n. 43322/2014).

Segue. Specificità del ricorso per cassazione e c.d. principio di autosufficienza

Il d.lgs. 6 febbraio 2018, n. 11 ha introdotto il nuovo art. 165-bis disp. att. c.p.p., contenente disposizioni in ordine agli adempimenti connessi alla trasmissione degli atti al giudice dell'impugnazione.

Il secondo comma della citata disposizione stabilisce che «Nel caso di ricorso per cassazione, a cura della cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato, è inserita in separato fascicolo allegato al ricorso, qualora non già contenuta negli atti trasmessi, copia degli atti specificamente indicati da chi ha proposto l'impugnazione ai sensi dell'articolo 606, comma 1, lettera e), del codice; della loro mancanza è fatta attestazione».

Questa disciplina comporta, all'evidenza, due conseguenze:

– nel caso in cui il ricorso per cassazione denunzi il motivo di cui all'art. 606, comma 1, lettera e), ovvero un vizio di motivazione, la cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato deve inviare alla Corte di cassazione copia degli atti specificamente indicati dal ricorrente, attestando altresì eventualmente che gli atti indicati dal ricorrente non sono allegabili perché non presenti nei fascicoli del dibattimento di primo e secondo grado; 

– tale disciplina non è prevista anche per il caso in cui il ricorso per cassazione denunzi gli ulteriori motivi di cui all'art. 606, comma 1 (inclusio unius, exclusio alterius …).

I motivi di ricorso deducibili in sede di legittimità sono indicati dall'art. 606, comma 1, lett. a) - e), c.p.p.

Le conseguenze del principio di autosufficienza del ricorso, non affermato da alcuna norma, ma desunto in via interpretativa, generalmente (anche se a volte solo implicitamente) considerandolo attributo della necessaria specificità del ricorso, non possono, pertanto, prescindere dalla disciplina dettata dall'art. 606 c.p.p., e dai poteri-doveri del giudice di legittimità che ne conseguono, diversi a seconda delle tipologie di motivo.   

Può, ad esempio, ritenersi pacifico che, allorché sia dedotto, mediante ricorso per cassazione, un error in procedendo ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. c), c.p.p., la Corte di cassazione sia giudice anche del fatto e, per risolvere la relativa questione, può/deve accedere all'esame diretto degli atti processuali (Cass. S.U., n. 42792/2001: in applicazione del principio, in una fattispecie relativa alla denuncia di inutilizzabilità, in procedimento incidentale de libertate, di intercettazioni di comunicazioni tra presenti, la S.C. ha provveduto all'esame diretto dei decreti autorizzativi del giudice per le indagini preliminari e di quelli esecutivi del pubblico ministero; conformi, successivamente, Cass. I, n. 8521/2013, avente ad oggetto una doglianza di omessa notifica al difensore di fiducia del decreto di fissazione dell'udienza camerale nel procedimento di sorveglianza, e Cass. III, n. 24979/2018).

Tuttavia, i poteri/doveri della Corte di cassazione di controllo degli atti per la verifica della fondatezza dei motivi inerenti ad asseriti errores in procedendo non possono esonerare il ricorrente dalla specifica indicazione dell'atto da esaminare e sul quale compiere la verifica richiesta (cfr., ad esempio, Cass. VI, n. 10373/2002: fattispecie nella quale il ricorrente aveva contestato la competenza del giudice delle indagini preliminari, asserendo di aver tempestivamente eccepito la questione all'udienza preliminare e di averla riproposta nelle successive fasi di merito, senza tuttavia indicare nel ricorso la data delle relative udienze, e quindi i verbali specificamente rilevanti, e quindi da consultare; conforme, Cass. VI, n. 17377/2016, che ha ritenuto affetto da genericità il motivo di ricorso per cassazione che – lamentando la violazione di norme processuali in relazione all'art. 601, per l'omessa notifica all'imputato del decreto di citazione a giudizio, a seguito del rinvio di ufficio disposto a causa dell'adesione del difensore all'astensione di categoria – aveva omesso di precisare a quale decreto di citazione si riferisse la doglianza).

In ordine agli errores in procedendo , quindi, l'onere di specificità del ricorso imposto dall'art. 581, comma 1 impone la specifica indicazione:

– dell'atto viziato;

– del vizio dedotto (con la sanzione prevista: se non sanzionati a pena di nullità, inutilizzabilità, inammissibilità, decadenza, gli errores in procedendo non sarebbero deducibili).

A ciò si aggiunge l'onere di procedere alla c.d. “prova di resistenza”, in ordine alla quale si rinvia amplius sub § 16.8.

Non era, al contrario previsto (e non lo è tuttora, alla luce del nuovo art. 165-bis disp. att. c.p.p.) alcun onere di allegazione o trascrizione (all'interno del ricorso) di atti.

Assolutamente non condivisibile risultava, quindi, l'orientamento, pur estremamente diffuso, per il quale, in asserita applicazione del principio di autosufficienza del ricorso, in tema di intercettazioni, qualora in sede di legittimità venga eccepita l'inutilizzabilità dei relativi risultati, sarebbe onere della parte, a pena di aspecificità del motivo, non soltanto – come doveroso – indicare specificamente l'atto che si ritiene affetto dal vizio denunciato, ma anche curare la produzione di esso nonché delle ulteriori risultanze documentali eventualmente addotte a fondamento del vizio processuale, in particolare curando che l'atto sia effettivamente acquisito al fascicolo o provvedendo a produrlo in copia (in tal senso, cfr. da ultimo, Cass. IV, n. 18335/2018). Detto orientamento gravava inammissibilmente il ricorrente di oneri a ben vedere già prima dell'introduzione dell'art. 165-bis disp. att. c.p.p. gravanti sulla cancelleria dell'Ufficio a quo (la sola tenuta, in ossequio alle già vigenti disposizioni regolamentari, a formare il fascicolo da inviare in Cassazione), ed ipotizzava che l'inammissibilità del ricorso potesse dipendere da fattori del tutto accidentali (la diligenza o meno della predetta cancelleria nella formazione del fascicolo da inviare in Cassazione), peraltro non verificabili ex ante, ovvero al momento della presentazione del ricorso, ma solo ex post, ovvero dopo la presentazione del ricorso (poiché è solo dopo la presentazione del ricorso che ha luogo la formazione del fascicolo da inviare in Cassazione, e che la parte può verificare se un determinato atto vi sia stato, o meno, inserito), ipotizzando la configurabilità di una sorta di inammissibilità sopravvenuta (in caso di duplice inerzia, della cancelleria predetta e successivamente dello stesso ricorrente, tra l'altro in ipotesi tenuto ad attivarsi – in caso di lungaggini amministrative – anche a termine per il deposito del ricorso scaduto, il che non potrebbe comunque essere rilevante, tenuto conto del fatto che l'inammissibilità, se sussistente, è ex post insanabile: argomenta ex art. 591, comma 4, c.p.p.) che nessuna disposizione vigente autorizza a configurare.   

L'esame diretto degli atti processuali non è in assoluto precluso alla Corte di cassazione neppure quando risultino denunziati vizi della motivazioneex art. 606, comma 1, lett. e), ovvero la mancanza, la contraddittorietà o la manifesta illogicità della motivazione: gli atti cui il giudice di legittimità può, e quindi, se necessario, deve, accedere sono, peraltro, soltanto quelli “specificamente indicati nei motivi di gravame” [così testualmente l'art. 606, comma 1, lett. e) c.p.p., come modificato dalla l. n. 46 del 2006]. “Indicati”: non “allegati” né “trascritti”, ma unicamente “indicati”.

L'irragionevolezza dell'orientamento che, in nome del principio dell'autosufficienza, pretendeva di onerare il ricorrente dell'allegazione o trascrizione di atti, è confermata anche dal fatto che il ricorrente avrebbe potuto, in ipotesi, allegare o trascrivere atti non facenti parte del procedimento, ovvero trascrivere erroneamente, o solo parzialmente, atti che ne facessero parte: per tale ragione, ragionevolmente, il codice di rito lo grava sempre e soltanto (con riferimento sia agli errores in procedendo che ai vizi di motivazione) di un onere di specifica indicazione, giammai di allegazione o trascrizione.

Nessun autonomo problema sembra porsi per i motivi di cui all'art. 606, comma 1, lett. a) (ipotesi assolutamente residuale) e lett. b) (che possono riguardare unicamente questioni di diritto penale sostanziale).

Quanto ai motivi di cui alla lett. d), secondo un orientamento consolidato (Cass. II, n. 41744/2015), la deduzione della mancata assunzione di una prova decisiva può essere proposta solo in relazione ai mezzi di prova di cui sia stata chiesta l'assunzione a norma dell'art. 495, comma 2, c.p.p., ma non in relazione a quelli di cui l'ammissione non sia stata sollecitata, o sia stata sollecitata soltanto ai sensi dell'art. 507 dello stesso codice, né, tanto meno, con riferimento ad attività di indagine che – ad avviso del ricorrente – il P.M. avrebbe dovuto svolgere, ma che non è stata espletata. Ne consegue che, per essi, in ordine alla dimostrazione di avere previamente richiesto ex art. 495, comma 2, c.p.p. l'ammissione della prova che si assume decisiva, può valere quanto affermato in ordine ai motivi di cui alla lettera c): il ricorrente dovrà indicare specificamente l'udienza nella quale la richiesta era stata formalizzata, salvo il successivo controllo – demandato al giudice di legittimità – del contenuto del relativo verbale; dovrà altresì dar conto delle ragioni poste a fondamento della mancata ammissione: il rigetto della richiesta, ad esempio perché non preceduta dal prescritto deposito della lista, renderebbe il motivo di ricorso ex art. 606, comma 1, lett. d), non consentito (in difetto di previa rituale richiesta di ammissione ex art. 495, comma 2, c.p.p.). Quanto alla decisività della prova, incomberà certamente al ricorrente darne conto, previo specifico esame della motivazione posta a fondamento della contestata affermazione di responsabilità.

Considerazioni conclusive

La Corte EDU ha avuto più volte modo di affermare che sono in contrasto con il diritto di accesso alla tutela giurisdizionale, garantito dell'art. 6, § 1, della Convenzione EDU, le limitazioni apposte dalla Corte di cassazione al diritto di accesso al sindacato di legittimità che risultino non proporzionate al fine di garantire la certezza del diritto e la buona amministrazione della giustizia (cfr., per tutte, Corte EDU  I, 24 aprile 2008, caso K. ed altri c. Lussemburgo: nel caso di specie, i ricorrenti lamentavano il formalismo eccessivo asseritamente mostrato dalla Corte di cassazione lussemburghese nel dichiarare irricevibile il loro ricorso, per non essere stati articolati con sufficiente precisione i motivi di impugnazione, ed il conseguente pregiudizio al loro diritto di accesso ad un tribunale).

Come riconosciuto dalla giurisprudenza civile (Cass. civ. S.U., n. 17931/2013), la Corte EDU ritiene, quindi, che, nell'interpretazione ed applicazione della legge processuale, «gli Stati aderenti, e per essi i massimi consessi giudiziari, devono evitare gli “eccessi di formalismo”, segnatamente in punto di ammissibilità o ricevibilità dei ricorsi; consentendo per quanto possibile; la concreta esplicazione di quel “diritto di accesso ad un tribunale” previsto e garantito dall'art. 6 § 1 della Convenzione EDU». Tale principio non vieta, tuttavia, agli Stati aderenti «la facoltà di circoscrivere, per evidenti esigenze di opportunità selettiva, a casistiche tassative, in relazione alle ipotesi ritenute astrattamente meritevoli di essere esaminate ai massimi livelli della giurisdizione, le relative facoltà di impugnazione, con la conseguenza che non si ravvisa contrasto allorquando le disposizioni risultino di chiara evidenza senza lasciare adito a dubbi», ma «costituisce, nei diversi casi in cui le norme si prestino a diverse accezioni ed applicazioni, un canone direttivo nella relativa interpretazione, che deve in siffatti ultimi casi propendere per la tesi meno formalistica e restrittiva».

Ciò premesso quanto ai limiti che è legittimo apporre al diritto di accesso al sindacato di legittimità, appare evidente che risulterebbe anche convenzionalmente illegittimo condizionare l'accesso al sindacato di legittimità al soddisfacimento di un onere di allegazione o trascrizione normativamente non previsto, oltre che irragionevole e formalistico (avendo ad oggetto atti che è, questa volta normativamente, previsto sia compito della cancelleria del giudice a quo trasmettere in Cassazione, e che quindi – anche a prescindere dall'iniziativa del ricorrente – devono già fare parte del fascicolo).

Questa soluzione, attualmente imposta dal chiaro dettato del sopravvenuto art. 165-bis, comma 2, disp. att. c.p.p., ma che già in precedenza poteva ritenersi accolta dal codice di rito, si lascia preferire perché certamente più idonea a favorire l'instaurazione di una corretta dialettica processuale tra le parti, ed, in definitiva, un corretto controllo di legittimità, al contrario non assicurato dalla mera trascrizione od allegazione (che, oltre a non essere normativamente richieste, e non potere, quindi, ostacolare l'accesso al sindacato di legittimità, comporterebbero, inoltre, l'onere di verificare se la trascrizione dell'atto sia stata corretta e completa, e se l'atto trascritto od allegato faccia effettivamente parte del procedimento, e quindi imporrebbero quell'accesso promiscuo – non selettivo, come quello consentito dalla contraria soluzione accolta – agli atti, al contrario precluso, perché indebito, in sede di legittimità).

In sede penale, quindi, il principio della “autosufficienza del ricorso”, elaborato in sede civile,  comporta unicamente che:

– quando sia denunziato uno degli errores in procedendo indicati dall'art. 606, comma 1, lett. c), c.p.p., il ricorrente – pur nel silenzio del nuovo art. 165-bis, comma 2, disp. att. c.p.p. – hal'onere di indicare specificamente l'atto da esaminare (ma tale onere può ritenersi soddisfatto implicitamente, quando non vi sia possibilità di incertezze: si pensi al caso in cui sia denunziata una omessa citazione a giudizio inerente a giudizio celebratosi in una sola udienza), oltre che di operare, quando necessario, la c.d. “prova di resistenza” (cfr. sub § 16.8);

– quando sia denunziato un vizio di motivazione avente ad oggetto determinati atti processuali, la cui compiuta valutazione si assuma essere stata omessa o travisata, o comunque operata contraddittoriamente ovvero in modo manifestamente illogico, è onere del ricorrente, conformemente a quanto espressamente previsto dal nuovo art. 165-bis, comma 2, disp. att. c.p.p., suffragare la validità del suo assunto mediante la specifica indicazione dei singoli atti richiamati e della loro sede processuale, oltre che del loro richiamato contenuto, non potendo egli limitarsi ad invitare sic et simpliciter la Cassazione alla lettura degli atti indicati, posto che (come in sede civile) anche in sede penale è precluso al giudice di legittimità esaminare autonomamente,  in modo aselettivo, gli atti del processo per ragioni di merito.

In sintesi : la Cassazione può esaminare gli atti specificamente indicati dal ricorrente per verificare la fondatezza o meno dei vizi di motivazione dallo stesso specificamente dedotti; non può esaminare di propria iniziativa ed indiscriminatamente tutti gli atti acquisiti per giungere ad un proprio convincimento, prescindendo da specifiche doglianze del ricorrente.

Sia per gli errores in procedendo che per i vizi di motivazione,  la materiale allegazione nel fascicolo da inviare in Cassazione degli atti specificamente indicati in ricorso rientra esclusivamente nei compiti della cancelleria del giudice a quo, cui potranno in ogni momento essere richieste le necessarie integrazioni (se del caso, anche fuori dal contraddittorio, trattandosi di atti necessariamente noti alle parti, perché per definizione presenti nel fascicolo per il dibattimento).

Con riguardo ai soli errores in procedendo, nel silenzio dell'art. 165-bis disp. att. c.p.p., un onere di allegazione potrà al più essere configurato a carico del ricorrente unicamente con riguardo agli atti del procedimento non confluiti nei fascicoli del dibattimento di primo e secondo grado, ma rimasti in quello del P.M. (si pensi, ad esempio, ai decreti autorizzativi di intercettazioni, rilevanti per delibare questioni di inutilizzabilità, nei limiti in cui esse risultino deducibili o rilevabili anche d'ufficio per la prima volta in sede di legittimità, ovvero all'avviso ex art. 415-bis c.p.p., in ipotesi esibito in visione al GUP od al Tribunale procedente, ma non acquisito agli atti).

L'evenienza non può, di norma, porsi con riguardo ai vizi di motivazione, in ordine ai quali la produzione nel giudizio di legittimità di documenti nuovi, non presenti in atti, attinenti al merito, è consentita ove l'interessato non sia stato in grado di esibirli nei precedenti gradi di giudizio, ed unicamente se da essi possa derivare l'applicazione di cause estintive del reato o di disposizioni sopravvenute più favorevoli (Cass. III, n. 20068/2025); detti documenti nuovi, inoltre, andrebbero pur sempre prodotti nel rispetto dei termini di rito (cfr. art. 611 c.p.p.), e risulterebbero utilizzabili non automaticamente, ma soltanto se ne sia stata chiesta e disposta la formale acquisizione (Cass. II, n. 7140/2024).

In tal senso sembrano muovere le prime decisioni della Cassazione dopo l'introduzione del nuovo art. 165-bis disp. att. c.p.p.: Cass. I, n. 48422/2019, ha, ad esempio, ritenuto inammissibile per genericità e difetto di autosufficienza, il motivo di ricorso inteso a denunciare l'omesso esame di una richiesta (nella specie, assoluzione dell'imputato ex art. 131-bis c.p.), di cui non vi era menzione nel provvedimento impugnato, non essendo stati specificamente indicati, ai fini dell'inserimento nel fascicolo formato dalla cancelleria del giudice a quo ai sensi dell'art. 165-bis, comma 2, disp. att. c.p.p., gli atti da cui possa desumersi che detta richiesta era stata invece ritualmente proposta.

Segue. Casistica

 

La specificità del ricorso del P.M.

È stato dichiarato inammissibile, per difetto di specificità dei motivi, l'appello del pubblico ministero che si limitava a rinviare per relationem alle censure mosse nell'impugnazione presentata dalla parte civile, senza indicare, nemmeno sommariamente, le ragioni del dissenso sulla sentenza appellata (Cass. VI, n. 43207/2010; Cass. V, n. 41782/2016); è stato, al contrario, ritenuto specifico l'atto di appello del pubblico ministero che non conteneva una mero ed acritico rinvio per relationem alle ragioni di censura costituenti oggetto dell'atto di appello delle parti civili, « ma una consapevole e ragionata riproposizione dettagliata di gran parte delle medesime argomentazioni, come è fisiologico, in presenza di censure asseritamente condivise » (Cass. II, n. 3286/2016).

È stato anche ritenuto ammissibile l'appello proposto dal P.G. contro la sentenza di assoluzione di primo grado, con il quale, pur in difetto di una formale articolazione per capi e per punti, era stato censurato il percorso logico e motivazionale del primo giudice, gravando la soluzione assolutoria adottata, « stante il suo effetto pienamente devolutivo che attribuisce al giudice ad quem gli ampi poteri decisori previsti dall'art. 597, comma 2, lett. b), c.p.p. » (Cass. V, n. 16983/2014 e Cass. n. 41782/2016 cit.).

La specificità del ricorso della parte civile

È inammissibile per difetto di specificità dei motivi il ricorso della parte civile che si limiti a rinviare per relationem alle censure mosse nell'analoga impugnazione presentata dal pubblico ministero, senza indicare in maniera autonoma le ragioni del proprio dissenso verso la sentenza impugnata (Cass. V, n. 40393/2012).

Il ricorso che rinvia per relationem all’appello

È inammissibile il ricorso per cassazione i cui motivi si limitino a lamentare l'omessa valutazione, da parte del giudice dell'appello, delle censure articolate con il relativo atto di gravame, rinviando genericamente ad esse, senza indicarne specificamente il contenuto, sia pure in modo sommario, al fine di consentire l'autonoma individuazione delle questioni che si assumono irrisolte e sulle quali si sollecita il sindacato di legittimità, dovendo l'atto di ricorso essere autosufficiente, e cioè contenere la precisa prospettazione delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto da sottoporre a verifica (Cass. II, n. 9029/2014; Cass. III, n. 35964/2015 e Cass. III, n. 8065/2019, per la quale, in particolare, la censura di omessa valutazione da parte del giudice dell'appello dei motivi articolati con l'atto di gravame onera il ricorrente della necessità di specificare il contenuto dell'impugnazione e la decisività del motivo negletto al fine di consentire l'autonoma individuazione delle questioni che si assumono non risolte e sulle quali si sollecita il sindacato di legittimità, dovendo l'atto di ricorso contenere la precisa prospettazione delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto da sottoporre a verifica).

È inammissibile, per difetto di specificità, anche il ricorso per cassazione i cui motivi si limitino a un generico rinvio per relationem a quelli redatti, con separato atto, da altro difensore (Cass. I, n. 778/2023: fattispecie relativa al richiamo, con la formula "che qui si intendono ritrascritti", ai motivi dedotti da altro difensore privo di legittimazione).

La pedissequa reiterazione delle censure oggetto dell’appello

Secondo altro consolidato orientamento giurisprudenziale (Cass. IV, n. 15497/2002; Cass. VI, n. 34521/2013), è inammissibile per difetto di specificità il ricorso che riproponga pedissequamente le censure dedotte come motivi di appello (al più con l'aggiunta di frasi incidentali contenenti contestazioni, meramente assertive ed apodittiche, della correttezza della sentenza impugnata) senza prendere in considerazione, per confutarle, le argomentazioni in virtù delle quali i motivi di appello non siano stati accolti: i motivi del ricorso per cassazione devono, infatti, ritenersi generici non solo quando risultano intrinsecamente indeterminati, ma altresì quando difettino della necessaria correlazione con le ragioni poste a fondamento del provvedimento impugnato, riproponendo acriticamente le stesse ragioni già discusse e ritenute infondate dai giudici del gravame, dovendosi gli stessi considerare non specifici, ed anzi, meramente apparenti, in quanto non assolvono la funzione tipica di critica puntuale avverso la sentenza oggetto di ricorso (Cass. V, n. 28011/2013; Cass. VI, n. 8700/2013). Deve, pertanto, ritenersi inammissibile il ricorso per cassazione fondato sugli stessi motivi proposti con l'appello e motivatamente respinti in secondo grado, sia per l'insindacabilità delle valutazioni di merito adeguatamente e logicamente motivate, sia per la genericità delle doglianze che, così prospettate, solo apparentemente denunciano un errore logico o giuridico determinato (Cass. III, n. 44882/2014).

Si è, peraltro, precisato che i motivi di ricorso per cassazione possono riprodurre totalmente o parzialmente quelli di appello, ma solo entro i limiti in cui ciò serva a documentare il vizio enunciato e dedotto con autonoma, specifica ed esaustiva argomentazione, che si riferisca al provvedimento impugnato e si confronti con la sua motivazione (Cass. VI, n. 34521/2013: in applicazione del principio, la S.C. ha dichiarato inammissibili motivi che si erano limitati a riprodurre le censure dedotte in appello, con l'aggiunta di frasi incidentali di contestazioni, meramente assertive ed apodittiche, della sentenza impugnata; Cass. IV, n. 30202/2016: fattispecie nella quale la S.C. ha dichiarato inammissibile per difetto di specificità il motivo di ricorso che si risolveva nella mera enunciazione di principi giurisprudenziali in materia di intercettazioni telefoniche, senza alcun riferimento all'analisi in concreto delle conversazioni valorizzate a fondamento dell'affermazione di responsabilità ). Si è anche affermato che l'applicazione del principio è ancor più necessaria laddove (come nel caso esaminato), la sentenza di appello, al cospetto di motivi che si limitavano a riproporre questioni già articolatamente esaminate e risolte dal primo giudice, rinvii per relationem alla sentenza di questi, poiché in tal caso l'onere deduttivo del ricorrente non può ritenersi assolto dolendosi di una tale fisiologica evenienza processuale, che diventa patologica solo allorquando la conforme valutazione dissimuli la totale mancanza di motivazione su questioni specifiche all'epoca eccepite in sede di appello e che vanno chiaramente allegate (Cass. III, n. 35964/2015): ferma restando la condivisibilità del principio, deve rilevarsi che, se, a fronte di un articolato atto di appello, il giudice del gravame si sia limitato (come sta, purtroppo, diventando prassi) a richiamare integralmente per relationem la motivazione della sentenza di primo grado, all'interessato, per ottenere risposta alle proprie istanze, non resta che riproporre in sede di legittimità (naturalmente con i necessari aggiustamenti) le censure già costituenti motivo di gravame, alle quali sia stata, a suo avviso, data risposta insoddisfacente; al contrario, soltanto in presenza di autonome argomentazioni della Corte di appello risulterebbe a-specifica la pedissequa reiterazione di motivi già costituenti oggetto dell'atto di appello.

Infine, pur a fronte di una doppia conforme decisione a sé sfavorevole, ma illegittima, deve necessariamente essere consentito riproporre la propria prospettazine in ipotesi legittima, onde non legittimare l’assioma dell’intangibilità delle “doppie conformi castronerie”.

Vizi enunciati in forma perplessa o alternativa

La giurisprudenza è ormai ferma nel ritenere che sia inammissibile, per difetto di specificità, il ricorso presentato prospettando vizi di motivazione del provvedimento impugnato, quando i relativi motivi siano enunciati in forma perplessa od alternativa (Cass. VI, n. 32227/2010: fattispecie nella quale il ricorrente aveva lamentato la « mancanza e/o insufficienza e/o illogicità della motivazione » in ordine alla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza e delle esigenze cautelari posti a fondamento di un'ordinanza applicativa di misura cautelare personale; conformi, Cass. VI, n. 800/2012e Cass. II, n. 31811/2012). Invero, l'art. 606, comma 1, lett. e), stabilisce che i provvedimenti sono ricorribili per « mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, quando il vizio risulta dal testo del provvedimento impugnato ovvero da altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame »; la disposizione, se letta in combinazione con l'art. 581, comma 1, lett. c), consente di affermare che non può ritenersi consentita l'enunciazione perplessa ed alternativa dei motivi di ricorso, essendo onere del ricorrente indicare con precisione se le censure siano riferite alla mancanza, alla contraddittorietà od alla manifesta illogicità ovvero a più di uno tra tali vizi, che vanno indicati specificamente in relazione alle parti della motivazione oggetto di gravame. Per tali ragioni la censura alternativa ed indifferenziata di mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione risulta priva della necessaria specificità, il che rende il ricorso inammissibile.

Il ricorrente che intenda denunciare contestualmente, con riguardo al medesimo capo o punto della decisione impugnata, i tre vizi della motivazione deducibili in sede di legittimità ai sensi dell'art. 606, 1, lett. e), ha l'onere — sanzionato a pena di a-specificità, e quindi di inammissibilità, del ricorso — di indicare su quale profilo la motivazione asseritamente manchi, in quali parti sia contraddittoria, in quali manifestamente illogica (Cass. II, n. 19712/2015).

Inoltre, il ricorrente che intenda denunciare contestualmente, con riguardo al medesimo capo o punto della decisione impugnata, più violazioni della legge processuale, ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. c), ha l'onere — ancora una volta sanzionato a pena di a-specificità, e quindi di inammissibilità, del ricorso — di indicare per ciascuna norma che si assume violata in cosa si sia concretizzata la presunta violazione costituente oggetto di doglianza (Cass. II, n. 25741/2015; Cass. I, n. 39122/2015).

Non può, infatti, attribuirsi al giudice di legittimità la funzione di rielaborare l'impugnazione, al fine di estrarre dal coacervo indifferenziato dai motivi quelli suscettibili di un utile  scrutinio (in tal senso, da ultimo, Cass. IV, n. 8294/2024).

 

La specificità delle doglianze inerenti a vizi di inutilizzabilità

È onere della parte che eccepisca, come motivo di ricorso, l'inutilizzabilità o la nullità di atti processuali, indicare, pena l'inammissibilità del ricorso per genericità del motivo, gli atti specificamente affetti dal vizio (Cass. VI, n. 49970/2012); sarebbe, pertanto, inammissibile il motivo di ricorso per cassazione con il quale si eccepisce la inutilizzabilità delle informative di polizia giudiziaria, per decorrenza del termine di durata delle indagini preliminari, senza, tuttavia, individuare con precisione l'atto specifico, in esse contenuto, asseritamente inutilizzabile, non spettando alla Corte di cassazione, in difetto di specifiche deduzioni, di verificare se esistano cause di inutilizzabilità o di invalidità di atti del procedimento che, non apparendo manifeste, implichino la ricerca di evidenze processuali o di dati fattuali che è onere della parte interessata rappresentare adeguatamente (Cass. V, n. 19553/2014).

Il principio è stato frequentemente affermato in tema di intercettazioni di conversazioni, con riferimento alle quali la giurisprudenza è ormai ferma nel ritenere che la relativa eccezione di inutilizzabilità può essere esaminata in sede di legittimità solo a condizione che l'atto asseritamente viziato (o dal quale consegue l'inutilizzabilità della prova) sia stato specificamente indicato in ricorso e faccia parte del fascicolo trasmesso al giudice di legittimità (Cass. II, n. 41142/2013 e Cass. n. 44221/2013). 

 

La specificità delle doglianze inerenti a vizi di nullità

E' stato, in particolare, ritenuto inammissibile, per genericità, il motivo di ricorso per cassazione che - lamentando la violazione di norme processuali in relazione all'omessa notifica all'imputato del decreto di citazione a giudizio, a seguito del rinvio di ufficio disposto a causa dell'adesione del difensore all'astensione di categoria - ometta di precisare a quale decreto di citazione si riferisca la doglianza, e di chiarire quali siano il profilo di vizio dedotto e la richiesta difensiva (Cass. VI, n. 17377/2016).

È inammissibile, per difetto di specificità del motivo, l'impugnazione (nella specie, ricorso per cassazione) con cui si deduce la nullità della notifica di un atto in ragione della sua effettuazione presso il difensore di fiducia e non al domicilio dichiarato dall'imputato, ove il ricorrente non abbia indicato il concreto pregiudizio derivato in ordine alla conoscenza dell'atto stesso e all'esercizio del diritto di difesa (Cass. VI, n. 24741/2018 ; conforme, Cass. VI, n. 1219/2020 : fattispecie relativa all'inutilizzabilità delle dichiarazioni rese da persona imputata del medesimo reato in mancanza del previo avvertimento di cui all'art. 64, comma 3, c.p.p., ma non valorizzate dal giudice di merito ai fini dell'affermazione di responsabilità).

La c.d. prova di resistenza

La giurisprudenza è ormai ferma nel ritenere che, in riferimento al contenuto del ricorso per cassazione, è anche onere della parte che eccepisce l'inutilizzabilità o la nullità di atti processuali e, conseguentemente, di uno o più elementi a carico, chiarire, pena l'inammissibilità del ricorso per difetto di specificità del motivo, l'incidenza sul complessivo compendio probatorio od indiziario già valutato, dell'eventuale eliminazione dei predetti elementi, ai fini della cosiddetta « prova di resistenza », essendo in ogni caso necessario valutare se le residue risultanze, nonostante l'espunzione di quelle affette dal vizio eccepito, risultino sufficienti a giustificare l'identico convincimento, sì da potersene inferire la decisività del vizio eccepito in riferimento al provvedimento impugnato (Cass. S.U., n. 16/2000: fattispecie nella quale, tra gli altri elementi a carico, era stata valutata la falsità di un alibi, rivelatasi non determinante ai fini della dichiarazione di colpevolezza;  Cass. S.U. , n. 23868/2009: fattispecie relativa ad atti asseritamente compiuti dopo la scadenza del termine di durata delle indagini preliminari; Cass. III, n. 3207/2015: fattispecie in tema di dichiarazione indiziante resa a funzionario Inps nell'ambito di attività ispettiva, in assenza delle garanzie di difesa previste dal codice di rito; Cass. VI, n. 35149/2010: fattispecie nella quale è stato ritenuto inammissibile per genericità il motivo di ricorso per cassazione con cui la parte aveva eccepito l'inutilizzabilità di videoriprese aventi ad oggetto comportamenti di tipo non comunicativo, senza di indicare quali sarebbero stati gli elementi probatori ricavati dalle stesse effettivamente utilizzati per legittimare la conclusiva affermazione di responsabilità).

Ne consegue che, nell'ipotesi in cui con il ricorso per cassazione si lamenti uno degli errores in procedendo deducibili, in ipotesi inficiante uno degli elementi “a carico”, il motivo di impugnazione deve illustrare, a pena di aspecificità, l'incidenza dell'eventuale eliminazione del predetto elemento ai fini della cosiddetta "prova di resistenza", in quanto gli elementi di prova acquisiti illegittimamente diventano irrilevanti ed ininfluenti se, nonostante la loro espunzione, le residue risultanze risultino sufficienti a giustificare l'identico convincimento (Cass. II, n. 7986/2018; conforme, Cass. VI, n. 1219/2020: fattispecie relativa all'inutilizzabilità delle dichiarazioni rese da persona imputata del medesimo reato in mancanza del previo avvertimento di cui all'art. 64, comma 3, c.p.p., ma non valorizzate dal giudice di merito ai fini dell'affermazione di responsabilità).

L’insanabilità del difetto di specificità

L'indicazione di motivi generici nel ricorso, in violazione dell'art. 581, lett. c), costituisce di per sé motivo di inammissibilità del proposto gravame, anche se successivamente, ad integrazione e specificazione di quelli già dedotti, vengano depositati nei termini di legge i motivi nuovi ex art. 585, comma 4 (Cass. II, n. 34216/2014).

Invero, le cause d'inammissibilità non sono soggette a sanatoria ex post e devono essere rilevate, anche d'ufficio, in ogni stato e grado del procedimento; pertanto esse, pur non rilevata dal giudice di secondo grado, devono essere dichiarate dalla Corte di cassazione, quali che siano state le determinazioni cui si sia pervenuti nella precedente fase processuale.

Questioni di costituzionalità

È stata ritenuta l'inammissibilità del motivo di ricorso per cassazione che, deducendo una eccezione di illegittimità costituzionale, si limiti ad indicare solo le disposizioni di legge ritenute illegittime e gli articoli della Costituzione che si assumono violati senza esprimere alcun vaglio critico in ordine ai capi del provvedimento impugnato, poiché, a norma dell'art. 581, comma 1, lett. c), i motivi di impugnazione debbono contenere l'indicazione specifica delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta (Cass. V, n. 24054/2016).

 

La specificità del ricorso per cassazione nel c.d. patteggiamento

Nell’ipotesi di impugnazione di una decisione assunta in conformità alla richiesta formulata dalla parte, secondo lo schema procedimentale previsto dagli artt. 444 e seguenti, l’esigenza di specificità del discorso giustificativo della ragione di impugnazione deve ritenersi più pregnante rispetto ad ipotesi di diversa conclusione del giudizio, dato che la censura sul provvedimento che abbia accolto la richiesta dell’impugnante deve impegnarsi a demolire, prima di tutto, proprio quanto richiesto dalla stessa parte; e ciò anche a scongiurare il pericolo di scarsa serietà e correttezza nella gestione del processo (Cass. S.U., n. 11493/1998: in motivazione, la S.C. ha precisato che ad essa non spetta il potere di ricostruire i possibili significati del motivo di ricorso non sufficientemente chiaro, sicché questo, per assolvere utilmente alla sua funzione limitativa dell’ambito dell’impugnazione, deve essere specifico).

Difetto di specificità del ricorso straordinario ex art. 625- bis c.p.p.

Cfr. sub art. 625-bis c.p.p.

Altre applicazioni

È inammissibile, per difetto di specificità del motivo, l'impugnazione (nella specie, il ricorso per cassazione) con cui si deduca la nullità della notifica di un atto in ragione della sua effettuazione a mezzo fax presso il difensore di fiducia e non al domicilio dichiarato dall'imputato, ove il ricorrente non indichi il concreto pregiudizio derivato in ordine alla conoscenza dell'atto stesso e all'esercizio del diritto di difesa (Cass. VI, n. 34558/2012; Cass. VI, n. 24741/2018).

È inammissibile per genericità l'eccezione di incompetenza territoriale, che non contenga l'indicazione del diverso giudice che si prospetta essere competente (Cass. II, n. 12071/2015).

È inammissibile il ricorso con il quale ci si dolga « dell'inutilizzabilità delle dichiarazioni indirette dei collaboratori di giustizia » per violazione dell'art. 192, commi 2 e 3, senza l'indicazione specifica delle ragioni, riferite ai singoli collaboratori esaminati ed ai relativi punti della motivazione della sentenza impugnata, per le quali detto vizio sarebbe sussistente (Cass. II, n. 19712/2015).

La parte che intenda censurare con ricorso per cassazione l'ordinanza del giudice che, all'esito dell'istruttoria, abbia revocato una prova testimoniale già ammessa è tenuta, in ossequio al principio di specificità di cui all'art. 581, comma 1, lett. c), a spiegare il livello di decisività delle prove testimoniali che il giudice ha ritenuto superflue (Cass. VI, n. 15673/2012: fattispecie nella quale la S.C. ha ritenuto inammissibile il motivo con cui la parte si era limitata ad affermare che la testimonianza revocata sarebbe stata « potenzialmente contrastante » con quelle assunte).

E' inammissibile, per difetto di specificità, il ricorso per cassazione avverso la confisca che consegue all'accertamento del reato di lottizzazione abusiva, con il quale venga dedotta la violazione dell'art. 1, primo Prot. addiz. alla Conv. EDU, come interpretato dalla pronuncia della Grande Camera della Corte EDU del 28 giugno 2018, n.1828/06, caso G.I.E.M. S.r.l. c. Italia, senza indicare riferimenti concreti e specifici idonei ad argomentare che il provvedimento non è stato delimitato alle sole aree direttamente interessate dall'attività lottizzatoria e ad essa funzionali (Cass. III, n. 2278/2020).

Segue. Difetto di specificità del ricorso per cassazione e cause di non punibilità ex art. 129 c.p.p.

La giurisprudenza è ormai da oltre venti anni ferma nel ritenere che la mancanza, nell'atto di impugnazione, dei requisiti prescritti dall'art. 581, compreso quello della specificità dei motivi, rende l'atto medesimo inidoneo ad introdurre il nuovo grado di giudizio ed a produrre, quindi, quegli effetti cui si ricollega la possibilità di emettere una pronuncia diversa dalla dichiarazione di inammissibilità: in tali ipotesi si è in presenza, di una causa di inammissibilità originaria del gravame, la quale impedisce di rilevare e dichiarare, ai sensi dell'art. 129 c.p.p., eventuali cause di non punibilità; nel caso in cui, viceversa, l'atto contenga tutti i requisiti di legge, esso è idoneo a produrre l'impulso necessario per originare il giudizio di impugnazione, con la conseguenza che le ulteriori cause di inammissibilità ricollegabili alla manifesta infondatezza dei motivi ovvero all'enunciazione di motivi non consentiti o non dedotti in appello sono da considerare sopravvenute e quindi non ostative all'operatività della disposizione dell'art. 129 cit. (Cass. S.U., n. 21/1995: fattispecie nella quale la S.C., rilevando che gli atti con i quali era stata censurata la sentenza impugnata contenevano tutti i requisiti indicati dall'art. 581, a fronte della richiesta del pubblico ministero di una pronuncia di inammissibilità per manifesta infondatezza dei motivi ha dichiarato l'intervenuta prescrizione del reato; conformi, Cass. S.U., n. 11493/1998, e Cass. S.U., n. 32/2000, per la quale l'inammissibilità del ricorso per cassazione dovuta alla manifesta infondatezza dei motivi — rilevante ex art. 606, comma 3 — non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell'art. 129 c.p.p. — nella specie, si trattava della prescrizione del reato maturata successivamente alla sentenza impugnata con il ricorso; Cass. S.U., n. 23428/2005, per la quale l'inammissibilità del ricorso per cassazione — nella specie, per assoluta genericità delle doglianze — preclude ogni possibilità di far valere — oltre che di rilevare di ufficio —, ai sensi dell'art. 129, l'estinzione del reato per prescrizione, pur maturata in data anteriore alla pronunzia della sentenza di appello, ma non dedotta né rilevata da quel giudice; Cass. S.U., n. 19601/2008, per la quale la questione relativa all'estinzione del reato per prescrizione è esaminabile soltanto in assenza di cause di inammissibilità del ricorso per cassazione).

Successivamente, si è ribadito che « l'inammissibilità del ricorso per cassazione preclude la possibilità di rilevare d'ufficio, ai sensi degli artt. 129 e 609, comma 2, l'estinzione del reato per prescrizione maturata in data anteriore alla pronunzia della sentenza d'appello, ma non eccepita nel grado di merito, né rilevata da quel giudice e neppure dedotta con i motivi di ricorso », e che « è ammissibile il ricorso per cassazione col quale si deduce, anche con un unico motivo, l'intervenuta estinzione del reato per prescrizione maturata prima della sentenza impugnata ed erroneamente non dichiarata dal giudice di merito, integrando tale doglianza un motivo consentito ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b), c.p.p. » (Cass. S.U., n. 12602/2016).

Si è anche precisato che, ai fini del computo della prescrizione del reato, deve essere preso in considerazione esclusivamente il momento della lettura del dispositivo della sentenza di condanna, che rende la decisione non più modificabile in relazione alla pretesa punitiva, e non quello successivo di deposito della motivazione, che contiene soltanto l'esposizione dei motivi in fatto e in diritto sui quali la decisione è fondata (Cass. VII, n. 38143/2014, in fattispecie nella quale la S.C. ha dichiarato inammissibile il ricorso proposto al solo fine di ottenere la declaratoria di estinzione del reato per prescrizione intervenuta tra la lettura del dispositivo e il deposito della motivazione, ma privo di qualsiasi altra doglianza idonea a confrontarsi con le ragioni poste a fondamento del provvedimento impugnato, trattandosi di gravame proposto in violazione del criterio di specificità dei motivi enunciato dall'art. 581, e che esula dai casi in relazione ai quali può essere presentato a norma dell'art. 606; conforme, Cass. I, n. 20432/2015).

Le Sezioni Unite (Cass. S.U., n. 12602/2016) hanno stabilito che l'inammissibilità del ricorso per cassazione preclude la possibilità di rilevare d'ufficio, ai sensi degli artt. 129 e 609, comma 2, c.p.p. l'estinzione del reato per prescrizione maturata in data anteriore alla pronunzia della sentenza d'appello, ma non eccepita nel grado di merito, né rilevata da quel giudice e neppure dedotta con i motivi di ricorso; sarebbe, peraltro, ammissibile il ricorso per cassazione col quale si deduca, anche con un unico motivo, l'intervenuta estinzione del reato per prescrizione maturata prima della sentenza impugnata ed erroneamente non dichiarata dal giudice di merito, integrando tale doglianza un motivo consentito ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b); hanno, infine, chiarito (Cass. S.U., n. 6903/2017) che, in caso di ricorso avverso una sentenza di condanna che riguardi più reati ascritti allo stesso imputato (sentenza oggettivamente cumulativa) l'autonomia dell'azione penale e dei rapporti processuali inerenti ai singoli capi di imputazione impedisce che l'ammissibilità dell'impugnazione per uno dei reati possa determinare l'instaurazione di un valido rapporto processuale anche per i reati in relazione ai quali l'impugnazione sia inammissibile e preclude per detti reati, in relazione ai quali si è formato il giudicato parziale, la possibilità di rilevare la prescrizione maturata dopo la sentenza di appello. A tal proposito, un successivo orientamento ha ritenuto che, nel caso di ricorso avverso sentenza cumulativa che riguardi più reati ascritti allo stesso imputato, la Corte di cassazione deve rilevare la prescrizione del reato maturata dopo la pronuncia della sentenza impugnata, anche in relazione ai capi di imputazione che, sebbene non direttamente investiti da motivi ammissibili di ricorso, siano collegati a questi ultimi da un vincolo di connessione essenziale logico-giuridica (Cass. V, n. 28328/2019 : fattispecie relativa all'impugnazione della condanna pronunciata per falso materiale e falso ideologico in relazione al medesimo atto pubblico, nella quale la S.C., ritenuto ammissibile il motivo di ricorso che censurava il mancato assorbimento del falso ideologico in quello materiale, ne ha fatto discendere la valida instaurazione del rapporto processuale anche in relazione all'imputazione per falso materiale, nonostante il motivo di ricorso specificamente dedicato a questo capo d'imputazione, incentrato sull'assenza dell'elemento soggettivo, dovesse ritenersi inammissibile).

Da ultimo, la giurisprudenza (Cass. II, n. 990/2020) ha ritenuto che la fondatezza della sola censura di omessa valutazione della richiesta di riconoscimento del vincolo della continuazione con reato separatamente giudicato, in ordine al quale sia stata irrogata una pena inferiore a  quella  irrogata e confermata per il reato  per il quale si proceda attualmente,  non assume alcun rilievo in ordine alla declaratoria di estinzione per prescrizione  di quest'ultimo, se il ricorso sia stato dichiarato nel resto inammissibile; inoltre, è inammissibile, per genericità dei motivi, il ricorso per cassazione avverso la sentenza dichiarativa della prescrizione del reato, con cui sia dedotta la sussistenza dei presupposti per l'assoluzione dell'imputato ex art. 129, comma 1, c.p.p. senza prospettare l'evidenza della causa di non punibilità specificamente invocata, in conformità alla previsione dell'art. 129, comma 2, c.p.p. (Cass. III, n. 18069/2022).

 

 

Le impugnazioni in materia cautelare. Rinvio.

In tema di riesame di misure cautelari, non è applicabile la particolare disposizione dell’art. 581, comma 1, lett. c), che impone, a pena di inammissibilità, l’indicazione dei motivi di impugnazione contestualmente alla presentazione del gravame, stante la facoltatività, prevista dall’art. 309, comma 6, della indicazione dei motivi a sostegno e, quindi, dell’inapplicabilità del principio tantum devolutum quantum appellatum (Cass. S.U., n. 16/1994; Cass. VI, n. 41131/2014).

Per l’esame degli ulteriori profili di rilievo, si rinvia al commento degli artt. 309, 310, 311, 322, 322-bis, 324, 325.

Gli oneri introdotti dal d.lgs. n. 150 del 2022 (c.d. “riforma Cartabia”): i nuovi commi 1- ter ed 1- quater

L'art. 33, comma 1, lett. d), d.lgs. n. 150 del 2022 (cd. “riforma Cartabia”), in vigore dal 30/12/2022, aveva introdotto, nell'art. 581, anche un nuovo comma 1-ter ed un nuovo comma 1-quater.

Il comma 1-ter prevedeva che, con l'atto d'impugnazione delle parti private e dei difensori, sia depositata, a pena d'inammissibilità, la dichiarazione o elezione di domicilio, ai fini della notificazione del decreto di citazione a giudizio. Secondo la dottrina, «è chiaro come l'imposizione di tale onere formale abbia lo scopo, certamente condivisibile, di ridurre la probabilità di celebrare giudizi di gravame nei confronti di soggetti non effettivamente a conoscenza della data dell'udienza. Le parti sono, invero, state in tal modo responsabilizzate essendo, evidentemente, chiamate a indicare un indirizzo a loro congeniale, dove ricevere le notificazioni concernenti le regiudicande che le riguardino» (Gialuz 2022). Si è anche osservato che «la nuova disciplina andrà a gravare il difensore di un onere professionale destinato (...) a modificare radicalmente il rapporto tra professionista e assistito, specie nel caso di difesa d'ufficio. La previsione si pone tuttavia in coerente linea con l'esigenza di selezionare, in entrata, le impugnazioni, caducando quelle che non siano espressione di una scelta ponderata e rinnovata, in limine impugnationis, ad opera della parte» (Oggero 2022).

Il comma 1-quater prevedeva che, nel caso di imputato rispetto al quale si è proceduto in assenza, con l'atto d'impugnazione del difensore è depositato, a pena d'inammissibilità, specifico mandato ad impugnare, rilasciato dopo la pronuncia della sentenza e contenente la dichiarazione o l'elezione di domicilio dell'imputato, ai fini della notificazione del decreto di citazione a giudizio.

Alla stessa logica che ispirava il nuovo comma 1-ter si ispirava il nuovo comma 1-quater: «l'intento è quello di far sì che le impugnazioni vengano celebrate solo quando si abbia effettiva contezza della conoscenza della sentenza emessa da parte dell'imputato, volendosi in tal modo evitare la pendenza di regiudicande nei confronti di imputati ignari del processo. Si tratta di un'iniziativa che ha incontrato critiche sia in dottrina, sia nell'avvocatura, fondate sul rilievo per cui la nuova norma, costituendo un serio ostacolo ai poteri della difesa, rischierebbe di aumentare il rischio di errori giudiziari. A stemperare, almeno in parte, tali critiche sta il fatto che il legislatore ha contemplato diverse tutele compensative rispetto alla nuova previsione. Tra queste rientrano, non solo l'ampliamento di quindici giorni del termine per impugnare per l'imputato assente, ma anche l'estensione del rimedio della restituzione in termini per impugnare. Un nuovo comma 2.1 dell'art. 175 c.p.p. provvede, infatti, a stabilire che l'imputato giudicato in assenza sia restituito, a richiesta, nel termine per proporre impugnazione, laddove fornisca la prova di non aver avuto effettiva conoscenza della pendenza del processo e di non aver potuto proporre impugnazione nei termini senza sua colpa» (Gialuz 2022).

    Come brillantemente osservato dalla dottrina, «dalle ricordate modifiche relative alle disposizioni generali sulle impugnazioni sembra emergere un indirizzo chiaro nel senso del superamento del canone tradizionale del favor impugnationis, che merita di essere ripensato: per un verso, esso aveva una matrice in un contesto inquisitorio, nel quale era radicata la convinzione che la reiterazione dei giudizi fosse la via per ottenere una decisione giusta; per altro verso, la mole esorbitante di impugnazioni (...) ha reso improcrastinabile un impiego più razionale delle (scarse) risorse a disposizione dei giudici dei gravami, introducendo degli oneri di serietà a carico di chi attivi il rimedio» (Gialuz 2022).

La giurisprudenza aveva immediatamente ritenuto l'infondatezza della questione di legittimità costituzionale dei commi 1-ter e 1-quater dell'art. 581, sollevata per contrasto con gli artt. 24,27 e 111 Cost., in quanto tali disposizioni, laddove richiedevano che unitamente all'atto di impugnazione fossero depositati, a pena di inammissibilità, la dichiarazione o l'elezione di domicilio e, quando si sia proceduto in assenza dell'imputato, lo specifico mandato ad impugnare rilasciato successivamente alla sentenza, non comportavano alcuna limitazione all'esercizio del potere di impugnazione spettante personalmente all'imputato, ma si limitavano a regolare le modalità di esercizio della concorrente ed accessoria facoltà riconosciuta al suo difensore, sicché essi non collidevano né con il principio della inviolabilità del diritto di difesa, né con la presunzione di non colpevolezza operante fino alla definitività della condanna, né con il diritto ad impugnare le sentenze con il ricorso per cassazione per il vizio di violazione di legge; la scelta legislativa, con specifico riferimento alle disposizioni per gli assenti, era apparsa non manifestamente irragionevole, in quanto volta a limitare le impugnazioni non derivanti da un'opzione ponderata e personale della parte, ed essendo stati comunque previsti i correttivi dell'ampliamento del termine per impugnare e dell'estensione dell'istituto della restituzione nel termine (Cass. IV, n. 43718/2023; Cass. VI, n. 3365/2024); si era precisato che, verificata, attraverso lo specifico mandato ad impugnare, l'effettiva e concreta volontà d'impugnare del soggetto processato in absentia, il comma 1-quater trova la sua ratio, in evidente ed insostituibile funzione di garanzia, nell'esigenza ulteriore di verificare l'effettiva validità della preesistente dichiarazione od elezione di domicilio e la persistente volontà di ricevere ivi la citazione per il giudizio d'impugnazione, ovvero la sopravvenuta volontà di riceverla in un domicilio nuovo, proprio in considerazione del fatto che, nonostante la formale ritualità della citazione effettuata per il giudizio svolto nel grado precedente, egli è rimasto assente (Cass. II, n. 10217/2024).

Segue: Le modifiche introdotte dalla l. n. 114 del 2024 (c.d. “legge Nordio”)

Le legge n. 114 del 2024, intervenendo sull'art. 581, ha:

– abrogato il comma 1-ter della disposizione;

– novellato il comma 1-quater inserendo, dopo le parole “del difensore”, le parole “di ufficio”.

In tal modo, sono state condivisibilmente eliminate le necessità, in precedenza previste addirittura a pena d'inammissibilità dell'impugnazione:

- del deposito di una dichiarazione o elezione di domicilio per l'impugnante non processato in absentia (comma 1-ter);

- del deposito di uno specifico mandato ad impugnare, rilasciato dopo la pronuncia della sentenza e contenente una dichiarazione o elezione di domicilio, per l'impugnante processato in absentia assistito da un difensore di fiducia (comma 1-quater). 

Se si volevano evitare problemi nell'individuazione del domicilio presso il quale citare l'impugnante ed il proliferare di impugnazioni proposte nel presunto interesse di imputati inconsapevoli, e correlativamente di istanze di rescissione del giudicato, appariva evidente l'eccentricità dell'estensione degli oneri di cui ai commi predetti, e della correlativa sanzione d'inammissibilità dell'impugnazione per il caso di loro inosservanza, alle situazioni processuali cui la novella ha escluso l'estensione degli oneri de quibus, poiché, da un lato, nessun problema poteva seriamente porsi nell'individuare il domicilio presso il quale citare l'impugnante correttamente (diremmo meglio “pacificamente”) citato in primo grado od in appello e non giudicato in absentia, e, dall'altro, il proliferare di impugnazioni proposte nel presunto interesse di imputati inconsapevoli e correlativamente di istanze di rescissione del giudicato non era seriamente immaginabile in riferimento ad imputati assistiti da difensori di fiducia, pur se processati in absentia

Segue. Profili di diritto intertemporale

La giurisprudenza (Cass. S.U., n. 13808/2025) ha ritenuto che la disciplina contenuta nell'art. 581, comma 1-ter, abrogata dalla l. 9 agosto 2024, n. 114, in vigore dal 25 agosto 2024, continua ad applicarsi alle impugnazioni proposte sino al 24 agosto 2024.

In difetto di disposizioni transitorie ad hoc, si è, in particolare, ritenuto che le nuove disposizioni di cui alla legge n. 114 del 2024 devono applicarsi in ossequio al principio tempus regit actum; a tal fine, peraltro, superando definitivamente il contrario dictum di Cass. S.U., n. 27614/2007 (per la quale una disciplina sopravvenuta in tema di impugnazioni dovrebbe trovare applicazione solo per le impugnazioni riguardanti sentenze emesse a partire dalla data di vigenza della novella), si è ritenuto che l' “actum” da valorizzare sia quello d'impugnazione, a nulla rilevando che quest'ultima sia proposta contro un provvedimento emanato prima della data di vigenza della novella.

Analogamente, con riferimento alla modifica introdotta dalla l. n. 114 del 2024 riguardante il comma 1-quater, si è ritenuto che il testo anteriore della disposizione si applica, in applicazione del principio "tempus regit actum", alle impugnazioni del difensore di fiducia dell'imputato assente proposte anteriormente al 25/08/2024, data di entrata in vigore della novella (Cass. IV, n. 14453/2025).  

Le nuove disposizioni non si applicano, quindi, alle impugnazioni già proposte (ovvero agli atti di impugnazione già depositati), per le quali, pertanto, le sanzioni d'inammissibilità in precedenza previste dai commi 1-ter ed 1-quater continuano ad operare.

Questo regime (cui non è consentito all'interprete trovare alternative in via d'interpretazione) appare, a nostro avviso, sommamente iniquo, mal comprendendosi la ragione per la quale il legislatore non abbia emanato una disposizione transitoria ad hoc con la previsione della retroattività delle nuove disposizioni, notevolmente favorevoli, comportando l'ammissibilità di impugnazioni prima inammissibili, rispetto alle quali la restrizione all'accesso al giudizio d'impugnazione appare ormai priva di possibili giustificazioni dogmatiche, una volta preso atto della ratio della novella.  Né sembra esperibile, per porre rimedio all'evidenziata anomalia, l'incidente di costituzionalità, atteso che le situazioni in comparazione sono pur sempre diverse, e quindi legittimamente suscettibili, a discrezionalità del legislatore, di essere diversamente disciplinate.

Argomentando in tal modo, e sempre in difetto di disposizioni transitorie ad hoc, le nuove disposizioni in precedenza introdotte dal d.lgs. n. 150/2022 (c.d. “riforma Cartabia”) si applicavano, in ossequio al principio tempus regit actum, con riguardo alle impugnazioni depositate a partire dal 30 dicembre 2022, data di entrata in vigore del d.lgs n. 150/2022, che la ha introdotte, a nulla rilevando che esse siano state proposte contro provvedimenti emanati prima della predetta data.   

Segue. La disciplina comune.

 

L’applicabilità dei commi 1- ter  ed 1- quater  in cassazione

È risultata immediatamente dubbia l'applicabilità dei commi 1-ter ed 1-quater dell'art. 581 al giudizio di legittimità (la questione conserva rilievo per la parte residua del comma 1-quater tuttora vigente), poiché le predette disposizioni evocano (anche a pena d'inammissibilità dell'impugnazione) un adempimento processuale (la notificazione del decreto di citazione a giudizio) formalmente non previsto nel giudizio di legittimità.

Secondo l'orientamento che appariva preferibile (Cass. VI, n. 2323/2024), il deposito della dichiarazione od elezione di domicilio non era dovuto per gli imputati (processati, o meno, in absentia) assistiti da un difensore di fiducia (presso il quale la normativa speciale riguardante il giudizio di legittimità prevede che siano citati), ma soltanto per quelli assistiti da un difensore di ufficio; inoltre, è sempre applicabile in sede di legittimità il disposto dell'art. 581, comma 1-quater, nella parte in cui stabilisce che, con l'atto d'impugnazione degli imputati nei cui confronti si sia proceduto in assenza, va depositato a pena d'inammissibilità lo specifico mandato ad impugnare rilasciato dopo la pronuncia della sentenza che si intende impugnare, stante l'esigenza che anche il giudizio di legittimità si svolga nei confronti di un “assente consapevole”, così da limitare lo spazio di applicazione della rescissione del giudicato e degli altri rimedi restitutori. In tal modo, interpretando il riferimento normativo alla “notificazione del decreto di citazione a giudizio” in senso atecnico, ovvero come evocante ogni tipologia di citazione a giudizio, comunque destinata ad essere eseguita, è stata convincentemente superata l'obiezione di quanti ritenevano sempre e comunque non dovuto in sede di legittimità il deposito di una dichiarazione od elezione di domicilio (non essendo in Cassazione prevista la notificazione di un decreto di citazione all'imputato: Cass. II, n. 40824/2023)  

A seguito della novella di cui alla l. n. 114/2024, che ha riferito gli oneri di cui al comma 1-quater ai soli imputati difesi di ufficio, va ribadita, per le ragioni appena indicate, la compatibilità della disposizione al giudizio di Cassazione.

Dalla ritenuta applicabilità degli oneri formali stabiliti - a pena di inammissibilità - dai commi 1-ter e 1-quater dell'art. 581 al giudizio di legittimità, deriva la possibilità, ove ne ricorrano le condizioni, di dichiarare l'inammissibilità del ricorso senza formalità, ovvero "de plano", ai sensi dell'art. 610, comma 5-bis, c.p.p. (Cass. II, n. 4800/2024 e Cass. VI, n. 6264/2024), in particolare perché, con riguardo alla residua disposizione di cui al comma 1-quater, l'impugnazione risulterebbe proposta da difensore non legittimato:Cass. II, n. 4800/2024 ha già chiarito, infatti, che il contrasto tra la disposizione che prevede l'anzidetta procedura non partecipata anche per i ricorsi proposti da soggetto non legittimato e quella, egualmente contenuta nell'art. 610, che la esclude in caso di inosservanza delle previsioni di cui all'art. 581, deve essere risolto accordando la prevalenza alla prima, potendosi ritenere che il riferimento a tale articolo, nella sua interezza, sia rimasto invariato per un evidente difetto di coordinamento.

L’applicabilità dei commi 1- ter  ed 1- quater  in cassazione

Le disposizioni di cui all'art. 581, commi 1-ter (ora abrogato) e 1-quater (ora novellato) non sono applicabili all'opposizione a decreto penale di condanna, in quanto l'art. 461, comma 1, c.p.p. richiama esclusivamente le modalità di presentazione dell'atto di impugnazione previste dall'art. 582 c.p.p. e non anche la forma dell'impugnazione e i requisiti di ammissibilità previsti dall'art. 581 (Cass. V, n. 4613/2024).

L’applicabilità dei commi 1- ter  ed 1- quater  in cassazione

La previsione di cui all'art. 581, comma 1-ter (ora abrogato) non trova applicazione alle impugnazioni della parte civile, del responsabile civile e del soggetto civilmente obbligato per la pena pecuniaria: l'adempimento in questione risulterebbe inutile ed eccessivamente formalistico, in ragione dello statuto processuale di tali parti, rinvenibile negli artt. 100, commi 1 e 5, e 154, comma 4, c.p.p. (Cass. V, n. 6993/2024).

A maggior ragione, alle impugnazioni delle predette parti private diverse dall'imputato non si applica la previsione di cui all'art. 581, comma 1-quater (come novellato), non operando rispetto ad esse la disciplina del procedimento in absentia.

 

Segue. Il comma 1- ter (ora abrogato)

Come anticipato (§§ 19 s.), il comma 1-ter, introdotto dal d.lgs. n. 150/2022 (c.d. “riforma Cartabia”), è stato abrogato dalla l. n. 114/2024 (c.d. “legge Nordio”) con efficacia dal 25 agosto 2024.

  L’applicabilità del comma 1- ter   alle impugnazioni dei detenuti

La giurisprudenza aveva evidenziato (prima dell’abrogazione della disposizione) che l’art. 581, comma 1-ter, non opera nel caso in cui l’imputato impugnante sia detenuto all’interno di un istituto penitenziario (argomenta ex art. 156, comma 3, c.p.p.), posto che tale adempimento risulterebbe privo di effetti in ragione della vigenza dell’obbligo di procedere alla notificazione a mani proprie dell’imputato detenuto e comporterebbe la violazione del diritto all’accesso effettivo alla giustizia sancito dall’art. 6 Conv. Edu (Cass. II, n. 33355/2023Cass. II, n. 38442/2023). Il contrario orientamento (Cass. IV, n. 41858/2023) trascura quanto disposto dal novellato art. 157-ter, comma 3, c.p.p., riguardante le notificazioni degli atti introduttivi dei giudizi agli imputati non detenuti: se la disposizione di cui all’art. 581-comma 1-ter, avesse, rispetto al sistema generale delle notificazioni delineato dagli artt. 156 e seguenti c.p.p., natura di lex specialis universalmente applicabile, la disposizione di cui all’art. 157-ter, comma 3, sarebbe inutile, ovvero priva di portata precettiva, il che all’interprete non è consentito ritenere; d’altro canto, l’interprete deve necessariamente prendere atto del fatto che la disposizione di cui all’art. 157-ter, comma 3, non è stata riproposta anche in riferimento alle notificazioni all’imputato detenuto, poiché l’art. 156 c.p.p. non è stato oggetto di analoga novellazione, e ciò già di per sé induce a ritenere che, in caso di impugnazione proposta dall’imputato detenuto o nel suo interesse, la notificazione dell’atto di citazione a giudizio nei suoi confronti non va eseguita presso il domicilio dichiarato o eletto, ai sensi dell’art. 581, commi 1-ter e 1-quater.

Il principio valeva anche in favore di coloro che sono detenuti all’interno di un istituto penitenziario per altra causa (Cass. IV, n. 4342/2024; Cass. VI, n. 15666/2024 e n. 21940/2024; superato e non condivisibile era il contrario orientamento espresso da Cass. V, n. 4606/2024), sempre che lo stato detentivo per altra causa sia stato portato a conoscenza o sia conoscibile ex actis dal giudice dell’impugnazione (Cass. II, n. 24902/2024).

Diversamente, la causa di inammissibilità prevista dall'art. 581, comma 1-ter, operava anche nei confronti dell'appellante sottoposto, a qualsiasi titolo, a detenzione in luogo diverso dagli istituti penitenziari (Cass. II, n. 44829/2024).

Agli effetti della disciplina in esame, è stato ritenuto equiparabile al soggetto detenuto all’interno di un istituto penitenziario:

- l’imputato minorenne sottoposto alla misura (avente natura detentiva) del collocamento in comunità (Cass. VI, n. 15278/2025);

- l’imputato internato in REMS (Cass. VI, n. 13097/2025).

Al contrario, non sono stati ritenuti tali:

- l’imputato sottoposto alla misura cautelare degli arresti domiciliari (Cass. IV, n. 14895/2024, con la precisazione che se l’impugnante detenuto all’interno di un istituto penitenziario deposita, con l’atto di impugnazione, la – non necessaria - dichiarazione od elezione di domicilio, quest’ultima conserva efficacia nel caso in cui, prima della notificazione della citazione per il giudizio di impugnazione, l’impugnante abbia riacquistato la libertà);

- l’imputato sottoposto a misura coercitiva non custodiale (Cass. VI, n. 30716/2024: fattispecie nella quale l’impugnante era sottoposto all’obbligo di presentazione alla P.G.);

- il soggetto ristretto per altra causa in detenzione domiciliare, poiché tale misura alternativa alla detenzione presuppone l’avvenuta scarcerazione del condannato e trova esecuzione fuori dagli istituti penitenziari (Cass. II, n. 27386/2024; contra Cass. V, n. 36036/2024);

- il soggetto ristretto per altra causa alla misura alternativa dell’affidamento in prova ai servizi sociali (Cass. VI, n. 3301/2024).

La disciplina

Secondo la giurisprudenza formatasi nella vigenza del comma 1-ter (ora abrogato), la dichiarazione o elezione di domicilio che andava depositata, a pena di inammissibilità, unitamente al gravame delle parti private e dei difensori, doveva essere personalmente sottoscritta dall'imputato al fine di consentire l'inequivoca individuazione del luogo della notifica (Cass. VI, n. 21930/2024; fattispecie nella quale è stato  ritenuto insufficiente il generico richiamo del luogo di domiciliazione nell'atto di appello, perché non recante la firma dell'imputato).

Il deposito dell'elezione di domicilio avvenuto unitamente alla proposizione dell'appello, trasmesso a mezzo PEC dal difensore, rende tale elezione parte integrante dell'atto di gravame, sicché l'autenticazione della firma apposta dall'imputato deve intendersi implicitamente contenuta nella sottoscrizione digitale dell'appello da parte del difensore (Cass. IV, n. 29185/2024); è stata ritenuta legittima l'elezione di domicilio effettuata dall'imputato, in uno con l'atto di appello, presso il proprio difensore, indicando l'indirizzo di posta elettronica certificata di quest'ultimo come luogo dove ricevere la notificazione degli atti, sicché la notifica del decreto di citazione per il giudizio di appello avvenuta presso un indirizzo PEC diverso da quello indicato, risultando inidonea a consentire la conoscenza dell'atto al destinatario, è affetta da una nullità assoluta (Cass. V, n. 17235/2025).

Non viola il disposto dell'art. 581, comma 1-ter, l'indicazione, pur se con l'uso di formule non sacramentali, del domicilio di fatto nel corpo della procura ad impugnare, sottoscritta dal ricorrente (nella specie genitore esercente la potestà su imputato minorenne), autenticata dal difensore e depositata contestualmente all'atto di appello, posto che tale atto costituisce espressione della volontà di ricevere le notificazioni o le comunicazioni presso tale domicilio ed è riferibile, senza incertezze, al soggetto interessato (Cass. II, n. 40795/2024).

L'onere di depositare con l'atto di appello la dichiarazione o l'elezione di domicilio in funzione della notificazione del decreto di citazione a giudizio, previsto a pena d'inammissibilità del gravame dall'art. 581, comma 1-ter, trova applicazione anche nel procedimento di prevenzione in virtù del rinvio ad esso operato dal combinato disposto degli artt. 10, comma 4, d.lgs. n. 159/2011, e 680, comma 3, c.p.p., dovendo ritenersi la compatibilità della disposizione generale richiamata con il procedimento di prevenzione, per la comune esigenza di particolare celerità nella definizione dei giudizi di impugnazione; ad opposta soluzione è necessario addivenire in relazione al disposto dell'art. 581, comma 1-quater, dovendosi ritenere la predetta disposizione, dettata per i soli processi celebrati "in absentia", incompatibile con il procedimento di prevenzione (Cass. II, n. 26519/2024; contra, Cass. VI, n. 11726/2024, che peraltro non considera i chiari riferimenti normativi valorizzati dal contrario orientamento).

L'impugnazione sprovvista della dichiarazione o elezione di domicilio è e resta inammissibile anche nel caso in cui, in pendenza del termine per impugnare, sia depositato un ulteriore atto di appello cui sia allegata la dichiarazione o elezione di domicilio, risolvendosi quest'ultimo nella mera ripetizione di quello originario, finalizzata, attraverso l'indicata allegazione, ad eludere la ratio del disposto di cui all'art. 581, comma 1-ter  (Cass. IV, n. 28659/2024): l'orientamento, certamente condivisibile per i casi nei quali l'atto mancante fosse stato depositato dopo la scadenza del termine per proporre impugnazione, destava notevoli perplessità per il caso inverso nel quale l'integrazione fosse stata  depositata nei termini, ma la questione, a seguito dell'abrogazione del comma 1-ter, è ormai priva di rilievo.

Una isolata ma acuta decisione (Cass. V, n. 21005/2024) ha osservato che la causa di inammissibilità di cui all'art. 581, comma 1-ter, non rilevata dal giudice prima della celebrazione del giudizio, non può essere dallo stesso dichiarata in esito ad essa, nel caso in cui la notifica del relativo decreto di citazione sia stata effettuata con successo personalmente all'imputato.

L’applicabilità dei commi 1- ter  ed 1- quater  in cassazione

Era sorto, in giurisprudenza, un aspro contrasto in ordine alla seguente questione: « Se la previsione, a pena di inammissibilità, del deposito, insieme con l'atto di impugnazione delle parti private e dei difensori, della dichiarazione o elezione di domicilio, ai fini della notificazione del decreto di citazione a giudizio (art. 581,comma 1-ter), debba essere, o meno, interpretata nel senso che, ai fini indicati, sia sufficiente la sola presenza in atti della dichiarazione o elezione di domicilio, benché non richiamata nell'atto di impugnazione od allegata al medesimo» . Un nutrito orientamento sosteneva, infatti, la tesi negativa, ritenendo, in particolare, che, che, alla luce della nuova formulazione dell'art. 164 c.p.p., la dichiarazione o elezione di domicilio effettuata nel precedente grado di giudizio non avrebbe più valenza nei gradi successivi, sicché l'interessato sarebbe stato tenuto a depositare, con l'impugnazione, una nuova dichiarazione o elezione di domicilio, eventualmente confermando quella in precedenza resa (Cass. II, n. 19547/2024; Cass. IV, n. 3118/2024; Cass. VI, n. 7020/2024); e ciò nonostante il fatto che il nuovo art. 164 c.p.p. espressamente stabilisca, in senso contrario, che la dichiarazione o elezione di domicilio operata in primo grado è valida anche “per l'atto di citazione a giudizio di cui all'art. 601 c.p.p.”, ovvero proprio per la citazione in appello.

Le Sezioni Unite hanno deciso che l'onere del deposito dell'elezione o della dichiarazione di domicilio, previsto, a pena di inammissibilità dell'atto d'impugnazione, dall'art. 581, comma 1-ter, poteva essere assolto anche con il richiamo espresso e specifico, in esso contenuto, a una precedente dichiarazione o elezione di domicilio e alla sua collocazione nel fascicolo processuale, tale da consentire l'immediata e inequivoca indicazione del luogo in cui eseguire la notificazione (Cass. S.U., n. 13808/2024). E' stato, quindi, accolto l'orientamento espresso per prime da Cass. II, n. 16480/2024 e Cass. II, n. 8014/2024, per le quali, in particolare:

- nel caso di imputato non processato "in absentia", la dichiarazione o l'elezione di domicilio richieste dal comma 1-ter potevano essere effettuate anche nel corso del procedimento di primo grado, e non necessariamente in un momento successivo alla pronuncia della sentenza impugnata, a condizione che fossero depositate unitamente all'atto di appello, atteso che la contraria interpretazione ostacolerebbe indebitamente l'accesso al giudizio di impugnazione, in violazione dei diritti costituzionalmente e convenzionalmente garantiti;

- non viola il disposto del comma 1-ter la puntuale allegazione difensiva, nell'intestazione dell'atto di appello, della ricorrenza dell'elezione di domicilio, già effettuata dall'appellante presso il difensore di fiducia nel corso dell'udienza di convalida dell'arresto e richiamata dal patrocinatore in adempimento del dovere di leale collaborazione tra le parti, al fine della citazione nel giudizio di secondo grado: ciò era imposto da una lettura costituzionalmente orientata della disciplina in esame, funzionale ad assicurare che non fosse irragionevolmente limitato "il diritto di accesso" al giudizio di impugnazione, come affermato, peraltro, dalla Corte EDU, 28 ottobre 2021, Succi e altri c. Italia, in sede di valutazione della compatibilità delle restrizioni normative col diritto di accesso al giudice, previsto dall'art. 6 Conv. EDU.

Anche questa questione, a seguito dell'abrogazione del comma 1-ter, è ormai priva di rilievo.

Segue. Il comma 1- quater (come novellato)

Come anticipato (§§ 19 s.) l'art. 581, comma 1-quater, nel testo attualmente vigente, prevede che il solo difensore di ufficio (non anche quello di fiducia) dell'imputato processato nel grado precedente in absentia, deve depositare, a pena di inammissibilità, unitamente all'attto di impugnazione, uno specifico mandato ad impugnare contenente la dichiarazione o elezione di domicilio.

Le questione riguardanti la disciplina di cui al comma 1-quater conservano rilevanza anche a seguito delle modifiche introdotte dalla l. n. 114/2024 (c.d. “legge Nordio”), in riferimento alle sole impugnazioni proposte da imputati giudicati nel grado di precedente in absentia, ed assistiti da difensore di ufficio.

 

L’applicabilità o meno alle impugnazioni di ordinanze

Si è discusso in giurisprudenza sull'applicabilità della disposizione di cui all'art. 581, comma 1-quater (ora novellato) alle impugnazioni di provvedimenti aventi forma di ordinanza:

- un orientamento ritiene convincentemente che la predetta disposizione operi anche con riguardo alle impugnazioni di provvedimenti aventi forma di ordinanza, come nel caso delle ordinanze che dichiarino, a loro volta, inammissibili de plano gli appelli (Cass. I, n. 28912/2024: l'art. 581, comma 1-quater, si applica anche nel caso in cui il difensore di ufficio dell'imputato giudicato in assenza ricorra per cassazione avverso l'ordinanza di inammissibilità dell'appello pronunciata "de plano" per la mancata allegazione allo stesso della dichiarazione o elezione di domicilio dell'imputato, essendo irrilevante che la predetta disposizione faccia esclusivo riferimento all'impugnazione delle sentenze, in quanto l'ordinanza in questione, emessa ai sensi dell'art. 591, comma 2, c.p.p., riveste, al pari delle sentenze, carattere definitorio del giudizio di cognizione);

- altro orientamento ritiene che essa non sia applicabile al giudizio di cassazione, nel caso in cui formi oggetto del gravame l'ordinanza dichiarativa dell'assenza dell'imputato (Cass. I, n. 9426/2024, con la precisazione che gli oneri di allegazione previsti, a pena d'inammissibilità, dalla norma non operano per l'impugnazione avverso le ordinanze, pur se impugnate unitamente alla sentenza, ex art. 586 c.p.p.; Cass. II, n.25419/2024).

Il contrasto (attualmente rilevante con riguardo alla residua disciplina del comma 1-quater) permane.

La disciplina

La giurisprudenza ha chiarito che la causa di inammissibilità prevista dall'art. 581, comma 1-quater, sia nel testo originario, sia nella versione vigente a decorrere dal 25 agosto 2024, data di entrata in vigore dell'art. 2, comma 1, lett. o), l. 9 agosto 2024, n. 114, opera con esclusivo riferimento alle impugnazioni proposte, nell'interesse dell'imputato giudicato in assenza, dal solo difensoreex art. 571, comma 3, c.p.p., e non anche alle impugnazioni (in particolare, gli appelli, non essendo consentito ricorrere per cassazione personalmente: cfr. art. 613 c.p.p.) proposte dall'imputato personalmente o a mezzo di procura speciale ai sensi dell'art. 571, comma 1, c.p.p., a prescindere del fatto che quest'ultimo fosse presente o assente nel giudizio in cui è stata emessa la sentenza impugnata (Cass. IV, n. 13168/2025). Si è chiarito che agli appelli avverso sentenze emesse in esito a giudizio abbreviato non trova applicazione il disposto di cui all'art. 581, comma 1-quater, nel caso in cui la definizione con rito alternativo sia stata richiesta dal difensore munito di procura speciale, posto che, in tale eventualità, non sussistono dubbi sulla conoscenza del procedimento da parte dell'imputato, dovendo lo stesso ritenersi presente ex art. 420, comma 2-ter, c.p.p., e risultando, pertanto, irrilevante che l'imputato, in primo grado, fosse stato erroneamente indicato come assente (Cass. II, n. 13714/2024).

Secondo un orientamento , gli oneri formali previsti a pena di inammissibilità dall'art. 581, comma 1-quater, si applicano anche al ricorso per cassazione che contesti la legittimità dell'ordinanza dichiarativa dell'assenza dell'imputato (Cass. I, n. 1937/2025); altro orientamento ritiene, al contrario, che il disposto di cui all'art. 581, comma 1-quater, non sia applicabile al giudizio di cassazione, nel caso in cui formi oggetto del gravame l'ordinanza dichiarativa dell'assenza dell'imputato (Cass. I, n. 9426/2024 e Cass. V, n. 30589/2024). Il primo orientamento appare preferibile, poiché lo status di assente ha natura formale e quindi, pur se ingiustamente attribuito all'imputato, risulta necessariamente vincolante quanto alle modalità di presentazione delle impugnazioni.

Lo specifico mandato a impugnare deve essere successivo alla sentenza e depositato contestualmente all'impugnazione in quanto deve costituire espressione espressione della necessaria e consapevole volontà dell'imputato all'impugnazione (Cass. V, n. 1177/2024; Cass. II, n. 20318/2024, con la precisazione l'allegazione – successiva rispetto al deposito dell'impugnazione – dello specifico mandato ad impugnare determina l'inammissibilità del gravame anche nel caso in cui il termine per impugnare non sia ancora decorso); anche la dichiarazione o elezione di domicilio di cui al comma 1-quaterdeve essere successiva alla sentenzadepositata contestualmente all'atto di impugnazione, trattandosi di manifestazione indefettibile della consapevole volontà di impugnare, sicchè la sua successiva allegazione, pur se in data antecedente all'inizio del giudizio di impugnazione, determina l'inammissibilità del gravame (Cass. II, n. 27774/2024e n. 24299/2024).

La disposizione di cui al comma 1-quater si applica anche all'imputato assente che sia stato dichiarato latitante e venga assistito da un difensore d'ufficio, non essendo configurabile alcuna compressione del diritto di difesa, poiché il latitante non è giuridicamente impossibilitato a mantenere contatti con il proprio difensore al fine di concordare le strategie difensive (Cass. I, n. 25935/2024 e Cass. VI, n. 45842/2024).

Sarebbe inammissibile l'appello depositato in via telematica dal difensore di imputato giudicato in assenza, qualora la copia informatica dello specifico mandato ad impugnare, previsto dall'art. 581, comma 1-quater, sia priva della autenticazione del difensore effettuata con firma digitale ovvero altra firma elettronica qualificata (Cass. I, n. 45541/2024).

Secondo la giurisprudenza, la nomina del difensore di fiducia contenuta nella richiesta di ammissione al patrocinio a spese dello Stato depositata contestualmente all'impugnazione non è equipollente allo specifico mandato richiesto per l'impugnazione dell'assente a pena di inammissibilità dall'art. 581, comma 1-quater, poiché la mera nomina non conferisce al difensore la legittimazione a impugnare (Cass. I, n. 15865/2024).

Con riguardo alla previgente formulazione del comma 1-quater, si è ritenuto che il mandato speciale ad impugnare, conferito ad uno solo dei due precedenti difensori di fiducia, non può essere interpretato come revoca implicita dell'altro difensore di fiducia in precedenza nominato (Cass. V, n. 12613/2025).

Gli oneri di cui all'art. 581, comma 1-quater, non trovano applicazione nel procedimento di prevenzione, dovendosi ritenere la predetta disposizione, dettata per i soli processi celebrati "in absentia", incompatibile con il procedimento di prevenzione (Cass. II, n. 26519/2024 e Cass. VI, n. 11726/2024).

L'accoglimento del ricorso per cassazione, proposto avverso la decisione con la quale i giudici d'appello hanno dichiarato l'inammissibilità del gravame per difetto di specifico mandato a impugnare del difensore, estende i suoi effetti anche nei confronti del coimputato non impugnante, il cui ricorso in appello sia stato dichiarato inammissibile per la medesima ragione, trattandosi di motivo non esclusivamente personale (Cass. V, n. 46037/2024).

Bibliografia

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