Codice Penale art. 13 - Estradizione.

Alessandro Trinci

Estradizione.

[I]. L'estradizione è regolata dalla legge penale italiana [697-722 c.p.p.], dalle convenzioni e dagli usi internazionali [696 c.p.p.] (1).

[II]. L'estradizione non è ammessa, se il fatto che forma oggetto della domanda di estradizione, non è preveduto come reato dalla legge italiana e dalla legge straniera.

[III]. L'estradizione può essere conceduta od offerta, anche per reati non preveduti nelle convenzioni internazionali, purché queste non ne facciano espresso divieto.

[IV]. Non è ammessa l'estradizione del cittadino, salvo che sia espressamente consentita nelle convenzioni internazionali [26 1 Cost.].

(1) V., in particolare, la Convenzione europea di estradizione firmata a Parigi il 13 dicembre 1957 e resa esecutiva in Italia con l. 30 gennaio 1963, n. 300. V., inoltre, per i singoli Stati sottoindicati, i provvedimenti che rendono esecutive le convenzioni con ciascuno di essi stipulate: Argentina, 19 febbraio 1992, n. 219; Australia, l. 15 ottobre 1975, n. 655 e 2 gennaio 1989, n. 12; Austria, l. 9 giugno 1977, n. 628; Belgio, l. 5 agosto 1981, n. 500; Bolivia, l. 17 marzo 1901, n. 95; Brasile, l. 23 aprile 1991, n. 144; Bulgaria, l. 12 aprile 1995, 127; Canada, l. 22 aprile 1985, n. 158; Cecoslovacchia, l. 19 novembre 1924, n. 1559; Costarica, r.d. 23 aprile 1875, n. 2452; Cuba, l. 20 marzo 1930, n. 521 e r.d. 16 aprile 1934, n. 805; Francia, r.d. 30 giugno 1870, n. 5726 e r.d. 20 agosto 1873, n. 1550; Germania federale, r.d. 14 dicembre 1871, n. 574 e l. 11 dicembre 1984, n. 969; Gran Bretagna-Irlanda del Nord, l. 2 gennaio 1989, n. 11; Jugoslavia, r.d. 13 dicembre 1923, n. 3182; Libano, l. 12 febbraio 1974, n. 87; Marocco, l. 12 dicembre 1973, n. 1043; Messico, r.d. 8 giugno 1874, n. 939 e r.d. 31 ottobre 1899, n. 420; Panama, l. 17 aprile 1931, n. 517; Paraguay, r.d. 11 maggio 1911, n. 501; Polonia, l. 7 giugno 1993, n. 193; Portogallo, r.d. 9 luglio 1878, n. 4454; Romania, l. 20 febbraio 1975, n. 127; Santa Sede, l. 25 luglio 1929, n. 810; Spagna, l. 9 giugno 1977, n. 605; Stati Uniti, l. 9 ottobre 1974, n. 632 e l. 26 maggio 1984, n. 224; Tunisia, l. 28 gennaio 1871, n. 267; Ungheria, l. 23 luglio 1980, n. 511; Uruguay, r.d. 14 agosto 1881, n. 391; Venezuela, l. 17 aprile 1931, n. 517.

Inquadramento

La norma in esame disciplina l'estradizione, richiamando la legge penale italiana, le convenzioni e gli usi internazionali.

Gli atti pattizi prevalgono sulle norme interne, che hanno funzione residuale.

Principi fondamentali in tema di estradizione sono quelli della doppia incriminabilità e di specialità, mentre principi secondari sono quelli di sussidiarietà, ne bis in idem e reciprocità.

L'estradizione è vietata per i reati politici, per il cittadino, per i reati puniti con la pena di morte e in caso di pericolo di discriminazioni o persecuzioni a danno dell'estradando.

Nell'ambito dell'Unione europea la procedura di estradizione è stata ormai superata dal mandato di arresto europeo (l. 22 aprile 2005, n. 69), che introduce una procedura di consegna più snella di quella prevista nelle convenzioni internazionali in tema di estradizione.

Aspetti generali

L'estradizione è la forma più antica di assistenza giudiziaria fra Stati che ha lo scopo di evitare che l'applicazione della legge penale nazionale sia impedita dall'assenza del reo sul territorio nazionale.

Essa consiste nella consegna di un soggetto ad un altro Stato affinché vi sia processato (estradizione processuale) oppure affinché vi sconti una pena già inflittagli (estradizione esecutiva).

Essa può essere attiva, se è lo Stato italiano a richiedere la consegna di un soggetto, oppure passiva, se allo Stato italiano è richiesto di consegnare un soggetto.

Il codice cita anche l'estradizione passiva offerta, sia agli artt. 9 e 10 c.p. (ove l'estradizione offerta ma non accettata è condizione di procedibilità per il delitto commesso all'estero dal cittadino o dallo straniero in danno di uno Stato estero o di un cittadino straniero) che all'art. 13, comma 3, c.p.

Il nuovo codice di rito, diversamente dall'abrogato (art. 661 c.p.p. 1930), non prevede esplicitamente in capo al Ministro della giustizia il potere di offrire ad uno Stato estero l'estradizione di un soggetto, cosicché l'offerta di estradizione si concreta nel « dichiarare la disponibilità ministeriale all'estradizione, ferme restando le competenze dell'autorità giudiziaria e, quindi, nella sollecitazione implicita rivolta allo Stato estero perché la richieda » (Vinciguerra, Diritto, 420).

Va detto che la giurisprudenza ritiene che l'istituto dell'"offerta di estradizione" da parte del Governo italiano sia caduto in desuetudine, in quanto contrastante con i moderni principi in materia e privo di riscontri normativi nel codice di rito (Cass. V, n. 37800/2023).

Il codice di rito (art. 711) prevede anche la riestradizione, che si verifica quando lo Stato, al quale la persona è stata consegnata, domanda il consenso allo Stato estradante per consegnare la medesima persona ad un altro Stato.

Lo scopo di consentire la celebrazione del processo o l'esecuzione della sanzione distingue l'estradizione da ogni altra forma di allontanamento dal territorio dello Stato, in particolare dall'espulsione, che nel nostro ordinamento può assumere la veste di misura di sicurezza, di misura di polizia, di pena sostitutiva e di misura alternativa alla detenzione.

Quanto ai rapporti fra estradizione ed espulsione, la giurisprudenza ritiene che l'espulsione verso l'Italia da parte di un altro Stato non ponga limiti all'esercizio dell'azione penale in Italia, né rende applicabili i principi valevoli in materia di estradizione, non essendo ciò previsto né da norme internazionali generalmente riconosciute, né da altre norme recepite nel nostro ordinamento, per il quale unico dato rilevante è il disinteresse dello Stato straniero per la sorte dell'espulso, in quanto l'espulsione tronca ogni rapporto di ospitalità o di residenza con lo Stato espellente, che così dimostra di non avere più ragione di proteggere l'espulso (Cass.IV, n. 29628/2016).

Di contrario avviso una parte della dottrina, secondo la quale l'espulsione non potrebbe funzionare come una estradizione mascherata, vanificandone così la disciplina. Secondo questa linea esegetica, la disciplina dell'espulsione dovrebbe essere coordinata con quella dell'estradizione, cosicché non sarebbe possibile esercitare l'azione penale nei confronti dell'espulso verso l'Italia in relazione a reati per i quali l'estradizione non poteva essere concessa (Vinciguerra, Diritto, 422).

Le fonti

Il primo comma dell'art. 13 c.p.p. indica nella legge penale italiana, nelle convenzioni e negli usi internazionali le fonti che regolano l'estradizione.

Per quanto riguarda l'ordine gerarchico, l'art. 696 c.p.p. prevede che l'estradizione sia regolata dalle norme delle convenzioni internazionali in vigore nello Stato italiano e dalle norme di diritto internazionale generale. In mancanza di queste si applicano le norme di diritto interno, che pertanto hanno una funzione sussidiaria (Marinucci-Dolcini, Corso, 327; Mantovani, PG, 918).

Soggiace alla disciplina prevista dal diritto interno la c.d. estradizione extraconvenzionale, cioè l'estradizione che viene concessa allo Stato estero con il quale non esiste alcun trattato di estradizione, ovvero con il quale il trattato esiste ma non prevede l'estradizione per il reato commesso (Marinucci-Dolcini, Corso, 327). L'estradizione in esame non può riguardare il cittadino, perché gli artt. 13 c.p. e 26 Cost. ammettono la consegna del cittadino solo se espressamente prevista da uno strumento pattizio.

Mentre gli usi internazionali hanno scarsa rilevanza nella disciplina dell'estradizione, le convenzioni internazionali hanno un rilievo primario e fra queste assume particolare importanza la Convenzione europea di estradizione, stipulata a Parigi il 13 dicembre 1957 (ratificata dall'Italia con l. 30 gennaio 1963, n. 300) ed i relativi Protocolli addizionali di Strasburgo del 15 ottobre 1975 (non ratificato dall'Italia) e del 17 marzo 1978 (ratifica autorizzata con l. 18 ottobre 1984, n. 755), che costituiscono gli strumenti di più frequente applicazione in ragione del numero elevato di Stati aderenti.

Si noti che alla suddetta Convenzione non aderisce la Francia, con la quale l'Italia ha sottoscritto, il 12 maggio 1870, una Convenzione di estradizione italo-francese, resa esecutiva nel nostro paese con r.d. 30 giugno 1870, n. 5726 (dichiarato illegittimo dalla Consulta nella parte in cui consentiva l'estradizione per reati puniti con la pena di morte: Corte cost., n. 54/1979).

La doppia incriminabilità

Al fine di garantire l'estradando in merito alla compatibilità dell'ordinamento dello Stato richiedente con quello dello Stato di rifugio, il fatto per cui viene domandata l'estradizione deve essere considerato reato anche dallo Stato al quale l'estradizione è richiesta (art. 13, comma 2, c.p.; art. 2,  1 e 2, Convenzione europea estradizione).

La doppia incriminabilità non postula l'esatta corrispondenza della configurazione normativa e del trattamento della fattispecie, ma solo la applicabilità della sanzione penale, in entrambi gli ordinamenti, ai fatti per cui si procede (Cass. VI, n. 42777/2014).

È quindi irrilevante che il fatto sia diversamente qualificato e punito nei due ordinamenti, purché sia previsto come reato da entrambi (Vinciguerra, Diritto, 453; Cass. VI, n. 26718/2019).

L'eventuale difformità del trattamento sanzionatorio previsto nello Stato richiedente può rientrare tra le condizioni ostative all'estradizione solo nell'ipotesi in cui il trattamento sia del tutto irragionevole e manifestamente in contrasto con il principio di proporzionalità della pena (Cass. VI, n. 16507/2018).

Si ritiene che la doppia incriminabilità debba sussistere sia al momento della condotta che al momento della consegna (Vinciguerra, Diritto, 456).

La giurisprudenza, invece, ritiene sufficiente che al momento della decisione sulla domanda l'ordinamento italiano contempli come reato il fatto per il quale la consegna è richiesta, non essendo necessaria la rilevanza penale del medesimo anche alla data della sua commissione (Cass. VI, n. 14941/2018).

Occorre rilevare che, ai fini dell'estradizione da o verso gli Stati Uniti d'America, l'art. II, par. 2, del Trattato bilaterale del 13 ottobre 1983, ratificato dall'Italia con l. 26 maggio 1984, n. 225, consente l'estradizione per i reati associativi previsti dalle rispettive legislazioni nazionali (associazione per delinquere nell'ordinamento italiano e conspiracy in quello statunitense) indipendentemente dal requisito della previsione bilaterale del fatto, purché tale ultima condizione sia soddisfatta per i reati che costituiscono il fine dell'associazione criminosa (Cass. VI, n. 15018/2013; Cass. VI, n. 3079/2017 ha precisato che il delitto associativo configurato nella legislazione statunitense trova riscontro nel delitto di associazione per delinquere previsto da quella italiana, atteso che le due fattispecie di reato presentano elementi fondamentali comuni, con la sola differenza che la norma straniera è maggiormente restrittiva, richiedendo per la sua applicazione l'avvenuta consumazione dei reati fine).

È, altresì, irrilevante ai fini della doppia incriminabilità il difetto di una condizione di procedibilità, perché si tratta di un elemento che incide solo sulla possibilità di celebrare il procedimento penale (Cass. VI, n. 40169/2010; Mantovani, in Diritto, 920). In merito alla condizione di procedibilità, l'art. 62, comma 3 della Convenzione del 19 giugno 1990, attuativa dell'Accordo di Schengen del 14 giugno 1985, ratificata dall'Italia con l. 30 settembre 1993, n. 388, prevede che lo Stato richiesto non possa opporre la mancanza della condizione di procedibilità prevista nel proprio ordinamento, qualora analoga condizione non sia prevista nella legislazione dello Stato richiedente.

Il principio di doppia incriminazione non comporta che il fatto, oltre che previsto come reato dalla legge italiana e dalla legge straniera, risulti punibile in concreto in entrambi gli Stati, perché l'art. 13, comma 2, c.p. impone soltanto la garanzia del controllo di compatibilità dei due ordinamenti statali e non accorda rilevanza alle eventuali cause di estinzione del reato così come della pena, e quindi alla prescrizione del reato nello Stato richiesto, salvo contrarie disposizioni delle convenzioni internazionali (Cass. V, n. 24423/2006; Cass. VI, n. 7975/2020, che ha ritenuto irrilevante, ai fini dell’estradizione per l'estero, l'astratta applicabilità della causa di non punibilità prevista dall'art. 648-ter.1, comma 3, per il delitto di auto-riciclaggio).

Contra S. Vinciguerra, Diritto, 424, secondo il quale la doppia incriminabilità non sussiste se dalla domanda di estradizione emergono elementi che rendono il fatto in concreto non punibile, come, per esempio, una scriminante, una causa di esclusione della pena, una causa di estinzione del reato, o la mancanza di una condizione di punibilità; con riferimento alla prescrizione del reato o della pena, si veda Pisa, 110).

Sul punto va, tuttavia, rilevato che la Convenzione europea esclude che vi sia l'obbligo di dar luogo all'estradizione se il reato, in base alla legge dello Stato richiedente o richiesto, è prescritto, o se è prescritta la pena (art. 10) ovvero se è amnistiato (art. 4 del II Protocollo addizionale). Per quanto riguarda l'amnistia, però, occorre rilevare che l'art. 62, comma 2 della Convenzione del 19 giugno 1990 esclude che l'amnistia pronunciata dalla parte contraente richiesta ostacoli l'estradizione, salvo che il reato rientri nella giurisdizione della parte contraente stessa.

Nei rapporti di estradizione regolati dalla Convenzione europea di estradizione ovvero da convenzioni bilaterali che ne mutuino gli stessi principi generali, l'avvenuta prescrizione del reato secondo la legge dello Stato richiesto, quale causa ostativa all'accoglimento della richiesta di estradizione, deve essere valutata applicando la legge vigente alla data di commissione del fatto, per effetto del principio tempus regit actum, riferibile alla procedura estradizionale anche perché la stessa si inscrive in un contesto decisorio di esclusiva rilevanza processuale, avulsa da analisi del merito sostanziale dei fatti ascritti all'estradando (Cass. VI, n. 11495/2013). L'avvenuta prescrizione del reato deve essere accertata in virtù della clausola del trattamento di miglior favore nei confronti dell'imputato tra le legislazioni nazionali a confronto, contenuta nell'art. 10 della Convenzione (Cass. VI, n. 20150/2015).

La Convenzione europea prevede che l'estradizione processuale possa essere concessa solo per reati puniti con una pena restrittiva della libertà personale o con una misura di sicurezza non inferiori nel massimo ad un anno, mentre quella esecutiva solo per reati per cui è stata irrogata una pena restrittiva della libertà personale od una misura di sicurezza di almeno quattro mesi (art. 2, & 1). Tale limitazione non opera in caso di domanda cumulativa, che contempla più fatti, alcuni soltanto dei quali soddisfano le condizioni relative all'ammontare della pena, perché in tal caso « la parte richiesta avrà egualmente la facoltà di accordare l'estradizione per questi ultimi » (art. 2, § 2).

Il principio di specialità

Con la finalità di garantire l'estradato, il principio di specialità o specificità — previsto dalla Convenzione europea (art. 14) e dal codice di rito (art. 699, per l'estradizione passiva e art. 721, per l'estradizione attiva) — vieta di sottoporlo a limitazioni della libertà personale per fatti anteriori e diversi da quelli per i quali l'estradizione è stata concesso.

Infatti, si intende così evitare che lo Stato richiedente, ottenuta la disponibilità del reo in relazione ad una ipotesi di reato, lo trattenga anche per fatti diversi ed anteriormente commessi, così violando gli accordi presi con lo Stato di rifugio.

La diversità del fatto attiene alla sua dimensione storica, mentre non contrasta con la garanzia offerta dal principio di specialità la diversa qualificazione giuridica del medesimo fatto storico rispetto a quella contenuta nel provvedimento di estradizione operata dal giudice procedente

Il vincolo della specialità può essere superato quando:

a) lo Stato richiedente abbia domandato ed ottenuto la c.d. estradizione suppletiva (art. 710 c.p.p.), ossia l'estensione dell'estradizione per perseguire altri reati anteriormente commessi;

b) lo Stato estradante rinuncia ad esso (art. 721 c.p.p.; art. 14, § 1, lett. a) della Convenzione europea di estradizione);

c) l'estradato si è volontariamente trattenuto nel territorio dello Stato per più di quarantacinque giorni dal momento in cui ha riacquistato definitivamente la libertà personale per cessazione dell'esecuzione della pena o per proscioglimento;

d) l'estradato ha fatto volontario ritorno nel territorio dello Stato dopo essersi allontanato;

e) l'estradato, fuggito nuovamente all'estero, venga arrestato in altro Stato e riconsegnato sulla base di una nuova e diversa procedura estradizionale (Cass. I, n. 32356/2004).

Dato che il codice di rito consente di superare il vincolo imposto dalla specialità a seguito di comportamenti concludenti dell'estradato (dai quali desume una rinuncia implicita a valersi della clausola di specialità), si ritiene che quest'ultimo possa anche manifestare esplicitamente la volontà di farsi processare per fatti diversi da quelli per cui fu chiesta l'estradizione e che tale volontà possa essere manifestata anche in un momento anteriore alla decorrenza dei quarantacinque giorni (Marinucci- Dolcini, Corso, 333; Mantovani, PG, 921).

Anche la giurisprudenza si è orientata in tal senso, statuendo che la rinuncia alla garanzia del principio di specialità espressa nel giudizio di cognizione dalla persona estradata, sia nel territorio dello Stato di rifugio sia davanti all'Autorità giudiziaria dello Stato richiedente, rende definitivamente inoperante il principio stesso (Cass. S.U., n. 11971/2007). La Suprema Corte ha anche specificato che il consenso della persona a derogare il principio di specialità deve essere formulato in modo espresso, formale ed inequivoco e non può essere dedotto in via interpretativa da manifestazioni di volontà tendenti ad altri fini, ovvero dirette a conseguire effetti favorevoli di altra natura che, in quanto tali, non sono idonei a rivelare tale intenzione (Cass. I, n. 8580/2014).

Un'altra deroga al principio di specialità è prevista dall'art. 14, § 2 della Convenzione europea di estradizione, secondo il quale « la Parte richiedente potrà prendere le misure necessarie in vista sia di un eventuale allontanamento dal territorio, sia di una interruzione della prescrizione in conformità con la propria legislazione, ivi compreso il ricorso al procedimento contumaciale ».

Va, infine, osservato che il principio di specialità opera anche nella fase esecutiva, in relazione ai fatti già giudicati. Quindi, qualora a seguito di estradizione concessa dallo Stato estero il soggetto estradato sia stato giudicato e condannato in Italia, detta condanna non può comportare la revoca di benefici (come, ad esempio, sospensione condizionale della pena e indulto) a suo tempo concessi in relazione a condanne inflitte per reati per i quali l'estradizione non sia stata concessa (Cass. V, n. 16129/2002).

I principi di sussidiarietà, ne bis in idem e reciprocità

Il principio di sussidiarietà, contenuto in numerose convenzioni (come, ad esempio, l'art. 7 della Convenzione europea di estradizione) e nel codice di rito (art. 705), consente allo Stato di rifiutare l'estradizione quando sia competente a giudicare il fatto per il quale è stata domandata la consegna. A seconda delle varianti, ciò che ostacola la consegna può essere la possibilità di iniziare un procedimento penale oppure l'esistenza di un procedimento in corso.

Per il ne bis in idem internazionale, che impedisce la consegna della persona già condannata per lo stesso fatto nello Stato richiesto, si veda sub art. 11.

Il principio di reciprocità subordina l'estradizione alla circostanza che il reato per cui è richiesta sia espressamente previsto nella convenzione intervenuta fra lo Stato richiesto e quello richiedente. Si tratta di un principio che non è stato accolto dal nostro ordinamento, come si ricava dall'art. 13, comma 3.

Il divieto di estradizione per i reati politici

Il divieto di estradizione per i reati politici è previsto nelle principali convenzioni internazionali e trova riconoscimento sia nella Carta costituzionale(artt. 10 e 26 Cost. , rispettivamente per lo straniero e per il cittadino) che nel codice di rito (art. 698, comma 1, c.p.p.).

Esso trova giustificazione nella intrinseca relatività e mutevolezza delle concezioni politico-ideologiche dei singoli Stati che rendono necessario svincolare l'estradizione da fattispecie di matrice ideologica ovvero politicamente influenzate od influenzabili (Quadri, 38).

La dottrina suggerisce da tempo di attribuire a tale nozione di reato politico una portata più ampia di quella riconosciuta all'art. 8  (al cui commento si rinvia), in modo da proteggere l'estradando dalle applicazioni concrete della norma penale quando queste siano prevedibilmente influenzate da fattori ideologici o persecutori (Mantovani, PG, 924; Fiandaca-Musco, PG, 138).

Anche la giurisprudenza ritiene che la nozione di reato politico a fini estradizionali non debba trovare fondamento nell'art. 8, nel quale il reato politico è definito in funzione repressiva, bensì nelle norme costituzionali, che lo assumono in una più ampia funzione di garanzia della persona umana, finalizzata a limitare il diritto punitivo dello Stato straniero (Cass. VI, n. 31123/2003).

A tal fine (divieto di estradizione) si è ritenuto che il reato vada considerato politico anche quando, indipendentemente dal bene giuridico offeso dalla condotta illecita, vi sia fondata ragione di ritenere che, proprio per la «politicità» della condotta illecita, l'estradando possa essere sottoposto nello stato straniero richiedente ad un processo non equo o all'esecuzione di una pena discriminatoria, ovvero, ispirata da iniziative persecutorie per ragioni politiche che ledono diritti fondamentali dell'individuo quali il diritto al rispetto del principio di uguaglianza, il diritto ad un equo processo ed il divieto di trattamenti disumani o degradanti verso i detenuti (Cass. VI, n. 5089/2014).

Sul piano internazionale, la Convenzione europea di estradizione considera politico qualunque reato connesso con un reato politico (art. 3, § 1), mentre la Convenzione europea per la repressione del terrorismo, firmata a Strasburgo il 27 gennaio 1977 e ratifica dall'Italia con la l. 26 novembre 1985, n. 719, esclude dal novero dei reati oggettivamente o soggettivamente politici alcuni gravi reati (reati di pirateria aerea; contro la sicurezza dell'aviazione civile; di attentato alla vita, alla integrità fisica o alla libertà di persone internazionalmente protette; che comportano rapimento, cattura di ostaggio o sequestro arbitrario; dei reati che importano il ricorso ad armi ove il loro uso rappresenti un pericolo per le persone; del tentativo di questi reati o partecipazione ad essi od al tentativo) (art. 1).

Data l'ampiezza di tale esclusione, l'Italia — in virtù di quanto consentito dall'art. 13 della stessa Convenzione — vi ha apposto una riserva in ragione della quale essa può rifiutare l'estradizione chiesta per un reato di terrorismo quando lo ritenga politico, connesso con un reato politico o ispirato da motivi politici. L'estradizione può comunque essere concessa qualora il reato sia considerato particolarmente grave in quanto: a) abbia creato un pericolo collettivo per la vita, l'integrità fisica o la libertà delle persone; b) abbia colpito persone estranee ai motivi che l'hanno ispirato; c) siano stati impiegati mezzi perfidi o crudeli.

Va detto che la finalità di persecuzione politica può essere dissimulata da una richiesta di consegna per un reato comune. In tal caso, ad avviso della giurisprudenza, grava sull'estradando, nei rapporti che si svolgono su base convenzionale, l'onere di allegare gli elementi da cui evincere che tale richiesta preluda alla violazione di uno dei diritti fondamentali della persona, ove gli atti acquisiti non consentano di ritenere che si sia in presenza di una estradizione "mascherata" (Cass. III, n. 10656/2022). 

Il divieto di estradizione per il pericolo di discriminazioni o persecuzioni

L'art. 698, comma 1, c.p.p. vieta l'estradizione quando vi è ragione di ritenere che l'imputato o il condannato verrà sottoposto ad atti persecutori o discriminatori per motivi di razza, di religione, di sesso, di nazionalità, di lingua, di opinioni politiche o di condizioni personali o sociali ovvero a pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti o comunque ad atti che configurano violazione di uno dei diritti fondamentali della persona.

La disposizione in esame amplia e ricalca la norma di cui all'art. 3, comma 2, della Convenzione europea di estradizione e costituisce applicazione del più generale principio di salvaguardia del diritto fondamentale dell'individuo alla libertà ed alla sicurezza contro qualsiasi forma di discriminazione, che potrebbe essere attuata con lo strumento della domanda di estradizione da parte dello Stato estero.

L'atto persecutorio e discriminatorio è quello che, in quanto mascherato sotto forma di domanda di estradizione per perseguire un determinato reato, costituisce lo scopo dissimulato che lo stesso Stato richiedente mira a realizzare per motivi di razza, di religione, di sesso, di nazionalità, di lingua, di opinioni politiche o di condizioni personali o sociali, laddove dallo status del soggetto, connesso ad una o più delle suddette posizioni, dipendano, nell'ordinamento interno del suddetto Stato richiedente, situazioni di oggettivo pregiudizio reale o potenziale. L'atto persecutorio ostativo alla estradizione passiva, invece, non è quello che all'estradando potrebbe derivare, una volta che lo stesso fosse consegnato allo Stato richiedente, da atti di ritorsione o di vendetta, in suo danno compiuti dal soggetto offeso dal reato a titolo puramente personale, giacché una siffatta condotta lo Stato estero non solo non può fare propria, ma è tenuto a prevenire, evitare e punire, secondo i principi dell'ordinamento giuridico interno ed internazionale (Cass. VI, n. n. 39709/2002).

Il divieto di estradizione per i reati puniti con la pena di morte

Poiché la Costituzione vieta la pena di morte (art. 27, comma 4, Cost.), l'estradizione non può essere concessa dallo Stato italiano se per il fatto per il quale è stata domandata la legge dello Stato richiedente prevede la pena capitale (art. 698, comma 2, c.p.p.).

Tuttavia, il codice di rito consentiva di derogare al suddetto divieto qualora lo Stato richiedente avesse offerto sufficienti garanzie che la pena di morte non sarebbe stata inflitta o, se già inflitta, non sarebbe stata eseguita.

La Corte costituzionale, nel dichiarare illegittimo il capoverso dell'art. 698 c.p.p., ha osservato che nel nostro ordinamento il divieto della pena di morte impone una garanzia assoluta e tale assolutezza « viene infirmata dalla presenza di una norma che demanda a valutazioni discrezionali, caso per caso, il giudizio sul grado di affidabilità e di effettività delle garanzie accordate dal Paese richiedente » (Corte cost. n. 223/1996).

Pertanto, l'Autorità giudiziaria italiana, prima di pronunciarsi su una richiesta di estradizione, dovrà compiere tutti gli accertamenti necessari per verificare ex ante se il fatto per il quale la richiesta è avanzata è punito con la pena di morte secondo la legge dello Stato richiedente. Allo scopo, l'Autorità giudiziaria italiana dovrà prescindere dal nomen iuris indicato nella richiesta d'estradizione, dovendo procedere ad un'autonoma qualificazione del fatto.

La giurisprudenza ha chiarito che non sussiste il divieto di consegna di cui agli artt. 698 e 705, comma 2, c.p.p., ove il fatto per il quale l'estradando sia chiamato a rispondere venga sanzionato nella legislazione dello Stato richiedente con le pene dei lavori pubblici e dei lavori correzionali, se per la loro natura, ovvero per i contenuti e le modalità di scelta ed esecuzione, sia possibile escluderne la riconducibilità alla nozione dei lavori forzati di cui all'art. 4 Cedu, o comunque alle pene ed ai trattamenti richiamati dall'art. 698, comma 1, c.p.p. (Cass. VI, n. 28714/2012).

Il divieto di estradizione del cittadino italiano

La Costituzione (art. 26, comma 1) e il codice penale (art. 13, comma 4) vietano l'estradizione del cittadino italiano, mentre nulla vieta all'Italia di chiedere l'estradizione del proprio cittadino ad uno Stato estero (Vinciguerra, Diritto, 437).

Le suddette norme ammettono l'estradizione del cittadino solo quando è espressamente prevista dalle convenzioni internazionali e nei casi in cui esse la consentono. La giurisprudenza ha chiarito che l'art 26 Cost., che ha inteso limitare l'estradabilità del cittadino con una precisa garanzia formale, rappresentata dalla presenza di specifiche convenzioni con gli stati richiedenti, esclude la possibilità di fare richiamo a consuetudini o ad accordi internazionali non consacrati in convenzioni aventi per esplicito oggetto l'estradizione dei giudicabili o dei condannati, ma non comporta che nell'applicazione delle convenzioni esistenti debbano essere seguiti criteri interpretativi diversi a seconda che si tratti di cittadini o di stranieri. Pertanto, deve ritenersi legittima l'estradizione del cittadino anche per reati non preveduti pattiziamente negli accordi internazionali, purché non formino oggetto di speciali divieti (Cass. I, n. 1151/1974).

Per evitare acquisti o perdite “strumentali” della cittadinanza, si ritiene che la qualifica di cittadino italiano debba sussistere sia al momento della condotta che al momento della consegna, in conformità al principio tempus regit actum (Vinciguerra, Diritto, 438; ritiene, invece, rilevante il momento della domanda o quello della consegna, Mantovani, Diritto, 924).

La Convenzione europea di estradizione si riferisce al momento della decisione sulla domanda dello Stato richiedente, ma ammette il rifiuto di estradizione se la qualità di cittadino è riconosciuta fra la decisione e la consegna (art. 6, § 1, lett. c).

Anche ai fini dell'estradizione l'apolide residente nel territorio italiano è equiparato al cittadino, a condizione che la sua permanenza nel territorio dello stato non si riduca ad un soggiorno occasionale o temporaneo, ma si concreti nell'abitualità della residenza, la quale si fonda su di un duplice elemento: l'uno di fatto, consistente nel fissare la propria sede in un determinato luogo, l'altro intenzionale e subiettivo, consistente nel proposito di fissarla con una certa stabilità (Cass. II, n. 3229/1967).

In dottrina: Vinciguerra, Diritto, 438; contraMantovani, PG, 924).

La doppia cittadinanza non fa venir meno, ovviamente, la protezione accordata alla cittadinanza italiana (Vinciguerra, Diritto, 468).

Il mandato di arresto europeo

La l. 22 aprile 2005, n. 69 ha dato attuazione nell'ordinamento italiano alla Decisione quadro 2002/584/Gaidel Consiglio dell'Unione europea, relativa al mandato di arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri.

Il mandato di arresto europeo si inserisce nel quadro delle misure adottate per realizzare gli obiettivi del Trattato sull'Unione europea in ordine alla cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale. Esso consente, infatti, la consegna di un soggetto ad un altro Stato membro affinché vi sia processato o vi sconti la pena o la misura di sicurezza personale già inflittagli mediante una procedura più snella di quella prevista nelle convenzioni internazionali in tema di estradizione.

Infatti, con la suddetta Decisione quadro, i rapporti di cooperazione giudiziaria relativi alla consegna di persone, nell'ambito dei Paesi aderenti all'Unione europea, sono stati sottratti ai Governi, a cui compete la rappresentanza degli Stati nei rapporti internazionali, e attribuiti alla gestione diretta delle Autorità giudiziarie nazionali, le quali non devono più veicolare i propri atti per il tramite dell'Autorità politica.

La disciplina del mandato di arresto europeo sostituisce quella contenuta nelle convenzioni internazionali in tema di estradizione sottoscritte dagli Stati membri, in particolare la Convenzione europea di estradizione. Tali convenzioni continueranno, tuttavia, ad essere applicate nei rapporti fra gli Stati membri e gli Stati non appartenenti all'Unione europea, ovvero anche nei rapporti fra gli Stati membri quando esse consentono di approfondire o di andare oltre gli obiettivi della decisione quadro e contribuiscono a semplificare o ad agevolare ulteriormente la consegna del ricercato (Lanciotti, 810).

Anche per la consegna mediante mandato di arresto europeo occorre, di regola, il requisito della doppia punibilità (art. 7 l. n. 69/2005), per la cui sussistenza è necessario che l'ordinamento italiano contempli come reato il fatto per il quale la consegna è richiesta al momento della decisione sulla domanda dello Stato di emissione (Cass. VI, n. 5749/2016).

Tuttavia, per un lungo elenco di reati (art. 8 l. n. 69/2005) il principio di doppia incriminazione è stato superato. Va detto che il legislatore italiano ha cercato di specificare le vaghe definizioni contenute nella decisione quadro (art. 2), col rischio però di dare luogo a problemi di conformità alla normativa europea.

Analoghi problemi di conformità potrebbero derivare dall'art. 8, comma 3, l. n. 69/2005, il quale prevede che la consegna del cittadino italiano venga negata quando il fatto non è previsto come reato dalla legislazione italiana e risulta che egli ignorava non colposamente la norma penale dello Stato membro in forza della quale è stato emesso il mandato d'arresto.

Altro requisito non previsto dalla decisione quadro sono i “gravi indizi di colpevolezza”, alla cui sussistenza l'art. 17, comma 4, l. n. 69/2005 subordina la consegna della persona ricercata, in modo da imporre al giudice italiano un minimo vaglio della consistenza degli indizi sui quali è fondata la richiesta dello Stato membro.

Si è, infatti, ritenuto in giurisprudenza che la sussistenza dei gravi indizi cui è subordinata la consegna della persona ricercata richieda che il mandato sia fondato su un compendio indiziario ritenuto dall'autorità giudiziaria emittente seriamente evocativo di un fatto reato commesso dalla persona di cui si chiede la consegna. Pertanto, non è necessario che il mandato di arresto contenga una elaborazione dei dati fattuali che pervenga alla conclusione della gravità indiziaria, ma è necessario e sufficiente che le fonti di prova relative all'attività criminosa ed al coinvolgimento della persona richiesta — emergenti dal contenuto intrinseco del mandato o, comunque, dall'attività supplementare inviata dall'autorità emittente — siano astrattamente idonee a fondare la gravità indiziaria sia pure con la sola indicazione delle evidenze fattuali a suo carico mentre la valutazione in concreto delle stesse è riservata all'autorità giudiziaria del paese emittente (Cass. VI, n. 44911/2013).

L'art. 18 l. n. 69/2005 prevede che la Corte d'Appello rifiuti la consegna se:

a) vi sono motivi oggettivi per ritenere che il mandato d'arresto europeo è stato emesso al fine di perseguire penalmente o di punire una persona a causa del suo sesso, della sua razza, della sua religione, della sua origine etnica, della sua nazionalità, della sua lingua, delle sue opinioni politiche o delle sue tendenze sessuali oppure che la posizione di tale persona possa risultare pregiudicata per uno di tali motivi;

b) il diritto è stato leso con il consenso di chi, secondo la legge italiana, può validamente disporne;

c) per la legge italiana il fatto costituisce esercizio di un diritto, adempimento di un dovere, ovvero è stato determinato da caso fortuito o forza maggiore;

d) il fatto è manifestazione della libertà di associazione, della libertà di stampa o di altri mezzi di comunicazione;

e) la legislazione dello Stato membro di emissione non prevede i limiti massimi della carcerazione preventiva. Si ritiene che non ricorra questo motivo di rifiuto non soltanto se il sistema dello Stato richiedente prevede un termine di durata della custodia cautelare, ma anche se prevede soltanto degli specifici meccanismi processuali che comportino, secondo cadenze cronologicamente prefissate, un controllo sulla necessità della custodia cautelare (Cass.S.U., n. 4614/2007);

f) il mandato d'arresto europeo ha per oggetto un reato politico, fatte salve le esclusioni previste dall'art. 11 della Convenzione internazionale per la repressione degli attentati terroristici mediante utilizzo di esplosivo, adottata dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York il 15 dicembre 1997, resa esecutiva dalla l. 14 febbraio 2003, n. 34; dall'art. 1 della Convenzione europea per la repressione del terrorismo, fatta a Strasburgo il 27 gennaio 1977, resa esecutiva dalla l. 26 novembre 1985, n. 719; dall'articolo unico della l. cost. 21 giugno 1967, n. 1;

g) dagli atti risulta che la sentenza irrevocabile, oggetto del mandato d'arresto europeo, non sia la conseguenza di un processo equo condotto nel rispetto dei diritti minimi dell'accusato previsti dall'art. 6 della Cedu, firmata a Roma il 4 novembre 1950, resa esecutiva dalla l. 4 agosto 1955, n. 848, e dall'art. 2 del Protocollo n. 7 a detta Convenzione, adottato a Strasburgo il 22 novembre 1984, reso esecutivo dalla l. 9 aprile 1990, n. 98, statuente il diritto ad un doppio grado di giurisdizione in materia penale;

h) sussiste un serio pericolo che la persona ricercata venga sottoposta alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti;

i) la persona oggetto del mandato d'arresto europeo era minore di anni 14 al momento della commissione del reato, ovvero se la persona oggetto del mandato d'arresto europeo era minore di anni 18 quando il reato per cui si procede è punito con una pena inferiore nel massimo a nove anni, o quando la restrizione della libertà personale risulta incompatibile con i processi educativi in atto, o quando l'ordinamento dello Stato membro di emissione non prevede differenze di trattamento carcerario tra il minore di anni 18 e il soggetto maggiorenne o quando, effettuati i necessari accertamenti, il soggetto risulti comunque non imputabile o, infine, quando nell'ordinamento dello Stato membro di emissione non è previsto l'accertamento della effettiva capacità di intendere e di volere;

l) il reato contestato nel mandato d'arresto europeo è estinto per amnistia ai sensi della legge italiana, ove vi sia la giurisdizione dello Stato italiano sul fatto;

m) risulta che la persona ricercata è stata giudicata con sentenza irrevocabile per gli stessi fatti da uno degli Stati membri dell'Unione europea purché, in caso di condanna, la pena sia stata già eseguita, ovvero sia in corso di esecuzione, ovvero non possa più essere eseguita in forza delle leggi dello Stato membro che ha emesso la condanna;

n) i fatti per i quali il mandato d'arresto europeo è stato emesso potevano essere giudicati in Italia e si sia già verificata la prescrizione del reato o della pena. Il motivo di rifiuto in esame non è configurabile con riferimento al cittadino italiano che ha commesso un delitto comune all'estero, perché la previsione della punibilità del fatto secondo la legge italiana, di cui all'art. 9, e la conseguente possibilità di celebrare il giudizio in Italia, trovano un limite, quando è stato emesso «l'ordine di consegna europeo», nella disciplina fissata dall'art. 19, comma 1, lett. c), l. n. 69/2005, che ammette nei confronti del cittadino italiano l'esercizio della potestà punitiva da parte dello Stato membro di emissione (Cass. VI, n. 39777/2014);

o) per lo stesso fatto che è alla base del mandato d'arresto europeo, nei confronti della persona ricercata, è in corso un procedimento penale in Italia, esclusa l'ipotesi in cui il mandato d'arresto europeo concerne l'esecuzione di una sentenza definitiva di condanna emessa in uno Stato membro dell'Unione europea;

p) il mandato d'arresto europeo riguarda reati che dalla legge italiana sono considerati reati commessi in tutto o in parte nel suo territorio, o in luogo assimilato al suo territorio; ovvero reati che sono stati commessi al di fuori del territorio dello Stato membro di emissione, se la legge italiana non consente l'azione penale per gli stessi reati commessi al di fuori del suo territorio. Il divieto di consegna in esame sussiste quando una parte della condotta, anche minima e consistente in frammenti privi dei requisiti di idoneità e inequivocità richiesti per il tentativo, purché preordinata al raggiungimento dell'obiettivo criminoso, si sia verificata in territorio italiano (Cass. VI, n. 13455/2014). Esso presuppone, inoltre, che la giurisdizione italiana in ordine al locus commissi delicti risulti con certezza, non potendosi ritenere sufficiente la mera ipotesi che il reato sia stato commesso in tutto od in parte nel territorio dello Stato (Cass. VI, n. 27825/2015). La sussistenza del motivo di rifiuto deve essere valutata alla luce dell'art. 31, comma 2, della decisione quadro 2002/584/Gai del 13 giugno 2002, il quale fa salvi eventuali accordi o intese bilaterali o multilaterali, vigenti al momento della sua adozione e volti a semplificare o agevolare ulteriormente la consegna della persona richiesta (Cass. VI, n. 42536/2014, relativa ad un mandato di arresto europeo processuale emesso dall'autorità tedesca per una pluralità di reati, alcuni dei quali commessi in parte in Italia, in cui la Suprema Corte ha ritenuto applicabile l'art. II dell'Accordo bilaterale italo-tedesco del 24 ottobre 1979, ratificato con l. 11 dicembre 1984, n. 969, con il quale le parti avevano limitato l'incidenza del motivo di rifiuto di cui all'art. 7 della Convenzione europea di estradizione del 1957, nell'ipotesi in cui la domanda di consegna avesse riguardato anche reati non soggetti alla giurisdizione dello Stato di rifugio, e fosse risultato opportuno far giudicare tutti i reati nello Stato richiedente);

q) è stata pronunciata, in Italia, sentenza di non luogo a procedere, salvo che sussistano i presupposti di cui all'art. 434 c.p.p. per la revoca della sentenza;

r) il mandato d'arresto europeo è stato emesso ai fini della esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza privative della libertà personale, qualora la persona ricercata sia cittadino italiano, sempre che la Corte d'Appello disponga che tale pena o misura di sicurezza sia eseguita in Italia conformemente al suo diritto interno. La Corte costituzionale ha dichiarato illegittima questa ipotesi nella parte in cui non prevede il rifiuto di consegna anche del cittadino di un altro Paese membro dell'Unione europea, che legittimamente ed effettivamente abbia residenza o dimora nel territorio italiano, ai fini dell'esecuzione della pena detentiva in Italia conformemente al diritto interno (c. Cost., n. 228/2010). Nel caso di successive richieste di consegna per l'estero a fini esecutivi, la Corte d'Appello che debba opporre il rifiuto in esame, disponendo l'esecuzione della pena in Italia, già in occasione della delibazione circa i presupposti per il riconoscimento della seconda decisione straniera può verificare l'eventuale sussistenza del vincolo della continuazione tra i reati oggetto di tale richiesta e quelli oggetto del primo mandato di arresto europeo (Cass. VI, n. 24889/2015);

s) la persona richiesta in consegna è una donna incinta o madre di prole di età inferiore a tre anni con lei convivente, salvo che, trattandosi di mandato d'arresto europeo emesso nel corso di un procedimento, le esigenze cautelari poste a base del provvedimento restrittivo dell'autorità giudiziaria emittente risultino di eccezionale gravità;

t) il provvedimento cautelare in base al quale il mandato d'arresto europeo è stato emesso risulta mancante di motivazione. Il requisito della motivazione non può essere parametrato alla nozione ricavabile dalla tradizione giuridica italiana, che richiede l'esposizione logico-argomentativa del significato e delle implicazioni del materiale probatorio, ma è sufficiente che l'autorità giudiziaria emittente abbia dato «ragione» del provvedimento adottato; il che può realizzarsi anche attraverso la puntuale allegazione delle evidenze fattuali a carico della persona di cui si chiede la consegna (Cass.S.U., n. 4614/2007);

u) la persona richiesta in consegna beneficia per la legge italiana di immunità che limitano l'esercizio o il proseguimento dell'azione penale;

v) la sentenza per la cui esecuzione è stata domandata la consegna contiene disposizioni contrarie ai principi fondamentali dell'ordinamento giuridico italiano.

Va, infine, rilevato che nell'attuazione del mandato di arresto europeo gli Stati sono tenuti a rispettare l'art. 4 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea che vieta i trattamenti disumani o degradanti.

La Corte giustizia UE ha affermato che, prima di consegnare una persona in esecuzione di un mandato d'arresto europeo, lo Stato d'esecuzione deve accertare in concreto che le condizioni di detenzione nello Stato emittente siano conformi alla suddetta previsione pattizia, così come interpretata dalla giurisprudenza di Strasburgo.

Se sussiste un rischio concreto di trattamento inumano o degradante a causa delle condizioni di detenzione dell'interessato nello Stato membro richiedente, l'esecuzione del mandato di arresto europeo deve essere rinviata. Se l'esistenza di tale rischio non può essere esclusa entro un termine ragionevole, l'autorità incaricata di eseguire il mandato deve decidere se occorre porre fine alla procedura di consegna (Corte giust. UE, Gr. Cam., 5 aprile 2016, Aranyosi e Căldăraru, cause riunite C-404/15 e C-659/15).

Bibliografia

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