Codice Penale art. 81 - Concorso formale. Reato continuato (1).Concorso formale. Reato continuato (1). [I]. È punito con la pena che dovrebbe infliggersi per la violazione più grave aumentata sino al triplo chi con una sola azione od omissione viola diverse disposizioni di legge ovvero commette più violazioni della medesima disposizione di legge [589 3, 590 4; 533 2, 671 1 c.p.p.; 137, 186-188 att. c.p.p.]. [II]. Alla stessa pena soggiace chi con più azioni od omissioni, esecutive di un medesimo disegno criminoso, commette anche in tempi diversi più violazioni della stessa o di diverse disposizioni di legge [278, 533 2, 671 1 c.p.p.; 137, 186-188 att. c.p.p.]. [III]. Nei casi preveduti da quest'articolo, la pena non può essere superiore a quella che sarebbe applicabile a norma degli articoli precedenti [671 2 c.p.p.]. [IV]. Fermi restando i limiti indicati al terzo comma, se i reati in concorso formale o in continuazione con quello più grave sono commessi da soggetti ai quali sia stata applicata la recidiva prevista dall'articolo 99, quarto comma, l'aumento della quantità di pena non può essere comunque inferiore ad un terzo della pena stabilita per il reato più grave (2). (1) Articolo così sostituito dall'art. 8 d.l. 11 aprile 1974, n. 99, conv., con modif., nella l. 7 giugno 1974, n. 220. Il testo originario recitava: «Più violazioni di una o di diverse disposizioni di legge con una o più azioni. Reato continuato. [I] Chi, con una sola azione od omissione, viola diverse disposizioni di legge o commette più violazioni della medesima disposizione di legge è punito a norma degli articoli precedenti. [II] Le disposizioni degli articoli precedenti non si applicano a chi, con più azioni od omissioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, commette, anche in tempi diversi, più violazioni della stessa disposizione di legge, anche se di diversa gravità. [III] In tal caso le diverse violazioni si considerano come un solo reato e si applica la pena che dovrebbe infliggersi per la più grave delle violazioni commesse, aumentata fino al triplo». (2) Comma aggiunto dall'art. 5 1 l. 5 dicembre 2005, n. 251. InquadramentoL'articolo in commento prevede e regolamenta due fondamentali istituti del codice penale: a) il concorso formale fra reati; b) il reato continuato. La ragione per cui, sotto il profilo sistematico, entrambi i suddetti istituti si trovano inseriti nel capo III destinato alla regolamentazione del “concorso di reati”, va rinvenuta nella circostanza che si tratta, in sostanza, di due ipotesi di concorso materiale di reati che viene realizzato, nell'ipotesi del concorso formale, «con una sola azione od omissione», mentre, nel caso del reato continuato, «con più azioni od omissioni, esecutive di un medesimo disegno criminoso». Per la determinazione della pena il legislatore, nella formulazione originaria, rinviava, per il concorso formale “agli articoli precedenti” (primo comma previgente), mentre, per il reato continuato, pur escludendosi espressamente il rinvio “agli articoli precedenti” (secondo comma previgente), nel comma 3 si stabiliva che «le diverse violazioni si considerano come un solo reato e si applica la pena che dovrebbe infliggersi per la più grave delle violazioni commesse, aumentata fino al triplo»: quindi, se, ad es. la pena base viene stabilita in anni due di reclusione, la pena finale massima che si potrà irrogare è di anni sei (due x tre) di cui anni due per la pena base e anni quattro per i reati satelliti. Questa normativa venne modificata nel 1974. La modifica, ampliò, da una parte, il concetto e la definizione del reato continuato (rimase, invece, pressoché identico il concorso formale), e, dall'altra, il regime sanzionatorio: entrambi gli istituti, infatti, vennero, sotto il profilo sanzionatorio, accomunati, stabilendosi che la pena (unica) avrebbe dovuto essere determinata aumentando sino al triplo la violazione più grave, fermo restando, però, che la pena, così determinata, «non può essere superiore a quella che sarebbe applicabile a norma degli articoli precedenti» (comma 3). Il che significa che la pena derivante dal cumulo giuridico non può superare la pena che, in concreto, il giudice avrebbe inflitto in caso di cumulo materiale e, quindi, con il limite — fra l'altro — del criterio moderatore di cui all'art. 78 comma 1 seconda parte. Infine, con la novella del 2005, è stato introdotto un quarto comma che ha previsto, per il recidivo reiterato (art. 99 comma 4) un metodo di calcolo differente, nel senso che, fermi sempre i limiti di cui ai precedenti articoli, la pena che si deve infliggere per la violazione più grave non può essere inferiore ad un terzo della pena prevista per la suddetta violazione (infra § 16). In ordine alla modalità di aumento previsto dalla norma in esame, la giurisprudenza ha elaborato i seguenti criteri: - la violazione dell'aumento non inferiore ad un terzo, al pari di quello massimo previsto dal primo comma dello stesso articolo, è denunciabile con ricorso per cassazione, ai sensi dell'art. 448, comma 2-bis, anche in caso di patteggiamento, comportando l'applicazione di una pena illegale: Cass. VI, n. 4726/2021; - il suddetto limite si applica nei soli casi in cui l'imputato sia stato ritenuto recidivo reiterato con una sentenza definitiva emessa precedentemente al momento della commissione dei reati per i quali si procede: ex plurimis, Cass. IV, n. 22545/2019; Cass. I, n. 18773/2013; - l'aumento di pena non inferiore ad un terzo – ex art 81/4 c.p. - va effettuato sulla pena inflitta per il reato più grave, comprensiva dell'aumento per la recidiva e va riferito all'aumento complessivo per la continuazione e non alla misura di ciascun aumento successivo al primo:Cass. I,n. 5478/2010; Cass. II, n. 18092/2016; infatti, «il riferimento alla pena applicabile in caso di cumulo materiale è evidentemente alla pena che il giudice ritiene adeguata alla fattispecie concreta, non certo a quella massima edittale, comminata dalla legge»:Corte Cost. n. 241/2015; Cass. I, n. 32625/2009; Cass. II,n. 27098/2023 ; esso opera anche quando il giudice consideri la recidiva reiterata equivalente alle riconosciute attenuanti, perché la recidiva in tal caso è applicata, anche se non determina un aumento di pena, ma paralizza la potenziale diminuzione conseguente al riconoscimento di una o più attenuanti (Cass. S.U. n. 31669/2016), ma non quando la recidiva reiterata – nei casi in cui non sia precluso dall'art. 69, comma quarto, c.p., a seguito delle varie pronunce di incostituzionalità della norma succedutesi dal 2014 al 2023 – sia ritenuta subvalente rispetto alla circostanza attenuante (Cass. S.U. n. 20808/2019); In conclusione: a) pena minima: l'aumento per la continuazione può essere effettuato applicando a ciascun reato anche un solo giorno di reclusione o di arresto (art 134 c.p.) e/o un euro di multa o ammenda: in terminis, Cass. V, n. 22035/2013, Cass. III, n. 23961/2014; b) pena massima: la pena base può essere aumentata fino al triplo ma, nell'effettuare il suddetto aumento, si deve rispettare il limite stabilito nel terzo comma, a norma del quale “la pena non può essere superiore a quella sarebbe applicabile a norma degli articoli precedenti” ossia alle norme stabilite per il concorso materiale: «così, ad es., se un tale è imputato di un furto aggravato consumato e di due furti semplici tentati, tutti in continuazione fra loro, e il giudice ritiene di dover infliggere per il furto aggravato sei anni di reclusione, e per i due furti semplici tentati un anno della stessa pena per ciascuno, egli deve applicare una pena complessiva minore di otto anni (quale sarebbe quella risultante dal cumulo materiale) cioè la reclusione da sei anni e un giorno a otto anni meno un giorno, e non da sei anni e un giorno a diciotto anni» (Manzini: Trattato, II, 736); In altri termini, il giudice, per determinare la pena (fino al triplo della violazione più grave) da infliggere per il reato satellite, deve, prima stabilire quale pena avrebbe inflitto in concreto (sia per la violazione più grave che per il reato satellite) sulla base delle regole stabilite per il cumulo materiale (nell'esempio ipotizzato: anni sei + anni uno + anni uno = anni otto) e, poi, applicare l'aumento fino al triplo che, non potendo, però, essere superiore a quello che avrebbe inflitto in concreto ove fossero state applicate le regole del concorso materiale (anni otto), dev'essere a questo inferiore (anche di un solo giorno): in terminis, Cass. I, n. 32625/2009 (secondo la quale l'art. 81/3 c.p., in base al quale la pena a titolo di continuazione non può comunque essere superiore a quella "applicabile a norma degli articoli precedenti", deve intendersi riferita alla pena «che in concreto si sarebbe potuta infliggere in caso di cumulo materiale: il riferimento alla pena "applicabile" in caso di cumulo materiale è evidentemente a quella "idealmente adeguata a ciascuna fattispecie", secondo la definizione riferita da S.U. n. 25956/2009 alla pena da determinare a mente dell'art. 533 c.p.p., comma 2, prima parte, non certo all'edittale, comminata dalla legge»);Corte Cost. n. 241/2015 (che, sulla base del medesimo principio, ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzione sollevata in relazione all'art. 81/4 c.p., rilevando che «la pena derivante dal cumulo giuridico non può superare la pena che, in concreto, il giudice avrebbe inflitto in caso di cumulo materiale»). In applicazione dell'art. 72 c.p. (al quale si rinvia per il commento) è stato ritenuto che «Allorché sia riconosciuta la continuazione tra più delitti alcuni dei quali punibili con l'ergastolo , una volta individuato l'ergastolo come pena base per la violazione ritenuta più grave, non è consentito infliggere, per quelle ritenute meno gravi, una pena detentiva temporanea, ma deve essere inasprita la pena perpetua con l'isolamento diurno, non escludendosi, come effetto favorevole del riconoscimento del vincolo, la possibilità di determinare quest'ultima sanzione anche in misura inferiore a quella minima prevista per il caso di concorso materiale di reati»: ex plurimis, Cass. I, n. 16115/2021. Per i rapporti fra reato continuato e recidiva e, quindi, alla determinazione della pena, si rinvia al commento dell'art. 99 § 6.1. Il concorso formaleLa nozione del concorso formale, è data dallo stesso art. 81, comma 1 a norma del quale si ha concorso formale di reati in due ipotesi: a) quando con una sola azione od omissione si violano diverse disposizioni di legge (cd concorso formale eterogeneo che può essere di natura commissiva od omissiva): ad es. è stato ritenuto il concorso formale eterogeneo commissivo tra il delitto di incesto (art. 564) e quello di violenza sessuale (art. 609-bis), nella condotta incestuosa del padre nei confronti della figlia caratterizzata dagli estremi della violenza: Cass. III, n. 9109/2008. Invece, ad es., risponderà di concorso formale eterogeneo mediante omissione, fra gli artt. 449 (incendio colposo) e 589 (omicidio colposo), «il preposto che abbia omesso per incuria di eseguire i controlli doverosi sul funzionamento di apparati antincendio che, se efficienti, avrebbero spento sul nascere le fiamme, impedendo sia l'incendio, sia la morte» (Marinucci-Dolcini, Manuale 2015, 510); b) quando con una sola azione od omissione si commettono più violazioni della medesima disposizione di legge (cd concorso formale omogeneo commissivo o omissivo): ad es. risponde di concorso formale omogeneo commissivo di più diffamazioni (art. 595) chi, in unico contesto, offende la reputazione di più persone assenti; risponde, invece, di concorso formale omogeneo omissivo degli omicidi colposi di più lavoratori, il datore di lavoro che abbia omesso di predisporre misure di sicurezza che, ove predisposte, avrebbero evitato la morte. Il problema più importante che si pone in relazione al concorso formale omogeneo, consiste nel delineare i criteri che consentano di stabilire quando ci si trovi di fronte ad un unico reato e quando a più reati (la questione, ovviamente, non si pone per il concorso formale eterogeneo, posto che, la suddetta fattispecie, presuppone, la commissione di più reati di diversa natura). Sostanzialmente, i criteri individuati sono tre: a) la natura del reato: il reato rimane pur sempre unico quando la pluralità delle condotte lesive del bene giuridico protetto dalla norma costituisce un elemento stesso della natura del reato (Romano, Commentario, 723). In tale categoria rientrano i cd. delitti di durata o permanenti (es. sequestro di persona ex art. 605 che è configurabile solo quando il soggetto passivo sia privato della libertà personale per un periodo di tempo apprezzabile: ex plurimis Cass. II, n. 22096/2015); i reati abituali (ad es. maltrattamenti in famiglia ex art. 572 per la configurabilità del quale occorre che gli atti vessatori siano usuali e ripetuti anche se in ambito temporale circoscritto: ex plurimis Cass. VI, n. 24727/2015; gli atti persecutori ex art. 612 bis: Cass. V, n. 20065/2014); i reati complessi (ossia quei reati costituiti da due reati che, però, la legge ha unificato sotto una diversa fattispecie: ad es. rapina costituita dai reati di furto e violenza o minaccia; cfr. commento all'art. 84); quei reati che, alternativamente, possono essere commessi con uno i più atti (ad es. risponde del reato di rissa, ex art. 588 chi ad essa vi partecipi essendo indifferente che abbia commesso uno o più atti violenti; risponde del delitto di cui all'art. 609-quinquies chi compia uno o più atti sessuali in presenza di persona infraquattordicenne al fine di farla assistere ai suddetti atti sessuali; b) la contestualità: al di fuori delle ipotesi precedenti, può verificarsi l'ipotesi di un soggetto che reitera, contro la stessa persona, più azioni ognuna delle quali, separatamente considerata, integra, di per sé, gli estremi dello stesso reato. Ad es. un ladro entra in una casa e la svaligia rubando numerosi oggetti. In sé e per sé, l'impossessamento di ogni oggetto, integra gli estremi di un furto. Sennonché, si ritiene, unanimemente, che essendo la condotta unica, in quanto compiuta in un unico contesto spazio temporale, e con unicità di fine (essendo l'azione rivolta contro lo stesso proprietario/detentore), il reato di furto resta unico salvo, ovviamente, le conseguenze sul trattamento sanzionatorio: il che, comporta, a contrario, che se lo stesso ladro, torna a rubare nella stessa abitazione il giorno successivo, risponderà di due furti, proprio perché manca l'unicità del contesto spazio temporale (in dottrina Marinucci-Dolcini, Manuale 2015, 508; Fiandaca-Musco, PG, 697; Antolisei, PG, 1974, 411; Cass. S.U. n. 85/1978; Cass. IV, n. 1447/1979; Cass. V, n. 41141/2014, Cass. V, n. 26546/2014; Cass. II, n. 19846/2019; Cass. II, n. 11024/2020); c) unicità/pluralità della persona offesa: questo criterio non è del tutto univoco, dovendosi distinguere, secondo alcuni autori, fra reati che tutelano beni giuridici strettamente personali (vita — libertà — onore ecc.) e reati che tutelano beni di natura “non altamente personali” (come ad es. i beni patrimoniali). Tornando all'esempio del ladro, se costui, nello stesso ambito spazio temporale, borseggia più persone, risponderà non di un solo furto ma di tutti i furti commessi a danno di tutte le persone derubate, Marinucci-Dolcini, Manuale 2015; contra: Romano, Commentario, 726, Pulitanò, 529, Fiandaca-Musco, PG, 701, secondo i quali, invece, il reato è unico, in quanto il disvalore della condotta (non trattandosi di beni personalissimi) va parametrato sul solo elemento spazio temporale e non su quello del numero dei soggetti lesi. A tale tesi, Marinucci-Dolcini, Manuale 2015, 509, obiettano che la distinzione fra beni “altamente personali” e beni “non altamente personali” (come, appunto, quelli patrimoniali) non ha alcun fondamento normativo e “pone un alone di incertezza nel giudizio di concretizzazione della fattispecie tipica” . Al contrario, è pacifico, che se un soggetto, anche se in unico contesto spazio temporale, lede beni giuridici di natura personale di più soggetti (diffamazione di più persone assenti; calunnia nei confronti di più persone ecc.) commetterà non un solo reato ma tanti reati (di diffamazione, di calunnia) per quante sono le persone offese (Romano, Commentario, 76; Masera, 78, Cass. VI, n. 4537/2009. Ed è proprio alla stregua del criterio della pluralità delle persone offese che la Cass. S.U., n. 40981/2018ha enunciato il seguente principio di diritto: « In tema di resistenza a un pubblico ufficiale, ex art. 337 c.p., integra il concorso formale di reati, a norma dell'art. 81, comma 1, la condotta di chi usa violenza o minaccia per opporsi a più pubblici ufficiali o incaricati di un pubblico servizio mentre compiono un atto del loro ufficio o servizio". A tale conclusione le S.U. sono pervenute in quanto nell'interesse al normale funzionamento della pubblica amministrazione va ricompreso “anche la sicurezza e la libertà di determinazione e di azione degli organi pubblici, mediante la protezione delle persone fisiche che singolarmente o in collegio ne esercitano le funzioni o ne adempiono i servizi, così come previsto dagli artt. 336, 337 e 338 c.p.”. La contemporanea sussistenza dei criteri sub b) (contestualità) e c) (unicità della persona offesa), determina, in alcuni casi, il fenomeno del cd. assorbimento di un reato in un altro, fenomeno che si ha in tutti quei casi in cui l'agente commette formalmente due reati distinti ma uno è funzionale al compimento dell'altro più grave nel quale, appunto, resta assorbito, con la conseguenza, che l'agente risponde solo di quest'ultimo reato (sul punto, si rinvia al commento dell'art. 84). Segue. Le norme penali misteVi sono articoli (ad es. 490, 616, 635; art 216 comma 1, n. 1, l. fall.) che, contengono, nel loro ambito, più previsioni criminose. Ci si è posto, quindi, il problema di individuare i criteri che consentano di stabilire quando la condotta — che realizza la lesione contemporanea di alcune o di tutte le fattispecie previste dalla norma — sia da ritenere unica (e, quindi, reato unico) e quando lesiva di più fattispecie (e, quindi, più reati). «Al riguardo si è soliti distinguere le norme (o leggi) miste cumulative dalle norme (o leggi) miste alternative (anche «disposizioni a più norme e norme a più fattispecie », «a condotta fungibile » [....]): nelle prime si hanno più figure autonome e distinte di reati, sicché la realizzazione delle diverse condotte determina un concorso di reati; nelle seconde ogni condotta rappresenta una possibilità (= un'alternativa) di commissione del reato, ma anche se si realizzano più condotte il reato resta unico. Ora, alla determinazione se si versi nell'uno o nell'altro caso si giunge attraverso un procedimento ermeneutico, che tenga conto di una serie di fattori quali l'intitolazione e la rubrica della legge, il collegamento con altre fattispecie già classificate come casi di cumulatività o alternatività, la composizione tecnico- redazionale della norma (almeno nel caso di una legiferazione meditata ed organica come il nostro codice, una numerazione separata, o l'immissione in lettere o addirittura in commi distinti lascia presumere una cumulatività, la descrizione nell'ambito dello stesso alinea o lettera un'alternatività [....] Un sensibile rilievo deve essere poi attribuito all'argomento della sanzione e delle sue proporzioni; un risultato inaccettabile, inoltre, sembra quello di ravvisare una cumulatività quando le due condotte si integrano fra di loro in rapporto alla ratio della disposizione e pertanto sono concepite come espressione di un unico disvalore [....] Anche qui, comunque, spetta all'interpretazione della singola norma di risolvere il dilemma dell'unità o pluralità di reati (considerando altresì che, una volta definita la norma mista come «cumulativa» o come «alternativa», occorrerà stabilire i limiti di rilevanza della ripetizione di ciascuna condotta «cumulativa», o della realizzazione della condotta «alternativa», a distanza di tempo: problematica e criteri della c.d. unificazione legale» (Romano, Commentario, 724 ss.; Mantovani, PG 1979, 409). A diversa conclusione, giunge altra parte della dottrina secondo la quale «l'interpretazione dovrebbe sempre condurre a ravvisare un unico reato, trattandosi della violazione di un'unica norma incriminatrice. Invero, il tratto comune a queste ipotesi è che i vari fatti descritti all'interno dell'unica disposizione rappresentano, sul piano sostanziale, o altrettanti gradi di offesa ad uno stesso bene giuridico (come nei rapporti tra i fatti di deterioramento, dispersione e distruzione della cosa all'interno della norma che incrimina il danneggiamento), oppure modalità diverse di offesa a quel bene (come nei rapporti fra i vari fatti di bancarotta patrimoniale o documentale). D'altra parte, sul piano della tecnica legislativa, l'inclusione di quelle diverse, o più o meno intense, offese a un medesimo bene giuridico all'interno di un'unica disposizione, con la previsione della stessa pena, parla nel senso di una unificazione legislativa di quei vari fatti, con la creazione di un'unica norma incriminatrice, la cui violazione darà perciò vita ad un unico reato. La molteplicità dei fatti eventualmente commessi dall'agente non sarà peraltro priva di qualsiasi rilevanza: ferma rimanendo l'unicità del reato, il giudice terrà conto del numero o della gravità dei fatti concreti nella commisurazione della pena all'interno della cornice edittale. Eccezionalmente, ove la legge lo disponga espressamente, la pluralità dei fatti concreti potrà integrare una circostanza aggravante. È il caso della bancarotta fraudolenta (art. 216 l. fall. e del ricorso abusivo al credito (art. 218 l. fall.): l'art. 219 comma 2 n. 1 l. fall. dispone infatti che « le pene stabilite negli articoli suddetti sono aumentate se il colpevole ha commesso più fatti tra quelli previsti in ciascuno degli articoli indicati»: Marinucci-Dolcini, Manuale 2015, 502. Casistica
Armi Il delitto di porto illegale assorbe per continenza quello di detenzione, escludendone il concorso materiale, solo quando la detenzione dell'arma inizi contestualmente al porto della medesima in luogo pubblico e sussista altresì la prova che l'arma non sia stata in precedenza detenuta: Cass. I, n. 32967/2010; Cass. I, n. 44066/2010, nel ribadire lo stesso principio, ha precisato che il numero delle armi può rilevare solo ai fini della determinazione della pena; Cass. VI, n. 45903/2013, ha, però, statuito che non vi può essere assorbimento dei reati di detenzione e porto di arma comune da sparo in quelli di detenzione e porto di arma clandestina, essendo diversi sia la condotta dell'agente che l'interesse protetto dalle rispettive norme incriminatrici. Cass. S.U., n. 41588/2018, in ordine alla questione se i reati di detenzione e porto illegali in luogo pubblico o aperto al pubblico di arma comune da sparo concorrano o meno, rispettivamente, con quelli di detenzione e porto in luogo pubblico o aperto al pubblico della stessa arma clandestina, hanno dato soluzione negativa al suddetto quesito statuendo che i reati di cui all’art. 23, commi 1, 3 e 4, l. n. 110/1975 assorbono, rispettivamente, i reati di cui agli artt. 2, 4 e 7 l. n. 895/1967. Associazione per delinquere I reati di associazione per delinquere, generica o di stampo mafioso, concorrono con il delitto di associazione per delinquere dedita al traffico di sostanze stupefacenti, anche quando la medesima associazione sia finalizzata alla commissione di reati concernenti il traffico degli stupefacenti e di reati diversi, poiché si tratta di due fatti storicamente e giuridicamente distinti: Cass. S.U., n. 1149/2009; Cass. II, n. 36692/2012; Cass. VI, n. 46301/2013; Cass. I, n. 4323/1990. Bancarotta In tema di pluralità di fatti di bancarotta (artt. 216,217 e 224 l. fall.), la commissione, nel contesto di un unico fallimento, di più fatti di bancarotta fraudolenta e semplice, previsti e sanzionati rispettivamente dagli artt. 216 e 217 l. fall., integra l'ipotesi della bancarotta aggravata per pluralità di fatti cui è applicabile la disciplina dettata dall'art. 219, comma 2, n. 1, l. fall. e non già quella della continuazione, in quanto non è ragionevole punire con maggiore asprezza chi abbia commesso un fatto di bancarotta fraudolenta e un fatto di bancarotta semplice, rispetto a colui che abbia commesso più fatti di bancarotta fraudolenta»: Cass. V, n. 3619/2006; Cass. S.U. n.21039/2011; Cass. V, n. 8327/1998. La Cass. V., n. 22486/2020, ha stabilito che la bancarotta documentale e il reato di cui all'art. 10 d.lgs. n. 74/2000 concretano una ipotesi di concorso formale di reati e non pongono - allorché siano trattati congiuntamente - problemi di precedente giudicato, né di preclusione processuale. Cass. VI, n. 14402/2021, ha stabilito che è configurabile il concorso formale tra il delitto di peculato e quello di bancarotta fraudolenta per distrazione trattandosi di reati che si differenziano per struttura ed offensività. Corruzione Il reato di corruzione propria è un fatto unico che, nelle modalità esecutive, si può articolare con la corresponsione frazionata in rate mensili del corrispettivo al p.u. da parte del privato corruttore (Cass. VI, n. 26071/2004; per Cass. VI, n. 33435/2006 il compimento dell'atto da parte del pubblico ufficiale non fa parte della struttura del reato e non assume rilievo per la determinazione del momento consumativo, sicché se l'accettazione della promessa e la ricezione dell'utilità sono unitarie, nel senso che sono riconducibili alla stessa fonte, anche se in funzione di una pluralità di atti da compiere, il reato rimane unico e la plurima attività pubblica posta eventualmente in essere dal pubblico ufficiale corrotto non dà luogo alla continuazione del reato, che è legata soltanto alla pluralità delle pattuizioni. Tra il reato di corruzione e quello di finanziamento illecito dei partiti, deve ritenersi ammissibile il concorso formale in quanto diverse sono le condotte e diversi i beni giuridici tutelati dalle rispettive norme incriminatrici: il buon andamento della Pubblica Amministrazione, per quanto attiene alla corruzione, ed il metodo democratico, con riguardo all'altro reato: Cass. VI, n. 3926/1998. Estorsione Il delitto di illecita concorrenza con violenza o minaccia concorre e non è assorbito nel reato di estorsione, trattandosi di fattispecie preordinate alla tutela di beni giuridici diversi: la disposizione di cui all'art. 513-bis cod. pen. ha come scopo la tutela dell'ordine economico e, quindi, del normale svolgimento delle attività produttive a esso inerenti, mentre il reato di estorsione tende a salvaguardare prevalentemente il patrimonio dei singoli» Cass. II, n. 5793/2014; «Il delitto di violenza o minaccia per costringere a commettere un reato e quello di estorsione possono formalmente concorrere perché essi, data la diversità delle condotte finalistiche e dei beni tutelati, non sono in rapporto di specialità»: Cass. II, n. 40837/2008; « È ammissibile il concorso formale tra i reati di estorsione e di turbata libertà degli incanti, in quanto le due norme hanno differente obiettività giuridica»: Cass. V, n. 22200/2013. Falso in monete (art. 453) Avendo l'art. 453 natura giuridica di norma incriminatrice a fattispecie plurima, deve escludersi il concorso formale di reati quando il fatto integri più condotte tipiche e queste vengano realizzate senza apprezzabile soluzione di continuità sul medesimo oggetto materiale (Cass. V, n. 37632/2012, ha ritenuto costituire un'unica ipotesi delittuosa la condotta di acquisto da parte dell'imputato di banconote false che venivano immediatamente riposte in un fondo a disposizione dello stesso ed ivi detenute). Frode in assicurazione (art. 642 c.p.) Si è ritenuto configurabile il concorso di reati nel caso di fraudolenta distruzione della cosa propria e di fraudolenta esagerazione del danno, essendosi affermato che l'art. 642 strutturato come una norma penale mista del tutto peculiare, prevede nei suoi commi primo e secondo cinque diverse fattispecie di reato — in particolare, il danneggiamento dei beni assicurati e la falsificazione o alterazione della polizza, nel comma primo; la mutilazione fraudolenta della propria persona, la denuncia di un sinistro non avvenuto e la falsificazione o alterazione della documentazione relativi al sinistro, nel comma secondo — che, ove ricorrano gli estremi fattuali, possono concorrere fra loro»: »: Cass. II, n. 1856/2014; Cass. II, n. 21816/2014. Frode informatica «Il delitto di accesso abusivo ad un sistema informatico può concorrere con quello di frode informatica, diversi essendo i beni giuridici tutelati e le condotte sanzionate, in quanto il primo tutela il domicilio informatico sotto il profilo dello "ius excludendi alios", anche in relazione alle modalità che regolano l'accesso dei soggetti eventualmente abilitati, mentre il secondo contempla l'alterazione dei dati immagazzinati nel sistema al fine della percezione di ingiusto profitto»: Cass. II, n. 26604/2019; Cass. II, n. 13475/2013; Cass. II, n. 9891/2011; Cass. V. 1727/2008. Frode sportiva L'art. 1, comma 1, l. 13 dicembre 1989, n. 401, che tutela la genuinità del risultato delle competizioni sportive da essa disciplinate, nel rispetto dell'alea che alle predette competizioni è correlata, è norma a più fattispecie che incrimina due distinte condotte, consistenti la prima in una forma di corruzione in ambito sportivo e la seconda in una generica frode, entrambe a dolo specifico, consistente nel fine di raggiungere un risultato diverso da quello conseguente al leale e corretto svolgimento della competizione»: Cass. II, n. 21324/2007. Omicidio L'omicidio volontario di donna in stato di gravidanza non assorbe il reato di procurato aborto, trovando applicazione in simile ipotesi la disposizione sul concorso formale di reati e non quella sul concorso apparente di norme (Cass. I, n. 24156/2010); la strage aggravata dalla morte di una o più persone assorbe il delitto d'omicidio volontario (Cass. I, n. 8468/2009). Prevenzione infortuni La violazione alla disposizione dell'art. 24, comma 1, d.P.R. n. 164/1956 (Norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro nelle costruzioni), la quale stabilisce l'obbligo che le impalcature ed i ponteggi di servizio siano provvisti, su tutti i lati verso il vuoto, di un robusto parapetto costituito da uno o più «correnti» che siano paralleli all'intavolato ed il cui margine superiore non disti da questo più di un metro e di un tavola fermapiede aderente al tavolato stesso, può concorrere con la violazione del comma secondo del medesimo articolo, la quale impone che i «correnti» e le tavole fermapiede, non lascino una luce, in senso verticale, maggiore di 60 centimetri (Cass. III, n. 21682/2004, ha osservato che la finalità delle prescrizioni consiste, per la prima, nel garantire che il margine superiore del parapetto sia alto abbastanza da prevenire cadute, per la seconda, che la distanza del margine inferiore del parapetto dal piano di calpestio sia limitata, in modo da impedire che il lavoratore possa cadere per scivolamento). Prostituzione L'art. 3 l. n. 75/1958 configura un'unica ipotesi di reato a fattispecie alternative e queste, anche se previste in uno stesso numero della norma possono concorrere allorché hanno una un'obiettività giuridica diversa e sono costituiti da elementi materiali differenti, distinguendosi in rapporto alla condotta o all'evento» (Cass. III, n. 2730/1999). Prostituzione minorile «Le condotte criminose di induzione, favoreggiamento o sfruttamento della prostituzione minorile possono concorrere tra loro, in quanto l'art. 600-bis, comma 1, è norma a più fattispecie tra loro distinte e costituite da elementi materiali differenti in rapporto alla condotta ed all'evento: Cass. III, n. 21335/2010, ha escluso che, in una fattispecie di tentata induzione di una minore alla prostituzione e di tentato sfruttamento dell'attività di quest'ultima, fosse ravvisabile un unico delitto commesso con diversificate modalità; Cass. III, n. 19539/2015; contra: Cass. III, n. 43414/2010 «Nel reato di prostituzione minorile, le condotte di induzione, di favoreggiamento o di sfruttamento, giacché contemplate in un unico contesto, non danno luogo a più fattispecie di reato, rappresentando, invece, modalità diverse di commissione di un unico delitto»; «Il reato di prostituzione minorile, che punisce le condotte di induzione, favoreggiamento o sfruttamento della prostituzione del minore degli anni diciotto, concorre con quello di atti sessuali con minorenne, sia per la differente oggettività giuridica che per la diversità degli elementi costitutivi»: Cass. III, n. 32339/2015; contra: Cass. I, n. 29988/2013 secondo la quale « Nel caso di rapporti sessuali consenzienti e retribuiti con minore, se vi è stata induzione, favoreggiamento o sfruttamento della prostituzione, si applica sempre il disposto dell'art. 600-bis, comma primo, a prescindere dall'età della vittima; se è mancata l'attività di induzione al meretricio, la condotta va punita: a) se si tratta di minore degli anni quattordici, ai sensi dell'art. 609-quater; b) se il minore ha età compresa tra i quattordici ed i sedici anni, ex art. 609-bis, comma terzo; c) se ha età tra i sedici e i diciotto anni ex art. 609-bis comma 2». Reati edilizi Cass. III, n. 12947/2021 ha ritenuto il concorso formale fra il reato di costruzione abusiva ed il reato paesaggistico, in quanto diverse sono sia le autorizzazioni preventive richieste per una edificazione all'interno di un'area vincolata paesaggisticamente, sia le autorità preposte al rilascio di tali autorizzazioni. Pertanto, essendo diversa l’oggetto giuridico della tutela penale (l'ambiente trova una tutela costituzionale nell'art. 9 Cost., mentre l'urbanistica non è direttamente contemplata se non nel riparto di competenza ai sensi dell'art. 117 Cost.), va escluso che la fattispecie in esame rientri nell’ambito della "stessa materia" ex art. 15 cod.pen. Resistenza a pubblico ufficiale e tentato omicidio « Il reato di resistenza a pubblico ufficiale assorbe soltanto quel minimo di violenza necessario per impedire al pubblico ufficiale il compimento di un atto del suo ufficio, mentre l'omicidio, travalicando detto limite, attenta direttamente alla vita od all'incolumità del soggetto passivo; i due reati possono concorrere, stante la diversità dei beni giuridici tutelati e le differenze qualitative e quantitative della violenza esercitata contro il pubblico ufficiale» Cass. II, n. 38620/2007. «La condotta di omessa somministrazione dei mezzi di sussistenza (art 570) in danno di più soggetti conviventi nello stesso nucleo familiare non configura un unico reato, bensì una pluralità di reati in concorso formale o, ricorrendone i presupposti, in continuazione tra loro» Cass. S.U., n. 8413/2008. Ricettazione (art. 648) Il delitto di ricettazione e quello di commercio di prodotti con segni falsi (art. 474) possono concorrere, atteso che le fattispecie incriminatrici descrivono condotte diverse sotto il profilo strutturale e cronologico, tra le quali non può configurarsi un rapporto di specialità, e che non risulta dal sistema una diversa volontà espressa o implicita del legislatore» Cass. S.U. n. 23427/2001; Cass. II, n. 12452/2008; «vi è concorso formale tra il reato di falsità in titoli di credito e quello di ricettazione degli stessi, non solo perché non vi è alcun rapporto di continenza e quindi non si pone un problema di alternatività o specialità tra i due reati, ma anche in considerazione della diversità dei beni penalmente protetti dalle due fattispecie»: Cass. II, n. 36911/2011; «Allorché un soggetto riceva, sia pure in unico contesto temporale, una pluralità di cose di provenienza delittuosa appartenenti ad una stessa persona, rendendosi responsabile, con riferimento ad alcune di esse, del reato di cui all'art. 648 e, con riferimento ad altre, di quello di cui all'art. 648-bis (riciclaggio), si è in presenza di una pluralità di eventi giuridici e quindi di reati. Non si tratta infatti di concorso apparente di norme in relazione alla medesima condotta, ma di distinti reati commessi con riferimento a beni diversi»: Cass. VI, 1472/1998; Cass. II, 27037/2003; Cass. II, n. 11024/2020; «l'acquirente finale di un prodotto con marchio contraffatto o comunque di origine e provenienza diversa da quella indicata risponde dell'illecito amministrativo previsto dal d.l. n. 35/2005, conv. in l. n. 80/2005, nella versione modificata dalla l. n. 99/2009, e non di ricettazione (art. 648) o di acquisto di cose di sospetta provenienza (art. 712), attesa la prevalenza del primo rispetto ai predetti reati alla luce del rapporto di specialità desumibile, oltre che dall'avvenuta eliminazione della clausola di riserva «salvo che il fatto non costituisca reato», dalla precisa individuazione del soggetto agente e dell'oggetto della condotta nonché dalla rinuncia legislativa alla formula «senza averne accertata la legittima provenienza», il cui venir meno consente di ammettere indifferentemente dolo o colpa»: Cass. S.U. n. 22225/2012. Sequestro di persona Il delitto di sequestro di persona è assorbito in quello di violenza sessuale quando la privazione della libertà personale della vittima si protrae per il tempo strettamente necessario a commettere l'abuso sessuale: Cass. III, n. 15068/2009; Cass. III, n. 967/2014; il reato di sequestro di persona è assorbito in quello di rapina aggravata previsto dall'art. 628, comma 3, n. 2, soltanto quando la violenza usata per il sequestro si identifica e si esaurisce col mezzo immediato di esecuzione della rapina stessa, non quando invece ne preceda l'attuazione con carattere di reato assolutamente autonomo anche se finalisticamente collegato alla rapina ancora da porre in esecuzione o ne segua l'attuazione per un tempo non strettamente necessario alla consumazione: Cass. II, n. 22096/2015; Il reato di sequestro di persona concorre con quello di riduzione in schiavitù di cui all'art. 600 nel caso in cui alla privazione della libertà di locomozione, oggetto di tutela della fattispecie di cui all'art. 605, si aggiunga una condizione di fatto ulteriore, in cui un individuo ha il potere pieno e incontrollato su un altro, assimilabile alla condizione di «res» posseduta da altri; tale situazione si verifica quando la vittima, subendo violenza e pressioni psicologiche, sia posta in condizioni afflittive e di costringimento tali da configurare una serie di trattamenti inumani e degradanti, tali da comprimerne in modo significativo la capacità di autodeterminarsi. (Fattispecie in cui donne extracomunitarie erano rinchiuse a chiave in un casolare da dove venivano prelevate esclusivamente per essere portate sul posto di lavoro nei campi agricoli, in regime di stretto controllo e sorveglianza, di sistematica violenza e di continue minacce, di sfruttamento, venendo private di gran parte degli emolumenti giornalieri: Cass. II, n. 37489/2004). Stupefacenti «L'art. 73 del d.P.R. n. 309/1990 ha natura giuridica di norma a più fattispecie, con la conseguenza che, da un lato, il reato è configurabile allorché il soggetto abbia posto in essere anche una sola delle condotte ivi previste, dall'altro, deve escludersi il concorso formale di reati quando un unico fatto concreto integri contestualmente più azioni tipiche alternative previste dalla norma, poste in essere senza apprezzabile soluzione di continuità dallo stesso soggetto ed aventi come oggetto materiale la medesima sostanza stupefacente»: Cass. III, n. 7404/2015 ha escluso l'assorbimento di plurimi episodi di cessione di droga in una precedente condotta di detenzione commessa dalle stesse persone ed oggetto di separato giudizio, in ragione della diversità del dato quantitativo e del differente contesto temporale; Cass. III, n. 8163/2009 ha ribadito che, nel caso in cui le condotte di illecita detenzione e cessione di sostanza stupefacente abbiano come oggetto materiale la medesima sostanza stupefacente, siano contestuali e poste in essere dal medesimo soggetto o dai medesimi soggetti che ne rispondano a titolo di concorso, la condotta illecita minore perde la propria individualità per essere assorbita in quella più grave. Negli stessi termini, da ultimo, Cass. V, n. 28364/2019, e Cass. III, n. 8999/2020 secondo la quale «Le diverse condotte previste dall'art. 73 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, sono alternative tra loro, e perdono la loro individualità quando si riferiscano alla stessa sostanza stupefacente e siano indirizzate ad un unico fine, talché, se consumate senza un'apprezzabile soluzione di continuità, devono considerarsi come condotte plurime di un unico reato e, al fine della determinazione della competenza per territorio, deve farsi riferimento al luogo di consumazione della prima di esse». Tratta di persone Secondo un primo orientamento, fatto proprio da Cass. V, n. 20740/2010, la clausola di riserva di cui all'art. 12, commi 1-3 T.U. imm. ("salvo che il fatto costituisca più grave reato"), opera indipendentemente dal principio di specialità, e di conseguenza dal raffronto tra norme, nonché tra interessi tutelati, esclude la punibilità della condotta di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina ogniqualvolta la stessa si traduca "in fattore costitutivo di attuazione di una più grave violazione". Tanto si ricaverebbe dal testuale richiamo al "fatto", anziché alla "disposizione di legge" (art. 15 c.p.), il quale attesterebbe il carattere sussidiario, e di chiusura, della previsione. Qualora, dunque, l'agevolazione all'ingresso illegale in Italia di uno straniero costituisca, al contempo, un mezzo per realizzare la tratta del medesimo (art. 601 cod. pen.) , si verificherebbe assorbimento della prima condotta nella seconda, più gravemente sanzionata. Cass I, n. 31650/2021, ha ribadito che va escluso il concorso tra il reato di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina e quello di tratta, ed affermato l'assorbimento del primo nel secondo, ogni qualvolta l'ingresso illegale nel territorio nazionale di cittadini non appartenente all'Unione Europea sia procurato mediante condotta, che, rappresentando una modalità di attuazione della tratta, sia interamente ricompresa nel perimetro consumativo di quest'ultima. La consunzione è in tal caso imposta dalla clausola di eccettuazione, valevole ed operante rispetto alla prima fattispecie. A tanto non osta la diversità dei beni giuridici protetti dalla rispettive norme incriminatrici, che non è qui in discussione. Contra: Cass. III, n. 50561/2015, secondo la quale il reato di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, non è assorbito dai più gravi delitti di tratta di persone, o di riduzione in schiavitù, essendo diverso il bene giuridico tutelato dalle rispettive norme incriminatrici; la prima essendo a presidio dell'ordine pubblico e della correlata esigenza di controllo dei flussi migratori, le altre della libertà e della dignità della persona. Secondo la suddetta sentenza, in tema di regolamentazione penale del fenomeno migratorio, "l'inciso "salvo che il fatto costituisca più grave reato" (posto in incipit del menzionato art. 12, commi 1 e 3) presuppone, affinché il meccanismo dell'assorbimento sia operativo, che il reato più grave sia posto a tutela del medesimo interesse giuridico tutelato". Truffa «I reati di millantato credito e di truffa possono concorrere — stante la diversità dell'oggetto della tutela penale, consistente, per il primo delitto, nel prestigio della P.A. e, per il secondo, nel patrimonio — qualora allo specifico raggiro considerato nella fattispecie di millantato credito, costituito dal ricorso a vanterie di ingerenze o pressioni presso pubblici ufficiali, si accompagni una ulteriore attività diretta alla induzione in errore del soggetto passivo, al fine di conseguire un ingiusto profitto con altrui danno»: ex plurimis Cass. VI, n. 8994/2015; «Il reato di sostituzione di persona può concorrere formalmente con quello di truffa, stante la diversità dei beni giuridici protetti, consistenti rispettivamente nella fede pubblica e nella tutela del patrimonio»: Cass. VI, n. 9470/2009; «Il reato di malversazione in danno dello Stato (art.316-bis) può concorrere con quello di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche (art.640-bis)»: Cass. II, n. 43349/2011; Cass. II, n. 29512/2015; contra: Cass. VI, n. 23063/2009 «Il reato di malversazione in danno dello Stato ha natura sussidiaria e residuale rispetto alla fattispecie dell'art. 640-bis che sanziona la truffa aggravata per il conseguimento delle erogazioni pubbliche». «Il reato di abuso di ufficio commesso da pubblico ufficiale (nella specie, funzionario dell'Inps) al fine di procurare ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale concorre con quello di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, allorché il vantaggio altrui sia consistito nel beneficio di arretrati pensionistici non spettanti e fatti ottenere mediante artifici e raggiri (nella specie attraverso interventi sui sistemi informatici idonei ad attribuire a soggetti diversi dagli aventi diritto l'erogazione del trattamento di pensione)»: Cass. II, n. 23628/2010; «l'indebita utilizzazione, a fine di profitto proprio o altrui, da parte di chi non ne sia titolare, di carte di credito o analoghi strumenti di prelievo o pagamento, integra il reato previsto dall'art. 12 d.l. n. 143/1991, conv. con l. n. 197/1991 [v. ora art. 55 comma 9 d.lgs. n. 231/2007, n.d.r.], e non quello di truffa, che resta assorbito» Cass.S.U., n. 22902/2001; Cass. II, n. 26865/2013; è stato però, precisato che «il reato di truffa non è assorbito da quello di indebita utilizzazione, a fine di profitto proprio o altrui, da parte di chi non ne sia titolare, di carte di credito o analoghi strumenti di prelievo o pagamento (art. 12 d.l. n. 143/1991, conv. nella l. n. 197/1991) ogni qualvolta la condotta incriminata non si esaurisca nel mero utilizzo di essi, ma sia connotata da un quid pluris concretantesi in artifici e raggiri»: Cass. I, n. 26300/2004, in una fattispecie relativa all'utilizzazione di una tessera «Viacard» illecitamente rimagnetizzata; Cass. II, n. 11699/2012. Violenza sessuale Il reato di violenza sessuale commesso contestualmente all'omicidio resta in questo assorbito «sub specie» di circostanza aggravante di cui all'art. 576, comma 1, n. 5, c.p., senza che neppure sia richiesta alcuna connessione di tipo finalistico tra i due reati: Cass. I, n. 12680/2008. «È configurabile il concorso formale tra il delitto di maltrattamenti in famiglia e quello di violenza sessuale quando la condotta integrante il reato di cui all'art. 572 non si esaurisca negli episodi di violenza sessuale, ma s'inserisca in una serie di atti vessatori e percosse tipici della condotta di maltrattamenti»: Cass. I, n. 13349/2012; Cass. III, n. 35700/2020.. «Il reato di violenza sessuale commesso mediante abuso della qualità e dei poteri del pubblico ufficiale può concorrere formalmente con il reato di concussione, trattandosi di reati che tutelano beni giuridici diversi, posti a salvaguardia di distinti valori costituzionali, rappresentati dal buon andamento della P.A. e dalla libertà di autodeterminazione della persona nella sfera sessuale»: Cass. VI, n. 8894/2011; Cass. VI, n. 9528/2009. Il reato continuatoIl reato continuato, può essere definito come un'ipotesi di concorso materiale di reati che, in quanto siano commessi in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, è soggetto, quanto al trattamento sanzionatorio, alla disciplina del cumulo giuridico, potendo il colpevole essere punito solo con la pena che dovrebbe infliggersi per la violazione più grave aumentata sino al triplo. La ratio della più mite disciplina sanzionatoria è tradizionalmente rinvenuta nell'apprezzamento del minor disvalore sociale che connota più reati che non scaturiscano da altrettanti diversi progetti, ma conseguono, invece, ad un'unica determinazione criminosa che abbia, poi, informato di sé tutti i singoli e diversi reati posti in essere (ex plurimis Cass. IV, n. 14332/2009; Cass. S.U., n. 25939/2013 (in motivazione); in dottrina, più o meno negli stessi termini, fra gli altri, Marinucci-Dolcini, Manuale 2015, 516; Fiandaca-Musco, PG, 704; Romano, Commentario, 764). Si suole distinguere fra continuazione interna ed esterna. La continuazione interna è quella che ha ad oggetto i fatti dello stesso procedimento penale ed è applicata dal giudice della cognizione, ove ravvisi il medesimo disegno criminoso fra i vari reati o episodi dello stesso reato sottoposti al suo giudizio (v. infra). Quanto, infine, alla natura giuridica, va rilevato che, a seguito della modifica legislativa intervenuta nel 1974, è stata completamente soppressa la frase secondo cui «le diverse violazioni si considerano come un solo reato», depotenziando, quindi, la questione se il reato continuato avesse natura unitaria o plurima. Si è pertanto, consolidata una tesi, per così dire “mista” o “pragmatica” secondo la quale, nell'impossibilità di stabilire a priori la natura giuridica, di volta in volta il reato va considerato unico o plurale in funzione del carattere più o meno favorevole che derivano nei confronti del reo. Sul punto, infatti, la giurisprudenza di legittimità, ha evidenziato che la unitarietà del reato continuato «deve affermarsi là dove vi sia una disposizione apposita in tal senso o dove la soluzione unitaria garantisca un risultato favorevole al reo, non dovendo e non potendo dimenticarsi che il trattamento di maggior favore per il reo è alla base della ratio, della logica, appunto, del reato continuato». Non vi è, quindi, una struttura unitaria da assumere come punto di partenza di rilievo generale. Al contrario, la considerazione unitaria del reato continuato richiede due condizioni: deve essere espressamente prevista da «apposita disposizione» o, comunque, deve garantire un risultato favorevole al reo. Ne deriva che al di fuori di queste due ipotesi non vi è alcuna unitarietà di cui tener conto e, di conseguenza, vige e opera la considerazione della pluralità dei reati nella loro autonomia e distinzione che, pertanto, costituisce la regola [...] Quanto agli effetti della scissione del reato continuato, la citata sentenza Ronga precisò che, «per effetto dello scioglimento del cumulo, ciascuna fattispecie di reato riacquista la sua autonomia, sia quanto a pena edittale, sia quanto a pena applicata o applicabile in concreto»: Cass. S.U., n. 3286/2009 che, in motivazione, hanno richiamato e ribadito il suddetto principio già statuito da Cass. S.U, n. 14/1999, Cass. S.U., n. 1/1997, Cass. S.U., n. 2780/1996, Cass. S.U., n. 18/1989; Corte cost. n. 324/2008; in dottrina, fra gli altri, Fiandaca-Musco, PG, 713; Mantovani, PG 1979, 447; Coppi, 185. Segue. Le conseguenze praticheL'applicazione del suddetto principio di diritto (natura giuridica “pragmatica”) ha una ricaduta pratica nelle fattispecie di seguito indicate. Il reato continuato è considerato unitario nelle seguenti residuali ipotesi: a) ai fini della sospensione condizionale della pena, dovendosi, in tal caso, avere riguardo alla entità complessiva della pena risultante dalla sentenza di condanna e non in relazione alla pena applicata per ciascun reato, dovendo le pene concorrenti essere considerate come pena unica per ogni effetto giuridico, salvo che la legge disponga altrimenti: Cass. I, n. 39217/2014; Cass. III, n. 28374/2019 , dopo avere precisato che il suddetto principio «rileva ai fini della commisurazione del limite massimo della pena per l'applicabilità del beneficio e non può estendersi al caso di applicazione dell'art. 163 c.p., comma 3, che, ai fini del riconoscimento dei più ampi limiti di pena, considera determinate condizioni soggettive dell'autore del reato, legate alla sua età anagrafica, ed indica il criterio cronologico di commissione del fatto, cui il legislatore riconnette valenza esclusiva ai fini del riconoscimento del beneficio», ha enunciato il seguente principio di diritto: «In presenza di più episodi criminosi, avvinti dal vincolo della continuazione, ove alcuni di essi siano stati commessi in epoca in cui l'imputato non aveva ancora compiuto i settant'anni di età, non può trovare applicazione il disposto dell'art. 163 c.p., comma 3, che presuppone che tutti i fatti siano stati commessi "da chi ha compiuto gli anni settanta", richiedendo, dunque, che tutti i fatti, e non solo alcuni di essi, siano stati commessi dopo il raggiungimento della predetta età anagrafica". Cass. I, n. 32701/2020, alla stregua dello stesso principio (unitarietà del reato) ha stabilito che non si può procedere alla revoca delle sospensioni condizionali concesse nel caso in cui i reati siano stati unificati in un unico reato continuato e la pena complessiva, da ritenersi pertanto pena unica, sia stata sospesa. Cass. I, n. 3137/2022 , ha affermato che «in tema di applicazione "in executivis" della disciplina del reato continuato, una volta ritenuta dal giudice dell'esecuzione l'unicità del disegno criminoso tra due fatti oggetto di due diverse sentenze ed applicata agli stessi la disciplina del reato continuato, la sospensione condizionale già disposta per uno dei due fatti non è automaticamente revocata, essendo compito del giudice valutare se il beneficio già concesso possa estendersi alla pena complessivamente determinata ovvero se esso debba essere revocato perché venuti meno i presupposti di legge. (In applicazione del principio, la Corte ha annullato con rinvio il provvedimento del giudice della esecuzione che, riconosciuta la continuazione tra più reati e rideterminata la pena complessiva in misura superiore a due anni di reclusione, ha omesso di pronunciarsi sulla revoca del beneficio concesso con la prima condanna, ritenendo la stessa implicita nel superamento del limite previsto dall'art. 163 c.p.)». Cass. I, n. 39344/2023, In applicazione del suddetto principio, ha affermato che, nel caso in cui il giudice della cognizione, unisca sotto il vincolo della continuazione un reato già giudicato con sentenza passata in giudicato e quello sottoposto alla sua cognizione, può concedere per il reato giudicando la sospensione condizionale subordinata all'adempimento di una provvisionale, in quanto «l'unificazione della pena non può comportare l'automatica estensione di una condizione più gravosa, in quanto ciò determina una modifica in peius, non consentita, della detta pronuncia, in violazione del giudicato. La relativa questione dovrà tuttavia essere posta all'attenzione del giudice dell'esecuzione, in sede di verifica dell'adempimento agli obblighi cui è subordinata la sospensione, in quell'ambito dovendo essere integrata la pronuncia, precisandosi l'entità degli aumenti a titolo di continuazione, così da potersi stabilire entro quali limiti e per quale frazione di pena l'effetto sospensivo condizionato ha potuto eventualmente operare». Cass. I, n. 49582/2022, ha statuito che « In tema di applicazione "in executivis" della disciplina del reato continuato, una volta ritenuta dal giudice dell'esecuzione l'unicità del disegno criminoso tra due fatti oggetto di due diverse sentenze ed applicata agli stessi la disciplina del reato continuato, la non menzione della condanna già disposta per uno dei due fatti non è automaticamente revocata, essendo compito del giudice valutare se il beneficio già concesso possa estendersi, pur in assenza di espressa richiesta del condannato, alla pena complessivamente determinata ovvero se lo stesso debba essere motivatamente revocato». b) ai fini dell'oblazione: sul punto si è ritenuto che la oblazione incide a monte sul singolo fatto-reato contestato, determinandone la estinzione e quindi la improcedibilità della azione penale, di tal che al giudice è preclusa la valutazione di qualsiasi ipotesi di continuazione, a meno che le varie ipotesi di reato siano già state contestate come avvinte dal vincolo di cui all'art. 81: Cass. III, n. 45944/2012; contra: Cass. I, n. 24909/2009; c) ai fini della dichiarazione di abitualità e professionalità: dal principio dell'unitarietà consegue che, in tutti i casi in cui la data del commesso reato abbia rilevanza agli effetti degli artt. 102,103, art. 105 c.p., deve farsi riferimento, se si tratta di reato continuato alla data in cui cessò la continuazione, non potendosi adottare criterio diverso per stabilire la data del reato continuato in tutti i casi in cui esso sia considerato nella sua unita»: Cass. II, n. 3991/1975; C ass. III, n. 1359/1970; Cass. III, n. 42891/2008 (in motivazione); in dottrina, Romano, Commentario, 761; d) pena sostitutiva exart. 53 l. n. 689/1981: «Quando si procede nelle forme del rito abbreviato, il giudizio sulla concedibilità della pena sostitutiva alla pena detentiva breve di cui all'art. 53 della legge n. 689 del 1981 deve essere fatto, nel caso di più reati uniti dal vincolo della continuazione, con riferimento alla quantificazione della sanzione risultante all'esito della diminuzione di un terzo di quella da irrogare in concreto e perciò dopo l'aumento determinato dalla continuazione, in deroga al principio stabilito dall'ultimo comma dell'art. 53 cit. che prevede come riferimento la pena per il reato più grave prima dell'aumento per la continuazione»: Cass. III, n. 45450/2014; Il reato continuato, invece, è considerato composto da più reati — sicché, se ne effettua la scissione dei suoi singoli componenti, al fine di applicare ai soli reati che ne possono beneficiare — ai fini dei seguenti istituti giuridici: a) prescrizione: il novellato art. 158 ha modificato il previgente art. 158 che, quanto al reato continuato, prevedeva che il dies a quo dal quale calcolare il termine per la prescrizione decorreva dal giorno in cui era cessata la continuazione. Di conseguenza, a seguito della riforma introdotta con la l. 5 dicembre 2005 n. 251, la prescrizione, nel caso del reato continuato, va calcolata dalla data di consumazione di ogni singolo reato (Cass. I, n. 11538/2019; Cass. III, n. 6097/2014): la Corte Cost., n. 324/2008 ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale sollevata sul punto. E' opportuno precisare che, in caso di sentenza cumulativa possono verificarsi le seguenti ipotesi. 1. Reato più grave per il quale il ricorso sia considerato inammissibile, avvinto dal vincolo della continuazione con altri reati meno gravi per i quali, invece, il ricorso sia ammissibile: in tale ipotesi, l'ammissibilità del ricorso riguardante i reati meno gravi non preclude la definitività delle statuizioni dei giudici di merito relative al reato più grave. Ciò comporta che, in caso di prescrizione di tutti i reati maturata dopo la sentenza impugnata con il ricorso per cassazione, dovrà dichiararsi l'inammissibilità per il reato più grave, nel mentre deve dichiararsi la prescrizione per i reati satelliti. A tale soluzione si giunge in applicazione del principio di diritto enunciato dalla Cassazione, Cass. S.U. n. 6903/2017, secondo le quali, in caso di ricorso contro una sentenza di condanna cumulativa, che riguardi più reati ascritti allo stesso imputato, l'autonomia dell'azione penale e dei rapporti processuali inerenti ai singoli capi di imputazione impedisce che l'ammissibilità dell'impugnazione per uno dei reati possa determinare l'instaurazione di un valido rapporto processuale anche per i reati in relazione ai quali i motivi dedotti siano inammissibili, con la conseguenza che per tali reati, nei cui confronti si è formato il giudicato parziale, è preclusa la possibilità di rilevare la prescrizione maturata dopo la sentenza di appello; 2. Reato più grave per il quale il ricorso sia considerato fondato, avvinto dal vincolo della continuazione con altri reati meno gravi per i quali, invece, il ricorso sia inammissibile. in tale ipotesi, si è, invece, ritenuto che l'annullamento della sentenza in relazione al reato più grave e alla pena per esso determinata «si ripercuote necessariamente sugli aumenti disposti in relazione ai reati-satellite: la pena inflitta per i reati satellite dipende infatti dalla pena-base in relazione alla quale (tra l'altro) viene parametrata. L'instaurazione del rapporto processuale correlata all'ammissibilità dell'impugnazione per il reato più grave impone di ritenere "aperto" il rapporto processuale - in punto pena - anche relativamente ai reati satellite: tale situazione processuale impedisce il passaggio in giudicato dell'accertamento di responsabilità in relazione a tutti i reati unificati; pertanto se, nelle more della definizione dell'impugnazione, decorre il termine di prescrizione per uno di essi ne deve essere dichiarata l'estinzione»: Cass. II, n. 36376/2021; Cass. II, n. 16022/2023; 3. Reato più grave per il quale il ricorso sia considerato ammissibile ma non fondato (quindi il ricorso è rigettato), avvinto dal vincolo della continuazione con altri reati meno gravi per i quali, invece, il ricorso sia inammissibile. Se al momento della decisione della Corte di legittimità non è maturata la prescrizione per il reato base più grave, la sopravvenuta causa estintiva per quelli satellite non avrà effetto e quindi troverà piena applicazione il principio affermato nelle S.U. cit.: Cass. II, n. 16022/2023.
b) amnistia (Cass. I, n. 3986/1998), indulto (Cass. S.U.,n. 21501/2009; Cass. I, n. 3986/2013); c) benefici penitenziari (Cass. S.U.,n. 14/1999; Cass. I, n. 14563/2006; Cass. I, n. 42462/2009; Cass. I, n. 26701/2013; Cass. I, n. 11446/2015); d) sanzioni sostitutive: si rinvia infra. e) circostanze attenuanti ed aggravanti: la regola principale è che ogni circostanza va valutata e applicata in relazione a ogni singolo reato, con la conseguenza che l'eventuale giudizio di comparazione ex art. 69 va effettuato solo riguardo al fatto considerato come violazione più grave, e con riferimento alle sole aggravanti ed attenuanti che allo stesso specificamente si riferiscono; delle eventuali circostanze attinenti ai singoli reati satelliti, se ne deve tener conto solo ai fini dell'aumento della pena: Cass. S.U.n. 3286/2008; Cass. II, n. 2377/2020; Cass. V, n. 19366/2020; («il giudizio circa la sussistenza delle circostanze attenuanti generiche, anche se fondato solo su elementi di natura soggettiva, può essere riferito ai singoli episodi criminosi e non necessariamente esteso in via automatica ed in modo indistinto a tutti i reati uniti dal vincolo della continuazione») Cass. II, n. 54573/2016; Cass. VI, n. 14040/2015; Cass. II, n. 39166/2011; Cass. III, n. 34782/2011; Cass. I, n. 47249/2011; Cass. V, n. 12260/2012; Cass. III, n. 26340/2014. Sul punto, è stato precisato, che se il giudice non ha espressamente indicato le imputazioni in relazione alle quali sono state riconosciute le circostanze attenuanti, queste devono intendersi riferite a tutti i reati in contestazione, non solo per la mancanza di una specifica indicazione di segno contrario, ma anche per il principio del "favor rei", tanto più nel caso in cui si tratti di circostanze basate su considerazioni attinenti alla personalità dell'imputato (come ad es. quelle generiche e quella relativa al vizio parziale di mente) e pertanto concedibili in relazione a tutti i fatti addebitatigli: Cass. II, n. 8749/2020; Cass. VI, n. 12414/2011; Cass. I, n. 37108/2002; Cass. II, n. 10995/2018, ha, però, stabilito che «il giudice può riconoscere le attenuanti generiche secondo i parametri "oggettivi" o "soggettivi" previsti dall'art. 133 cod. pen., sicché se la concessione richiama elementi di fatto di natura oggettiva l'applicazione sarà riferita allo specifico fatto reato senza estensione del beneficio a tutti i reati avvinti dal vincolo della continuazione, mentre se gli elementi circostanziali siano riferibili all'imputato, sulla base di elementi di fatto di natura soggettiva, l'applicazione deve essere riferita indistintamente a tutti i reati uniti dal vincolo della continuazione». In un caso particolare in cui il reato satellite (art. 612 c.p.) è punito con pena pecuniaria nell'ipotesi base e detentiva in quella aggravata (art. 612 comma 2 c.p.) un recente orientamento (Cass., II n. 16352/2024) ha affermato che nel caso in cui l'applicabilità al reato satellite, in luogo della pena base pecuniaria, della pena detentiva, dipenda dalla sussistenza di una circostanza aggravante speciale con la quale, tuttavia, concorrano delle circostanze attenuanti (ovviamente relative sempre al reato satellite) , poiché dall'esito del giudizio di bilanciamento tra tali circostanza di segno opposto del reato satellite dipende lo stesso genere di pena a esso applicabile e, in particolare, la possibile applicazione, anziché della pena detentiva, del genere della pena pecuniaria ( nel caso di ritenuta equivalenza fra circostanze aggravanti e circostanze attenuanti o di ritenuta prevalenza di queste ultime), il giudice dovrà procedere allo stesso bilanciamento, essendo ciò imposto dalla necessità di rispettare i principi di legalità e del favor rei. Sul punto, le S.U. n. 47127/2021, hanno stabilito che «in tema di reato continuato, il giudice, nel determinare la pena complessiva, oltre ad individuare il reato più grave e stabilire la pena base, deve anche calcolare e motivare l'aumento di pena in modo distinto per ciascuno dei reati satellite. Il grado di impegno motivazionale richiesto in ordine ai singoli aumenti di pena è correlato all'entità degli stessi e tale da consentire di verificare che sia stato rispettato il rapporto di proporzione tra le pene, anche in relazione agli altri illeciti accertati, che risultino rispettati i limiti previsti dall'art. 81 c.p. e che non si sia operato surrettiziamente un cumulo materiale di pene». Solo per completezza, si rammenta che il nesso di continuazione, presentando caratteristiche e finalità del tutto distinte rispetto alle circostanze del reato, non può mai essere oggetto di giudizio comparativo con le circostanze: Cass. II, n. 45046/2011. Alla stregua dei suddetti principi, il problema della compatibilità delle seguenti circostanze (stante la loro peculiarità) con il reato continuato, è stato risolto dalla giurisprudenza nei termini di seguito indicati: e1) aggravante del nesso teleologico (art. 61 n. 2 c.p.): si rinvia al commento dell'art. 61; e2) danno di rilevante gravità (art. 61 n. 7 c.p.): si rinvia al commento dell'art. 61; e3) attenuante della provocazione (art. 62 n. 2 c.p.): si rinvia al commento dell'art. 62; e4) danno di speciale tenuità (art. 62 n. 4 c.p.): si rinvia al commento dell'art. 62; e5) integrale riparazione del danno (art. 62 n. 6 c.p.): si rinvia al commento dell'art. 62; e6) attenuanti generiche (art. 62-bis c.p.): si rinvia al commento dell'art. 62 bis; e7) diminuente della minore età (art. 98 c.p.): si rinvia al commento dell'art. 98; e8) attenuante del vizio parziale di mente (art. 89 c.p.): si rinvia al commento dell'art. 89; f) pene accessorie: si rinvia al commento dell'art. 77 c.p. g) misure di sicurezza: vale la stessa regola che si applica per le pene accessorie. In tal senso, Cass. I, n. 2602/1984; Cass. VI, n. 7614/1988 secondo le quali, l'esigenza di determinare la pena che, in concreto, va riferita ad ogni singolo reato per cui viene pronunciata condanna, trova il suo giuridico fondamento, tra l'altro, nella necessità di recuperare, ai fini della pena, l'autonomia delle singole violazioni ogni volta che ciò sarà utile o necessario per l'applicazione di norme (in materia di cause estintive, di misure di sicurezza di pene accessorie, etc.) relative a pene o a reati singolarmente considerati; contra: Cass. IV. n. 42345/2017 «pervalutare il superamento del limite di pena necessario per l'applicabilità, con la sentenza di cui all'art. 445 c.p.p., della misura di sicurezza dell'espulsione dello straniero dal territorio dello Stato, ai sensi dell'art. 86, comma 1, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, nel caso di pena patteggiata quale aumento a titolo di continuazione rispetto ad altra condanna occorre considerare la pena complessiva inflitta; Cass. IV, n. 32290/2009. h) ai fini della presentazione della querela, la regola è nel senso che il termine per proporre querela decorre autonomamente dalla data di consumazione di ogni singolo reato: Cass. III, n. 183/2007; Cass. V, n. 2344/1999. Tuttavia, è stato anche ritenuto che, nei casi di continuazione fra reati omogenei, la decadenza dal diritto di proporre querela sia strettamente legata alla presunzione di disinteresse della persona offesa, in relazione alla punizione del fatto, presunzione che non può ritenersi contraddetta o smentita dall'ulteriore protrazione dell'illecito penale. Pertanto, in base alla ratio che informa il termine di decadenza, deve ritenersi che questa decorra dalla conoscenza certa del fatto reato, anziché dalla conoscenza dell'ultimo atto consumativo della continuazione: Cass. III, n. 7420/1987; Cass. III, n. 42891/2008 (in una fattispecie di plurime violazione dell'art. 609-bis c.p.); i) in caso di continuazione tra reati giudicati e giudicandi, la sospensione del processo e la messa alla prova (art 168-bis c.p.) disposte per i primi non si estendono automaticamente ai secondi, in quanto l'esistenza di ulteriori reati, pur se commessi in esecuzione del medesimo disegno criminoso di quelli precedentemente accertati, obbliga il giudice a rivalutare la personalità dell'imputato minorenne, rinnovando la prognosi sul positivo sviluppo di essa, e ad elaborare un nuovo progetto di socializzazione, o comunque ad integrare quello precedente: Cass. II, n. 46366/2012; Cass. VI, n. 40312/2014. f) in caso di contestazione suppletiva di un reato in continuazione, la recidiva contestata per i reati già contestati deve intendersi estesa anche al nuovo reato: sul punto si rinvia al commento dell'art. 99 § 7.1. Segue. La struttura del reato continuatoTre sono gli elementi che caratterizzano il reato continuato: a) la pluralità di azioni od omissioni; b) la plurima violazione della stessa o di diverse disposizioni di legge; c) l'esistenza di un medesimo disegno criminoso che, a sua volta, è caratterizzato da: c1) il disegno; c2) la sua medesimezza; c3) la sua criminosità: (Gaboardi § 3 ss.). Segue. La pluralità di azioni od omissioniIl comma 2 dell'art. in commento, nel richiedere una pluralità di condotte (commissive od omissive) “anche in tempi diversi”, rinvia, con tutta evidenza, ad un criterio di natura spazio-temporale nel senso che i vari reati possono essere considerati unificati dal vincolo della continuazione sia se commessi in rapida sequenza temporale, sia se commessi in tempi diversi, nello stesso o in diversi luoghi: devono, però, trattarsi di più reati commessi con più azioni perché, altrimenti, rifluirebbero sotto la previsione normativa del concorso formale. In proposito, infatti, si è evidenziato che «più violazioni della legge penale, se commesse con un unico processo esecutivo e in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, rientrano al tempo stesso sotto il paradigma del concorso formale e sotto quello della continuazione di reati. Grazie al rapporto di specialità, prevalgono le norme sul concorso formale di reati, perché la unicità del processo esecutivo implica necessariamente la unicità del disegno criminoso, ma non viceversa» (Pagliaro, 426; contra: Mantovani, PG 1979, 446, secondo il quale, invece, deve applicarsi, in via analogica — ammissibile in quanto in bonam partem — la disciplina del reato continuato tutte le volte che questa sia più favorevole. Entrambi gli autori, peraltro, concordano con il fatto che la questione sia stata ormai depotenziata dalla circostanza che, sotto il profilo sanzionatorio, i due istituti sono stati assimilati). Sia in dottrina che in giurisprudenza il criterio della contiguità spazio-temporale è considerato solo sintomatico (non, quindi, decisivo) della sussistenza della continuazione fra i vari reati, nel senso che «quanto maggiore sarà la distanza temporale tra i diversi episodi delittuosi, tanto più gravosa risulterà la prova della medesimezza del disegno criminoso» (Fiandaca-Musco, PG, 706). In giurisprudenza è consolidato il principio secondo il quale in tema di continuazione, l'omogeneità delle violazioni e la contiguità temporale di alcune di esse, seppure indicative di una scelta delinquenziale, non consentono, da sole, di ritenere che i reati siano frutto di determinazioni volitive risalenti ad un'unica deliberazione di fondo: (ex plurimis Cass. III, n. 3111/2013; Cass. VI, n. 44214/2012). Segue. La plurima violazione della stessa o di diverse disposizioni di leggeTale requisito, introdotto dalla novella del 1974, è severamente criticato dalla dottrina che ne ha rilevato la singolarità rispetto al medesimo istituto previsto negli altri ordinamenti nei quali il reato continuato è caratterizzato dalla omogeneità dei reati. Si è, quindi, osservato che, poiché il reato continuato è configurabile anche fra reati fra di loro eterogenei, sarebbe stato più corretto definirlo “continuazione di reati” (Fiandaca-Musco, PG, 707; Pagliaro, 426). Segue. Il medesimo disegno criminosoÈ questo il criterio che caratterizza ed individua il reato continuato e che, come si è anticipato, è costituito, a sua volta, da tre elementi: 1) il disegno; 2) la sua medesimezza; 3) la sua criminosità. In sé, la locuzione “medesimo disegno criminoso” presuppone, da una parte, l'ideazione, appunto, di un programma (cd. momento intellettivo), e, dall'altra, un obiettivo da realizzare (cd. momento volitivo). Tuttavia, una parte della dottrina e della giurisprudenza, anche sulla scorta della Relazione al I Libro del progetto definitivo del codice penale, in cui è scritto che nella continuazione è «l'elemento intellettivo, e non già l'elemento deliberativo e volitivo, che sorregge l'attività criminosa», accolgono una tesi ampia in base alla quale si ritiene che il requisito necessario e decisivo per l'unificazione di più reati sotto il vincolo della continuazione, sia costituito dal solo elemento intellettivo, dovendo i singoli reati — individuati nelle loro linee essenziali e concepiti anche in termini di eventualità — costituire parte integrante di un unico programma deliberato per conseguire un determinato fine, salvo l'elemento volontario che, di volta in volta, nella realizzazione concreta dei singoli reati, si dovrà porre in essere per l'attuazione del programma stesso (Cass. I, n. 1218/1993; Cass. II, n. 13489/1989; Cass. VI, n. 3353/1993; in dottrina Zagrebelsky, 315, Coppi, 227). La dottrina maggioritaria e la stessa più recente giurisprudenza di legittimità, sono invece, pervenute alla conclusione più restrittiva secondo la quale per ritenere sussistente il “medesimo disegno criminoso”, non è sufficiente il solo elemento intellettivo, ma occorre anche l'elemento volitivo o finalistico dell'unicità dello scopo: ex plurimis Cass. II, n. 18037/2004, secondo la quale il solo momento intellettivo (che, in ipotesi, potrebbe essere costituito anche dalla generale tendenza a porre in essere determinati reati o comunque con una scelta di vita che implica la reiterazione di determinate condotte criminose) non è sufficiente, atteso che le singole violazioni devono costituire parte integrante di un unico programma deliberato nelle linee essenziali per conseguire un determinato fine, richiedendosi, in proposito, la progettazione «ab origine» di una serie ben individuata di illeciti, già concepiti almeno nelle loro caratteristiche essenziali che trovi dimostrazione in specifici elementi atti a far fondatamente ritenere che tutti gli episodi siano frutto realmente di una originaria ideazione e determinazione volitiva; Cass. V, n. 5599/2014; Cass. IV, n. 30792/2022; Cass. I, n. 4553/2022; Cass. V, n. 34839/2022. In dottrina Fiandaca-Musco, PG, 707; Mantovani, PG 1979, 442; Mazzacuva, 406 . La norma in commento non specifica quali siano gli indici rivelatori del medesimo disegno criminoso. La giurisprudenza, tuttavia, ha elaborato ed individuato una serie di indici sintomatici che, solo se unitariamente considerati e valutati possono far ritenere provata la sussistenza del medesimo disegno criminoso in quanto ognuno di essi, isolatamente considerato, non può, normalmente assumere una valenza decisiva alla fine della prova del reato continuato a meno che non si tratti di un elemento particolarmente significativo (Cass. I, n. 44862/2008; Cass. I, n. 29630/2022). Gli indici individuati dalla giurisprudenza sono vari «quali l'omogeneità delle violazioni e del bene protetto, la contiguità spazio-temporale, le singole causali, le modalità della condotta, la sistematicità e le abitudini programmate di vita, e del fatto che, al momento della commissione del primo reato, i successivi fossero stati programmati almeno nelle loro linee essenziali, non essendo sufficiente, a tal fine, valorizzare la presenza di taluno degli indici suindicati se i successivi reati risultino comunque frutto di determinazione estemporanea»: Cass. S.U. n. 35852/2018; Cass. S.U. n. 28659/2017; Cass. I, n. 30252/2022; Cass. I, n. 29630/2022. In altri termini, la regola principale è che quanto più ampio è il lasso di tempo fra le violazioni, tanto più deve ritenersi improbabile l'esistenza di una programmazione unitaria predeterminata almeno nelle linee fondamentali (Cass. IV, n. 34756/2012; Cass. I, n. 29801/2022; Cass. III, n. 19865/2022). Il principio risulta ribadito anche recentemente da quella pronuncia secondo cui in tema di continuazione, il decorso del tempo costituisce elemento decisivo sul quale fondare la valutazione ai fini del riconoscimento delle condizioni previste dall'art. 81 c.p., atteso che, in assenza di altri elementi, quanto più ampio è il lasso di tempo fra le violazioni, tanto più deve ritenersi improbabile l'esistenza di una programmazione unitaria predeterminata almeno nelle linee fondamentali (Cass.II, n. 43745/2024). E tuttavia l'elevato arco di tempo all'interno del quale sono stati commessi più reati non esime il giudice dall'onere di verificare se la continuazione possa essere riconosciuta con riferimento a singoli gruppi di reato connessi, all'interno di tale arco, in epoca contigua, tenuto conto degli ulteriori indici rappresentati dalla similare tipologia, dalle singole causali e dalla contiguità spaziale spaziale: Cass. I, n. 7381/2019; Cass. I, n. 28577/2022. Nel particolare caso di pluralità di tentativi di reati in danno della stessa persona, si è ritenuto che la configurabilità del vincolo della continuazione non è, in linea di principio, esclusa, dovendosi però verificare, al fine della sua riconoscibilità in concreto, se, indipendentemente dall'essere stati o meno caratterizzati i singoli episodi dalla presenza di dolo diretto o di dolo eventuale, l'agente, nel porre in essere il primo tentativo, si sia o meno rappresentato la possibilità di un suo fallimento ed abbia quindi già programmato, in vista di tale ipotesi, i tentativi successivi: Cass. I, n. 6329/1996. Per gli imputati minorenni, la giurisprudenza è consolidata nel ritenere che mentre lo « stile di vita » ha normalmente un valore sintomatico non elevato e di contorno ai fini della prova del reato continuato, perché non consente di distinguere tra la mera ripetizione o abitualità di certi comportamenti e la loro anticipata programmazione, nel caso del minore, invece, in considerazione della particolare intensità dell'adesione a scelte di vita condizionate dall'ambiente, dal carattere e dall'immaturità del soggetto, queste scelte possono assumere un elevato significato indicativo anche circa la programmazione anticipata di singole condotte, specie in presenza di altri elementi sintomatici come la medesima tipologia dei reati commessi e la loro prossimità temporale: ex plurimis Cass. I, n. 46166/2009; Cass. V, n. 2911/2014; Cass. I, n. 26870/2015. Tale principio è stato ribadito da Cass. I, n. 15625/2023 secondo la quale, ove venga invocato il riconoscimento della continuazione tra reati commessi da un soggetto minorenne, incombe sul giudice di considerare, con puntuale motivazione, l'incidenza delle condizioni sociali ed ambientali in cui il minore è cresciuto sulla programmazione delle condotte illecite commesse, specialmente se connotate da notevoli contiguità temporale ed uniformità di modalità esecutive, in considerazione della particolare sensibilità del medesimo e della conseguente sua condizionabilità dal contesto circostante" Per gli imputati tossicodipendenti, si è consolidato il principio secondo il quale il giudice della cognizione deve tener conto dell'art. 671, comma 1, c.p. p. che dispone che «fra gli elementi che incidono sull'applicazione della disciplina del reato continuato vi è la consumazione di più reati in relazione allo stato di tossicodipendenza», essendo «norma di carattere generale e di natura sostanziale, pur essendo collocata nell'ambito della disciplina della continuazione in fase esecutiva» (Cass. V, n. 10797/2010), con la conseguenza che lo stato di tossicodipendenza, pur non comportando automaticamente il riconoscimento dell'unicità del disegno criminoso, può giustificarlo con riguardo ai reati che siano collegati e dipendenti a tale stato, sempre che ricorrano anche le altre condizioni individuate dalla giurisprudenza per la sussistenza della continuazione (ex plurimis, Cass. II, n. 22493/2019; Cass. II, n. 32371/2021; Cass. V, n. 22583/2022), e sempre che «emerga dagli atti oppure sia allegato in modo specifico, anche con documentazione sanitaria che ad esso faccia riferimento», nel qual caso, il giudice deve darne conto in motivazione come un fattore ulteriore concorrente, ma non esclusivo, con gli altri indici rivelatori di cui si è detto (ex plurimis, Cass. I, n. 30909/2022). Gli stessi principi valgono per la fase esecutiva (v. infra ). Segue. L'interruzione del disegno criminosoSi è posto il problema se alcuni avvenimenti (ad es. arresti; sentenze di condanna) intervenuti fra la commissione di alcuni reati ed altri possano essere ritenuti idonei ad escludere la sussistenza del medesimo disegno criminoso. La giurisprudenza, inizialmente, aveva assunto una posizione restrittiva, avendo negato che possa ravvisarsi la continuazione, per l'esistenza di un medesimo disegno criminoso, tra fatti già giudicati con precedente sentenza irrevocabile e fatti commessi successivamente alla data in cui la stessa decisione è stata emessa, in quanto tale opinione era cosa contraria ai principi che regolano la materia. Si era, infatti, rilevato che affermare che il legislatore abbia voluto favorire chi abbia concepito un disegno criminoso prima della condanna, promettendogli uno sconto di pena per i reati che, da lui ideati, non sono stati ancora commessi, è logicamente assurdo ed in contrasto con i principi fondamentali che disciplinano la pena, la quale deve «tendere alla rieducazione» del reo (art. 27, comma 3, Cost.). Né ad un contrario avviso può condurre il rilievo della possibilità di applicazione della continuazione anche in sede di esecuzione, introdotta con l'art. 671 c.p.p., perché tale possibilità (che non modifica, attesa la natura processuale della suddetta norma, la disciplina dettata dall'art. 81 c.p.) non fa venir meno alcuna delle ragioni che si oppongono a ravvisare la continuazione con fatti commessi dopo una sentenza di condanna, essendo sempre imposto al giudice dell'esecuzione di accertare la corrispondenza della fattispecie concreta a quella prevista dalla legge penale sostanziale: Cass. IV, n. 11909/1991. Tuttavia, successivamente, si è affermato il principio secondo il quale, l'interruzione del disegno criminoso, del quale si assume che più fatti costituiscono espressione, va accertata in concreto dal giudice, caso per caso, essendo ben possibile che il predetto disegno permanga o, addirittura, venga rafforzato e continui ad essere realizzato, pur durante lo stato di detenzione o dopo una sentenza irrevocabile di condanna per taluno di reati che di quel disegno sono realizzazione: Cass. I, n. 5166/1990; Cass. VI, n. 49868/2013. Di conseguenza, si sostiene che il disegno criminoso non può essere ritenuto automaticamente venuto meno per effetto: a) della detenzione in carcere o di altra misura limitativa della libertà personale, intervenuta dopo la commissione di un reato, e i reati successivamente commessi: ex plurimis Cass. I, n. 32475/2013 Cass. I, n. 37832/2019; Cass. I, n. 29126/2022; Cass. I, n. 24002/2022; Cass. V, n. 17115/2022; b) di una condanna intervenuta fra i reati commessi prima della condanna e quelli commessi dopo tale condanna (ex plurimis Cass I, n. 5266/1993), anche se passata in giudicato (ex plurimis Cass. I, n. 38719/2013; Cass. I, n. 6753/2019; Cass. V, n. 8946/2022) con la conseguenza che non esiste incompatibilità fra gli istituti della recidiva e della continuazione, sicché, sussistendone le condizioni, vanno applicati entrambi, praticando sul reato base, se del caso, l’aumento di pena per la recidiva e, quindi, quello per la continuazione (Cass. S.U. n. 9148/1996; Cass. IV, n. 49658/2014; Cass. III, n. 54182/2018; Cass. VI, n. 28611/2022; Cass. V. n. 26428/2022; contra: Cass. V, n. 5761/2010). Al contrario, relativamente alla condanna derivante da una sentenza straniera, è stato ritenuto che il riconoscimento di una sentenza penale straniera è funzionale soltanto ai fini espressamente e tassativamente previsti dall'art. 12, comma primo, e, pertanto, non può giovare all'applicazione della continuazione con altri reati giudicati dall'Autorità giudiziaria interna che presuppone un giudizio di merito e, quindi, il riferimento a categorie di diritto sostanziale (quali reato e pene) che si qualificano solo in ragione del diritto interno: Cass. I, n. 30463/2011; Cass. I, n. 35945/2015. Segue. Ambito applicativoIl reato continuato, si applica, in linea di massima, a tutti i reati in quanto la legge non prevede esclusioni di sorta. La suddetta affermazione, però, va precisata nel senso che: a) vi sono una serie di ipotesi del tutto peculiari relativamente alle quali è opportuno evidenziare in che termini la continuazione si applica; b) vi è un'ipotesi in cui è controversa l'applicabilità della continuazione; c) vi sono, infine, una serie di casi in cui vi è concordia nel ritenere l'incompatibilità con la continuazione. Ipotesi peculiari Nelle suddette ipotesi possono farsi rientrare: a) il tentativo; b) i reati abituali; c) gli stessi reati in continuazione. a) Tentativo: quanto alla compatibilità fra tentativo e continuazione, si rinvia al commento dell'art. 56. b) Reati abituali: il reato abituale (ad es. il reato di maltrattamenti ex art. 572 c.p.) si caratterizza, sotto il profilo dell'elemento materiale, per i comportamenti reiterati nel tempo ai quali è sottesa una comune spinta determinativa, ma non per l'analiticità della programmazione, elemento essenziale del reato continuato. Sotto il profilo dell'elemento soggettivo, poi, è caratterizzato da un dolo in divenire, costituito dalla configurazione della volontà sopraffattrice che si manifesta proprio nella ripetizione delle condotte (Cass. VI, n. 3965/1994; Cass. VI, n. 33106/2003; Cass. VI, n. 6541/2004), al contrario, del reato continuato che, relativamente all'identità del disegno criminoso, richiede il collegamento di eventi specificamente programmati (ex plurimis Cass. I, n. 1065/1983; Cass. I, n. 34502/2015; Cass. I, n. 23217/2022; Cass. I, n. 20170/2022). Proprio sulla base di queste diversità strutturali, la giurisprudenza è molto rigorosa in quanto esclude, in linea di principio, che distinti episodi di maltrattamenti in famiglia possano essere riuniti sotto il vincolo della continuazione, a meno che non vi sia la prova rigorosa della continuità ideativa e, quindi, l'esistenza del vincolo di continuazione tra gli stessi: Cass. VI, n. 15146/2014; Cass. I, n. 13013/2020; Cass. I, n. 39222/2014 ha ritenuto immune da vizi la sentenza impugnata che aveva escluso la continuazione tra i reati di tentato omicidio e di maltrattamenti commessi nei confronti di due diverse donne con le quali l'imputato intratteneva parallele relazioni sentimentali, entrambe caratterizzate da comportamenti vessatori e violenti; Cass. I, n. 15955/2016. c) Gruppi di reati continuati: in linea di principio non è esclusa la continuazione fra due o più gruppi di reati che, fra di loro, siano avvinti, dal vincolo della continuazione: ad es. reati di furto di auto, rapina e sequestro di persona in continuazione per episodio x; ulteriori e diversi reati di furto di auto, rapina e sequestro di persona in continuazione per episodio y: i reati in continuazione dell'episodio x, possono essere riuniti, in continuazione, con i reati continuati di cui all'episodio y, sempre che sia provata la continuità ideativa fra i due episodi. Una volta risolto positivamente il problema sostanziale a monte (sussistenza del medesimo disegno criminosi fra i vari gruppi di reati: Cass. I, n. 48125/2009 secondo la quale: «il riconoscimento della continuazione fra gruppi di reati ideati preventivamente ed in maniera unitaria non si estende automaticamente anche agli ulteriori reati collegati solo occasionalmente ad uno dei gruppi di reati in continuazione»), l'unico problema consiste nello stabilire le modalità dell'applicazione della continuazione. Sul punto, la giurisprudenza è consolidata nel ritenere che «nella applicazione della continuazione tra reati che, a loro volta, siano continuati con altri, l'aumento va applicato sulla pena determinata in concreto per la violazione più grave fra tutti i reati che singolarmente compongono due o più gruppi di reati continuati. Non è infatti configurabile la continuazione tra i reati satelliti di un gruppo ed i reati unificati di un altro gruppo: per ragioni di ordine logico e giuridico la ritenuta identità del disegno criminoso non può non investire tutti i reati»: Cass. VI, n. 5580/1991; Cass. V, n. 6026/1984. Si ponga attenzione alla circostanza che il principio di diritto affermato nelle suddette massime secondo il quale l'aumento va applicato sulla pena determinata in concreto per la violazione più grave, è valevole in sede di esecuzione; al contrario, ove la problematica si dovesse porre in sede di cognizione, vale l'altro principio secondo il quale l'aumento va applicato sulla violazione più grave in astratto (v. infra). d) Aberratio ictus: Cass. I, n. 4119/2019, ha ritenuto la configurabilità dell'unitarietà del disegno criminoso allorché uno dei reati facenti parte dell'ideazione e programmazione unitaria abbia avuto un esito aberrante rispetto all'originaria determinazione delittuosa: tale evenienza non muta, infatti, i termini dell'accertamento dell'elemento psicologico richiesto per l'integrazione della continuazione, che deve riguardare la riconducibilità a una comune e unitaria risoluzione criminosa del fatto-reato così come in origine programmato, il cui contenuto volitivo, attuativo di quella risoluzione, rimane uguale e non subisce alcuna modifica per il solo fatto che l'oggetto materiale della condotta è accidentalmente caduto su una persona diversa. Ipotesi controversa È sorta controversia in ordine all'applicazione del reato continuato relativamente ai reati previsti con pene pecuniarie proporzionali, relativamente alle quali (art. 27), si suole distinguere (Romano, Commentario, 243) fra: a) reati che prevedono pene proporzionali «propriamente dette» ovvero a «proporzionalità costante»: si tratta di pene cioè la cui entità risulta dalla moltiplicazione di un valore base da ricavare dalla situazione concreta: es. art 250 che punisce il commercio col nemico (oltre che con la reclusione) anche la multa pari al quintuplo del valore della merce; art. 282 comma 1 d.P.R. 23 gennaio 1973 n. 43, punisce con la multa non minore di due e non maggiore di dieci volte i diritti di confine dovuti chiunque commette determinati violazioni di legge. In altri termini, in questi casi, le pene pecuniarie (propriamente) proporzionali sono comminate per fattispecie a struttura unitaria (quale ad esempio, appunto, il reato di contrabbando) nelle quali la determinazione della sanzione viene solo vincolata dal legislatore a parametri predeterminati con riguardo all'offesa arrecata al bene tutelato dalla norma. In questi casi, il legislatore non prevede una speciale disciplina riferita al concorso formale o materiale dei reati, ma pone solo un limite al potere discrezionale del Giudice di quantificare la pena. b) reati che prevedono pene pecuniarie eventualmente «proporzionali» o «progressive», in cui l'entità della pena risulta dalla moltiplicazione di una base monetaria indicata dalla norma per un coefficiente da ricavare dalla situazione concreta. In altri termini, in tali ipotesi, ci si trova di fronte fattispecie a struttura pluralistica (con possibilità di ripetizioni della stessa condotta anche se non contestuale) per le quali è comminata una pena per ogni singola violazione del precetto, sicché il trattamento sanzionatorio è quello del cumulo materiale. Ad es. l'art. 22 comma 12 d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, stabilisce che «Il datore di lavoro che occupa alle proprie dipendenze lavoratori stranieri privi del permesso di soggiorno previsto dal presente articolo, ovvero il cui permesso sia scaduto e del quale non sia stato chiesto, nei termini di legge, il rinnovo, revocato o annullato, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa di 5000 euro per ogni lavoratore impiegato». La questione dell’applicabiltà o meno della normativa sul reato continuato ai reati sanzionati con pene pecuniarie proporzionali, fu risolta da Cass. S.U., n. 5690/1981 cit., sulla base della seguente distinzione: a) Nelle fattispecie legali a struttura essenzialmente unitaria (per pene proporzionali «propriamente dette») in cui la proporzionalità, investe soltanto il sistema di determinazione della sanzione, ed è in funzione del valore economico dell'oggetto materiale del reato o del danno cagionato dalla condotta (tributo evaso, diritto finanziario dovuto, valore della merce o dell'opera), non si prevede una speciale disciplina sanzionatoria, riferita al concorso formale o materiale di reati: di conseguenza, si applica il regime del cumulo giuridico previsto dall'art. 81: conf. Cass. III, n. 24719/2001 in una fattispecie in tema di contrabbando di tabacco lavorato estero; Cass. S.U. n. 25939/2013. b) al contrario, nel caso di pene pecuniarie impropriamente proporzionali, comminate per fattispecie legali a struttura pluralistica, la legge ha previsto trattamento punitivo fondato sul principio tot delicta tot poenae: di conseguenza, è inapplicabile l'art. 81, fondato sul diverso sistema del cumulo giuridico (tot delicta tot poenae), che si sostituirebbe al cumulo materiale: conf. Cass. I, n. 37696/2011 in una fattispecie in tema di violazione dell'art. 22 comma 12 d.lgs. n. 286/1998. Casi d'incompatibilità con la continuazione È sorta questione sull'applicabilità del reato continuato ad una serie di ipotesi concettualmente incompatibili con la struttura della continuazione. Sul punto, ha molto influito la tesi maggioritaria in ordine al “medesimo disegno criminoso” inteso come sintesi del momento intellettivo e volitivo (supra). Infatti, è proprio per effetto di questa tesi che si è ormai consolidata l'opinione che tende ad escludere dall'ambito concettuale del reato continuato (salvo e solo per alcuni casi, una rigorosissima prova in contrario), le seguenti ipotesi: 1) i reati commessi dal delinquente abituale o professionale: sul punto, infatti, è costante l'affermazione del principio di diritto secondo il quale il medesimo disegno criminoso non può identificarsi con la generale tendenza a porre in essere determinati reati o comunque con una scelta di vita che implica la reiterazione di determinate condotte criminose: ex plurimis: Cass. S.U., n. 18891/2022; Cass. I, n. 4553/2022; Cass. I, n. 36036/2018; Cass. I, n. 39222/2014; Cass. V, n. 5599/2013; Cass. II, n. 18037/2004. Ciò, ovviamente, non esclude che anche chi delinque in modo costante, non possa commettere più reati uniti dal vincolo della continuazione: significa solo che la costante reiterazione di reati non è di per sé indicativa della configurabilità della continuazione. Costituisce un ovvio, corollario del suddetto principio, l'ulteriore pacifica affermazione secondo la quale non è configurabile la continuazione fra i reati commessi in esecuzione di un generico programma delinquenziale: infatti, ai fini del riconoscimento del vincolo della continuazione è necessario un programma delittuoso specifico, sia pure in grandi linee, in cui trovino posto i singoli episodi che lo compongono, con possibilità di ampliarsi anche ad altri in corso di esecuzione: ex plurimis Cass. VI, n. 9684/1988; Cass. II, n. 17334/1989; Cass. I, n. 2074/1992; Cass. II, n. 2611/1993; Cass. IV, n. 36455/2020. 2) i reati che siano stati commessi sotto la spinta di fatti e circostanze occasionali più o meno collegati tra loro, ovvero di bisogni e necessità di ordine contingente (Cass. III, n. 1681/1995 escluse la continuazione fra più reati di atti di libidine violenta, in quanto accertò che i reati erano l'espressione di un momentaneo istinto sessuale e di una personale proclività alla libidine), o, in occasione dell'esecuzione del primo reato, non programmato ab origine neanche come ipotesi eventuale, che si pone come un incidente di percorso dovuto a ragioni sopravvenute (quand'anche espressione di preesistenti pulsioni psicologiche o caratterizzate da analoghe modalità esecutive) se pur in qualche modo ricollegabili al reato per così dire principale: ex plurimis Cass. II, n. 7420/1991 che escluse il vincolo della continuazione tra il reato di atti di libidine violenti e quello di rapina, in quanto il reato sessuale era espressione di una violenza strutturale insita nella personalità dell'imputato che aveva trovato nel reato di rapina, alla cui realizzazione era stata finalizzata l'azione dell'imputato, solo l'occasione per verificarsi; Cass. VI, n. 35805/2007; Cass. I, n. 25938/2008 e Cass. I, n. 29938/2012 che hanno rilevato l'incompatibilità logica fra l'attenuante di cui all'art. 116 comma 2 ed il reato continuato «in quanto esso è preclusivo della simultanea sussistenza di una previa programmazione unitaria dei fatti criminosi, sorretta da una volizione piena e non soltanto dalla prevedibilità dell'evento diverso ed ulteriore»; Cass. VI, n. 10022/2010 «Non è configurabile la continuazione tra il reato di cessione di sostanze stupefacenti e quello di cui deve rispondere il cedente ai sensi dell'art. 586 per la morte dell'acquirente seguita all'assunzione della droga ceduta»; Cass. I, n. 2595/2002; in dottrina, Marinucci-Dolcini, Manuale 2015, 519, chiariscono, in proposito, che la continuazione è incompatibile con la responsabilità oggettiva; contra: Cass. II, n. 323/1998; In ordine alla pluralità di reati commessi dal tossicodipendente, si registra la seguente giurisprudenza:
Ciò significa, quindi, che lo stato di tossicodipendenza, di per sè solo, ed il correlativo bisogno di procurarsi droga non costituiscono prova della originaria ideazione e della successiva permanenza del progetto criminoso: ex plurimis Cass. V, n. 8858/1998; Cass., I, n. 6368/1998. Senonché, a seguito della modifica apportata all'art. 671 c.p.p., comma 1, dal d.l. n. 272 del 2005, art. 4 vicies, convertito con la L. n. 49 del 2006, è stato previsto che, tra gli elementi che incidono sulla applicazione della disciplina del reato continuato, vi è la consumazione di più reati in relazione allo stato di tossicodipendenza. La giurisprudenza, sul punto – pur tenendo fermi i precedenti principi di diritti - ha, quindi, precisato che: a) la suddetta norma ha carattere generale e di natura sostanziale, pur essendo collocata nell'ambito della disciplina della continuazione in fase esecutiva, e, quindi, si applica sia in fase di cognizione che esecutiva: ex plurimis Cass., I, 41214/2007; Cass. V, n. 10797/2010; Cass. II, n. 19308/2010; b) ai fini del riconoscimento della continuazione occorre pur sempre che siano provati gli elementi costitutivi della continuazione: il che comporta che «la consumazione di più reati in relazione allo stato di tossicodipendenza non è condizione sufficiente ai fini del riconoscimento della continuazione, in mancanza di altri elementi concordanti»: ex plurimis Cass. I, n. 39287/2010; c) «i principi che regolano l'istituto della continuazione, con particolare riguardo a quello secondo il quale l'unicità del disegno criminoso, in quanto postulante l'attuazione di un programma preventivamente ideato e voluto, non può confondersi con la semplice estrinsecazione di un genere di vita incline al reato, non possono trovare applicazione anche ai soggetti per i quali è stato riconosciuto e provato lo status di tossicodipendente, dovendosi tener conto della volontà del legislatore espressa con la novella di cui al d.l. 30 dicembre 2005 n. 272 convertito dalla legge 21 febbraio 2006 n. 49 e della considerazione che quella del tossicodipendente che delinque per procurarsi stupefacente è esso stesso uno stile di vita»: ex plurimis, Cass. I, n. 31243/2016; Cass. I, 33518/2010. In pratica, e conclusivamente, si può, quindi, affermare che il novellato art. 671 c.p.p. - relativamente all'accertato status di tossicodipendenza - ha influito solo sul principio di diritto (che continua ad essere valevole per altre situazioni ad esso assimilabili) secondo il quale lo stile di vita e l'inclinazione a reiterare reati, non può essere confuso con il medesimo disegno criminoso. Infatti, se è vero che lo stato di tossicodipendenza non è di per sè elemento esclusivo ai fini della valutazione della unitarietà del disegno criminoso in quanto questo non può consistere nel solo stato di tossicodipendenza il quale non può di per sè giustificare qualsiasi reato, tuttavia il suddetto stato «deve essere valutato "fra gli elementi" che incidono sulla applicazione della suddetta disciplina, per cui la sua valutazione, pur se collegata ad una scelta di vita, oggi può essere presa in esame come collante idoneo a giustificare la unitarietà del disegno criminoso con riguardo ai reati che siano collegati e dipendenti dallo stato di tossicodipendenza e sempre che sussistano anche gli altri elementi già individuati dalla giurisprudenza come sintomatici della sussistenza della continuazione»: Cass. I, n. 7190/2007; Cass. VII, n. 45658/2021; Cass. I, n. 24199/2022. 3) i reati colposi in quanto è «contro l'intenzione» e l'evento, sicché, non essendo voluto, non può rientrare nel disegno criminoso la cui previsione è sorretta dall'elemento psicologico del dolo (ex plurimis Cass. IV, n. 6133/1992; Cass. VI, n. 6579/2012; Cass. VI, n. 5457/2021; in dottrina Fiandaca-Musco, PG, 708; Marinucci-Dolcini, Manuale 2015, 519; Mantovani, PG 1979, 442; Zagrebelski, 844, nt. 21; Romano, Commentario, 765; contra, fra gli altri, in dottrina, Pagliaro, 428; secondo il quale «poiché il disegno criminoso deve intendersi riferito alle azioni e non agli eventi, pensiamo sia possibile la continuazione tra fatti colposi, nonché tra fatti dolosi e fatti colposi»; Coppi, 229; Muscatiello, 1398) a meno che l'agente abbia realizzato il reato colposo agendo nonostante la previsione dell'evento (Cass. IV, n. 3579/2006). Alla stessa conclusione negativa, si è pervenuti in ordine: a) al concorso fra reati colposi e dolosi: «L'istituto della continuazione non è applicabile tra reati dolosi e reati colposi, in quanto l'unicità del disegno criminoso attiene ad un momento psicologico (dolo) che non può sussistere nei reati colposi nei quali l'evento non è voluto»: Cass. IV, n. 8164/2001; Cass. IV, n. 35665/2007; Cass. VI, n. 6579/2012; Cass. I, n. 435/2019; b) per gli stessi motivi, ai delitti preterintenzionali; 4) le contravvenzioni se colpose, perché, ove siano di natura dolosa, nulla esclude che possano rientrare nell'ambito del reato continuato: in terminis: Cass. III, n. 10235/2013; ; Cass.III, n. 49026/2019, in tema di ammissibilibità del concorso fra delitto doloso (violazione di sigilli) e contravvenzione dolosa (contravvenzione edilizia); in dottrina Fiandaca-Musco, PG, 708; Romano, Commentario, 765; Coppi, 230; 5) quanto ai rapporti fra associazione per delinquere e reati fine, pur non escludendosi in linea di principio che possa essere riconosciuta fra i medesimi la continuazione, tuttavia, la giurisprudenza è molto rigorosa in quanto esige la prova che i reati fine siano stati programmati nelle loro linee essenziali sin dal momento della costituzione del sodalizio criminoso (ex plurimis, Cass. III, n. 30580/2022; Cass. I, n. 1534/2018; Cass. I, n. 40318/2013) e ciò perché la continuazione presuppone l'anticipata ed unitaria ideazione di più violazioni della legge penale, già insieme presenti alla mente del reo nella loro specificità, almeno a grandi linee, sin dal momento in cui viene posto in essere il primo dei reati fine, situazione ben diversa da una mera inclinazione a reiterare nel tempo violazioni della stessa specie, anche se dovuta a una determinata scelta di vita o ad un programma generico di attività delittuosa da sviluppare nel tempo secondo contingenti opportunità, quale quello tipico dell'associazione per delinquere (Cass. I, n. 35797/2006; Cass. I, n. 37627/2016); In particolare, la giurisprudenza ha precisato che «Nel caso di commissione di reati aggravati ai sensi dell'art. 416-bis.1 cod. pen., il mero dato della strumentalità del reato rispetto al delitto associativo non è sufficiente a giustificare la sussistenza di un comune disegno criminoso, ravvisabile solo ove, con riferimento all'epoca di iniziale consumazione del delitto associativo, emergano dati significativi di una contestuale rappresentazione, nelle linee essenziali, dell'ulteriore fatto-reato ritenuto strumentale rispetto alla fattispecie associativa»: Cass. I, n. 7452/2020 (con nota di Canato). Quanto ai rapporti fra associazione per delinquere e concorso di persone nel reato continuato, la giurisprudenza è consolidata nel ritenere che «l'elemento distintivo tra il delitto di associazione per delinquere e il concorso di persone nel reato continuato è individuabile nel carattere dell'accordo criminoso, che nel concorso si concretizza in via meramente occasionale ed accidentale, essendo diretto alla commissione di uno o più reati - anche nell'ambito di un medesimo disegno criminoso - con la realizzazione dei quali si esaurisce l'accordo e cessa ogni motivo di allarme sociale, mentre nel reato associativo risulta diretto all'attuazione di un più vasto programma criminoso, per la commissione di una serie indeterminata di delitti, con la permanenza di un vincolo associativo tra i partecipanti, anche indipendentemente e al di fuori dell'effettiva commissione dei singoli reati programmati (Cass. V, n. 1964/2018). La condotta di partecipazione associativa si distingue dunque da quella del concorrente ex art. 110 c.p. perché, a differenza di questa, implica l'esistenza del pactum sceleris, con riferimento alla consorteria criminale, e della affectio societatis, in relazione alla consapevolezza del soggetto di inserirsi in un'associazione vietata, con la conseguenza che è punibile, a titolo di partecipazione e non in applicazione della disciplina del concorso esterno, colui che presta la sua adesione ed il suo contributo all'attività associativa, anche per una fase temporalmente limitata (Cass. II, n. 47602/2012)»: Cass. III, n. 11570/2020 (in motivazione); Cass. VI, n. 20244/2018; (sulla problematica: De Flammeis); 6) tenuità del fatto, ex art. 131-bis: sul punto si registra un contrasto. Infatti, secondo una parte della giurisprudenza «l’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all’art. 131-bis non può essere dichiarata in presenza di più reati legati dal vincolo della continuazione, e giudicati nel medesimo procedimento, configurando anche il reato continuato una ipotesi di comportamento abituale, ostativa al riconoscimento del beneficio»: Cass. VI, n. 18192/2019; Cass. IV, n. 44896/2018 (con nota di Fimiani); Cass. III, n. 19159/2018; Cass. V, n. 45190/2015, Cass. III, n. 47256/2015; Cass. II, n. 230/2016. Secondo invece, altra parte della giurisprudenza «Ai fini della configurabilità della causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all'art. 131-bis c.p., non osta, in astratto, che il reato sia posto in continuazione con altri, dovendosi, tuttavia, valutare, anche in ragione del suo inserimento in un contesto più articolato, se la condotta sia espressione di una situazione episodica, se la lesione all'interesse tutelato dalla norma sia comunque minimale e, in definitiva, se il fatto nella sua complessità sia meritevole di un apprezzamento in termini di speciale tenuità»: Cass. II, n. 11591/2020; Cass. IV, n. 10111/2020; Cass. IV, n. 4649/2019; Cass. II, n. 42579/2019; Cass. V, n. 32626/2018; Cass. VI, n. 5358/2018. A fronte di tale persistente contrasto, è stata rimessa alle S.U. la seguente questione «Se la continuazione tra reati sia di per sé sola ostativa all’applicazione della causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, ovvero lo sia solo in presenza di determinate condizioni». Con sentenza Cass. S.U., n. 18891/2022 - in una fattispecie relativa a tre condotte di violenza privata poste in essere nell’arco di un mese - le Sezioni Unite hanno dato risposta al suddetto quesito enunciando i seguenti principi di diritto: «a) La pluralità di reati unificati nel vincolo della continuazione non è di per sé ostativa alla configurabilità della causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto prevista dall'art. 131-bis cod. pen., salve le ipotesi in cui il giudice la ritenga idonea, in concreto, ad integrare una o più delle condizioni tassativamente previste dalla suddetta disposizione per escludere la particolare tenuità dell'offesa o per qualificare il comportamento come abituale; b) In presenza di più reati unificati nel vincolo della continuazione, la causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto può essere riconosciuta dal giudice all'esito di una valutazione complessiva della fattispecie concreta, che, salve le condizioni ostative previste dall'art. 131-bis cod. pen., tenga conto di una serie di indicatori rappresentati, in particolare, dalla natura e dalla gravità degli illeciti in continuazione, dalla tipologia dei beni giuridici protetti, dall'entità delle disposizioni di legge violate, dalle finalità e dalle modalità esecutive delle condotte, dalle loro motivazioni e dalle conseguenze che ne sono derivate, dal periodo di tempo e dal contesto in cui le diverse violazioni si collocano, dall'intensità del dolo e dalla rilevanza attribuibile ai comportamenti successivi ai fatti». 7) reato permanente: «si definiscono reati permanenti quei reati in cui, il protrarsi dell'offesa dipende dalla volontà dell'autore [...] nei reati permanenti acquisita quindi rilevanza giuridica non soltanto l'attività del soggetto che realizza la lesione del bene, ma anche quella successiva di mantenimento» (in dottrina Fiandaca-Musco, PG, 210): esempi di reati permanenti sono i reati previsti negli artt. 633,605,416 La dottrina dominante ritiene che il reato permanente «è reato unico, poiché offensivo dello stesso bene giuridico»: Mantovani, 2015, 429; Fiandaca-Musco, PG, 210; Coppi, § 3. La suddetta affermazione va, però, attentamente valutata in ordine ai reati associativi (ad es. artt. 416 – 416 bis). Sul punto, la giurisprudenza più risalente, aveva affermato il seguente principio: «Il vincolo della continuazione è incompatibile con la commissione di un reato permanente, ontologicamente unico anche se interrotto da evenienze processuali, come il reato di associazione per delinquere di tipo mafioso o camorristico. Tuttavia, qualora l'interruzione del reato associativo dipenda non dalla sentenza ma da una parentesi di dissociazione o di abbandono temporaneo del sodalizio criminoso, il ripristino dei legami di affiliazione, seguito al rientro, può costituire un nuovo reato non solo processualmente autonomo, ma, sussistendone le condizioni, collegabile a quello interrotto, con il vincolo della continuazione»: Cass. I, n. 2131/1998. Successivamente, il suddetto principio, è stato precisato nei seguenti termini: «Il vincolo della continuazione non è incompatibile con la commissione di reati permanenti la cui consumazione sia frammentata da eventi interruttivi costituiti da fasi di detenzione o da condanne. Se in genere è vero che eventi imprevedibili come la detenzione o la condanna determinano una frattura che impedisce il mantenimento dell'identità del disegno criminoso che caratterizza la continuazione, questo può non essere vero in contesti delinquenziali come quelli determinati dalle associazioni di stampo mafioso nei quali periodi di detenzione o condanne definitive sono accettate dai sodali come prevedibili eventualità. In tali casi il vincolo della continuazione non è incompatibile con un reato ontologicamente unico, come quello di appartenenza ad una associazione di stampo mafioso, quando il segmento della condotta associativa successiva all'evento interruttivo trova la sua spinta psicologica nel pregresso accordo per il sodalizio»: Cass. VI, n. 8851/1997; Cass. I, n. 46576/2005; Cass. I. n. 38486/2011; Cass. II, n. 20376/2022; Cass. V, n. 18020/2022. Per meglio comprendere la problematica, si ipotizzi che Tizio, facente parte di un’associazione per delinquere dal 1 gennaio 1995, sia sottoposto a misura cautelare il 1 gennaio 2010 e che il processo si celebri nel 2013. Ove la Pubblica accusi dimostri che l'appartenenza al sodalizio criminoso sia proseguito anche dopo la custodia cautelare e permanga anche al momento del processo, nel caso in cui Tizio sia riconosciuto colpevole, essendo il reato unico, la pena, appunto, dovrà essere unica non essendo consentito frazionare i periodi di appartenenza al sodalizio fra un primo periodo (1 gennaio 1995 — 1 gennaio 2010) ed uno successivo: è pacifico, infatti, che lo stato di detenzione non è elemento sufficiente a far ritenere cessata la partecipazione all'associazione. A tale conclusione è, ad es., pervenuta Cass. II, n. 41727/2014, la quale ha affermato il seguente principio: «in tema di partecipazione ad associazione mafiosa, la condotta criminosa cessa con lo scioglimento del vincolo associativo o per recesso volontario del singolo, sicché, in assenza di soluzione di continuità, la partecipazione al medesimo sodalizio criminoso, anche se contestata in tempi diversi, realizza un unico reato permanente». Nella fattispecie, si trattava di un imputato tratto a giudizio in due procedimenti diversi per il reato associativo, procedimenti che, poi erano stati riuniti. La Corte di merito, sul presupposto che si trattava di due diverse associazioni per delinquere, aveva condannato l'imputato in entrambi i procedimenti ponendo in continuazione la pena del reato ritenuto meno grave. La Corte di cassazione, invece, ritenne che il reato fosse unico perché non vi era alcuna soluzione di continuità né alcuna differenza fra le due associazioni: di conseguenza — esclusa la continuazione — annullò la sentenza limitatamente al trattamento sanzionatorio dovendo il medesimo essere commisurato alla maggior durata del reato permanente. Quanto appena detto può darsi per pacifico. La questione, invece, sorge per la punibilità del segmento successivo ad una condotta relativamente alla quale l'agente sia già stato condannato con sentenza passata in giudicato. Ad es., si ipotizzi che Tizio, facente parte di un'associazione per delinquere dal 1 gennaio 1995, sia condannato con sentenza passata in giudicato il 1 gennaio 2005. Tizio, tuttavia, pur essendo stato condannato non ha mai smesso di far parte della suddetta associazione; il problema è: Tizio può essere processato e condannato una seconda volta per il periodo successivo alla precedente condanna? Per impostare correttamente la soluzione del problema, si tenga presente che, secondo la costante giurisprudenza di legittimità, la pronuncia della sentenza di primo grado segna in ogni caso il termine ultimo e invalicabile della protrazione della permanenza del reato (ex plurimis: Cass. I, n. 17265/2008; peraltro, sulla questione, va rammentato che rileva la circostanza se la contestazione sia stata effettuata in modo “aperto” o “chiuso”: sul punto, cfr motivazione Cass. II, n. 20798/2016 ): in altri termini, si ritiene che la permanenza cessi con la pronuncia della sentenza di primo grado, perché, a seguito della istruttoria dibattimentale, in tale fase si accerta il fatto da giudicare, sicché l'imputazione, essendosi definitivamente cristallizzata, non è più modificabile nei gradi successivi, anche perché, per il divieto della reformatio in pejus, la pena inflitta dal primo giudice non potrebbe essere aggravata in appello, ove si accertasse la prosecuzione dell'attività criminosa (appartenenza all'associazione) anche dopo la sentenza di primo grado. Partendo da questo principio, la giurisprudenza si è, quindi, consolidata nel ritenere che «la sentenza di condanna per un reato associativo interrompe giuridicamente la protrazione del delitto di partecipazione a quella stessa associazione criminosa, sicché il successivo tratto di condotta partecipativa è autonomamente apprezzabile e può essere valutato in continuazione con quella oggetto della sentenza di condanna già intervenuta»: Cass. I, n. 15133/2009; Cass. I, n. 4407/2000. Si è, infatti, osservato che «Non si tratta quindi di una duplicazione del reato per ragioni di indagine, ma di un medesimo reato spezzato da un evento interruttivo che ha separato due condotte separatamente punibili. Trattandosi poi della medesima struttura associativa e dei medesimi soggetti operanti ancorché dispiegatesi lungo periodi differenti, sarà agevole applicare il vincolo della continuazione in fase di cognizione o esecutiva in modo da ripristinare quella pena per tutto il periodo di perpetrazione del fatto di reato che sarebbe stata irrogata in modo unitario se i due segmenti temporali fossero stati «processati» in un unico processo di cognizione»: Cass. I, n. 31479/2013; Cass. I, n. 14994/2015; ; Cass. V, n. 15685/2020; Cass. I, n. 4071/2020. Anche la dottrina si mostra sostanzialmente favorevole alla suddetta soluzione. È stato, infatti, osservato che «il reato prosegue oltre la sentenza e la protrazione non integra una semplice circostanza o un passaggio di grado o una modifica del titolo, ma la prosecuzione dell'offesa: quindi il perdurare dello stesso precetto già violato, della condotta antigiuridica e colpevole e della lesione o della esposizione a pericolo di un bene che la legge non cessa di considerare meritevole di protezione solo perché è già intervenuta una sentenza di condanna. È vero, insomma, che nel caso di permanenza oltre la sentenza il soggetto non commette un “nuovo” reato perché l'illecito è sempre lo stesso, ma è anche vero che il reato prosegue oltre la sentenza prolungando l'offesa al bene»: Coppi, op. cit. il quale — aderendo alla tesi di De Francesco — ritiene che il giudice deve «fissare una pena che, sommata a quella inflitta dal primo giudice, non superi nel complesso i limiti edittali della sanzione prevista per quel particolare reato»; G. De Francesco, 587; Cordero, 1135; Lozzi, 921; Rivello, 1410; Nuzzo, 1494; Malavasi, 262; Jannelli, 633; Rafaraci, 876; Caprioli-Vicoli, 100. In contrario, si è, però, rilevato che la formula dell'art. 90 (ora art. 649 c.p.p.) non consente di sottoporre l'imputato ad un nuovo processo per il medesimo “fatto” neppure se questo viene diversamente considerato per “il grado”, termine questo che designa gli stadi dell'eventuale progressione criminosa: Rampioni, 857; Valiante, 210; Galantini, 1205 che, affrontando il problema sotto il diverso profilo della compatibilità della soluzione prospettata dalla precedente tesi con la CEDU, evidenzia come la suddetta giurisprudenza si pone in contrasto con la giurisprudenza europea dei diritti, la quale, invece, «adotta in via esclusiva il criterio storico-naturalistico in contrapposizione alla giurisprudenza di legittimità costantemente guidata da criteri che analizzano il fatto storico alla luce della fattispecie astratta, cioè proiettando sull'episodio storico le categorie del “fatto giuridico” scomposto nei suoi elementi costitutivi»; negli stessi termini, Catena che sottopone a critica la suddetta giurisprudenza alla luce della sentenza Drassich; 8) misure di prevenzione. È stato ritenuto che «non è estensibile alle misure di prevenzione personali la disciplina della continuazione di cui all'art. 81, attesa l'inconciliabile estraneità tra il giudizio sulla pericolosità sociale, sempre revocabile o modificabile, e la valutazione relativa alla sussistenza dell'unitarietà progettuale degli illeciti»: Cass. I, n. 5688/2015. 9) procedimenti disciplinari: in proposito, si è ritenuto che « In ipotesi di plurime condotte materiali aventi autonomo rilievo deontologico, non può applicarsi la disciplina della continuazione di cui all'art. 8 l. n. 689/1981 che ha ad oggetto gli illeciti amministrativi in materia di previdenza ed assistenza, né la disciplina della continuazione di cui all'art. 81 che trova applicazione in materia di illecito penale»: Cass. S.U., n. 15669/2016 (con nota di Ventura); 10) recidiva: sui rapporti fra reato continuato e recidiva, si rinvia al commento dell'art. 99; 11) reato a consumazione prolungata o ad evento frazionato: con tale sintagma, si suole indicare la fattispecie in cui «la verificazione dell'evento si fraziona nel tempo» (Mantovani: 2015, 134). Si tratta, quindi, di fattispecie in cui l'agente palesa la volontà, fin dall'inizio, di realizzare un evento destinato a durare nel tempo: esempio tipico – oltre a quello della percezione di interessi usurari - si ha con le truffe a carico dell'INPS per la percezione di prestazioni indebite di finanziamenti e contributi la cui erogazione sia rateizzata periodicamente nel tempo (ad es. false pensioni di invalidità). In tale ipotesi, con tutta evidenza, il fatto reato è unico (perché unica – a monte - è la condotta truffaldina dalla quale conseguono, a favore dell'agente, le varie percezioni delle somme non dovute nel tempo). Di conseguenza, il momento consumativo va fatto coincidere con la cessazione dei pagamenti, che segna anche la fine dell'aggravamento del danno: in terminis, Cass. V, n 32050/2014; Cass. II, n. 11026/2005; Cass. II, 53667/2016. Tale fattispecie, quindi, non ha nulla in comune con il reato continuato che presuppone la reiterazione delle condotte criminose, ognuna delle quali integra, di per sé, un autonomo reato. Il che può verificarsi anche nelle ipotesi delle truffe ai danni dell'Inps ma solo quando l'agente, al fine di percepire il frutto della truffa, deve reiterare, ogni volta, la condotta truffaldina (Cass. S.U., n. 18953/2016, ma con obiter). Alla stregua di tale criterio, quindi, condivisibile è la soluzione prospettata da Cass. II, 53667/2016 secondo la quale nel caso della percezione di ratei pensionistici di soggetto defunto, risulta allora decisivo stabilire se l'incasso delle somme non dovute sia frutto di un'unica condotta originaria, cui siano seguiti pagamenti rateizzati, ovvero di plurime condotte truffaldine; così che la truffa è a consumazione prolungata, quando la frode è strumentale al conseguimento di erogazioni pubbliche il cui versamento viene rateizzato, e si consuma al momento della percezione dell'ultima rata di finanziamento, e necessita che tutte le erogazioni siano riconducibili all'originario ed unico comportamento fraudolento, mentre, quando per il conseguimento delle erogazioni successive alla prima, è necessario il compimento di ulteriori attività fraudolente, devono ritenersi integrati altrettanti ed autonomi fatti di reato con la conseguente applicazione del regime della continuazione dei reati anche relativamente alla prescrizione dei plurimi fatti. Se pertanto l'accreditamento delle somme avviene a seguito di una omessa comunicazione del decesso, cui non siano seguiti ulteriori comportamenti truffaldini, potrà effettivamente ritenersi sussistere l'ipotesi della truffa a consumazione prolungata con conseguente consumazione alla data dell'ultima percezione, da cui decorre il termine di prescrizione; ove invece il versamento di somme non dovute sia frutto della periodica falsa attestazione dell'esistenza in vita da parte del soggetto delegato alla riscossione, si è in presenza di plurimi comportamenti truffaldini così che è inevitabile l'applicazione del regime della pluralità dei reati con le dovute conseguenze in tema di prescrizione; conformi, Cass. VI, n. 45917/2021; Cass. V, n. 22258/2022.. La stessa problematica si ripropone per il reato di cui all’art. 316-ter c.p. La giurisprudenza si è reiteratamente occupata della fattispecie in cui il datore di lavoro, pur omettendo di corrispondere le somme dovute ad alcuni dipendenti a titolo di indennità di malattia, assegni familiari e cassa integrazione guadagni, tuttavia le porti a conguaglio - negli appositi modelli DM10 - con quanto da lui dovuto all'istituto previdenziale per contributi previdenziali e assistenziali: a seguito di tale fittizia esposizione di somme, il datore di lavoro ottiene un conguaglio non dovuto. Sul punto, la giurisprudenza si è orientata nel ritenere che, nella suddetta condotta, sia ravvisabile un reato continuato (e non a consumazione prolungata) dovendosi considerare come singolo reato ogni compensazione illecitamente ottenuta, in quanto il datore di lavoro, ogni mese, con la trasmissione del Mod. DM10 (in vigore fino al 1° gennaio 2010, data in cui il suddetto modello è stato sostituito dal cd. flusso informatico “Uniemens aggregato”), reitera un autonomo reato a seguito del quale l’Inps concede, ogni volta, il conguaglio. Si è, infatti osservato che «che proprio il momento dell'”utilizzo o la presentazione di dichiarazioni o documenti falsi o attestanti cose non vere”, cui consegue l'erogazione del contributo o del finanziamento, costituisce momento nel quale viene a realizzarsi il momento consumativo del reato; momento corrispondente alla condotta del datore di lavoro che provvede a versare all'I.N.P.S. - conformemente a quanto indicato sul modello "DM10" - l'importo ridotto dei contributi a cagione dell'operato indebito conguaglio, così percependo tale differenza quale erogazione non dovuta da parte dall'ente pubblico»: Cass. VI, n. 31223/2021; Cass. VI, n. 7963/2020; Cass. VI, n. 7962/2020; Cass. II, n. 15989/2016. Segue. La penaLe modalità con le quali si deve determinare la pena nel reato continuato, è, probabilmente, il capitolo più controverso e discusso dell'intera problematica relativa al reato continuato. Le questioni che hanno travagliato a lungo la giurisprudenza (e la stessa dottrina), sono due: a) cosa si debba intendere per “violazione più grave”; b) come, concretamente, si deve determinare la pena ove i reati in continuazione prevedano pene eterogenee. In questa sede, ci limiteremo ad illustrare qual è l'attuale approdo al quale è pervenuta la giurisprudenza dopo numerosi contrasti che hanno richiesto, nel corso di decenni, il reiterato intervento di delle Sezioni unite alle quali, sia pure con qualche distinguo, ha prestato adesione anche la dottrina più recente (Fiandaca-Musco, PG, 710; Marinucci-Dolcini, Manuale 2015, 513). Infine, quanto alla motivazione sull’aumento di pena per la continuazione, si rinvia al § 19.1. Segue. La violazione più graveLa questione può essere sintetizzata nei seguenti termini: se, in tema di reato continuato, l'individuazione della violazione più grave ai fini del computo della pena debba essere effettuata in concreto oppure con riguardo alla valutazione compiuta in astratto dal legislatore. Per comprendere l'importanza della differenza fra i due metodi di valutazione, è opportuno rammentare che il procedimento logico — giuridico che il giudice segue per individuare quale sia la violazione più grave cambia a seconda che adotti il criterio della violazione più grave in astratto o in concreto. Nel primo caso (violazione più grave in astratto), il giudice, fra tutti i reati da porre in continuazione, prima individua per quali fra di essi è prevista la pena edittalmente più elevata, e, poi, stabilisce quale pena, per quel reato, debba essere inflitta in concreto: la pena finale, in essa compresa sia quella base che quella per i reati satelliti, non può superare il triplo della pena base. Profondamente diverso è, invece, il procedimento logico — giuridico che il giudice segue nel secondo caso (violazione più grave in concreto): in tale ipotesi, il giudice prescinde dalla violazione in astratto più grave, in quanto individua la violazione più grave nel reato che, fra tutti quelli da porre in continuazione, in concreto, alla stregua dei principi di cui all'art. 133, ritenga debba essere sanzionato con una pena superiore a tutti gli altri reati. Secondo una prima tesi, alla stregua dell'art. 187 disp. att. c.p.p. la violazione più grave, ai fini della determinazione della pena base, dev'essere individuata con riferimento alla pena da infliggere in concreto per ciascuno dei reati, dopo la valutazione di ogni singola circostanza e l'eventuale giudizio di comparazione di cui all'art. 69, secondo i criteri indicati nell'art. 133, senza alcun riguardo al titolo ed alle relative pene edittali: questa tesi, oltre che trovare riscontri giurisprudenziali (Cass. VI, 25120/2012) è sostenuta soprattutto in dottrina (fra gli altri: Romano, Commentario, 755; Conz, 477; Napoleoni § 2.3; Coppi, 230). Secondo, invece, una seconda tesi, occorre fare riferimento alla pena comminata in astratto e ciò in ossequio al principio di legalità e a quello di certezza del diritto. Nell'ambito, poi, di questa tesi, alcuni sostengono che si deve tener conto non della specie e dell'entità della pena, bensì del genere e dell'entità della sanzione comminata, sicché il delitto è da considerare sempre più grave della contravvenzione e ciò anche nel caso in cui quest'ultima sia punita con una pena edittale di maggiore quantità rispetto a quella prevista per il delitto; in presenza di una pluralità di delitti (o di contravvenzioni) si deve considerare più grave il delitto (o la contravvenzione) che ha il massimo edittale più elevato; in presenza di un massimo edittale identico, occorre avere riguardo al delitto (o alla contravvenzione) con il minimo edittale più elevato: Fiandaca-Musco, PG, 310. Secondo altri, invece, occorre fare riferimento alla specie (detentiva o pecuniaria) e non al genere (delittuoso o contravvenzionale) e all'entità delle sanzioni applicabili per i singoli reati uniti dal vincolo della continuazione sicché è più grave la violazione per la quale è prevista la pena detentiva rispetto al reato punito con la pena pecuniaria; in presenza di pene qualitativamente identiche, la violazione più grave è il reato punito con una pena avente un massimo edittale più elevato o, in caso di identico massimo edittale, il reato per il quale è prevista una pena avente il maggior minimo edittale. Il contrasto è stato risolto da Cass. S.U.n. 25939/2013 le quali, nell'accogliere la seconda delle tesi illustrate — peraltro ribadendo quanto già affermato da Cass. S.U.n. 15/1997; Cass. S.U.,n. 4901/1992; Cass. S.U.,n. 748/1993 — hanno stabilito che, per individuare quale tra diversi reati unificati dal «medesimo disegno criminoso» costituisca la «violazione più grave», occorre seguire le seguenti regole: a) i delitti si considerano sempre più gravi delle contravvenzioni, indipendentemente dalle pene edittali previste dalle singole norme incriminatrici; b) è più grave il reato che prevede il massimo edittale più elevato o, in presenza di identici massimi edittali, il reato con il minimo edittale più elevato; c) la pena detentiva è sempre più grave dell'omologa pena pecuniaria: quindi, nell'ambito dei delitti, la reclusione è sempre più grave della multa; nell'ambito delle contravvenzioni, l'arresto è sempre più grave dell'ammenda; d) in presenza di eventuali circostanze del reato e all'esito dell'eventuale giudizio di bilanciamento, la pena più grave (di cui alla precedente lett. b) dev'essere individuata calcolandosi «nel minimo l'effetto di riduzione per le attenuanti e nel massimo l'aumento per le circostanze aggravanti»; e) non è «consentito applicare una pena-base inferiore al minimo edittale previsto per uno qualsiasi dei reati unificati dall'identità del disegno» criminoso.
Segue. La determinazione della penaStabilito quale, fra i vari reati in continuazione, sia la violazione più grave secondo i criteri illustrati nel precedente paragrafo, all'attenzione del giudice si pone l'ulteriore questione di quali siano le regole da applicare per l'aumento da apportare alla pena base per gli altri reati ritenuti in continuazione. La questione deriva dal fatto che, il reato continuato non è costituito solo da «più violazioni della stessa disposizione di legge, anche se di diversa gravità», come era nella previgente disciplina, ma da «più violazioni della stessa o di diverse disposizioni di legge»; con la conseguenza che, prevedendosi la continuazione tra norme incriminatrici eterogenee, il cumulo giuridico deve avvenire tra pene diverse sia nel genere (detentive o pecuniarie) che nella specie (reclusione o arresto ovvero multa o ammenda). La suddetta questione venne in evidenza con la riforma del 1974. Infatti, il legislatore del 1930 aveva innanzitutto eliminato ogni differenza di disciplina tra concorso formale e concorso materiale di reati e, rifiutando lo schema del cumulo giuridico, aveva adottato integralmente il criterio del cumulo materiale (tot crimina tot poenae), fissando solo alcuni limiti con gli artt. 72-79 Il reato continuato, era stato poi riammesso nel codice, consentendo così l'ingresso del criterio del cumulo giuridico delle pene, limitatamente però al concorso materiale di reati. Tale situazionevenne riformata con la dalla riforma del '74, che nel novellato art. 81 ha adottato per il concorso formale di reati il criterio del cumulo giuridico, estendendone la disciplina al reato continuato, la cui area di operatività, già limitata alle violazioni della stessa disposizione di legge, comprende così anche le violazioni di diverse disposizioni di legge. Con la generalizzazione del criterio del cumulo giuridico, nel sistema vigente l'ambito di rilevanza del cumulo materiale è confinato all'ipotesi di concorso materiale di reati non legati dal vincolo della continuazione, e siccome l'elemento discriminante risiede nel medesimo disegno criminoso e nella applicazione giudiziale è generalizzato il riconoscimento della continuazione nel caso di commissione di più reati, il rilievo delle questioni proposte risulta di particolare evidenza. La soluzione che la giurisprudenza ha dato alla suddetta questione è il frutto di un lungo e travagliato cammino costellato da numerose sentenze a Sezioni Unite, che hanno, di volta in volta, elaborato, numerose regole che possono essere così sintetizzate: a) «La continuazione, quale istituto di carattere generale, è applicabile in ogni caso in cui più reati siano stati commessi in esecuzione del medesimo disegno criminoso, anche quando si tratti di reati appartenenti a diverse categorie e puniti con pene eterogenee»: Cass.S.U., n. 40983/2018; Cass. S.U., n. 25939/2013; Cass. S.U., n. 15/1998;Cass. S.U., n. 4901/1992; Corte Cost. n. 312/1988; Cass. S.U. n. 6300/1984; b) Una volta individuata la «violazione più grave», i reati meno gravi (cd. satelliti) perdono la loro autonomia sanzionatoria e il relativo trattamento sanzionatorio confluisce nella pena unica irrogata per tutti i reati concorrenti. Costituisce, infatti, una pena legale non solo quella stabilita dalle singole fattispecie incriminatrici, ma anche quella risultante dalle varie disposizioni incidenti sul trattamento sanzionatorio, quali sono, appunto, tra le altre, quelle concernenti il reato continuato (cd. principio della pena unitaria progressiva per moltiplicazione): in terminis Cass. S.U., n. 40983/2018; Cass. S.U., n. 25939/2013; Cass. S.U., n. 15/1998;Cass. S.U., n. 4901/1992; Corte cost. n. 312/1988; Sul punto è opportuno precisare che, secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità, «In tema di concorso di reati puniti con sanzioni omogenee sia nel genere che nella specie per i quali sia riconosciuto il vincolo della continuazione, l'individuazione del concreto trattamento sanzionatorio per il reato ritenuto dal giudice più grave non può comportare l'irrogazione di una pena inferiore nel minimo a quella prevista per uno dei reati satellite»: S.U. n. 25939/2013; Cass. III, n. 6828/2015; Cass. III, n. 18099/2020. Ad es. ove siano posti in continuazione i reati di ricettazione (che prevede una pena da due ad otto anni di reclusione e la multa da € 516,00 ad € 10.329) e quello di cui all'art. 171-ter L. n. 633 del 1941, come modif. dalla L. n. 248 del 2000 (che prevede la reclusione da sei mesi a tre anni, oltre alla multa dal minimo di Euro 2.582,00 al massimo di Euro 15.493,00), il giudice, una volta individuato come reato più grave quello di ricettazione (essendo la pena detentiva più elevata), deve determinare la pena base detentiva infliggendo la pena detentiva prevista per la ricettazione (ad es. anni due di reclusione) mentre la pena pecuniaria dev'essere inflitta sulla base di quella prevista per l'art. 171-ter (ad es. € 2.582,00 di multa): sulla suddetta pena base (art 648 cod. pen.) dev'essere poi effettuato l'aumento per la continuazione per il reato di cui all'art. 171-ter (ad es. mesi uno di reclusione ed € 500,00 di multa). c) il giudice deve individuare e stabilire la pena in aumento per ciascun reato-satellite, e ciò sia per la verifica dell'osservanza del limite di cui all'art. 81, comma 3 sia perché a taluni effetti il cumulo giuridico si scioglie: Cass. S.U., n. 7930/1995; Cass. S.U., n. 25939/2013; d) se la pena del reato satellite, è di specie diversa (arresto; ammenda) ma di genere uguale (detentivo/pecuniario) a quella prevista per il reato base (reclusione; multa), la pena per il reato satellite si cumula a quella del reato base diventando ad essa omogenea (ossia della stessa specie): quindi, l'arresto o l'ammenda (per il reato satellite) diventeranno, rispettivamente, reclusione e multa:Cass. S.U., n. 40983/2018; e) se, invece, la pena dei reati satelliti è di specie diversa (reclusione/arresto; multa/ammenda) e di genere diverso (detentivo o pecuniario), si deve procedere nei termini di seguito indicati: e1) se la violazione più grave è costituita da una multa (delitto), la pena dell'arresto (violazione meno grave) prevista per il reato satellite dev'essere convertita in pena pecuniaria (multa) che, in tal modo, diviene porzione dell'aumento sulla pena base (Cass. S.U., n. 15/1998; Cass. I, n. 4724/1998); e2) nel caso inverso, e cioè quando la pena base per la violazione più grave è costituita dalla reclusione (delitto o arresto) e la pena per il reato satellite è costituita dall'ammenda o dalla multa (pena meno grave), l'opinione tradizionale, ritiene che la determinazione della pena complessiva vada effettuato aumentando la pena della detenzione (reclusione/arresto) prevista per la pena base del reato più grave, anche se la pena prevista per il reato satellite sia solo pecuniaria (multa/ammenda): quindi, in caso di reati puniti con pene eterogenee, va applicata una sola pena, dello stesso genere e della stessa specie di quella del reato più grave, anche quando l'aumento derivi da reati satelliti per i quali siano previste pene eterogenee o di specie diversa. Pertanto, ad es. ove il reato più grave sia sanzionato con la pena della detenzione (reclusione o arresto) ed il reato satellite con la sola pena pecuniaria (multa o ammenda), l'aumento per quest'ultimo reato deve prevedere una frazione di pena detentiva anche se non prevista dalla norma violata. A tale conclusione la suddetta giurisprudenza perviene in base al principio secondo il quale la continuazione, quale istituto di carattere generale, è applicabile in ogni caso in cui più reati siano stati commessi in esecuzione del medesimo disegno criminoso, anche quando si tratti di reati appartenenti a diverse categorie e puniti con pene eterogenee o di specie diversa. Infatti, una volta ritenuta la continuazione tra più reati, il trattamento sanzionatorio originariamente previsto per i reati "satelliti" non esplica più alcuna efficacia, dovendosi solo aumentare la pena prevista per la violazione più grave, senza che rilevi la "qualità" della pena prevista per i reati "satelliti", dato che la nuova unità che si viene a comporre disancora questi ultimi dalle rispettive specifiche sanzioni edittali e li aggancia al criterio dell'aumento sino al triplo della pena prevista per la violazione più grave. Quindi, secondo la suddetta tesi, la pena destinata a costituire la base sulla quale operare gli aumenti fino al triplo per i reati satellite - anche se puniti con una sanzione di genere diverso - è esclusivamente quella prevista per la violazione più grave, sicchè, nell'aumento sulla pena base, restano assorbite le pene previste per i reati satelliti, in quanto la continuazione determina la perdita dell'autonomia sanzionatoria dei reati meno gravi: Cass. S.U., n. 49901/1992; Cass. S.U., n. 25939/2013 ; Cass. fer. n. 41659/2013; Cass. V, n. 35999/2015; Cass. V, n. 26450/2017. La suddetta interpretazione, però, è stata sottoposta a critica (Cass. V, n. 46695/2016; Cass. IV, n. 46963/2017), sicchè la questione è stata rimessa nuovamente alle S.U. che con, sentenza Cass. S.U., n. 40983/2018, ritenendo violato il principio della legalità della pena e del favor rei, hanno mutato (parzialmente) indirizzo enunciando il seguente principio di diritto: «Nei casi di reati puniti con pene eterogenee (detentive e pecuniarie) posti in continuazione, l'aumento di pena per il reato satellite va comunque effettuato secondo il criterio della pena unitaria progressiva per moltiplicazione, rispettando tuttavia, per il principio di legalità della pena e del favor rei, il genere della pena previsto per il reato satellite, nel senso che l'aumento della pena detentiva del reato più grave andrà ragguagliato a pena pecuniaria ai sensi dell'art. 135 c.p.». In concreto, ciò comporta, sul piano applicativo, che il giudice deve procedere, in una prima fase, secondo l'opinione tradizionale (quindi, se per la violazione più grave è prevista la pena detentiva, la determinazione della pena complessiva va effettuata mediante aumento della suddetta pena, pur quando la pena prevista per il reato satellite sia pecuniaria); successivamente, una volta che abbia determinato la pena secondo il suddetto metodo, deve ragguagliare, ex art. 135, la pena detentiva, in pena pecuniaria. Volendo esemplificare, nella fattispecie presa in esame dalle SS.UU., il giudice di merito, aveva determinato la pena secondo le seguenti modalità: Pena base (per un reato che prevedeva la pena congiunta dell'arresto e dell'ammenda): mesi due di arresto ed € 10.000,00 di ammenda + giorni quindici di arresto ed € 5.000,00 di ammenda (per un reato satellite che prevedeva la sola pena dell'ammenda). Le Sezioni unite, pur ritenendo corretta la suddetta determinazione della pena (effettuata secondo le modalità stabilite dalla consolidata giurisprudenza di cui si è detto), hanno introdotto un correttivo, nel senso che la pena dell'arresto (pena che, si rammenti, non era prevista per il reato satellite) è stata ragguagliata ex art. 135 in € 3.750,00 (gg 15 x 250 euro giornalieri): di conseguenza, hanno rideterminato la pena in mesi due di arresto ed € 18.750 di ammenda (€ 10.000 + 5.000,00 + 3.750). Le S.U., hanno, quindi, indicato il seguente vademecum: a) se il reato più grave è punito con pena detentiva e il reato satellite soltanto con pena pecuniaria, l'aumento di pena per quest'ultimo, da effettuarsi con la sola pena detentiva, va ragguagliato a pena pecuniaria in applicazione dell'art. 135; b) se il reato più grave è punito con pena detentiva e il reato satellite con pena congiunta, l'aumento si effettua con la sola pena detentiva della specie di quella prevista per la violazione più grave; c) se il reato più grave è punito con pena congiunta e il reato satellite con la sola pena pecuniaria, saranno aumentate entrambe le pene previste per il primo reato, con ragguaglio a pena pecuniaria dell'aumento della pena detentiva; d) se il reato più grave è punito con pena congiunta e il reato satellite con pena alternativa, il giudice può operare l'aumento di pena in relazione ad una soltanto delle pene previste per la violazione più grave motivando la scelta ex art. 133. A nostro avviso, la suddetta conclusione non è convincente perché contraddittoria con la regola secondo la quale l'aumento per il reato satellite dev'essere coerente con la pena per il reato base (principio della pena unitaria), salvo conguaglio (come, peraltro, ribadito nell'ipotesi di cui al successivo caso sub e). Quindi, nella suddetta fattispecie, a nostro avviso, il procedimento da seguire dev'essere il seguente: in una prima fase il giudice determina la pena che avrebbe inflitto per entrambi i reati, motivando, relativamente al reato satellite, sulle ragioni che lo hanno indotto ad optare per la pena pecuniaria o per quella detentiva (in terminis: Cass. I, n. 8560/2014; Cass. IV, n. 4361/2014) (ad es. P.b. un anno di reclusione + 500,00 di multa + 1 mese di reclusione per il reato satellite (il giudice, quindi, opta per la pena detentiva). In una seconda fase, ferma la pena base, aumenta la pena per il reato satellite anche della pena pecuniaria (es. € 100,00 di multa). La pena finale, sarà, quindi, di anni uno mesi uno di reclusione ed € 600,00 di multa. Se invece, il giudice, avesse optato per la sola pena pecuniaria del reato satellite, avrebbe ugualmente dovuto infliggere una pena detentiva, salvo conguaglio (ad es. P.b.: un anno di reclusione + 500,00 di multa + € 100,00 di multa per il reato satellite; nella seconda fase, deve aggiungere, per il reato satellite, anche la pena detentiva (ad es. 15 giorni di reclusione), pena che, però, deve ragguagliare (15 giorni x 250 = 3.750). La pena finale, sarà, quindi, anni uno di reclusione ed € 4.350,00 di multa (€ 500 + 100 + 3.750). e) se il reato più grave è punito con pena congiunta e il reato satellite con pena detentiva, si aumentano entrambe le pene previste per la violazione più grave; f) se il reato più grave è punito con pena alternativa e il reato satellite con pena pecuniaria, il giudice opererà l'aumento di pena in relazione ad una soltanto delle pene previste per la violazione più grave motivando la scelta ex art. 133 e, in caso di aumento della pena detentiva, esso andrà ragguagliato a pena pecuniaria in applicazione dell'art. 135; g) se il reato più grave è un delitto punito con la sola pena della multa e quello satellite una contravvenzione punita con pena congiunta, o alternativa, si aumenta soltanto la pena pecuniaria sub specie di multa. In adesione a quanto stabilito dalle S.U. cit. la giurisprudenza ha ulteriormente chiarito che: h) nell'ipotesi di continuazione fra un reato base di competenza del tribunale e reati satelliti di competenza del Giudice di Pace sanzionati in via alternativa con pena equiparata a quella detentiva ai sensi dell'art. 58, d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274, è legittimo l'aumento a titolo di continuazione della pena detentiva - prevista per il reato base: Cass. V, n. 49865/2018 (in una fattispecie in cui il giudice di merito aveva aumentato, avuto riguardo al reato base di atti persecutori, la pena di un mese di reclusione a titolo di continuazione per tre episodi di lesioni lievi). La Corte ha motivato la suddetta decisione osservando che «, il reato di lesioni semplici rientrante nella competenza del D.Lgs. in parola è punito, ex D.Lgs. n. 274 del 2000, art. 52, comma 2, lett. b), alternativamente con la pena pecuniaria, con la permanenza in casa o con il lavoro di pubblica utilità, sanzioni, le ultime due, che, a norma del D.Lgs. n. 274 del 2000, art. 58, comma 1, si considerano come pena detentiva ad ogni effetto di legge (sulla natura paradetentiva delle sanzioni suddette, cfr., ex multis, Sez. 5, n. 8268 del 11/01/2008, Bignozzi, Rv. 239469; Sez. 5, n. 35252 del 13/06/2007, Ioli, Rv. 237701). Ne consegue che l'aumento in termini di pena detentiva non viola la legalità della pena, data la natura omogenea di due delle possibili sanzioni applicabili per le lesioni rispetto a quella detentiva prevista per il più grave reato di atti persecutori; i) In tema di reato continuato, se il reato più grave è costituito da un delitto punito con pena alternativa e quello satellite da una contravvenzione punita con pena congiunta, il giudice, dopo aver valutato ex art. 133 cod. pen., quale pena alternativa irrogare per il delitto costituente violazione più grave, deve operare l'aumento di pena ex art. 81 cod. pen. in relazione alla sola pena prescelta per il reato base: Cass. II, n. 22088/2020. In conclusione e riassuntivamente possono prospettarsi le seguenti situazioni: 1) continuazione fra reati che prevedono pene omogenee: è la situazione più facile che va risolta nel seguente modo
2. continuazione fra reati che prevedono pene dello stesso genere (detenzione/pene pecuniarie) ma di specie diversa (reclusione/arresto; multa/ammenda)
3. continuazione fra reati puniti con pene eterogenee
Secondo un recente orientamento ( Cass. II, n. 15438/2024) allorquando nella determinazione della pena finale, in ipotesi di reato continuato, si indichi come pena base quella più bassa (ovvero più alta) del limite edittale normativamente previsto ma non si eccedano i limiti generali previsti dagli artt. 23 e seguenti, nonché 65, 71 e seguenti e 81 terzo e quarto comma, c.p., non ricorre un'ipotesi di illegalità della stessa, dovendosi aver riguardo alla misura finale complessiva della pena, a nulla rilevando il fatto che i passaggi intermedi che portano alla sua determinazione siano computati in violazione di legge. la determinazione della pena nell’ambito delle sanzioni sostitutive L'art. 53/4 l. n. 689/1981, detta regole del tutto peculiari in tema di continuazione nel caso in cui, la pena inflitta per ciascun reato posto in continuazione, consenta l'applicazione di una sanzione sostitutiva prevista dal primo comma. In sintesi, tre sono le situazioni che possono verificarsi: 1) art 53/4 prima parte: «per ciascun reato è consentita la sostituzione della pena detentiva»: ad es. P.B. anni due (reato x anni tre di reclusione – 1/3 per attenuanti generiche) + 1 anno ex art. 81 (reato y) + 6 mesi (reato z) = anni tre e mesi sei. In tale ipotesi, la pena finale (anni tre e mesi sei di reclusione) non consentirebbe la sostituzione della pena, nonostante per ciascun reato singolarmente considerato, si potrebbe applicare la sostituzione della pena. Il legislatore, però, per un'ovvia esigenza deflattiva e di favor rei, ha previsto che – in questa particolare ipotesi e cioè “quando per ciascun reato è consentita la sostituzione della pena detentiva” - «si tiene conto dei limiti indicati nel primo comma soltanto per la pena che dovrebbe infliggersi per il reato più grave»: quindi, nell'esempio ipotizzato, per il reato x (anni due, in concreto, al netto dell'attenuante). Di conseguenza, all'imputato, la pena complessiva di anni tre e mesi sei, potrà essere sostituita tutta con la semidetenzione, proprio perché il giudice, deve far riferimento, per stabilire la possibilità della sostituzione, a quella pena che dovrebbe infliggere in concreto per il reato più grave, come se questo fosse l'unico oggetto del giudizio. Si noti bene che la stessa regola va applicata anche quando la pena finale rientra nei limiti di cui all'art. 53/1. Ad es. P.b. anni uno (reato x) + art. 81, mesi sei (reato y) = anni uno e mesi sei. In tal caso, ove si considerasse la penale finale (anni uno e mesi sei), il giudice, in considerazione dei limiti di cui all'art. 53/1, potrebbe sostituire la suddetta pena solo con la semidetenzione, nonostante la pena inflitta per il reato x, potrebbe essere sostituita con la libertà controllata, e quella per il reato y con la pena pecuniaria. Invece, proprio per effetto della norma in esame, il giudice, deve prendere in considerazione solo il reato x, e, quindi, sostituire l'intera pena con la libertà controllata. 2) Art. 53/4 seconda parte: «quando la sostituzione della pena è ammissibile solo per alcuni reati»: ad es. P.B. anni tre (reato x) + anni due ex art. 81 (reato y) = anni cinque. In tale ipotesi, non è consentita la sostituzione dell'intera pena sia perché la pena finale (anni cinque) è superiore al limite edittale dell'art. 53/1, sia perché, comunque, la pena del reato base (reato x) è anch'essa superiore al suddetto limite. Rientra, però, nei limiti edittali dell'art. 53/1, la pena inflitta (anni due) per il reato in continuazione (y). In tale ipotesi – e cioè essendo la sostituzione ammissibile solo per il reato y – la legge consente al giudice – sempre che ritenga di doverla sostituire – di determinate «la parte di pena per i reati per i quali opera la sostituzione» e, quindi, nell'esempio ipotizzato, disporrà, per il reato y, la sostituzione della reclusione con la semidetenzione; 3) Patteggiamento o rito abbreviato: nel caso in cui ai reati posti in continuazione, si debba applicare la diminuzione per il rito (fino ad un terzo per il patteggiamento; un terzo per il rito abbreviato), la giurisprudenza, in modo costante, ritiene che «Quando si procede nelle forme del rito abbreviato (o del patteggiamento), il giudizio sulla concedibilità della pena sostitutiva alla pena detentiva breve di cui all'art. 53 l. n. 689/1981 deve essere fatto, nel caso di più reati uniti dal vincolo della continuazione, con riferimento alla quantificazione della sanzione risultante all'esito della diminuzione di un terzo di quella da irrogare in concreto e perciò dopo l'aumento determinato dalla continuazione, in deroga al principio stabilito dall'ultimo comma dell'art. 53 cit. che prevede come riferimento la pena per il reato più grave prima dell'aumento per la continuazione»: Cass. III, n. 45450/2014. Quindi, dovendosi considerare la sola pena finale comprensiva della diminuzione per il rito, è escluso che possa procedersi al frazionamento delle singole pene ed applicare ad esse singolarmente la diminuzione per il rito ai fini dell'applicabilità dell'art. 53 u.c. Ad es.: P.B. anni tre (reato x) + anni uno ex art. 81 (reato y) = anni quattro – 1/3= anni due e mesi otto. In tale caso, la sostituzione della pena finale di anni due e mesi otto non è possibile perché superiore al limite di cui all'art. 53 comma 1, anche se, applicando la diminuzione del terzo sui singoli reati, potrebbe essere ammissibile per il reato x, la semidetenzione (anni tre – 1/3 = anni due) e, per il reato y, la libertà controllata (anni uno – 1/3 = mesi otto), e, quindi, per effetto dell'art. 53 comma 4 prima parte, potrebbe essere l'intera pena sostituita con la semidetenzione. Questa regola si spiega con il fatto che l'applicazione della diminuzione per il rito si applica, nel caso di reato continuato, dopo la pena complessiva risultante dalla continuazione e, quindi, non sarebbe corretto applicare ad una norma già di per sé speciale (l'art. 53 comma 4 u.c.) un'ulteriore regola speciale di diminuzione della pena, aggirando, così, surrettiziamente, sia i limiti di cui all'art. 53 comma 1 sia l'eccezione ai suddetti limiti (in favor rei) già prevista dall' art. 53/u.c., norma questa che essendo speciale, dev'essere interpretata restrittivamente. Cass. III, n. 35973/2021, pur dando formale adesione al suddetto principio di diritto, ha ritenuto di precisare che «3.4.I'automatica applicazione del principio di diritto sopra indicato anche ai casi in cui, come questo, la pena base per il reato più grave, al netto delle riduzioni per le circostanze attenuanti, consentiva comunque la sostituzione della pena detentiva anche in caso di giudizio ordinario, porta all'aberrante conseguenza di penalizzare proprio chi accede al rito alternativo producendo l'effetto esattamente contrario al principio di favore al quale si ispira l'insegnamento della Corte di cassazione, oltre a generare disparità di trattamento difficilmente conciliabili con l'art. 3, Cost.; deve dunque essere precisato che il principio di diritto sopra riportato trova applicazione solo quando la persona condannata a seguito di giudizio abbreviato o alla quale sia stata applicata la pena su richiesta non avrebbe avuto diritto alla sostituzione della pena per essere quella per il reato più grave superiore ai limiti edittali stabiliti dall'art. 53, comma 1, legge n. 689 del 1981; diversamente, quando la pena per il reato più grave può comunque essere sostituita, a prescindere dal rito . prescelto, gli aumenti applicati a titolo di continuazione, anche se con sentenze successive, devono essere sempre effettuati aumentando la pena pecuniaria nella corrispondente misura». Segue. La recidivaL'art. 5 l. n. 251/2005 ha introdotto all'art. 81 un quarto comma che ha aggravato il trattamento sanzionatorio per i recidivi reiterati (art. 99 s.) nel senso che la pena «non può essere inferiore ad un terzo della pena stabilita per il reato più grave. Stessa disposizione è stata introdotta, per la fase esecutiva, con l'introduzione, nell'art. 671 c.p.p del comma 2 bis che rinvia alle disposizioni dell'art. 81 comma 4. E' stata sollevata questione di legittimità costituzionale dell'art. 81/4 cod. pen., nella parte in cui fa riferimento all'art. 99 c.p., perché vincolerebbe il giudicante all'applicazione di aumenti di pena automatici, svincolati da ogni valutazione in concreto, di modo che, in violazione dell'art.3 Cost., si verificherebbe una disparità di trattamento sulla base. La suddetta questione è stata ritenuta manifestamente infondata, perché la disparità di trattamento denunciata non sussiste, in quanto l'aumento per i reati ritenuti in concorso formale o in continuazione, fissato dall'art. 81 c.p., comma 4 - in misura non inferiore ad un terzo della pena determinata per il reato base - rinviene giustificazione nella sostanziale diversità delle situazioni regolate, avendo il legislatore facoltà di comminare pene con aumenti differenziati in misura precostituita in ragione della maggiore o minore proclività a delinquere del reo, espressa dalla recidiva reiterata: si tratta di regolamentazione del tutto ragionevole, che risponde anche al principio dell'emenda sancito dall'art. 27 Cost., comma 2, essendo evidente che una pena non commisurata adeguatamente al disvalore dell'illecito, identificato anche in base alla propensione a delinquere che il reo esprime, sarebbe frustranea rispetto alla scopo della rieducazione del condannato: Cass. V, n. 30630/2008; Cass. II, n. 18092/2016; Cass. S.U. 31669/2016. La questione di legittimità costituzionale è stata, poi, proposta anche sotto un diverso profilo. Si è, infatti, sostenuto che l'art. 81, quarto comma, c.p., si porrebbe in contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost. nella parte in cui prevede che l'aumento minimo di un terzo per la continuazione (o il concorso formale di reati) resti fermo anche nel caso in cui l'imputato venga assolto da uno dei reati satellite, con la conseguenza che, nel caso di aumento minimo di un terzo della pena base stabilita per il reato più grave, l'assoluzione per il reato satellite non comporta alcun effetto di riduzione della pena. Al che si è replicato che «Il quarto comma dell'art. 81 c.p. è stato aggiunto dall'art. 5, comma 1, della legge 5 dicembre 2005, n. 251, con la quale il legislatore ha inteso intervenire in una prospettiva di maggiore rigore nei confronti del recidivo, prevedendo, in linea generale, più consistenti aumenti di pena e altri effetti sfavorevoli, e lasciando al giudice un più limitato ambito di azione nella graduazione della misura della pena, come è appunto avvenuto con la previsione del limite minimo di cui al suddetto quarto comma dell'art. 81 c.p. A proposito di tale limite minimo, la Corte di cassazione ha chiarito che esso va riferito all'aumento complessivo per la continuazione e non alla misura di ciascun aumento successivo al primo (Sez. 2, n. 18092 del 12/04/2016, Lovreglio, Rv. 266850-01; Sez. 1, n. 5478 del 13/01/2010, Motta, Rv. 246116-01). Il limite minimo previsto dal quarto comma dell'art. 81 cod. pen. prescinde dal numero dei reati in continuazione, sicché anche un unico reato satellite comporta che, per il recidivo reiterato, la pena per il reato più grave debba essere aumentata almeno per il minimo di un terzo. Da ciò discende l'erroneità del presupposto interpretativo dal quale muove il ricorrente secondo cui, poiché l'assoluzione per un reato satellite non determina alcun effetto di riduzione dell'aumento di pena determinato nella misura minima di un terzo, l'imputato «dovrà espiare anche la pena per un reato non commesso», atteso che il predetto aumento minimo di un terzo risulterà riferibile non più anche al "reato satellite" per il quale è intervenuta l'assoluzione ma, evidentemente, soltanto a quel o a quei reati satellite per i quali la condanna è stata confermata. Da tanto consegue la manifesta infondatezza sia delle questioni di legittimità costituzionale sollevate»: Cass. II, n. 30490/2023. Va, infine, osservato che Corte cost., n. 193/2008 , ha dichiarato la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale degli artt. 69, quarto comma, e 81, comma 4, c.p., osservando che l'art. 81, quarto comma, c.p. presuppone che il giudice abbia ritenuto la recidiva reiterata concretamente idonea ad aggravare la pena per i reati in continuazione (o in concorso formale), come emerge dallo stesso tenore letterale della norma de qua («soggetti ai quali sia stata applicata la recidiva»); negli stessi termini, Corte Cost. n. 171/2009. Per la disamina dei rapporti fra reato continuato e recidiva si rinvia al commento dell'art. 99 § 6.1. sub lett. d). Segue. Profili processualiLe regole illustrate nei paragrafi che precedono sono le regole generali sottese alla corretta comprensione ed applicazione dell'istituto della continuazione: sono, quindi, regole di diritto sostanziale. Il codice di rito, però, ha previsto una serie di norme dedicate proprio al reato continuato che prevedono effetti molto importanti ai fini del processo. Non solo, ma le regole (di diritto sostanziale) che si sono illustrate nei paragrafi precedenti trovano, poi, una loro particolare applicazione a seconda del grado di giudizio (e dei riti applicati) in cui vengono in evidenza. Per evitare confusione e sovrapposizioni delle varie problematiche, nei paragrafi che seguono, si esamineranno, per prima le regole generali dettate nel codice di rito, quindi, si esamineranno le modalità della concreta applicazione del reato continuato nei vari gradi del giudizio (e dei vari riti applicati). Segue. La normativa generaleIl reato continuato viene in rilievo nel codice di procedura penale sotto due profili: a) la competenza; b) le misure cautelari. a) La competenza. L'art 4 c.p.p. è la prima norma che viene in rilievo e dispone, in via generale, che, per determinare la competenza «non si tiene conto della continuazione», ossia dell'aumento di pena per essa stabilito: il che significa che, poiché la suddetta disposizione può agire solo a livello di competenza per materia, «essendo venuta meno la competenza del Pretore, in linea di massima prevista per i reati puniti con pena non superiore ad anni quattro, l'art. 4 c.p.p. ha diretta applicazione solo per la determinazione della competenza della Corte di Assise o, per converso, del tribunale in relazione alle ipotesi di cui all'art. 5, lett. a) e d), ultima parte c.p.p.» (Ricciarelli, 52). Il reato continuato, poi, rientra fra le ipotesi di connessione fra reati ex art. 12 lett. b). La connessione costituisce un criterio originario di attribuzione della competenza sulla quale agisce, tramite il meccanismo della riunione o separazione (artt. 17,18), sia a livello di competenza territoriale (art 16), sia a livello di competenza per materia (artt. 13,14,15), sia a livello di attribuzione fra tribunale monocratico e collegiale (art. 33 quater). La ratio di tale normativa è stata individuata nell'esigenza «di correlare la competenza al luogo di commissione di un reato con quella di valutare la regiudicanda in modo più ampio, allorché i reati risultino avvinti da un nesso qualificato che ne sconsiglia l'attribuzione alla competenza di giudici diversi» (Ricciarelli, 81 ss.; Masucci, 647). Peraltro, è stato rilevato che «La connessione fondata sull'astratta configurabilità del vincolo della continuazione è idonea a determinare lo spostamento della competenza soltanto quando l'identità del disegno criminoso sia comune a tutti i compartecipi, giacché l'interesse di un imputato alla trattazione unitaria di fatti in continuazione non può pregiudicare quello del coimputato a non essere sottratto al giudice naturale»: ex plurimis, Cass. I, n. 8526/2013; Cass. II, n. 7501/2022. Una normativa, di carattere (parzialmente) derogativo rispetto alle regole generali desumibili dalle citate norme, è stata prevista per i casi di connessione fra reati di competenza del giudice di pace e procedimenti di competenza di altro giudice: in tale ipotesi, l'art. 6 d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274, dispone che la connessione opera «solo nel caso di persona imputata di più reati commessi con una sola azione od omissione»; stessa regola è prevista dal successivo art 7 lett. b) a norma del quale davanti al giudice di pace si ha connessione di procedimenti «se una persona è imputata di più reati commessi con una sola azione od omissione»: in pratica, la connessione è operante solo per le ipotesi del concorso formale e non per il reato continuato. b) Le misure cautelari. Le norme che vengono in evidenza sono le seguenti: - determinazione della pena: l'art. 278 dispone che, agli effetti della determinazione della pena per l'applicazione delle misure cautelari, non si tiene conto dell'aumento di pena prevista per la continuazione; - computo dei termini di durata delle misure cautelari: l'art. 297 computo 3, relativamente al computo dei termini di durata delle misure cautelari, dispone che «Se nei confronti di un imputato sono emesse più ordinanze che dispongono la medesima misura per uno stesso fatto, benché diversamente circostanziato o qualificato, ovvero per fatti diversi commessi anteriormente alla emissione della prima ordinanza in relazione ai quali sussiste connessione ai sensi dell'articolo 12, comma 1, lettera b) [....], i termini decorrono dal giorno in cui è stata eseguita o notificata la prima ordinanza e sono commisurati all'imputazione più grave»; - estinzione della misura cautelare ex art. 300 comma 4 e 303 comma 1 lett c ): sul punto, si registrano le seguenti sentenze: Cass. S.U. n. 1/1997 hanno statuito che «ai fini sia dell'articolo 303, comma primo, lett. c), c.p.p., sia dell'art. 300, comma quarto, stesso codice, nel caso di condanna per più reati avvinti dalla continuazione, per alcuni dei quali soltanto (nella specie per i reati satelliti) mantenga efficacia la custodia cautelare, per «condanna» e per «pena inflitta» devono, rispettivamente, intendersi la condanna e la pena inflitte per questi ultimi reati, e non la condanna e la pena inflitte per l'intero reato continuato, in quanto l'unificazione legislativa di più reati nel reato continuato va affermata là dove vi sia una disposizione apposita in tal senso o dove la soluzione unitaria garantisca un risultato favorevole al reo, non potendo dimenticarsi che il trattamento di maggior favore per il reo è alla base della «ratio» del reato continuato» (in dottrina Ambrosetti, 682); Cass. S.U. n. 25956/2009 ha ribadito che «In caso di condanna non definitiva per reato continuato, al fine di valutare l'eventuale perdita di efficacia (art. 300 comma 4 c.p.p.) della custodia cautelare applicata soltanto per il reato satellite, la pena alla quale occorre fare riferimento è quella inflitta come aumento per tale titolo»: Beltrani, 4114. Cass. S.U. n. 23381/2007 «In tema di durata della custodia cautelare, ai fini della individuazione del termine di fase allorché vi sia stata sentenza di condanna, in primo o in secondo grado, occorre aver riguardo alla pena complessivamente inflitta per tutti i reati per i quali è in corso la misura della custodia cautelare, e quindi alla pena unitariamente quantificata a seguito dell'applicazione del cumulo materiale o giuridico per effetto del riconoscimento del vincolo della continuazione»; Cass. II, n. 6613/2014. Cass. fer. n. 24025/2020 , ha stabilito che, quando è applicata la continuazione tra reati commessi e giudicati in tempi diversi e per uno dei quali vi è stata esecuzione di pena o custodia cautelare, quest'ultima, nel giudizio di fungibilità, è valutata con riferimento al reato per il quale è stata applicata, in modo autonomo rispetto al trattamento determinato dalla continuazione. Di conseguenza, ai fini del termine di durata della custodia cautelare, non è possibile imputare il periodo di custodia cautelare già sofferto ad un reato commesso successivamente, anche quando i due reati siano legati dal vincolo della continuazione. - diritto intertemporale in tema di intercettazioni riferibili al reato continuato: Cass. V, n. 37697/2021, quanto alla suddetta problematica, ha stabilito che: In base alla disciplina applicabile ai procedimenti iscritti fino al 31 agosto 2020, antecedente alla riforma introdotta dal d.lgs. 29 dicembre 2017, n. 216, come modificato dal d.l. 30 aprile 2020, n. 28, convertito dalla legge 25 giugno 2020, n. 70, i risultati delle intercettazioni autorizzate per un determinato fatto-reato sono utilizzabili anche per ulteriori fatti reato legati al primo ex art. 12, lett. b), c.p.p., vale a dire quando, al momento della commissione del primo reato della serie, i successivi siano stati già programmati (da uno o alcuno dei correi) almeno nelle loro linee essenziali, senza necessità che il disegno criminoso sia comune a tutti i compartecipi» Segue. Il giudizio di primo grado
Principi generali In via preliminare, qui di seguito, s'indicano alcune regole generali, elaborate dalla giurisprudenza, alle quali il giudice deve attenersi per la corretta determinazione della pena del reato continuato. La procedibilità: v. supra. La contestazione: costituisce giurisprudenza consolidata quella secondo la quale «in tema di reato continuato, non sussiste alcun obbligo per il P.M. di procedere ad una formale contestazione del vincolo della continuazione tra i reati ipotizzati», (Cass. III, n. 15927/2009 ; Cass. II, n. 28712/2013; Cass. VI, n. 7489/2021) sia perché «la commissione dei reati contestati in esecuzione del medesimo disegno criminoso non rientra tra le indicazioni che il decreto che dispone il giudizio deve contenere, poiché l'art. 429 c.p.p. richiede soltanto che il fatto contestato sia enunciato “in forma chiara e precisa» (Cass. II, n. 28712/2013), sia perché spetta al «giudice del dibattimento il potere-dovere di verificare preliminarmente il nesso della continuazione in funzione della determinazione della propria competenza» nonché l'apprezzamento discrezionale in ordine all'identità del disegno criminoso, facoltà queste che non possono essere precluse dalla mancata formale enunciazione, nell'atto di accusa, del vincolo della continuazione (Cass. V, n. 7144/1984; Cass. III, n. 15927/2009; Cass. I, n. 17458/2018): conseguentemente non viola il principio della correlazione fra contestazione e sentenza la decisione di condanna in cui è ritenuta la sussistenza della continuazione tra più condotte, tutte autonomamente integratici della norma incriminatrice contestata, e non un unico fatto di reato, anche nel caso in cui nel capo di imputazione non figuri il riferimento all'art. 81 cod. pen., posto che ciò che rileva è la compiuta descrizione del fatto e non l'indicazione degli articoli di legge che si assumono violati. Cass.II, n. 23771/2021 L'onere della prova: nell'ambito del giudizio di cognizione, la regola è quella usuale: il giudice decide sulla base delle risultanze processuali frutto della dialettica delle parti (accusa e difesa), sicché, l'imputato che invochi la continuazione fra i vari reati per i quali è sottoposto a giudizio, ha l'onere di allegare gli specifici elementi dai quali possa desumersi l'identità del disegno criminoso: ex plurimis Cass. III, n. 41063/2019; Cass. II, n. 2224/2018; Cass. VI, n. 43441/2010; Cass. V, n. 18586/2004. In termini parzialmente diversi si pone la questione nei casi in cui l'imputato, nel corso del giudizio di cognizione, chieda che siano ritenuti in continuazione altri reati giudicati con sentenze passate in giudicato. In tale ipotesi, l'unico modo che il giudice ha per valutare se sussista o meno la continuazione con i reati che egli giudica è quella di controllare ed analizzare le sentenze passate in giudicato non oggetto della sua decisione. A tal proposito va segnalato un contrasto giurisprudenziale fra chi ritiene che all'imputato spetti un semplice onere di allegazione (ossia di indicare gli estremi delle sentenze) spettando, poi, al giudice acquisirle d'ufficio (ex plurimis, Cass. V, n. 9180/2007; Cass. III, n. 39850/2014) e chi, al contrario, giunge ad opposta conclusione rilevando che il disposto dell'art. 186 delle disposizioni di attuazione — in base al quale le copie delle sentenze irrevocabili, ove non siano allegate alla richiesta, ex art. 671 c.p.p. di applicazione, in fase esecutiva, del reato continuato, sono acquisite d'ufficio — si applichi alla sola fase esecutiva (ex plurimis: Cass. IV, n. 6648/2022; Cass. II, n. 4585/2022; Cass. I, n. 14614/2019; Cass. II, n. 49082/2018; Cass. VI, n. 19487/2018; Cass. VI, n. 51689/2017; Cass. II, n. 9275/2014; Cass. V, n. 2795/2014; Cass. V, n. 9277/2014; Cass. II, n. 12068/2015 . Deve, peraltro darsi atto che, in tale ultimo senso, sembra orientata la giurisprudenza delle S.U. (S.U, n. 22471/2015, ivi con richiami ad altri precedenti). Determinazione pena base: «al fine di stabilire la pena base, l'applicazione delle circostanze attenuanti generiche alla più grave delle violazioni deve essere effettuata senza che si possa tenere conto delle circostanze inerenti alle violazioni meno gravi, rilevando queste ulteriori attenuanti e aggravanti soltanto per determinare la misura dell'aumento da apportare alla pena base»: Cass. I, 49344/2013; Cass. 26340/2014; Cass. I, n. 13369/2018. Determinazione pena per il reato satellite: «in ipotesi di continuazione tra reati, ai fini della determinazione della pena, l’aumento operato sul reato più grave non deve tenere conto della continuazione interna che caratterizza il reato satellite»: Cass. III, n. 1663/2023. La motivazione: in giurisprudenza è controverso se e in che termini il giudice debba motivare sull'aumento della pena ex art. 533 comma 2 c.p.p. Secondo una parte della giurisprudenza (maggioritaria): «nel caso in cui il giudice abbia congruamente motivato in ordine alla determinazione della pena, facendo riferimento alla natura dei reati, alla personalità dell'imputato e alle concesse attenuanti generiche, egli non ha l'obbligo di autonoma e specifica motivazione in ordine alla quantificazione dell'aumento per la continuazione, posto che i parametri al riguardo sono identici a quelli valevoli per la pena base»: ex plurimis Cass. V, n. 27382/2011; Cass. II, n. 49007/2014; Cass. V, n. 29847/2015; Cass. II, n. 29826/2016; Cass. II, n. 29824/2016; Cass. V, n. 27914/2016; Cass. II, n. 18944/2017; Cass. VI, n. 18828/2018; Cass. I, n. 39350/2019. Ad opposta conclusione giunge altra parte della giurisprudenza secondo la quale, invece, «in tema di reato continuato, non è sufficiente per la legalità del calcolo determinare la pena nell'ambito quantitativo previsto dalla legge — pari al triplo della pena base — dovendo il giudice, nella motivazione, dare conto delle decisioni assunte su ogni aspetto dell'esercizio del suo potere discrezionale, ivi compresa la determinazione dell'aumento di pena per i singoli reati satellite»: Cass. IV, 28139/2015; Cass. V, n. 16015/2015; Cass. III, n. 1446/2018; Cass. I, n. 23352/2018. Va precisato, peraltro, che quest'ultima tesi, nonostante sia numericamente minoritaria, trova un preciso riscontro in plurime decisioni delle S.U. (Cass. S.U., n. 7930/1995; Cass. S.U., n. 25939/2013; Cass. S.U. , n. 22471/2015). A fronte di un persistente contrasto, è stata rimessa alle S.U. il seguente quesito «Se, in tema di reato continuato, il giudice, nel determinare la pena complessiva, oltre ad individuare il reato più grave e stabilire la pena base per tale reato, debba anche calcolare e motivare l'aumento di pena in modo distinto per ognuno dei reati satellite o possa determinarlo unitariamente». Sul punto sono intervenute le S.U. che, con sentenza n. 47127/2021, hanno esaminato i seguenti quesiti: a) se in caso di reato continuato il giudice debba stabilire (e quindi evidenziare), oltre che la pena per il reato più grave, quelle relative ai singoli reati satellite o se possa stabilire ed indicare una pena unitaria; b) se, nel primo caso, l'obbligo di motivazione richieda di giustificare l'entità di ciascun aumento. Il principio di diritto enunciato è stato il seguente: «ove riconosca la continuazione tra reati, ai sensi dell'art. 81 c. p., il giudice, nel determinare la pena complessiva, oltre ad individuare il reato più grave e stabilire la pena base per tale reato, deve anche calcolare e motivare l'aumento di pena in modo distinto per ognuno dei reati satellite». Alla suddetta soluzione, le S.U. sono pervenute attraverso il seguente iter motivazionale. Quanto al primo quesito (necessità o meno di stabilire una pena unitaria), le S.U., a livello normativo, hanno richiamato il testuale disposto dell'art. 533/2 cod. proc. pen. (riproduttivo, sostanzialmente, dell'art. 483/2 del previgente cod. proc. pen.) e del dictum delle SSUU che, già sotto il previgente codice di rito, avevano ravvisato una violazione di legge della sentenza che avesse omesso di indicare la pena per ciascuno dei reati satellite (SSUU 1/1971; SSUU 6300/1984), principio, poi, ribadito anche sotto la vigenza del nuovo codice di rito (SSUU 7930/1995; SSUU 25639/2013; SSUU 22471/2015; SSUU 40983/2018). Pertanto, sulla scia della suddetta giurisprudenza, le S.U. hanno ribadito che il giudice ha “l'obbligo” di «dare specifica indicazione delle pene che vanno a costituire quella unitaria del reato continuato», osservando che tale obbligo deriva non solo dal testuale disposto dell'art. 533/2 cod. proc. pen. ma anche dalla «necessità di consentire il controllo dell'esercizio di quella discrezionalità che gli artt. 132, primo comma e 133 cod. pen, attribuiscono al giudice nella determinazione della pena» secondo le modalità definite dalle SSUU 40983/2018. A tale conclusione non osta la struttura unitaria del reato continuato in quanto – secondo quanto osservato dalle SSUU 14/1999 e 1/1997 – il suddetto principio, non costituendo un principio generale, ove non sia espressamente previsto «da apposita disposizione o comunque garantisca un risultato favorevole al reo, vige e opera la considerazione della pluralità dei reati nella loro autonomia e distinzione che, pertanto, costituisce la regola». Quanto al secondo quesito (obbligo di motivazione sulla pena inflitta per ogni singolo reato satellite), le S.U., nell'accogliere la tesi affermativa, hanno fatto leva sulla necessità del controllo della discrezionalità che la legge (artt. 132/1 – 133 c. p.) accorda al giudice e la cui ragionevolezza non può che essere data dalla sua proporzionalità (ex art. 49 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea) rispetto alla meritevolezza e al bisogno di pena del reo, in quanto «in via di principio, l''individualizzazione” della pena, in modo da tenere conto dell'effettiva entità e delle specifiche esigenze dei singoli casi, si pone come naturale attuazione e sviluppo di principi costituzionali, tanto di ordine generale (principio d'uguaglianza) quanto attinenti direttamente alla materia penale» (Corte Cost. n. 55/2021). Quanto alla modalità con la quale la pena dev'essere inflitta (e, quindi, la motivazione che il giudice deve esplicitare) le S.U., dopo avere preso atto che non è possibile ricorrere a “formule matematiche”, hanno concluso che «nel caso del reato continuato, individuare i valori che indiziano di sproporzione le pene inflitte non risulta possibile; ma è praticabile la via della indicazione di ciò che attraverso la motivazione deve essere assicurato: che risultino rispettati i limiti previsti dall'art. 81 c. p.; che non si sia operato surrettiziamente un cumulo materiale di pene; che sia stato rispettato, ove ravvisabile, il rapporto di proporzione tra le pene, riflesso anche della relazione interna agli illeciti accertati. Di una pena non sì può affermare o negare l'esattezza; ma si può riconoscere o criticare la ragionevolezza, intesa come relazione di coerenza tra la specie (si pensi alle pene alternative) e la misura della sanzione individuate e gli elementi che devono essere presi in considerazione per la determinazione della pena». Infine, le S.U. hanno precisato che il ricorso per cassazione è inammissibile, per carenza di interesse, quando la censura si concreti nella sola doglianza della mancata indicazione dei singoli aumenti di pena, venendo tuttavia fatta implicita o esplicita acquiescenza alla pena come determinata nel suo complesso: sul punto vengono richiamate Cass. II, n. 26011/2019 – Cass. III, n. 550/2020). Al contrario, quando «il rilievo è strumentale alla contestazione della assenza della motivazione posta a sostegno del giudizio di congruità della pena, o della sua contraddittorietà o manifesta illogicità, non è possibile sostenere che occorre l'esplicitazione da parte dell'impugnante di uno specifico interesse perché all'evidenza quest'interesse ricorre e si concreta nella determinazione di un più favorevole trattamento sanzionatorio». Sempre in tema di motivazione, la giurisprudenza è ferma nel ritenere che il giudice, ove richiesto, deve espressamente motivare in ordine alla continuazione tra il reato ascritto all'imputato ed altro reato separatamente giudicato, sicchè, l'omessa motivazione determina l'annullamento con rinvio della sentenza impugnata, non essendo ammissibile che il giudice possa esimersi da tale compito, riservandone la soluzione al giudice dell'esecuzione e possa, così, sovrapporre all'iniziativa rimessa al potere dispositivo della parte la propria valutazione circa l'opportunità di esaminare, o non, l'istanza dell'impugnante: ex plurimis, Cass, II, n. 990/2020; Cass. S.U, n. 1/2000 ; Cass. I, n. 16766/2020 (in relazione alla continuazione effettuata in sede di rinvio). Applicazione delle circostanze: quanto al rapporto fra reato continuato e circostanze, nel rinviare al commento delle singole circostanze (retro § 6), in questa sede è sufficiente evidenziare i seguenti principi di diritto: «se il giudice non ha espressamente indicato le imputazioni in relazione alle quali sono state riconosciute le circostanze attenuanti (nella specie, le attenuanti generiche ed il vizio parziale di mente), queste devono intendersi riferite a tutti i reati in contestazione, non solo per la mancanza di una specifica indicazione di segno contrario, ma anche per il principio del favor rei e per la natura stessa di tali circostanze, basate su considerazioni attinenti alla personalità dell'imputato e pertanto concedibili in relazione a tutti i fatti addebitatigli»: Cass. VI, n. 12414/2011; Cass. II, n. 32104/2021; Cass. V, n. 2469/2022; «L'accertamento del vincolo della continuazione tra il reato giudicato ed altro precedente per il quale è intervenuta condanna con sentenza irrevocabile richiede al giudice la sola applicazione dell'aumento dovuto per la continuazione, mentre non possono essere applicate le circostanze attenuanti, il cui riconoscimento richiede l'esame dell'intera condotta antigiuridica del reo, ivi inclusa quella già considerata dal precedente giudicato, ostandovi la "res iudicata"»: va, peraltro, osservato e precisato che la suddetta regola si applica solo nel caso in cui il reato base (cioè quello più grave) sia ritenuto quello passato in giudicato, sicché sulla suddetta pena il giudice, per il reato giudicando, deve limitarsi ad apportare un semplice aumento di pena. Al contrario, il menzionato principio di diritto, non vale - dovendosi applicare le regole generali, e, quindi, anche la valutazione della sussistenza di eventuali circostanze - nel caso in cui il giudice ritenga reato più grave quello giudicando su cui applica l'aumento di pena per il reato già giudicato: Cass. V, n. 2907/2014; Cass. III, n. 45624/2021; Cass. VII, n. 30964/2021; Cass. IV, n. 24825/2021. Le ipotesi di continuazione Nel giudizio di primo grado le evenienze che possono prospettarsi al giudice sono le seguenti: a) continuazione fra reati che egli stesso sta giudicando; b) richiesta, da parte dell'imputato, di applicare la continuazione fra i reati sottoposti al giudizio ed altri pendenti presso lo stesso giudice o già decisi con sentenza non ancora passata in giudicato; c) richiesta, da parte dell'imputato, di applicare la continuazione fra i reati sottoposti al giudizio ed altri già giudicati con sentenza passata in giudicato; L'ipotesi sub a) è quella più facile: ad essa si applicano le regole illustrate nei paragrafi precedenti. Ipotesi sub b): nella suddetta ipotesi, l'unica difficoltà è di natura processuale in quanto la continuazione può essere applicata solo se tutti i reati per i quali è chiesta la continuazione si trovino nello stesso stato e grado di giudizio (cd omogeneità oggettiva) e davanti allo stesso giudice (cd. identità del giudice competente, da intendersi come medesimo ufficio giudiziario e non come stesso giudice persona fisica: Cass. VI, n. 37166/2008). Se sussistono le suddette condizioni, il giudice può ordinare la riunione ex art. 17 comma 1 lett. a) c.p.p.: il provvedimento del giudice, sia esso positivo o negativo, non è soggetto ad alcuna impugnazione (ex plurimis Cass. I, n. 42990/2008 ; Cass. I, n. 27958/2014). Non è ammissibile la sospensione di un procedimento al fine di attendere l'esito dell'altro in quanto l'art. 3 c.p.p. è tassativo nell'indicare i casi in cui, a seguito di una questione pregiudiziale, può disporsi la sospensione del processo. Ciò significa, quindi, che non è possibile la riunione con procedimenti pendenti presso altri uffici giudiziari o comunque che si trovino in uno stato del giudizio diverso. Ipotesi sub c): è sicuramente ammissibile, invece, la continuazione fra i reati giudicandi con altri già giudicati con sentenza passata in giudicato. Anzi, il giudice, al quale è rivolta la suddetta richiesta non può rinviare la decisione alla fase dell'esecuzione in quanto «l'applicazione della disciplina della continuazione in sede di esecuzione ha carattere sussidiario e suppletivo ed è subordinata alla circostanza che non sia stata esclusa dal giudice della cognizione, il quale, pertanto, dinanzi ad una precisa richiesta dell'imputato, non può legittimamente rinviare alla fase esecutiva il giudizio sull'identità o meno del disegno criminoso tra i vari illeciti» (Cass. IV, 10113/2012): il che comporta che se il giudice di primo grado non decide sulla richiesta, sul punto può essere proposto appello e dovrà decidere il giudice di appello e, se neppure questi decide, ove la questione sia nuovamente devoluta alla Corte di Cassazione, la sentenza dovrà essere annullata con rinvio al giudice di appello per la decisione omessa (Cass. S.U., n. 1/2000). Sull'onere probatorio in ordine alla produzione delle sentenze passate in giudicato, cfr. supra. Ove il giudice riconosca che i reati giudicandi siano avvinti dal vincolo della continuazione con quelli già giudicati, gli si prospettano due soluzioni: a) ritenere più grave il reato già giudicato; b) ritenere più grave il reato giudicando. La prima questione che si pone è quale sia il criterio che si deve seguire per stabilire se sia più grave il reato giudicando o quello già giudicato. Come abbiamo visto nei paragrafi precedenti, è ormai del tutto pacifico che si applica il criterio della violazione più grave: tale criterio, però, vale per i reati in continuazione che siano tutti da giudicare. Al contrario, quando sia riconosciuta la continuazione fra reati giudicandi e reati già giudicati, la problematica si ripropone perché il giudice si trova di fronte a pene già stabilite, passate in giudicato e delle quali non può non tenerne conto. In tale ultima ipotesi, sarebbe, pertanto, impossibile, proprio sotto il profilo giuridico e logico, tentare di applicare il criterio della violazione più grave in astratto, proprio perché il suddetto criterio ha uno spazio di applicazione solo quando tutti i reati siano ancora da giudicare. Ma, se alcuni reati da porre in continuazione sono stati già giudicati con sentenza passata in giudicato, e, per essi, è già stato individuato un reato base — quindi più grave — fra quelli posti in continuazione e per il quale è già stata fissata una pena in concreto, da questa il giudice della cognizione non può prescindere dovendo assumerla a parametro del criterio per stabilire, anche in relazione ai reati da giudicare, se essa sia la violazione più grave o se, invece, debba essere la pena di uno dei reati (o del reato) giudicandi: il che significa che il giudice è “costretto” ad individuare la violazione più grave in concreto e non in astratto. È del tutto evidente, infatti, che, per individuare la violazione più grave, non si può ricorrere ad un criterio per così dire misto e, cioè, da una parte, per i reati già giudicati, al criterio della violazione in concreto, e, dall'altra, per i reati giudicandi, al criterio della violazione più grave in astratto, proprio perché si tratta di due criteri inconciliabili in quanto l'uno esclude l'altro. Infatti, nell'ipotesi in cui devono porsi in continuazione reati già giudicati con reati giudicandi, vengono in conflitto due norme: quella di cui all'art. 81 (violazione più grave in astratto) e quella dell'art. 187 disp. att. c.p.p. a norma della quale, in fase esecutiva, «si considera violazione più grave quella per la quale è stata inflitta la pena più grave», con ciò facendosi, quindi, un evidente rinvio al criterio della violazione più grave in concreto. Ma, a prevalere non può che essere la disposizione dell'art. 187 cit. per la semplice ragione che, l'adozione del criterio della violazione più grave in astratto, avrebbe come conseguenza che il giudice della cognizione, ove ritenesse reato più grave quello già giudicato, dovrebbe avere la possibilità di rideterminare ex novo la suddetta pena base e, quindi, non tener conto della pena già fissata in concreto e passata in giudicato: il che non è possibile urtando contro il principio dell'intangibilità del giudicato. Ed è proprio sulla base delle suddette considerazioni che si è stabilito che «In tema di continuazione tra reato giudicato e altro reato, allorché per il primo, da considerare astrattamente più grave, sia stata inflitta una pena (nella specie ridotta per effetto della concessione di attenuanti), di entità minore rispetto a quella da infliggere per il reato oggetto di giudizio (nella specie, senza riconoscimento di attenuanti), non può farsi riferimento, ai fini dell'individuazione della violazione più grave, al criterio della gravità edittale, ma deve aversi riguardo — anche per non violare il principio di legalità — al criterio della pena inflitta in concreto, in conformità della disciplina applicabile in sede esecutiva»: Cass. VI, n. 29821/2001. Il suddetto criterio è stato recentemente ribadito da altre pronunce secondo cui in tema di continuazione, il principio della valutazione in astratto della violazione più grave non è vincolante per il giudice della cognizione quando lo stesso si trovi a valutare un unico reato – che ritenga in concreto meno grave – e che debba essere riunito ad altro reato, oggetto di sentenza passata in giudicato, e da lui reputato più grave, quantunque in astratto punito con pena edittale meno elevata, attesa l'applicabilità in questa ipotesi, per identità di ratio, della disciplina prevista dall'art. 187 disp. att. c.p.p. (Cass. II, n. 15539/2023; Cass. II, n. 25273/2024). La pena, infatti, sarebbe illegale sia nel caso in cui sia ritenuto come reato base il reato già giudicato che prevede la violazione edittalmente più grave ma per il quale risulta inflitta una pena inferiore a quella che, in concreto, il giudice ritenga di dover irrogare per uno dei reati da giudicare, sia nell'ipotesi in cui, al contrario, il reato da giudicare sia edittalmente più grave ma il giudice ritenga di irrogare una pena inferiore a quella inflitta per il reato base già giudicato. La disarmonia di tale situazione rende, pertanto, evidente che il criterio per individuare la violazione più grave dev'essere omogeneo sia per i reati già giudicati che da giudicare e, tale criterio, per quanto detto, non può che essere quello stabilito nell'art. 187 disp. att. c.p.p. ossia il criterio della violazione più grave in concreto. È, sulla base di queste considerazioni, che la giurisprudenza di legittimità ritiene, quindi, che «il principio della valutazione in astratto, per rapporto alla pena edittale comminata, del reato più grave, non è vincolante per il giudice della cognizione nell'ipotesi in cui egli si trovi a valutare un unico reato — che ritenga in concreto più grave — e che debba essere riunito dal vincolo della continuazione ad altri reati, oggetto di sentenze passate in giudicato, che il giudice procedente ritenga meno gravi quantunque in astratto puniti con pene edittali più elevate», infatti, «in questo caso, tutti i dati di raffronto sono predeterminati, non diversamente che nella fase esecutiva: cosicché, al giudice compete solo di valutare la gravità del reato successivo, sottoposto al suo esame: con un apprezzamento limitato ad un'unica statuizione tecnicamente discrezionale sulla pena da irrogare ex art. 133 , una volta accertata la responsabilità dell'imputato. A questa stregua, l'esame comparativo di gravità dei reati non include, infatti, più alcun elemento d'opinabilità, discendendo direttamente dal raffronto delle pene»: Cass. II, n. 41575/2006; Cass. II, n. 21769/2014; Cass. II, n. 935/2015; Cass. VI, n. 29404/2018 ; Cass. IV, n. 19561/2021 (in una fattispecie di pari trattamento edittale fra reato giudicando e reato giudicato );Cass., II, n. 13539/2024. In conclusione, si deve affermare che, nell'ipotesi esaminata (reato più grave quello già giudicato), il criterio che il giudice deve seguire è quello della violazione più grave in concreto. Stabilito, quale sia il reato più grave, il giudice deve risolvere un secondo problema e cioè le modalità da seguire per determinare la pena in continuazione. Prima ipotesi: il giudice ritiene più grave il reato già giudicato: in tal caso, deve limitarsi ad apportare, sulla pena stabilita per il reato già giudicato (e gli eventuali reati satelliti) — senza, quindi, poter riconsiderare e rideterminare l'entità della pena già definitivamente irrogata — l'aumento di pena per i reati giudicandi nel limite del triplo ex art. 81 : in terminis Corte cost. n. 115/1987 che, nel dichiarare infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 81, comma 2, e 90 c.p.p., nella parte in cui escluderebbero, la possibilità di effettuare il giudizio di continuazione tra reati meno gravi, la cui condanna sia passata in giudicato, e reati più gravi in corso di giudizio, osservò che «[...] É ormai pacifico, infatti, per concorde e consolidato giudizio della magistratura ordinaria, sia di merito che di legittimità, che il giudicato stesso non rappresenta un ostacolo a ricostituire l'unità della continuazione quando la violazione più grave si trovi fra quelle che furono oggetto del giudicato. In tal caso, il giudice del procedimento in corso deve soltanto stabilire l'ulteriore aumento da applicare alla pena già inflitta per la violazione più grave (ed altre eventuali). Non vi sarebbe, perciò, alcuna violazione del giudicato, che resta fermo, mentre sarebbe il giudice del processo in corso a valutare le violazioni sottoposte al suo giudizio, identificandole come espressioni di un unico disegno criminoso che le unisce a quella (o quelle) che furono alla base del giudicato: e la pena che va ad aggiungersi alla precedente non tocca quest'ultima»; Cass. VI, n. 7089/1997; Cass. III, n. 20915/2013. In conclusione, ove il reato più grave in concreto sia ritenuto quello già giudicato, la pena complessiva va determinata sulla base di quella da infliggersi sulla pena base stabilita con la sentenza passata in giudicato alla quale va apportato l'aumento (non oltre il triplo della pena base) ritenuto equo in riferimento ai reati satelliti giudicandi. In altri termini, per effetto dell'intangibilità del giudicato, il giudice deve tenere ferma la pena stabilita nella sentenza passata in giudicato (sia per la pena base che per i reati satelliti) e su di essa apportare l'aumento per i reati giudicando fino al triplo della pena base. Questa soluzione, peraltro, può comportare il seguente inconveniente. Si ipotizzi che la pena che risulta dalla sentenza passata in giudicato (e che il giudice ritiene più grave di quella che egli infliggerebbe per i reati che sta giudicando) abbia già “esaurito” il massimo della pena consentita in quanto il giudice a quo ha irrogato la pena massima; ad es. anni sei di reclusione così composti: pena base: anni due + anni quattro di continuazione per una serie di reati satelliti, corrispondente ad una pena finale di anni sei pari al triplo della pena base (anni due per la pena base x anni tre per i reati satelliti). In tale residua ma non impossibile ipotesi (così come in quella in cui il “residuo” che il giudice potrebbe applicare per “esaurire” la pena massima, sia minimo o insignificante rispetto alla pena che ritiene di infliggere per i reati che egli deve giudicare), a nostro avviso, la continuazione non può essere applicata proprio perché non è tecnicamente possibile perché, da un lato, il giudice si trova nell'impossibilità di modificare la pena inflitta dal giudice a quo (stante l'intangibilità del giudicato), dall'altra, non può applicare una pena che vada oltre la pena massima stabilita dall'art. 81 (fino al triplo della pena base), in quanto finirebbe per irrogare una pena illegale. Di conseguenza, l'unica soluzione possibile è che il giudice non applichi la continuazione, sicché la medesima, una volta che la sentenza sia passata in giudicato, potrà essere chiesta, ex art. 671 c.p.p. al giudice dell'esecuzione che, potrà applicarla secondo i parametri della suddetta norma. Proprio su tale argomento si è recentemente affermato (Cass. VI, n. 3998/2024) che in tema di reato continuato, il giudice della cognizione che, riconosciuta la continuazione "esterna", individui il reato più grave in quello già giudicato con altre violazioni unificate a norma dell'art. 81, comma secondo, cod. pen., ferma restando la pena già determinata per tale reato, deve quantificare gli aumenti per i reati satellite secondo i parametri indicati dall'art. 133 c.p. non potendo eccedere la misura già fissata nella sentenza irrevocabile per quelli già giudicati, ma senza essere tenuto, in mancanza di elementi indicativi della iniquità delle predette porzioni di pena, alla loro riduzione. Seconda ipotesi: il giudice ritiene più grave il reato giudicando. Tale possibilità, benché ritenuta problematica per diverso tempo, fu ritenuta ammissibile dalle Sezioni unite (Cass. S.U. , n. 7682/1986), che statuirono che «in tema di reato continuato la valutazione del giudice circa la identità del disegno criminoso costituisce il solo criterio per la unificazione fittizia quoad poenam della pluralità degli illeciti commessi dall'agente con una molteplicità di azioni, restandone escluso ogni fattore di carattere temporale. Pertanto, al giudice del merito non è inibita l'applicazione del trattamento sanzionatorio previsto dall'art. 81, commi 1 e 2, quando sia stata già pronunciata una sentenza irrevocabile di condanna nei confronti dell'imputato per fatto anche meno grave di quello sottoposto al suo giudizio. In siffatta ipotesi la pena complessiva va determinata sulla base di quella da infliggersi per il reato più grave sottoposto al giudizio in corso e va apportato l'aumento ritenuto equo in riferimento al reato meno grave già giudicato». Quindi, ove il giudice della cognizione che, in sede di applicazione della continuazione, individui il reato più grave in quello al suo esame e i reati-satellite in quelli già definitivamente giudicati, non è vincolato, nella rideterminazione della complessiva pena, dalla misura stabilita dalla sentenza irrevocabile relativa ai reati- satellite, sicché l'unico limite è quello stabilito dall'art. 671 c.p.p., comma 2, a norma del quale la pena complessiva non può eccedere la somma di quelle inflitte con ciascuna sentenza o decreto di condanna: Cass. I, n. 12704/2008; Cass. I, n. 5832/2011; Cass. II, n. 43768/2013; Cass. III, n. 23949/2015. Un esempio chiarirà il motivo del suddetto meccanismo che diverge da quello del triplo della pena base di cui all'art. 81. Si ipotizzi che la pena irrogata con la sentenza passata in giudicato ammonti ad anni sei di cui anni quattro di reclusione per la pena base + anni uno + anni uno per due reati satelliti. Si ipotizzi, poi, che la pena che il giudice irroga per i reati sottoposti al suo giudizio, ammonti invece, ad anni sette di reclusione, di cui anni cinque per la pena base + anni uno + anni uno per i reati satelliti. Abbiamo, quindi, ipotizzato che il reato più grave è quello sottoposto alla decisione del giudice: quindi, anni cinque. Ora, se si applicasse il criterio del triplo ex art. 81, il giudice potrebbe infliggere per i reati satelliti che egli deve giudicare e per i reati già giudicati, una pena massima di anni quindici (cinque x tre). La suddetta pena, però, sarebbe superiore a quella del cumulo materiale fra le due sentenze, ossia pari ad anni tredici (anni sette + anni sei della sentenza passata in giudicato). Però, se si tiene presente che la determinazione della pena prevista per il reato continuato (cumulo giuridico) è stata stabilita perché più vantaggiosa per l'imputato, è chiaro che il suddetto meccanismo non può essere peggiorativo rispetto a quello a cui sarebbe soggetto l'imputato ove si procedesse al semplice cumulo materiale. Da qui, l'esigenza di apportare un limite al meccanismo dell'art. 81 nel senso, appunto, che, comunque, non può mai superare il limite costituito dalla somma delle pene quelle inflitte con ciascuna sentenza o decreto di condanna, limite previsto dall'art. 671 c.p.p. nonché dallo stesso art. 81 al comma 3. Infine, la circostanza che, come pena base (ossia violazione più grave) sia ritenuta quella del reato giudicando, determina la necessità di dover rideterminare la pena anche per i reati già giudicati, sicché il giudice, non trovandosi di fronte allo sbarramento dell'intangibilità del giudicato (come nell'ipotesi precedente in cui il reato base è ritenuto quello della sentenza passata in giudicato) ed, anzi, trovandosi “costretto” a sciogliere la “vecchia” continuazione del reato giudicato per ricostituirla in quella della “nuova” continuazione (costituita dai reati giudicandi e quelli già giudicati), ben può rimodulare (sicuramente in melius, ma anche in pejus) la pena per i reati satelliti di cui alla sentenza passata in giudicato fermo il limite di pena di cui si è detto. Tale meccanismo, però, è contrastato da parte di un cospicuo filone giurisprudenziale (v. infra) secondo il quale, invece, il giudice, nella rideterminazione della pena dei reati satelliti di cui alla sentenza passata in giudicato non può mai rideterminarla in misura superiore a quella risultante dalla suddetta sentenza, potendola solo o confermare o ridurre, in ottemperanza al divieto della reformatio in pejus. Sul punto, v. infra. Infine, è utile rammentare che, per consolidata giurisprudenza, «L'accertamento del vincolo della continuazione tra il reato giudicato ed altro precedente per il quale è intervenuta condanna con sentenza irrevocabile richiede al giudice la sola applicazione dell'aumento dovuto per la continuazione, mentre non possono essere applicate le circostanze attenuanti, il cui riconoscimento richiede l'esame dell'intera condotta antigiuridica del reo, ivi inclusa quella già considerata dal precedente giudicato, ostandovi la «res iudicata»» Cass. V, n. 2907/2013 che ha precisato che è corretto non operare distinzioni concernenti l'incidenza delle attenuanti e della diminuente già applicate in primo grado; Cass. III, n. 897/2011. Per le problematiche nascenti dall'applicazione della sospensione condizionale della pena e della non menzione, si rinvia retro § 6. Per la problematica relativa all'ipotesi in cui la continuazione sia richiesta fra reati giudicati con rito abbreviato e rito ordinario (o viceversa), o con rito di applicazione della pena, si rinvia infra. Segue. Il giudizio di appelloLa continuazione nel giudizio di appello è retta dai seguenti principi: L' applicabilità d'ufficio della continuazione: Vi è contrasto sulla questione se il giudice di appello possa, d'ufficio, applicare la continuazione fra il reato giudicando ed altri già giudicati. Secondo una prima tesi, il giudice della cognizione può riconoscere d'ufficio la continuazione tra il reato rimesso alla sua cognizione e altro per cui l'imputato ha riportato in precedenza condanna divenuta definitiva, in quanto nel giudizio di cognizione non vige il principio della domanda in ordine alla determinazione del trattamento sanzionatorio, sicchè il giudice ha il potere di commisurare discrezionalmente la pena irroganda e, proprio a tal fine, se del caso, accertare (ovvero escludere) la continuazione con i reati per i quali l'imputato abbia già riportato condanne irrevocabili: Cass. I, n. n. 17832 /2017. Secondo, invece, l'opposta maggioritaria tesi, che fa leva sul principio devolutivo, il giudice d'appello non può riconoscere d'ufficio la continuazione tra il reato rimesso alla sua cognizione e altro per cui l'imputato ha riportato in precedenza condanna divenuta definitiva, in quanto tale riconoscimento deve formare oggetto di espressa richiesta da parte dell'interessato (Cass. IV, n. 33403/2008; Cass. II, n. 49436/2013; Cass. II, n. 10470 /2016). Di conseguenza, l'omessa pronuncia non è deducibile quale violazione di legge, non comportando la stessa effetti sulla legalità della pena e potendo il predetto riconoscimento essere valutato d'ufficio nell'esercizio di una mera facoltà giudiziale (Cass. V, n. 51473/2019). Nell'ambito di tale filone giurisprudenziale, è stato, ritenuto che l'inammissibilità del motivo di appello tardivamente proposto, con cui l'imputato chiede il riconoscimento della continuazione, non impedisce, però, al giudice di appello di pronunciarsi in merito, e dunque non si consuma alcuna nullità per violazione dei diritti della difesa ove provveda respingendo la richiesta difensiva, perchè in materia di applicazione della disciplina del concorso formale e del reato continuato la legge processuale assegna al giudice dell'esecuzione una mera funzione sussidiaria e suppletiva, subordinata all'inesistenza di un preesistente giudicato negativo: Cass. II, n. 44310/2005. Questa stessa giurisprudenza, ammette, però, la possibilità di richiedere la continuazione con altro reato, ove la condanna sia passata in giudicato, dopo la proposizione dell'atto di appello. In tale ipotesi, secondo alcune pronunce, la continuazione può essere richiesta per la prima volta anche nel corso della discussione orale (Cass. II, n. 37379/2020), mentre, per altra giurisprudenza, la richiesta è ammissibile solo se avanzata con i motivi nuovi ai sensi dell'art. 585, comma 4, c.p.p., in quanto, ferma restando la sua proponibilità in sede di esecuzione exart. 671 c.p.p., la relativa questione può essere introdotta nel giudizio di cognizione solo con modalità tali da consentire al giudice di prenderne conoscenza tempestivamente e in maniera adeguata (Cass. I, n. 6348/2023). Il percorso limitativo della possibilità di richiedere la continuazione c.d. esterna nella fase di appello, rispetto a reati giudicati separatamente, appare ispirato alle modifiche del rito di secondo grado che, anche secondo la più recente riforma c.d. Cartabia, hanno sottolineato l'aspetto di giudizio essenzialmente critico della decisione di primo grado; se l'appello ha assunto invero la veste di confronto critico della decisione di primo grado, scandito dalla necessità della specificità dei motivi, mal si concilia con l'applicazione della continuazione con reati oggetto di pronunce divenute definitive dopo la sentenza di primo grado impugnata e ciò, per l'evidente aspetto, che nel corso del giudizio di primo grado tale questione non ha formato oggetto né del giudizio né tantomeno della sentenza. Questo percorso appare segnato dalla più recente giurisprudenza che segnalando la possibilità di ricorrere comunque al giudice dell'esecuzione ha affermato come (Cass. II, n. 7132/2024) in tema di giudizio di appello, la richiesta di applicazione della continuazione in relazione a reato giudicato con sentenza di condanna divenuta irrevocabile dopo la scadenza del termine per impugnare è ammissibile solo se avanzata con i motivi nuovi ex art. 585, comma 4, c.p.p. e sempre che sia accompagnata dall'allegazione, precisa e completa, delle sentenze definitive rilevanti ai fini del decidere; ed in motivazione, la Corte ha evidenziato la natura eccezionale dell'istituto rispetto alla struttura del giudizio di appello e l'assenza di qualsiasi pregiudizio per l'imputato, che può sempre vedersi riconoscere la continuazione in sede esecutiva, ex art. 671 c.p.p.. Ai fini dell' art. 587 c.p.p. il motivo di gravame concernente la continuazione non può considerarsi esclusivamente personale quando emerge dagli atti processuali la prova certa che i diversi fatti-reato addebitati a più imputati siano stati commessi nelle medesime situazioni, con uguali modalità operative e con identica volontà delittuosa e non sia, quindi, necessaria, per ogni singolo soggetto, una specifica indagine sull'elemento deliberativo e volitivo, che unifica le diverse azioni: Cass. III, n. 10502/1985 ; Cass. VI, n. 1940/2016; Cass. II, n. 4159/2020. In ordine, invece, alla determinazione della pena, la problematica è complicata dal principio del divieto della reformatio in pejus (art. 597 comma 3 c.p.p.). Sul punto, va rilevato che le Cass. S.U., con la sentenza n. 33752/2013, hanno ribadito che non sussiste «più alcun contrasto giurisprudenziale in ordine al fatto che il divieto di reformatio in peius debba riguardare non solo il risultato sanzionatorio finale ma anche tutti gli elementi del calcolo, essendosi più volte ribadito nelle sentenze emesse dalle sezioni semplici della Corte di cassazione (adeguatesi ai principi espressi dalle Sezioni Unite) che la obbligatoria diminuzione della pena complessiva, in conseguenza dell'accoglimento dell'impugnazione proposta dal solo imputato, comporta che la riduzione dell'entità di uno degli elementi costitutivi del trattamento sanzionatorio non può essere in alcun modo compensata da un aumento della misura di altro elemento (unica sentenza dissonante è quella emessa da Cass. III, n. 25606/2010). Ed infatti già con la pronuncia n. 5987 del 12 maggio 1995, Pellizzoni, le Sezioni Unite, nel ricostruire i rapporti tra l'art. 597 c.p.p., commi 3 e 4, hanno stabilito che, pur regolando aspetti diversi del giudizio di appello, le due disposizioni interagiscono, aggiungendosi al generale divieto della reformatio in peius stabilito dal comma 3, il dovere altresì per il giudice, nei casi previsti dal comma 4, di diminuire la pena complessiva irrogata in misura corrispondente all'accoglimento della impugnazione; e ciò «anche quando, oltre all'imputato, è appellante il pubblico ministero, la cui impugnazione può avere effetti di aumento sugli elementi della pena ai quali si riferisce ma non impedire le diminuzioni corrispondenti all'accoglimento dei motivi dell'imputato relativi a reati concorrenti o a circostanze. I principi affermati da tale sentenza sono stati riaffermati dalla sentenza Cass. S.U., n. 40910/2005, con la quale le Sezioni Unite, nuovamente intervenendo per risolvere il contrasto interpretativo mai sopitosi, hanno ribadito in maniera esplicita (anche alla luce della Relazione preliminare al vigente codice) come nel giudizio di appello il divieto della reformatio in peius della sentenza impugnata dal solo imputato non riguardi solo l'entità della pena complessiva ma tutti gli elementi autonomi che concorrono a determinarla, fra essi compresi »sia gli aumenti o le diminuzioni apportati alla pena-base per le circostanze, che l'aumento conseguente al riconoscimento del vincolo della continuazione». La giurisprudenza successiva alla suddetta sentenza, si è adeguata al suddetto principio di diritto: Cass. II, n. 45973/2013; Cass. V, n. 41188/2014; Cass. II, n. 10052/2015; nonché Cass. S.U., n. 25939/2013 che, pur affrontando un diverso problema, hanno ribadito quanto statuito dalle cit. Sezioni Unite. Anche dopo l'intervento delle citate S.U., era rimasta, però, controversa la questione se sia violato o meno il divieto di reformatio in peius nell'ipotesi in cui il giudice (d'appello o rinvio) a seguito dell'assoluzione dell'imputato dal reato base o, a seguito del riconoscimento o meno di circostanze (attenuanti o aggravanti) il reato più grave sia divenuto uno dei reati satelliti, apporti, per uno dei reati un aumento maggiore rispetto a quello ritenuto dal primo giudice pur non irrogando una pena complessivamente maggiore. Sul punto sono intervenute le Sezioni Unite (Cass. S.U., n. 16208/2014), le quali hanno statuito che «non viola il divieto di reformatio in peius previsto dall'art. 597 c.p.p. il giudice dell'impugnazione che, quando muta la struttura del reato continuato (come avviene se la regiudicanda satellite diventa quella più grave o cambia la qualificazione giuridica di quest'ultima), apporta per uno dei fatti unificati dall'identità del disegno criminoso un aumento maggiore rispetto a quello ritenuto dal primo giudice, pur non irrogando una pena complessivamente maggiore». Le Sezioni Unite, infatti, nella citata sentenza hanno rilevato che « l'applicazione del cumulo giuridico ed il corollario del meccanismo di unificazione del trattamento sanzionatorio, presuppongono la individuazione dei termini che compongono il cumulo e la determinazione di un certo ordine della sequenza. Se muta uno dei termini (vale a dire, una o più delle regiudicande cumulate o il relativo «bagaglio» circostanziale) oppure l'ordine di quella sequenza (la regiudicanda-satellite diviene la più grave o muta la qualificazione giuridica di quella più grave), sarà lo stesso meccanismo di unificazione a subire una «novazione» di carattere strutturale, non permettendo più di sovrapporre la nuova dimensione strutturale a quella oggetto del precedente giudizio, giacché, ove così fosse, si introdurrebbe una regola di invarianza priva di qualsiasi logica giustificazione. In tali casi, pertanto, l'unico elemento di confronto non può che essere rappresentato dalla pena finale, dal momento che è solo questa che «non deve essere superata» dal giudice del gravame: esattamente come non potrebbe comunque essere superata una pena determinata dal primo giudice in mitius, anche se contra legem. D'altra parte, se, come si è dianzi accennato, il procedimento attraverso il quale si realizza il cumulo giuridico prende in considerazione una specifica relatio tra un quantum di pena-base (che si determina sulla falsariga dell'editto stabilito per il reato più grave) ed un quantum di aumento per ciascuno dei reati-satellite, è evidente che non si può stabilire alcun termine di comparazione rispetto agli aumenti determinati dal primo giudice se è la stessa base di commisurazione che cambia: altro è aumentare di un terzo una certa pena, altro è stabilire lo stesso aumento, parametrato, però, su un trattamento sanzionatorio qualitativamente o quantitativamente diverso. In una prospettiva siffatta, quindi, non possono neppure porsi problemi relativi alla verifica (come alcune pronunce di questa Corte paiono suggerire) di una ipotetica proporzionalità tra le decisioni di primo e secondo grado, giacché nulla consente di ritenere imposto al secondo giudice — e men che mai un simile corollario può reputarsi derivante dal divieto che viene qui in discorso — di stabilire come pena-base il minimo edittale previsto per il nuovo reato ritenuto più grave, ove il primo giudice a quel limite si sia attenuto nella determinazione della pena base. Il dictum della sentenza William Morales, che va qui riaffermato, vale, pertanto, solo nella ipotesi in cui il giudice dell'appello o del rinvio sia chiamato a giudicare della stessa sequenza di reati avvinti dal cumulo giuridico, giacché in tal caso rinviene adeguata giustificazione la preclusione a non rivedere in termini peggiorativi non soltanto l'esito finale del meccanismo normativo di quantificazione del cumulo, ma anche i singoli parametri di commisurazione di ciascun segmento che compone quel cumulo. D'altronde, se l'appello comporta un nuovo giudizio su qualche punto che si riflette sulla determinazione della pena, allo stesso modo di come il nuovo giudizio di comparazione tra circostanze, al lume della citata sentenza Papola, non soffre condizionamenti in ragione di quello condotto in primo grado, anche in ipotesi di eliminazione di una aggravante o di riconoscimento di una attenuante, anche il nuovo giudizio sugli aumenti a titolo di continuazione non è vincolato dalle determinazioni assunte al riguardo dal primo giudice, se cambia il titolo del reato più grave ed il relativo trattamento sanzionatorio assunto come pena-base»: Ludovici, 2854. Come si può notare, laCass. S.U. n. 16208/2014, in motivazione, si confrontò espressamente con la Cass. S.U. n. 40910/2005, avendo chiarito che il principio di diritto da queste affermato «vale solo nella ipotesi in cui il giudice dell'appello o del rinvio sia chiamato a giudicare della stessa sequenza di reati avvinti dal cumulo giuridico [….] ma se cambia il titolo del reato più grave ed il relativo trattamento sanzionatorio assunto come pena base “ anche il nuovo giudizio sugli aumenti a titolo di continuazione non è vincolato dalle determinazioni assunte al riguardo dal primo giudice». Ciononostante, è continuato a persistere un contrasto fra le sezioni che hanno continuato ad applicare il principio di diritto delle S.U. del 2005 (Cass. III, n. 49163/2018, in una fattispecie in cui la Corte di merito, nel riconoscere l'attenuante della collaborazione di cui all'art. 73, comma 7, del d.P.R. n. 309 del 1990, aveva operato una minore riduzione per le attenuanti generiche rispetto a quella applicata dal giudice di primo grado, ha stabilito che: «Viola il divieto della "reformatio in peius" il giudice di appello che, a seguito di impugnazione del solo imputato, concedendo un'ulteriore attenuante diminuisca complessivamente la pena inflitta, operando, però, una minore riduzione per l'attenuante già riconosciuta in primo grado”»; Cass. III, n. 17735/2018; Cass. II, n. 16078/2019; Cass. VII, n. 499/2020; Cass. IV, n. 34342/2021;Cass. II, n. 17347/2021: «Viola il divieto di "reformatio in peius" il giudice dell'impugnazione che, riqualificato in termini di minore gravità il fatto sul quale è commisurata la pena base, a seguito del riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, e pur irrogando una sanzione complessivamente inferiore a quella inflitta in primo grado, applichi per i reati satellite - già unificati dalla continuazione - un aumento di pena maggiore rispetto a quello praticato dal giudice della sentenza riformata, atteso che la struttura del reato continuato non cambia nonostante la mutata qualificazione della violazione più grave”; Cass. II, 34387/2016; Cass. V, n. 50083/2017; Cass. V, n. 34497/2021) e le sezioni, che, invece, si sono adeguate al principio enunciato dalle S.U. del 2014 (Cass. II, n. 36376/2021§ 7.1.7. in cui è riepilogata la suddetta questione; Cass. V, n. 19366/2020, in una fattispecie in cui il giudice di appello, in sede di rinvio, aveva riconosciuto in favore dell'imputato l'attenuante della provocazione per le minacce ricevute dalla vittima, elemento già valutato ai fini della concessione delle attenuanti generiche, aveva applicato per queste ultime una minore diminuzione "interna" per le relazioni e sovrapposizioni degli indici fattuali delle circostanze in concorso, rideterminando comunque "in melius" la pena complessiva, ha stabilito che «Non viola il divieto di "reformatio in peius" la decisione del giudice di appello che, nel caso di impugnazione proposta dal solo imputato, avendo riconosciuto una ulteriore circostanza attenuante, operi una minore riduzione per le già applicate attenuanti generiche, purché l'entità della pena complessiva irrogata risulti diminuita e la decisione sia sorretta da adeguata motivazione»;Cass. II, n. 25739/2017«Nel giudizio di appello, non viola il divieto della "reformatio in peius" il giudice che, dopo aver riqualificato il fatto contestato in un reato meno grave, applica per le circostanze attenuanti generiche una diminuzione di pena proporzionalmente inferiore rispetto a quella praticata dal giudice della sentenza riformata, perché la diversa qualificazione giuridica del fatto (nella specie, da rapina consumata a rapina tentata) comporta una diversa incidenza degli elementi circostanziali»; Cass. V, n. 53421/2018; Cass. II, n. 6949/2020; Cass. V, n. 15130/2020; Cass. II, n. 41973/2021; Cass. I, n. 26645/2019: «Non viola il divieto di "reformatio in peius" previsto dall'art. 597 c.p.p.. il giudice dell'impugnazione che, quando muta la struttura del reato continuato (come avviene se la regiudicanda satellite diventa quella più grave o cambia la qualificazione giuridica di quest'ultima), apporta per uno dei fatti unificati dall'identità del disegno criminoso un aumento maggiore rispetto a quello ritenuto dal primo giudice, pur non irrogando una pena complessivamente maggiore»; Cass. II, n. 50949/2017). Segue. Il giudizio di cassazioneInnanzitutto, va rilevato che, nonostante decisioni contrarie, la più recente giurisprudenza si è orientata nel ritenere che sia improponibile davanti alla Corte di cassazione la richiesta di applicazione della continuazione tra il reato per il quale si procede, ancora sub judice, ed altro reato per il quale sia intervenuta condanna definitiva successivamente alla pronuncia della sentenza gravata di ricorso, potendo in tal caso la continuazione essere applicata in sede esecutiva: Cass. III, n. 23829/2022; Cass. VI, n. 54638/2018; Cass. II, 31974/2015; Cass. V, 5236/2013; contra: Cass. IV, 49810/2012. E' stato altresì, deciso che «In tema di ricorso per cassazione, non è deducibile quale violazione di legge il mancato riconoscimento del vincolo della continuazione con reato già giudicato quando la relativa questione non sia stata proposta con atto di appello, o non sia divenuta attuale dopo il termine per la proposizione di quest'ultimo, non comportando la stessa effetti sulla legalità della pena e potendo il predetto riconoscimento essere valutato d'ufficio nell'esercizio di una mera facoltà giudiziale»: Cass. V, n. 51473/2019 . Tanto premesso, le questioni attinenti alla continuazione che possono venire in rilievo nel giudizio di cassazione e che possono essere decise direttamente dalla Corte, riguardano solo i casi in cui, uno dei reati satelliti sia dichiarato estinto o assorbito in altra fattispecie: in tali casi, la Corte, ex art. 620 lett. f) c.p.p. elimina la pena irrogata per il reato satellite, rideterminandola. Ove ciò non sia possibile (perché ad es. il giudice non ha specificato i singoli aumenti inflitti per ogni reato satellite, oppure perché ad essere dichiarato estinto è il reato base), la sentenza è annullata con rinvio al giudice di merito per la rideterminazione della pena. Nello stesso modo la Corte procede ove sia possibile procedere alla mera rettificazione di errori non determinanti l'annullamento ex art. 619 c.p.p. In tutti gli altri casi, in cui la Corte riconosce fondato uno dei motivi dedotti dal ricorrente su questioni relative al reato continuato, trattandosi di questioni di merito che la Corte non può decidere, la sentenza è annullata con rinvio al giudice di merito che, nel nuovo giudizio, dovrà attenersi al principio di diritto stabilito dalla Corte. All'attenzione della Corte di cassazione, poi, è stato posto il caso della condanna per più reati riuniti in continuazione, relativamente ai quali l'impugnazione sia proposta solo per uno o alcuni di essi e, successivamente, anche per i reati non impugnati sia maturata la prescrizione. La soluzione alla suddetta problematica, va cercata nel principio di diritto affermato dalle Cass. S.U. n. 6903/2017, secondo le quali « In caso di ricorso avverso una sentenza di condanna cumulativa, che riguardi più reati ascritti allo stesso imputato, l'autonomia dell'azione penale e dei rapporti processuali inerenti ai singoli capi di imputazione impedisce che l'ammissibilità dell'impugnazione per uno dei reati possa determinare l'instaurazione di un valido rapporto processuale anche per i reati in relazione ai quali i motivi dedotti siano inammissibili, con la conseguenza che per tali reati, nei cui confronti si è formato il giudicato parziale, è preclusa la possibilità di rilevare la prescrizione maturata dopo la sentenza di appello». Alla stregua del suddetto principio, la giurisprudenza ha affermato « In caso di ricorso avverso una sentenza di condanna cumulativa, che riguardi più reati unificati dal vincolo della continuazione, l'autonomia dell'azione penale e dei rapporti processuali inerenti ai singoli capi di imputazione impedisce che l'ammissibilità dell'impugnazione per uno dei reati possa determinare l'instaurazione di un valido rapporto processuale anche per i reati in relazione ai quali i motivi dedotti siano inammissibili, con la conseguenza che per tali reati, nei cui confronti si è formato il giudicato parziale, è preclusa la possibilità di rilevare la prescrizione maturata dopo la sentenza di appello»: Cass. III, n. 20899/2017; Cass. II, n. 990/2020, secondo la quale «il parziale accoglimento del ricorso in cassazione limitatamente all'omessa pronuncia sulla richiesta di applicazione della continuazione "esterna" con reato separatamente giudicato e meno grave non consente la rilevabilità della estinzione per prescrizione del reato in ordine al quale si procede e rispetto al quale il ricorso risulti inammissibile. Deve, quindi, ritenersi superato la precedente giurisprudenza secondo la quale la valida proposizione dell'impugnazione impedisce la formazione del giudicato anche riguardo ai reati non impugnati, sicché la prescrizione, ove maturata per il reato impugnato, dev'essere dichiarata anche per i reati non impugnati e ciò perché i reati unificati con il vincolo della continuazione, diversamente dai capi di imputazione autonomi, hanno sorte processuale comune, non potendosi il relativo capo ritenere definitivo se la pena sia ancora in discussione, poiché irrogata in relazione alla ritenuta continuazione: Cass. I, n. 45547/2015; Cass. VII, n. 39750/2014; Cass. III, n. 7937/2017.
Segue. Il giudizio di rinvioNel giudizio di rinvio resta applicabile il divieto della reformatio in pejus. La problematica del mutamento della struttura del reato continuato, è stata risolta con la sentenza delle Cass. S.U.,n. 16208/2014 supra cit. Secondo un primo orientamento, la richiesta di continuazione fra il reato giudicando ed altro reato deciso con una sentenza divenuta irrevocabile dopo la pronuncia della sentenza di annullamento, può essere proposta anche nel giudizio di rinvio in quanto i poteri esercitabili dal giudice nel giudizio rescissorio sono gli stessi che aveva il giudice la cui sentenza è stata annullata e possono trovare un limite esclusivamente nelle statuizioni sulle quali si sia eventualmente formato il giudicato parziale, ovvero in quelle concernenti il principio di diritto enunciato dalla Corte di cassazione: Cass. II, n. 25900/2008. Più recentemente tuttavia tale soluzione è stata contestata da quell'intervento (Cass. VI, n. 9152/2025) secondo cui nel giudizio di rinvio non può chiedersi il riconoscimento della continuazione, che non abbia formato oggetto del precedente giudizio di appello, neanche nel caso in cui l'unicità del disegno criminoso si invochi con riguardo a delitti per i quali il giudicato si sia formato solo dopo la celebrazione del giudizio di appello, oggetto dell'annullamento con rinvio, sempreché la sentenza rescindente non abbia devoluto al giudice del rinvio la rivalutazione di punti della decisione concernenti anche la disciplina della continuazione. Cass. I, n. 16766/2020 ha chiarito che,nel giudizio d'appello in sede di rinvio conseguente ad annullamento parziale disposto dalla Corte di cassazione, in caso di sopravvenienza, successivamente alla sentenza rescindente, di un'ordinanza applicativa, in sede esecutiva, del vincolo della continuazione tra un reato rispetto al quale la condanna è divenuta irrevocabile ed altro reato giudicato con titolo diverso, il giudice, nel pronunciare sentenza di condanna dell'imputato per i reati oggetto del rinvio, in presenza di una specifica deduzione della parte, è tenuto a verificare la sussistenza dei presupposti per l'estensione della continuazione anche al reato giudicato con titolo diverso e, nell'ipotesi affermativa, a pronunciarsi sui conseguenti effetti in punto di struttura del reato continuato e di dosimetria della pena. Segue. La fase dell'esecuzioneIl reato continuato, nella fase dell'esecuzione, è disciplinato dagli artt. 671 c.p.p. e art. 187, 188 disp. att. c.p.p. ed è soggetta ai principi di seguito indicati. Ambito di applicazione: la possibilità di applicare la continuazione in sede di esecuzione, ex art. 671 c.p.p., è soltanto sussidiaria al potere di applicarla in sede di cognizione, sicché la richiesta: a) è ammissibile soltanto con riferimento a pronunce intervenute in procedimenti distinti (ex plurimis Cass. I, n. 20169/2009). Non è, quindi, consentita con riferimento a fatti giudicati con unica sentenza, in quanto si verrebbe, in caso contrario, a violare il principio di intangibilità del giudicato, quale che sia il motivo per cui all'istituto non sia stata data operatività nelle fase di cognizione: Cass. I, n. 2819/1995; b) non è ammissibile quando il giudice della cognizione ha escluso espressamente la continuazione (ex plurimis Cass. I, n. 48580/2017; Cass. I, n. 16235/2010). È controverso se sia ammissibile nel caso in cui il giudice della cognizione, pur a fronte di una specifica domanda, abbia omesso di pronunciarsi (in senso negativo: Cass. III, n. 10478/1994; in senso affermativo: Cass. I, n. 12914/2022; Cass. I, n. 9896/2021; Cass. I, n. 43241/2009). In tale ottica si spiega l'importanza di coltivare l'impugnazione ed il conseguente principio di diritto secondo il quale sussiste l'interesse dell'imputato al ricorso per cassazione per la mancata pronuncia sul punto (con conseguente annullamento con rinvio), non potendo il giudice di appello esimersi da tale compito, riservandone la soluzione al giudice dell'esecuzione: ex plurimis Cass. V, n. 3867/2014. Interesse: l'interesse del condannato alla riconsiderazione dei fatti giudicati agli effetti dell'art. 671 c.p.p. sussiste anche se non determina immediate e concrete conseguenze rispetto all'entità delle pene da espiare. L'interesse é da ravvisare nella finalità di potere imputare, ove ne sussistano i presupposti, ad altra condanna la pena di fatto espiata oltre la misura rideterminata ai sensi dell'art. 671 c.p.p., di escludere o limitare gli effetti penali della condanna in tema di recidiva e di dichiarazione di abitualità e professionalità nel reato: Cass. I, n. 4692/2007; Cass. I, n. 27639/2013; Cass. I, n. 46975/2013 ; Cass. I, n. 10380/2021 in applicazione del suddetto principio, dopo avere ribadito che la richiesta di continuazione è insindacabile, ha annullato con rinvio il provvedimento del giudice dell'esecuzione che aveva dichiarato inammissibile l'istanza in considerazione dell'avvenuta espiazione della pena relativa al reato che, in caso di accoglimento, sarebbe stato quello meno grave. Onere probatorio: a norma dell'art. 186 disp. att. c.p.p., vanno acquisite d'ufficio, dal giudice dell'esecuzione, le copie delle sentenze o decreti irrevocabili ove non siano allegati alla richiesta di continuazione (o concorso formale). Di conseguenza, «è affetto da vizio di motivazione, e va pertanto annullato con rinvio, il provvedimento con cui il giudice dell'esecuzione, omettendo l'acquisizione di copia delle relative decisioni di condanna, dichiari la mancanza del nesso di continuazione tra i reati che ne hanno costituito oggetto»: Cass. I, n 35125/2017; Cass. I, n. 19987/2010; Cass. I, n. 14822/2021. Determinazione della pena : Si consideri il seguente esempio: il condannato chiede al giudice dell'esecuzione di riunire - sotto il vincolo della continuazione - i vari reati per i quali è stato condannato con due sentenze passate in giudicato e, quindi, rideterminare la pena complessiva. Prima sentenza: Pena base per il reato più grave = Anni due + un anno (reato a) + un anno (reato b) + un anno (reato c) + sei mesi (reato d) + sei mesi (reato e) = anni sei di reclusione (ossia il massimo della pena applicabile, essendo la pena base fissata in anni due: anni due x 3 = anni sei); Seconda sentenza: Pena base per il reato più grave = Anni uno + sei mesi (reato x) + quattro mesi (reato y) + due mesi (reato z) = anni due di reclusione. Il procedimento che il giudice dell'esecuzione deve seguire è il seguente: Innanzitutto, deve accertare se fra i reati delle due sentenze vi sia o meno continuazione. In caso affermativo – sciolto il cumulo fra i reati delle due sentenze - deve applicare le seguenti regole: 1. Individuazione della violazione più grave Il giudice dell'esecuzione è vincolato a considerare violazione più grave - ex art. 187 disp. att. c.p.p. - quella per la quale è stata inflitta, in sede di giudizio di cognizione, la pena più grave, la cui specie o misura non possono essere in nessun caso modificate, in senso peggiorativo o migliorativo (Cass. I, n. 9528/2020; Cass. I, 31640/2014; Cass. I, n. 38331/2014; Cass. I, 29941/2016) neppure nell'ipotesi in cui il giudice della cognizione abbia quantificato in modo illegale la pena, in misura inferiore al minimo edittale consentito (Cass. I, 44240/2014): quindi, nell'esempio ipotizzato, il giudice deve considerare come pena base, la pena di anni due di cui alla prima sentenza; Cass I, n. 30119/2021, ha precisato che «la individuazione della violazione più grave, ai sensi dell'art. 187 disp.att., - anche lì dove tra i fatti posti in continuazione taluni siano stati giudicati con sentenze di applicazione della pena su richiesta delle parti - va operata in riferimento alla pena "inflitta" come risultante dal dispositivo della sentenza». 2. Pena per i reati satelliti 2.1. Prima tesi Secondo una prima opinione, il giudice dell'esecuzione è vincolato alla pena inflitta dal giudice della cognizione per ciascuno reato satellite, nel senso che non può, per i suddetti reati, rideterminare una pena più alta di quella inflitta in fase cognitiva (Cass. I, n. 3745/1996; Cass. I, n. 5336/1997; Cass. I, n. 1138/1998; Cass. I, 44240/2014) anche qualora erroneamente il giudice della cognizione non abbia disposto aumenti di pena per uno dei reati riconosciuti in continuazione (Cass. I, 3276/2016). Al contrario, può diminuire le pene irrogate per i reati satelliti (Cass. I, 6602/1996; Cass. I, 38331/2014; Cass. I. 44240/2014, in motivazione), derogando, così al principio dell'intangibilità del giudicato; 2.2. Seconda tesi Al contrario, secondo un'altra opinione, il giudice non è vincolato da un divieto di reformatio in peius analogo a quello stabilito dall'art. 597 c.p.p., comma 3, ma è tenuto a osservare il solo limite fissato dall'art. 671 c.p.p., comma 2, a norma del quale la pena complessiva non può eccedere la somma di quelle inflitte con ciascuna sentenza (o decreto) di condanna, con la conseguenza che i singoli aumenti di pena determinati per ciascun reato satellite possono anche essere superiori alle pene originariamente inflitte dal giudice della cognizione per i reati stessi, purché la loro sommatoria non superi il limite sopra indicato: Cass. I, n. 12704/2008; Cass. I, n. 48833/2009; Cass. III, 23949/2015. Con sentenza:Cass. S.U., n. 6296/2017, le Sezioni Unite hanno aderito alla prima tesi enunciando il seguente principio di diritto: «il giudice dell'esecuzione, in sede di applicazione del reato continuato, non può quantificare gli aumenti di pena per i reati satelliti in misura superiore a quelli fissati dal giudice della cognizione con la sentenza irrevocabile di condanna»; conformi: Cass. V, n. 38740/2019, secondo la quale ««in caso di annullamento con rinvio, a seguito di ricorso del solo condannato, dell'ordinanza di applicazione della disciplina del reato continuato ai sensi dell'art. 671 c.p.p., il giudice dell'esecuzione di rinvio è vincolato al divieto di "reformatio in peius" sui punti della decisione annullata già favorevoli al ricorrente»; Cass. I, n. 9528/2020 secondo la quale «In sede di applicazione della disciplina del reato continuato, a norma dell'art. 671 c.p.p., quando la pena più grave è inerente ad una violazione già ritenuta nella sentenza di condanna in continuazione con altri reati, il giudice dell'esecuzione non può determinare aumenti di pena diversi da quelli stabiliti dal giudice della cognizione nella medesima sentenza [ndr: sia per il reato base che per i reati satelliti], fermo restando il suo potere di autonoma determinazione degli incrementi di pena per gli ulteriori reati satelliti, separatamente giudicati e riconosciuti in continuazione con i primi, nel rispetto dei limiti statuiti in materia dagli articoli 81 e 671 c.p.p.». Cass. I, n. 28135/2021 «Il giudice dell'esecuzione, nel procedere alla rideterminazione del trattamento sanzionatorio per effetto dell'applicazione della disciplina del reato continuato, può quantificare un aumento di pena per i reati-satellite in misura superiore a quello fissato in altro provvedimento precedentemente adottato in sede esecutiva, atteso che la discrezionalità del giudice dell'esecuzione incontra un limite solo con riferimento alla valutazione effettuata in sede di cognizione, rispetto alla quale si è formato il giudicato in favore del condannato». 3) Rideterminazione della pena finale. 3.1. Tesi dell'applicabilità dell'art. 81. Secondo questa opinione, una volta ritenuta la continuazione tra i reati delle diverse sentenze, il trattamento sanzionatorio originariamente previsto per quelli c.d. satelliti non esplica più alcuna efficacia, sicché il giudice dell'esecuzione incontra «il solo limite che la pena complessivamente inflitta non può essere superiore al triplo della pena base, né a quella che sarebbe applicabile in caso di cumulo»: Cass. I, n. 2772/1995; Cass. I, 4862/2000; Cass. I, 32277/2003; Cass. I, 46905/2009. Il che significa che, anche in sede di esecuzione, si applica integralmente il meccanismo sanzionatorio previsto all'art. 81, comma 1 (aumento del triplo) con i limiti di cui al comma 3 che, nello stabilire che la pena “non può essere superiore a quella che sarebbe applicabile a norma degli articoli precedenti”, prescrive che la pena risultante dall'aumento del triplo non può comunque essere superiore al cumulo materiale previsto dall'art. 73 e non può superare i limiti di cui all'art. 78. Quindi, secondo l'esempio ipotizzato, il giudice dell'esecuzione, deve prendere come reato base (violazione più grave) quello per il quale è stata inflitta la pena di anni due (prima sentenza) sulla quale deve applicare – per tutti i reati ritenuti in continuazione e cioè fra tutti i reati della prima e della seconda sentenza – l'aumento fino al triplo (con i limiti derivanti dagli artt. 73 – 78). 3.2. La tesi dell'applicabilità dell'art. 671 c.p.p. Secondo, invece, un'altra opinione, l'interpretazione logica e sistematica della normativa (artt. 81 e art. 671 c.p.p. «porta a riconoscere che la determinazione della pena in sede esecutiva è regolata unicamente dalla disposizione di cui al secondo comma dell'art. 671 del codice di rito, e non dall'art. 81 c.p., in quanto, essendo configurabile un concorso apparente di norme, la prevalenza della prima costituisce puntuale applicazione del principio di specialità enunciato dall'art. 15 c.p.. Invero, pur riguardando le due disposizioni il medesimo oggetto, corrispondente alla determinazione della pena per il reato continuato, nella previsione dell'art. 671, comma 2, è presente l'elemento specializzante costituito dal fatto che la pena per i reati unificati per continuazione è applicata in sede esecutiva con riferimento ad una pluralità di sentenze di condanna passate in giudicato, in alcune delle quali il giudice della cognizione potrebbe già avere riconosciuto la continuazione tra più reati ed avere già raggiunto il limite massimo del triplo della pena per la violazione più grave. Da quest'ultima circostanza traspare la palese ragione giustificativa della disposizione posta dall'art. 671, comma 2, c.p.p., che, non richiamando il limite del triplo di cui all'art. 81 c.p. ma fissando la regola per cui la pena per il reato continuato non può essere superiore alla somma delle pene inflitte con ciascuna sentenza, intende proprio evitare che si formi una "sacca di impunità"»: Cass. I, n. 5637/2001; Cass. I, n. 5959/2001; Cass. I, 24823/2005; Cass. I, 45256/2013; Cass. I, n. 44240/2014; Cass. I, n. 3276/2016. Quindi, secondo questa opinione, il giudice dell'esecuzione non può applicare l'art. 81 proprio per evitare casi di impunità che si verificherebbero come nell'esempio prospettato in cui, poiché la prima sentenza (che prevede la violazione più grave) ha “assorbito” integralmente la pena applicabile (anni sei, corrispondente al triplo di anni due della pena base), nessuna pena, a titolo di continuazione, potrebbe essere inflitta per i reati di cui alla seconda sentenza. Quindi, al giudice dell'esecuzione, è concesso procedere solo al cumulo materiale fra le pene delle varie sentenze, a norma dell'art. 671/2 c.p.p. La questione è stata risolta dalle S.U. che, con sentenza Cass. n. 28659/2017, hanno accolto la prima tesi, affermando il seguente principio di diritto: «Il giudice dell'esecuzione, in caso di riconoscimento della continuazione tra più reati oggetto di distinte sentenze irrevocabili, nel determinare la pena è tenuto anche al rispetto del limite del triplo della pena inflitta per la violazione più grave, oltre che del criterio indicato dall'art. 671, comma 2, c.p.p., rappresentato dalla somma delle pene inflitte con ciascuna decisione irrevocabile». 4. Motivazione Secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità « il giudice dell'esecuzione deve dare conto dei criteri adottati per la determinazione della pena per l'applicazione della continuazione, in modo da rendere noti all'esterno non solo gli elementi che sono stati oggetto del suo ragionamento, ma anche i canoni adottati, sia pure con le espressioni concise caratteristiche dei provvedimenti, e, in particolare, nel determinare la pena complessiva, non solo deve individuare il reato più grave, stabilendo la pena base applicabile per tale reato, ma deve anche calcolare l'aumento di pena per la continuazione in modo distinto per i singoli reati satelliti, anziché unitariamente [….]»: Cass. I, n. 29941/2016 (in motivazione ampi richiami a precedenti giurisprudenziali); Cass. V. n. 11336/2020; Cass. I, n. 17209/2020; Cass. S.U. n. 47127/2021. Va rammentato che, a norma dell’art. 671/1 cod. proc. pen., ai fini della sussistenza del reato continuato, il giudice dell’esecuzione deve prendere in esame anche lo stato di tossicodipendenza: ,sul punto, amplius, retro. Problematica, nella fase di esecuzione, è l'ipotesi in cui siano chiesti i benefici previsti dall'Ordinamento penitenziario. A tal proposito la suddetta problematica può essere riassunta nei termini di seguito indicati. Prima Regola: Il condannato, per potere chiedere di poter accedere ai benefici previsti dall'O.P., deve avere espiato per intero la pena principale relativa ai reati ostativi: ex plurimis Cass. I, 37848/2016. Seconda Regola: nel caso di cumulo materiale di pene concorrenti, deve intendersi scontata per prima quella più gravosa per il reo, con la conseguenza che, ove si debba espiare una pena inflitta anche per un reato ostativo alla fruizione di benefici penitenziari (ad es. associazione per delinquere di stampo mafioso), la pena espiata va imputata innanzi tutto ad esso: ex plurimis Cass. I, n. 613/1999; Cass. I, n. 6817/2015. La quaestio iuris: allorché il reato ostativo con i benefici richiesti non coincida con la violazione più grave, ma sia solo un reato satellite, si è posta la questione di stabilire come si deve calcolare il beneficio in relazione al suddetto reato, una volta che il cumulo giuridico sia sciolto. Secondo una prima tesi, lo scioglimento del cumulo formatosi per effetto della continuazione determina il ripristino per esso della pena edittale prevista, calcolata nel minimo, e quindi con esclusione di qualsiasi riferimento alla pena inflitta in concreto a titolo di aumento per la continuazione, giacché tale riferimento non ha più ragione di essere, una volta che si sia operato lo scioglimento del vincolo giuridico dovuto alla continuazione. Si è infatti, osservato che, ove il condannato avesse commesso il solo delitto satellite avrebbe riportato una pena minima pari a quella prevista dal suddetto reato «che, pur con la detrazione della custodia cautelare presofferta, si porrebbe sempre come ostativa alla concessione del beneficio richiesto. A tale beneficio lo stesso può, invece, avere accesso avendo commesso, oltre al reato ostativo anche un reato considerato più grave al quale il primo è unificato dal vincolo della continuazione. Per ovviare alla possibilità che si verifichino tali situazioni paradossali, lo scioglimento del cumulo formatosi per effetto della continuazione non può non determinare il ripristino per il reato satellite delle pene previste per lo stesso, calcolate nel minimo edittale ed escludendo il riferimento alla pena stabilita in concreto a titolo di aumento per la continuazione. Tale riferimento non ha, infatti, più motivo di sussistere una volta che si sia operato lo scioglimento del vincolo dovuto alla continuazione» Cass. I, n. 46246/2008; Cass. I, n. 4778/2008; Cass. I, n. 51835/2014; Secondo, invece, un'altra tesi, ai fini della concessione dei benefici penitenziari, il cumulo giuridico delle pene irrogate per il reato continuato è scindibile ove il condannato abbia espiato per intero la pena relativa ai reati ostativi e, nel caso in cui il reato ostativo coincida con un reato satellite, occorrerà far riferimento alla pena inflitta in concreto a titolo di continuazione e non alla sanzione edittale minima prevista per la singola fattispecie astratta. Questa giurisprudenza trae argomento dai principi di diritto enunciati dalle S.U. secondo le quali tema di indulto, in caso di reati uniti nel vincolo della continuazione, alcuni dei quali - compreso quello più grave - siano stati commessi entro il termine fissato per la fruizione del beneficio ed altri successivamente, la pena rilevante ai fini della revoca dell'indulto va individuata, con riguardo ai reati-satellite, nell'aumento di pena in concreto inflitto a titolo di continuazione per ciascuno di essi, e non nella sanzione edittale minima prevista per la singola fattispecie astratta; a tal fine, ove la sentenza non abbia specificato la pena applicata per ciascun reato, spetta al giudice dell'esecuzione interpretare il giudicato (Cass. S.U., n. 21501/2009), nella stessa linea interpretativa, sebbene su diversa questione, si è affermato che in caso di condanna non definitiva per reato continuato, al fine di valutare l'eventuale perdita di efficacia (art. 300, comma 4, c.p.p.) della custodia cautelare applicata soltanto per il reato-satellite, la pena alla quale occorre fare riferimento è quella inflitta come aumento per tale titolo (Cass. S.U., n. 25956/2009): Cass. VI, n. 43593/2021; Cass. I, n. 6013/2017; Cass. I, 37848/2016; Cass. I, n. 32419/2016. Un esempio servirà a chiarire, il problema e le conseguenze pratiche dal seguire l'una o l'altra tesi. Si ipotizzi il caso di Tizio condannato per i reati di cui agli artt. 73 – 74 d.P.R. n. 309/1990 alla pena di anni dieci di cui anni otto per il reato ex art. 73 (considerato più grave) ed anni due (per il reato di cui all'art. 74 comma 2). Tizio dopo avere scontato la pena di sei anni, chiede, ex art. 47 comma 3 bis Ord. pen., l'affidamento in prova ai servizi sociali. Ove si seguisse la prima tesi, l'istanza dovrebbe essere respinta perché, una volta sciolto il cumulo, la pena minima per il reato di cui all'art. 74, comma 2 d.P.R. cit. non sarebbe di un anno ma di dieci anni (pena minima). Di conseguenza, pur imputandoli ai sei anni già scontati, Tizio non avrebbe ancora scontato tutta la pena per il reato ostativo (art. 74). Al contrario, ove si opti per la seconda tesi, il beneficio può essere concesso proprio perché la pena (per il reato ostativo) che si deve considerare, una volta sciolto il cumulo, non è quella minima prevista dal reato, ma quella in concreto inflitta (e cioè, nell'esempio, anni due) che, imputata a quella scontata di anni sei, consente, appunto a Tizio di richiedere il beneficio essendo la pena residua di anni quattro ossia rientrante nei limiti previsti dall'art. 47 comma 3 bis Ord. Pen. Segue. Il giudizio di revisioneIn ordine all'ammissibilità dell'istituto della continuazione in sede di giudizio di revisione, è costante la giurisprudenza secondo la quale «in tema di revisione, nel caso di sentenza di condanna per una pluralità di reati ricorre l'ipotesi di revisione «parziale» solo ove l'istanza investa in modo esaustivo almeno una delle condanne riportate, tanto cioè da comportare rispetto al relativo capo il proscioglimento; ne consegue che deve escludersi che la revisione «parziale» possa riguardare elementi o circostanze comportanti un'attenuazione del reato per il quale sia stata riportata condanna». Si è, infatti, osservato che è di tutta evidenza che l'eventuale prova dell'insussistenza di uno dei reati in continuazione per i quali è chiesta la revisione «comporterebbe una decisione di proscioglimento parziale, come tale non precluso dai limiti alla revisione imposti dall'art. 631 c.p.p. Quest'ultima disposizione, infatti, non è tale da imporre la necessità di un proscioglimento «totale» del condannato — sulla base delle nuove prove — perché, se così fosse, si creerebbe una ingiustificata disparità di trattamento fra il condannato per un solo reato e il soggetto che con un'unica sentenza riporta condanne per più reati, uniti o meno fra loro dal vincolo della continuazione. Il vincolo della continuazione, peraltro, è una fictio iuris che consente l'attenuazione di pena, ma non è inscindibile, tanto che esso può essere sciolto per consentire l'applicazione di una causa estintiva, come ad esempio la prescrizione o l'amnistia per taluno soltanto di essi»: Cass. VI, n. 40685/2006; Cass. II, n. 52019/2016; Cass. VI, n. 2626/1994; Cass. V, n. 1233/1988. Segue. Reato continuato e patteggiamentoLe modalità con le quali la continuazione si applica al rito dell'applicazione della pena su richiesta delle parti (cd patteggiamento: artt. 444 ss. c.p.p.) si trovano regolamentate negli artt. 137 e 188 disp. att. c.p.p.. L'art. 137 comma 2 disp. att. c.p.p. dispone che «la disciplina del concorso formale e del reato continuato è applicabile anche quando concorrono reati per i quali la pena è applicata su richiesta delle parti e altri reati». La suddetta norma, quindi, prende in considerazione e disciplina l'ipotesi in cui, in sede di cognizione, si debba procedere alla continuazione fra reati «per i quali la pena è applicata su richiesta delle parti e altri reati»: in tale ipotesi, il legislatore ha ritenuto ammissibile la continuazione sicché, l'unico limite relativo alla pena non può che essere quello previsto dallo stesso articolo 81 c.p. ossia il triplo della pena base. L'art. 188 disp. att. c.p.p. dispone, invece che «1. Fermo quanto previsto dall'articolo 137, nel caso di più sentenze di applicazione della pena su richiesta delle parti pronunciate in procedimenti distinti contro la stessa persona, questa e il pubblico ministero possono chiedere al giudice dell'esecuzione l'applicazione della disciplina del concorso formale o del reato continuato, quando concordano sulla entità della sanzione sostitutiva o della pena detentiva, sempre che quest'ultima non superi complessivamente cinque anni, soli o congiunti a pena pecuniaria, ovvero due anni, soli o congiunti a pena pecuniaria, nei casi previsti nel comma 1-bis dell'articolo 444 del codice. Nel caso di disaccordo del pubblico ministero, il giudice, se lo ritiene ingiustificato, accoglie ugualmente la richiesta». La norma, come risulta palese dallo stesso contenuto letterale (“sentenze di applicazione della pena su richiesta delle parti pronunciate in procedimenti distinti”: quindi, due o più sentenze già pronunciate, non da pronunciare) nonché dall'organo deputato a decidere sulla richiesta (giudice dell'esecuzione) indica chiaramente che disciplina la diversa ipotesi in cui ad uno stesso soggetto siano state applicate, con diverse sentenze passate in giudicato, più pene per diversi reati. In tal caso, il P.M. o la stessa persona, può chiedere al giudice dell'esecuzione di riconoscere la continuazione fra i vari reati giudicati nelle diverse sentenze di applicazione della pena exartt. 444 c.p.p. La norma, nel prevedere il limite massimo dei cinque anni ove venga riconosciuta la continuazione, costituisce eccezione a quella prevista dall'art. 671 c.p.p. che, invece, prende in esame la diversa ipotesi di più sentenze irrevocabili pronunciate a seguito di rito ordinario. La norma dell'art. 188 disp. att. cit. si è resa necessaria proprio per evitare disparità di trattamento e, quindi, un trattamento irragionevole, fra imputati che, ammessi al rito speciale di cui all'art. 444 c.p.p., vengano giudicati in un'unica soluzione, ed imputati, invece, che, nella stessa situazione, vengano giudicati, sempre con il rito speciale, diverse volte. Tanto premesso, le ipotesi che possono prospettarsi sono le seguenti: a) vari reati relativamente ai quali l'imputato chiede che siano ritenuti in continuazione e che siano tutti patteggiati; b) vari reati relativamente ai quali l'imputato chiede che siano ritenuti in continuazione ma solo per alcuni è chiesto il patteggiamento; c) continuazione chiesta fra reati giudicandi, per i quali non si chiede il patteggiamento, e reati già patteggiati con sentenza passata in giudicato; d) continuazione chiesta fra reati giudicandi, per i quali si chiede il patteggiamento, e reati già patteggiati con sentenza passata in giudicato; e) continuazione chiesta nella fase dell'esecuzione Ipotesi sub a): è la fattispecie più semplice. Il giudice, una volta che abbia deciso che la continuazione è configurabile, deve solo limitarsi a determinare la pena con le seguenti modalità: «è necessario innanzitutto individuare la violazione più grave, desumibile dalla pena da irrogare per i singoli reati, tenendo conto della eventuale applicazione di circostanze aggravanti o attenuanti, dell'eventuale giudizio di comparazione tra circostanze di segno opposto, e di ogni altro elemento di valutazione; una volta determinata la pena per il reato base, la stessa deve essere poi aumentata per la continuazione ed infine ridotta fino ad un terzo, ai sensi dell'art. 444, comma primo, c.p.p»: Cass. VI, n. 44368/2014; Cass. S.U. n. 10503/1991 (stessa regola si applica per il giudizio i reati in continuazione decisi con il rito abbreviato: Cass. I, n. 21361/2013). Ipotesi sub b) c) d): relativamente alle suddette fattispecie, va, innanzitutto rilevato che è del tutto pacifica la possibilità di ritenere la continuazione fra reati già giudicati con il rito speciale di cui all'art. 444 c.p.p. ed altri reati giudicandi con il rito ordinario. Sul punto, infatti, la giurisprudenza, pacificamente, ammette la possibilità della continuazione: ex plurimis Cass. III, n. 2909/1997 che ha osservato che, «diversamente si introdurrebbe ai danni dell'imputato una limitazione non prevista dagli artt. 444 c.p.p. e seg., privandolo della possibilità di fruire dei benefici derivanti dall'istituto della continuazione, in contrasto con le regole generali e con le finalità deflattive dell'istituto». È sorta, invece, controversia, relativamente ai limiti entro cui dev'essere contenuta la pena e cioè se la pena massima debba o no essere contenuta entro il limite di anni cinque di cui all'art. 444 c.p.p. La questione nasce dall'interpretazione da dare agli artt. 137 e 188 disp. att. c.p.p. Infatti, secondo una prima tesi, l'applicazione della pena su richiesta delle parti per reati in continuazione con altri già giudicati con il rito ordinario richiede che non sia comunque superato il limite dei cinque anni di pena di cui all'art. 444, comma 1, c.p.p. e ciò perché i limiti di cui all'art. 444 c.p.p. non possono essere superati in nessun caso, atteso che la regola dell'art. 137 disp. att. c.p.p., se autorizza il concorso formale e la continuazione anche tra reati patteggiati e reati per i quali non è stato seguito il rito speciale, in nessun modo deroga al limite quinquennale stabilito, per la generalità dei casi, nell'art. 444 c.p.p.: Cass. II, n. 38550/2011; Cass. II, n. 2709/1997. Secondo, invece, un'altra più condivisibile tesi, il limite (pari a cinque anni per la specie detentiva) della sanzione applicabile secondo il disposto dell'art. 188 delle norme att. c.p.p. — che disciplina il riconoscimento del concorso formale o della continuazione con riguardo a fatti considerati in più sentenze di applicazione della pena su richiesta — riguarda il solo cumulo di pene applicate mediante il rito speciale, e non impedisce la determinazione di più gravi sanzioni nel caso che detto cumulo coinvolga anche reati posti ad oggetto di procedimenti definiti con rito ordinario: ex plurimis Cass. I, n. 24705/2008; Cass. I, n. 8508/2013; Cass. I, n. 47076/2018; Cass. I, n. 16456/2021. Ma, è chiaro, che, proprio perché si tratta di più reati che sono stati tutti giudicati con il rito speciale di cui all'art. 444 c.p.p. in più riprese, ove sia riconosciuta la continuazione, a seguito della rideterminazione della pena, deve necessariamente rispettarsi il limite dei cinque anni proprio perché, alla fin fine, si tratta pur sempre di reati giudicati tutti con il rito speciale di cui all'art. 444 c.p.p.: pertanto, ai fini del limite massimo di pena irrogabile (cinque anni), è irrilevante che siano stati giudicati in tempi diversi e con diverse sentenze. In concreto, posto che i reati patteggiati, anche se posti in continuazione, devono sempre essere sottoposti alla diminuzione della pena fino ad un terzo, le modalità di calcolo che il giudice, deve seguire, sono le seguenti: Ove sia ritenuto reato più grave quello da giudicare (quindi, quello non patteggiato), la pena complessiva va determinata sulla base di quella da infliggersi per il reato più grave sottoposto al giudizio in corso e su di essa va apportato l'aumento (non oltre il triplo della pena base, il cui risultato finale può essere anche una pena superiore ad anni cinque) ritenuto equo in riferimento ai reati meno gravi già giudicati, tenendo conto che la pena ritenuta per i soli reati satelliti che erano stati patteggiati, va sempre ridotta per la diminuzione del rito: Cass. I, n. 42738/2001. Ove, invece, reato più grave sia ritenuto quello già giudicato (quindi, quello patteggiato), la pena complessiva va determinata sulla base di quella da infliggersi sulla pena — comprensiva della diminuzione per il rito — stabilita con la suddetta sentenza passata in giudicato, che il giudice della cognizione non può rideterminare, alla quale va apportato l'aumento (non oltre il triplo della pena base il cui risultato finale può essere anche una pena superiore ad anni cinque) ritenuto equo in riferimento ai reati satelliti meno gravi giudicandi (in pratica, va applicato lo stesso metodo descritto supra ): Sul punto è stato ritenuto che «Nel riconoscere la continuazione fra i reati in giudizio e quelli già oggetto di sentenza irrevocabile di applicazione di pena concordata, il giudice della cognizione non può modificare il trattamento sanzionatorio determinato per i reati già giudicati con il patteggiamento, anche laddove il risultato finale dovesse poi coincidere con quello della sentenza ex art. 444 cod. proc. pen.»: Cass. II, n. 6949/2020; Cass. V, n. 521/2017, in applicazione del principio, la S.C. ha annullato, con rinvio, la sentenza di condanna nella quale il giudice del merito, dopo aver assunto a pena base quella relativa al reato ritenuto più grave con la sentenza di patteggiamento divenuta definitiva, aveva modificato "in peius" gli aumenti di pena effettuati dal giudice del patteggiamento per i reati satellite di quel procedimento, procedendo poi agli ulteriori aumenti di pena per i reati al vaglio del decidente. Ove, infine, la continuazione sia ritenuta fra i reati giudicandi (per i quali è stato chiesto il patteggiamento) ed altri reati già patteggiati con sentenza passata in giudicato (indipendentemente dalla circostanza che si ritenga più grave uno dei reati patteggiandi o quello patteggiato), la pena massima non può essere superiore ad anni cinque. Infine, quanto alla ipotesi sub e) (continuazione richiesta in fase esecutiva), si registrano le seguenti decisioni in ordine alle modalità di rideterminazione della pena: Cass. I, n. 1527/2019: «In tema di esecuzione, qualora sia proposta istanza di riconoscimento del concorso formale o della continuazione fra reati giudicati con distinte sentenze di applicazione della pena su richiesta, il giudice non può esercitare i poteri valutativi di cui all’art. 671 c.p.p. ed individuare la pena in misura diversa da quella negoziata dall’interessato e dal pubblico ministero, essendo tenuto all’osservanza della speciale disciplina dettata dall’art. 188 disp. att. c.p.p., che consente un intervento modificativo sul giudicato, formatosi a seguito di un negozio processuale tra le parti, esclusivamente per effetto di una successiva loro pattuizione, salvo soltanto il caso di dissenso ingiustificato dell’ufficio requirente»; Cass. I, n. 24231/2022; Cass. I, n. 24195/2022; contra: Cass. V, n. 28532/2012. «In tema di continuazione in sede esecutiva tra un reato giudicato con rito ordinario ed un reato oggetto di sentenza di patteggiamento, il giudice, nel determinare la pena unica, deve applicare la riduzione concessa ex art. 444 c.p.p., cosicché, ove valuti come reato più grave quello giudicato con il rito speciale, dovrà porre a base del calcolo la relativa pena ridotta; ove, invece, ritenga tale reato come satellite, dovrà commisurare l’aumento alla pena determinata in sede di cognizione, comprensiva della riduzione per il rito. Analogo criterio deve essere applicato anche nel caso in cui i reati satellite oggetto della sentenza di patteggiamento risultino, a loro volta, già unificati sotto il vincolo della continuazione: in tal caso, l’aumento per il reato che in fase di cognizione era stato considerato più grave va commisurato, non alla pena stabilita come originaria base di calcolo, ma a quella ridotta nella misura percentualmente corrispondente alla riduzione a suo tempo apportata per il rito)»: Cass. I, n. 21808/2020; Cass. I, n. 30119/2021; Cass. I, n. 15602/2022; Cass. I, n. 5603/2022; contra: Cass. I, n. 12136/2019; Cass. V, n. 6789/2020. Infine, in ordine alla sorte della sentenza di patteggiamento nel caso in cui, a seguito dell’impugnazione, nelle more della decisione, uno dei reati satelliti venga meno ad es. perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato, o perché l’azione penale non avrebbe potuto essere iniziata per mancanza di querela ecc., la giurisprudenza maggioritaria ed in via di consolidamento ritiene che « In tema di patteggiamento per una pluralità di reati, qualora nel corso del giudizio alcuni vengano meno per una qualsiasi causa e siano avvinti dal vincolo della continuazione con il reato più grave, la dichiarazione di estinzione di uno di essi non determina la caducazione dell’intero accordo, ma soltanto l’eliminazione della pena stabilita per il cosiddetto reato satellite nella misura determinata dall’accordo medesimo o ricavabile dall’interpretazione della volontà delle parti. Fa eccezione il caso in cui risulti in maniera inequivocabile la volontà delle parti di attribuire rilevanza esclusiva alla sola pena finale. Ove sia indicata una pena cumulativa per tutti i reati unificati per la continuazione e si tratta di violazioni relative alla tutela di differenti interessi, si deve disporre soltanto l’annullamento con rinvio della sentenza per procedere esclusivamente alla determinazione delle singole pene per ogni reato, ferma restando quella pattuita per quello più grave. L’annullamento senza rinvio discende, invece, dal proscioglimento per qualsiasi causa dal reato più grave, giacché non è più possibile ricostruire la volontà delle parti»: Cass. III, n. 4713/1997; Cass. III, n. 2011/2015; Cass. III n. 40320/2016; Cass. III, n. 39521/2017; Cass. I, n. 23171/2018; Cass. V, n. 52070/2019; Cass. III, n. 8528/2020; Cass. I, n. 3840/2022; contra: Cass. I, n. 5394/1994; Cass. II, n. 35942/2012; Cass. V, 7453/2014; Cass. V, n. 20120/2016; Cass. V, n. 24677/2018; Cass. III, n. 23150/2019 (per un’ipotesi peculiare non del tutto assimilabile a quella in esame).
Segue. Reato continuato e rito abbreviatoL'applicazione della disciplina della continuazione in sede di esecuzione (art. 671 c.p.p.) ha carattere sussidiario e suppletivo ed è subordinata alla circostanza che non sia stata esclusa dal giudice della cognizione. Ove questi sia ritualmente investito della richiesta, pertanto, non può declinarla, rimettendo la decisione al giudice dell'esecuzione. Né è ostativo alla verifica delle condizioni per l'applicazione dell'art. 81 cpv. c.p. il fatto che una delle sentenze relative ai reati suscettibili di unificazione in virtù della continuazione sia stata emessa a conclusione di un giudizio abbreviato: Cass. V, n. 11310/1992. In caso di applicazione da parte del giudice dell'esecuzione della disciplina del reato continuato tra più reati, alcuni dei quali oggetto di condanna all'esito di giudizio abbreviato, la riduzione di pena spettante per questi ultimi deve essere riconosciuta anche quando risulti violazione più grave quella di cui ai reati giudicati con il rito ordinario: Cass. III, n. 9038/2013. Cass. I, n. 13756/2020, « In sede esecutiva, ai fini della determinazione del trattamento sanzionatorio conseguente al riconoscimento della continuazione tra reati giudicati separatamente con rito abbreviato e sanzionati, per effetto della diminuente ex art. 442, comma 2, terzo periodo, c.p.p. - nel testo vigente sino all'aprile 2019 - con la pena di anni trenta di reclusione in sostituzione dell'ergastolo, la diminuente per il rito può essere calcolata sulla pena complessiva solo se la specie di pena resta immutata rispetto a quella applicata in sede di cognizione, mentre tale sistema di calcolo non è applicabile se comporta la sostituzione della reclusione con l'ergastolo, trovando applicazione in tal caso la regola generale sul limite dell'aumento della pena principale di cui all'art. 78 cod. pen. e non quella speciale di cui all'art. 73, secondo comma» . Contrasto si registra in ordine alle modalità della riduzione della pena da applicare (sia in fase di cognizione che di esecuzione) in caso di continuazione tra reati giudicati con rito ordinario e reati giudicati con rito abbreviato. Più esattamente, il contrasto è insorto solo nell'ipotesi in cui il reato giudicato con rito abbreviato sia ritenuto più grave e, quindi, posto come pena base. Al contrario, non vi è contrasto nell'ipotesi in cui sia ritenuto più grave il reato giudicato con il rito ordinario in quanto «riconosciuta la continuazione tra più reati, alcuni dei quali oggetto di condanna all'esito di giudizio abbreviato, e altri di condanna all'esito di giudizio ordinario, la riduzione ex art. 442 c.p.p. va applicata, ove reati più gravi risultino quelli giudicati col rito ordinario, sull'aumento di pena per i reati satellite giudicati con il rito abbreviato»: Cass. III, n. 9038/2013; Cass. I, n. 12591/2015; Cass. S.U. n. 35852/2018. Secondo una prima tesi «In sede di esecuzione, riconosciuta la continuazione tra più reati oggetto, alcuni, di condanna all'esito di giudizio abbreviato e, altri, di condanna all'esito di giudizio ordinario, la riduzione ex art. 442 c.p.p. va applicata, — qualora il reato più grave sia stato giudicato con il rito speciale — sulla pena finale determinata dopo l'aumento disposto per i reati satellite, anche se definiti con il rito ordinario; qualora invece il giudice procedente individui, quale reato più grave, quello giudicato con rito ordinario, la riduzione di pena dovrà essere disposta per i soli reati satellite giudicati con rito abbreviato»:Cass. V., n. 20113/2016; Cass. V, n. 12592/2017; Cass. III, n. 37848/2015. Secondo, invece, altra tesi : «L'applicazione in sede esecutiva della continuazione tra reati giudicati con il rito ordinario e altri con il rito abbreviato, comporta che soltanto a questi ultimi — siano essi reati satellite o violazione più grave — deve essere applicata la riduzione di un terzo della pena, a norma dell'art. 442, comma secondo, c.p.p.»: Cass. I, n. 3764/2016. Un esempio servirà a chiarire le conseguenze pratica dall'accogliere l'una o l'altra tesi. Si ipotizzi la seguente fattispecie: Tizio, a seguito di rito abbreviato, viene giudicato colpevole del reato A (per il quale il giudice ritiene di infliggere la pena di anni due al netto della diminuente). In sede di giudizio è chiesta la continuazione con i reati b (per il quale, l'imputato è stato condannato, a seguito di rito abbreviato, alla pena di anni uno), c (per il quale ha riportato una condanna, a seguito di rito ordinario, a mesi sei), d (per il quale ha riportato una condanna, a seguito di rito ordinario, ad anni due). Il giudice (della cognizione o dell'esecuzione) accerta la continuazione e ritiene reato più grave quello sub A. Ove si accolga la prima delle tesi esposte, il calcolo dovrà essere effettuato secondo le seguenti modalità: Pena base: reato a) = anni due — 1/3 per il rito abbreviato = anni uno e mesi quattro + art 81 c.p. reato b) = mesi sei (a titolo di continuazione invece della pena di anni uno) — 1/3 per il rito = mesi quattro + reato c) = mesi tre (ex art. 81 c.p.) + reato sub d) = mesi sei (ex art. 81 c.p.): pena complessiva = anni due e mesi cinque. Ove si opti per la seconda delle tesi illustrate, il calcolo dovrà essere effettuato secondo le seguenti modalità: Pena base: reato a) = anni due + art 81 c.p. per il reato b) = mesi sei + reato c) = mesi tre + reato d) = mesi sei: pena complessiva = anni tre e mesi tre — 1/3 per la diminuente del rito = anni due, mesi uno. Ove, invece, fosse ritenuto più grave il reato D) giudicato con rito ordinario, è pacifico che il calcolo dev'essere effettuato secondo le seguenti modalità: Pena base: reato D = anni due + aumento ex art. 81 c.p. per il reato A = anni uno — 1/3 per il rito = mesi otto + reato B = mesi sei — 1/3 per il rito = mesi quattro + reato c) = mesi tre (exart. 81 c.p.): pena complessiva = anni tre e mesi tre. Sulla suddetta questione controversa, si sono ora pronunciate le Cass. S.U., n. 35852/2018 che hanno deciso nei termini di seguito indicati. Quesito : “Se nella continuazione tra reati giudicati con rito ordinario ed altri con rito abbreviato la riduzione di un terzo della pena, a norma dell'art. 442 c.p.p., comma 2, debba essere applicata solo sui reati giudicati con rito abbreviato (Cass. V, n. 47073/2014; Cass. VI, n. 33856/2008; Cass. VI, n. 58089/2017) ovvero anche ai reati giudicati con rito ordinario (Cass. V., n. 12592/2017; Cass. III, n. 37848/2015; Cass. V, n. 20113/2016). Soluzione : “L'applicazione della continuazione tra reati giudicati con rito ordinario ed altri giudicati con rito abbreviato comporta che soltanto nei confronti di questi ultimi deve operare la riduzione di un terzo della pena a norma dell'art. 442 c.p.p., comma 2”. Ratio decidendi: le S.U. hanno, innanzitutto, osservato che la diminuente di cui all'art. 442/2 c.p.p. ha natura processuale, come ritenuto dalla Corte costituzionale con le sentenze n. 277 e 284 del 1990 e ribadito da Cass. S.U., n. 7707/1991 che, in particolare, avevano escluso che la diminuente «per la sua sostanziale e funzionale diversità rispetto alle circostanze del reato, fosse a queste assimilabile e potesse, quindi, essere considerata ai fini della determinazione della pena rilevante per l'individuazione del tempo necessario alla prescrizione del reato, ai sensi dell'art. 157 c.p., comma 2, nel testo allora vigente [….]». Infine, le S.U., hanno confutato l'argomento che i sostenitori della tesi contraria desumevano dall'art. 442 c.p.p., comma 2, e art. 533 c.p.p., comma 2 adducendo la seguente testuale motivazione: «Non vi è dubbio che nel rito abbreviato il giudice opera la riduzione della pena ai sensi dell'art. 442 c.p.p., comma 2, dopo aver tenuto conto “di tutte le circostanze”, in detta espressione dovendosi ritenere compresi anche l'eventuale riconoscimento e la conseguente applicazione della continuazione tra i reati contestati, nonostante l'art. 442, comma 2, c.p.p non ne faccia menzione: infatti la norma opera un implicito, ma integrale, richiamo al disposto dell'art. 533 c.p.p., comma 2, come è stato affermato espressamente (Cass. I, n. 3101/1993 del 29 gennaio 1993), ma è ritenuto implicitamente in numerose sentenze (ad esempio, Cass. V, n. 18368/2003). Tuttavia, la riduzione della pena è operata per tali reati perchè sono stati tutti giudicati nell'ambito di un unico processo celebrato con il rito alternativo; se, invece, la continuazione è riconosciuta con riferimento a reati separatamente giudicati con rito ordinario, la riduzione ai sensi dell'art. 442 c.p.p., comma 2, non trova più alcuna giustificazione. In altre parole, l'ordine che il giudice deve seguire nelle operazioni di calcolo della pena, nel quale la diminuente del rito è successiva a tutte le altre, è funzionale ad un processo in cui sono stati giudicati tutti i reati riuniti per continuazione al fine di determinare una pena complessiva; non lo è più se alcuni reati sono stati giudicati in separati processi celebrati con rito ordinario». Nell'ipotesi di continuazione tra reati giudicati con rito abbreviato e con patteggiamento, è stato affermato il seguente principio di diritto «ai fini del riconoscimento della continuazione in fase esecutiva tra un reato giudicato con rito abbreviato ed altro con patteggiamento, l'individuazione del reato più grave deve essere effettuata confrontando la pena effettivamente irrogata dal giudice all'esito del giudizio abbreviato, tenendo, quindi, conto anche della riduzione per il rito, e la pena determinata in sede di patteggiamento, senza, invece, prendere in considerazione la concordata riduzione di pena, in quanto la richiesta di continuazione comporta la caducazione del pregresso accordo ex art. 444 c.p.p., con il solo limite, previsto dagli artt. 81 e 671, comma 2, di non applicare per il reato-satellite una frazione di pena superiore a quella irrogata dal giudice della cognizione»: Cass. V, n. 6789/2020 che, in applicazione del suddetto principio, ha annullato la decisione del giudice dell'esecuzione che, al fine di individuare la pena più grave in concreto inflitta, aveva confrontato le pene risultanti dalla riduzione per il rito abbreviato e quella concordata dalle parti nel patteggiamento. E' sorto contrasto sull'entità della diminuente, ex art. 442/2 cod. proc. pen., da applicare nel giudizio abbreviato in caso di continuazione tra delitti (per i quali è prevista una diminuente di un terzo) e contravvenzioni (per le quali è, invece, prevista una diminuente della metà). Secondo una prima tesi, la pena che il giudice determina tenendo conto di tutte le circostanze è diminuita della metà, anziché di un terzo come previsto dalla previgente disciplina, costituisce norma penale di favore ed impone che, in caso di continuazione tra delitti e contravvenzioni, la riduzione per il rito vada effettuata distintamente sugli aumenti di pena disposti per le contravvenzioni, nella misura della metà, e su quelli disposti per i delitti (oltre che sulla pena base), nella misura di un terzo: Cass. II, n. 14068/2019, Cass. I, n. 39087/2019. Secondo altra tesi, invece, «laddove sia riconosciuta la continuazione tra delitti e contravvenzioni e la pena per il reato continuato sia stata correttamente parametrata su quella prevista per il delitto, la riduzione per il rito abbreviato di cui all'art. 442 c.p.p., comma 2 deve essere operata nella misura unitaria di un terzo prevista per i delitti […..]Un'applicazione differenziata della riduzione della pena in caso di delitti e contravvenzioni unificati dal vincolo della continuazione tradirebbe infatti la natura unitaria, almeno quoad poenam, del reato continuato, per cui, una volta definita dal giudice la misura del trattamento sanzionatorio, tenendo conto dei criteri di individuazione della violazione più grave e dell'eventuale giudizio di comparazione delle circostanze, dovrà essere operata una sola riduzione per il rito abbreviato sulla pena unitaria scaturita dal computo, avendo riguardo alla natura della violazione su cui è stata parametrata l'entità della pena. Una volta unificate alla pena prevista per il più grave delitto, le pene per i reati satellite aventi natura contravvenzionale perdono infatti la loro autonomia, dovendo pertanto gli interventi successivi sulla pena essere operati non sui singoli aumenti, sulla pena unitaria scaturita dai criteri di computo che il giudice ha già applicato ai sensi dell'art. 533 c.p.p., comma 2, norma che continua pacificamente ad applicarsi anche nell'ambito del rito abbreviato»: Cass. IV, n. 41755/2021. Il contrasto è stato risolto da un recente intervento delle Sezioni Unite penali le quali hanno aderito all'orientamento maggioritario e secondo cui in caso di continuazione fra delitti e contravvenzioni giudicate con rito abbreviato il vincolo va scisso in sede di determinazione della pena e le sanzioni vanno ridotte nella misura di un terzo per i delitti e della metà per le contravvenzioni (Cass. S.U. n. 27059/2025 ). Con la stessa pronuncia si è affermato che l'eventuale violazione di tale regola comporta l'irrogazione di una pena illegittima e non illegale. Va ancora ricordato che le Sezioni Unite penali della Corte di cassazione, chiamate a stabilire «se il riconoscimento della continuazione, ai sensi dell'art. 671 c.p.p., tra reati giudicati separatamente con rito abbreviato, fra cui sia compreso un delitto punito con la pena dell'ergastolo per il quale il giudice della cognizione abbia applicato la pena di anni trenta di reclusione per effetto della diminuente di un terzo ex art. 442, comma 2, terzo periodo, c.p.p. (nel testo vigente fino al 19 aprile 2019), comporti che, in sede esecutiva, per “pena più grave inflitta”, che identifica la “violazione più grave” ai sensi dell'art. 187 disp. att. c.p.p., debba intendersi quella risultante dalla riduzione per il rito speciale ovvero quella antecedente alla suddetta riduzione», hanno stabilito che «ai sensi dell'art. 187 disp. att. c.p.p., il giudice dell'esecuzione deve considerare come “pena più grave inflitta”, che identifica la “violazione più grave”, quella conseguente alla riduzione per il giudizio abbreviato» (Cass. S.U. n. 7029/2023, dep. 2024). Inoltre si affermava che “ai sensi dell'art. 187 disp. att. cod. proc. pen., il giudice dell'esecuzione deve considerare come "pena più grave inflitta", che identifica la "violazione più grave", quella concretamente irrogata dal giudice della cognizione siccome indicata nel dispositivo di sentenza”. Il contrasto vedeva contrapposti due diversi orientamenti; secondo una prima soluzione per «pena più grave inflitta», che identifica la «violazione più grave» ai sensi dell'art. 187 disp. att.c.p.p., deve intendersi quella antecedente alla riduzione per il rito abbreviato (vengono annoverate tra le pronunce adesive a tale filone: Cass. S.U., n. 45583/2007; Cass. I, n. 37168/2019; Cass. I, n.31041/2018, Cass. V, n. 43044/2015; Cass. I, n. 20007/2010; Cass. I, n. 26758/2009, ed altre). Nelle predette decisioni si afferma che il riconoscimento in sede esecutiva della continuazione tra i reati oggetto di condanne emesse all'esito di distinti giudizi abbreviati comporta, previa individuazione del reato più grave, la determinazione della pena base nella sua entità precedente all'applicazione della diminuente per il rito abbreviato, l'applicazione dell'aumento per continuazione su detta pena base e infine il computo sull'intero in tal modo ottenuto della diminuente per il rito abbreviato» (tra tutte, Cass. I, n. 20007/2010). L'argomento valorizzato a sostegno dell'orientamento in esame rimanda, essenzialmente, alla considerazione della natura prettamente processuale della diminuente di cui all'art. 442, comma 2, c.p.p., da cui scaturisce la riduzione di pena; consistendo, quest'ultima, in un'operazione puramente aritmetica conseguente alla scelta del rito da parte dell'imputato, essa, «logicamente e temporalmente, dev'essere eseguita dopo la determinazione della pena, effettuata secondo i criteri e nel rispetto delle norme sostanziali». Se si aderisse a tale interpretazione dell'art. 187 disp. att. c.p.p. si perverrebbe a risolvere il caso della continuazione in sede esecutiva tra più condanne una delle quali inflitta per reati puniti con l'ergastolo determinando quale pena base per il reato di omicidio aggravato, quella dell'ergastolo, pena che, peraltro, coinciderebbe anche con quella finale, costituendo la sanzione conclusiva il risultato degli aumenti in continuazione, superiori ai cinque anni di reclusione, apportati ai sensi dell'art. 72, secondo comma, c.p. (ergastolo con isolamento diurno) e della riduzione per il rito abbreviato (ergastolo). Il secondo filone ermeneutico propone una diversa lettura della disposizione di attuazione di cui all'art. 187 cit.. Tale lettura (Cass. I, n. 48204/2008) stabilisce invece che «ai fini dell'individuazione della violazione più grave nel reato continuato in sede esecutiva, il giudice deve tenere conto della sanzione più severa concretamente inflitta (previa riduzione di un terzo nel caso di condanna pronunciata con rito abbreviato); a tale conclusione la seconda soluzione è pervenuta — come le altre riconducibili allo stesso orientamento — valorizzando il tenore letterale della disposizione di attuazione, «dove il participio "inflitta" rimanda alla pena da espiare in concreto e, quindi, alla pena al netto della riduzione per il rito». Facendo applicazione del principio enunciato dalle pronunzie aderenti al secondo orientamento, andrebbe individuata come pena base quella di anni trenta di reclusione, risultante dalla riduzione per il rito apportata alla pena dell'ergastolo, inflitta per la violazione più grave, sulla quale gli aumenti per la continuazione, in quanto inferiori alla pena di anni ventiquattro di reclusione, non potrebbero mai condurre a una pena conclusiva superiore agli anni trenta, in forza dell'applicazione del criterio moderatore previsto dall'art. 78 c. p.. Orbene così esposti i diversi orientamenti Le Sezioni Unite ritengono di aderire al secondo sulla base delle seguenti considerazioni di tipo letterale e logico-sistematico. Soccorre, in primo luogo, il criterio d'interpretazione letterale di cui all'art. 12 delle preleggi, secondo il quale «Nell'applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse»: il significato dell'espressione legislativa va, cioè, determinato in base al suo valore semantico secondo l'uso linguistico generale (Cass. civ. S.U., n. 23051/2022, A. contro S.; Cass. civ. S.U., n. 20181/2019, C. contro C; Cass. civ. S.U., n. 4000/1982). In applicazione di tale criterio, l'uso del participio passato «inflitta», contenuto nell'art. 187 disp. att. c. p. p., con riferimento alla «pena più grave», identificante, a sua volta, la «violazione più grave», inequivocamente rimanda alla pena in concreto irrogata dal giudice della cognizione siccome indicata nel dispositivo di sentenza e, in caso di pena inflitta in sede di giudizio abbreviato, a quella risultante dalla riduzione di un terzo per il rito. Tale soluzione si rivela pienamente coerente con la natura "derogatoria" della disposizione di attuazione rispetto alla norma generale di cui all'art. 81 c. p. posto che «l'art. 187 disp. att. c. p. p. è [...] espressamente e logicamente limitato alla fase dell'esecuzione, in cui si può solo prendere atto della valutazione effettuata dal giudice della cognizione, sicché, per esaminare sentenze o decreti irrevocabili ai fini del concorso formale o della continuazione, ci si deve necessariamente riferire alle pene più gravi che siano state concretamente inflitte»; la pronuncia ha rilevato come la previsione dell'art. 187 disp. att. c. p. p. sia ispirata all'esigenza di «adattamento» dell'istituto della continuazione «alle caratteristiche proprie dell'esecuzione». Ha, inoltre, argomentato che «mentre nel processo di cognizione l'individuazione della violazione più grave è affidata alla valutazione discrezionale, per quanto vincolata, del giudice, nella fase esecutiva essa, pur a fronte alla cedevolezza, pro reo, del giudicato, non può che incontrare il limite della pena più grave già inflitta. Nell'uno come nell'altro caso, quindi, la pena-base è sempre quella per la violazione più grave, rispettivamente da determinare o già determinata». In sostanza, si tratta di diversità di disciplina che tiene opportunamente conto di come, nel primo caso, si parli di una mera ipotesi di pena applicabile, mentre, nel secondo, di pene già concretamente applicate. La conclusione cui si perveniva si basava sulla ormai condivisa prospettiva secondo la quale è innegabile la natura sostanziale delle ricadute sul trattamento sanzionatorio derivanti dall'accesso al rito abbreviato, dal che consegue, necessariamente, la loro sottoposizione alla disciplina prevista dagli artt. 2 c. p. e 25 Cost. Di contro, deve considerarsi, per quanto detto, non corretta, sul piano giuridico, la tesi che propugna la natura esclusivamente processuale della diminuente di cui all'art. 442, comma 2, c. p. p.. In applicazione degli enunciati principi di diritto si stabiliva che aveva errato il giudice dell'esecuzione, il quale riconosciuta la continuazione tra i fatti giudicati con diverse sentenze definite con rito abbreviato, anziché individuare la "pena più grave" inflitta in quella di anni trenta di reclusione, ossia al netto della riduzione per il rito, considerava come pena base quella dell'ergastolo, ossia al lordo della riduzione per il rito, in base al primo orientamento giurisprudenziale che si giudicava errato. Di conseguenza, calcolava gli aumenti di pena, da apportare sulla pena dell'ergastolo per i reati satellite, quantificandoli in misura superiore a cinque anni ed in ossequio al disposto dell'art. 72, secondo comma, c. p., regolante il caso di concorso di un delitto che importa la pena dell'ergastolo con uno o più delitti che importano pene detentive temporanee per un tempo complessivo superiore a cinque anni, aveva, quindi, applicato la pena dell'ergastolo con isolamento diurno (da 2 a 18 mesi), sostituita ai sensi dell'art. 442, comma 2, c. p. p., con la pena dell'ergastolo. Secondo la corretta lettura dell'art. 187 disp. att. c. p. p., che si affermava, invece, il giudice dell'esecuzione avrebbe, viceversa, dovuto individuare la "pena più grave" inflitta in quella di anni trenta di reclusione, ossia al netto della riduzione per il rito, e su questa apportare gli aumenti per i reati satellite; applicato il criterio moderatore previsto dall'art. 78, primo comma, n. 1), c. p., avrebbe dovuto rideterminare la pena definitiva in anni trenta di reclusione. Segue. Reato continuato e decreto penale di condannaLa questione che, a tal proposito si pone consiste nello stabilire se il giudice delle indagini preliminari — a fronte di una richiesta del P.M. di emissione di plurimi decreti penali a carico della stesso imputato per fatti che, in astratto, potrebbero essere riuniti sotto il vincolo della continuazione — possa rigettare la suddetta richiesta. La giurisprudenza di legittimità, sul punto, superando l’opinione che riteneva ammissibile il sindacato da parte del giudice (Cass. V, n. 2849/1993; Cass. V, n. 3440/1993), da ultimo si è attesta nel ritenere che «La scelta di procedere separatamente o cumulativamente con riferimento a due notizie di reato che hanno autonoma configurazione rientra nell’ambito delle opzioni riservate al pubblico ministero nel momento dell’esercizio dell’azione penale, potendo il giudice operare la riunione alle condizioni e nei termini di cui agli artt. 12 e 17 c.p.p. solo in un secondo tempo, quando più procedimenti dovessero contemporaneamente pendere, a seguito di opposizione, davanti al suo ufficio»: Cass. III, n. 44296/2013. È pertanto configurabile l'abnormità del provvedimento con il quale il giudice rigetta la richiesta di decreto penale ritenendo configurabile la continuazione tra il fatto dedotto nell'imputazione e quello per il quale l'azione penale è stata esercitata, nelle medesime forme e nei confronti dello stesso imputato, in altro procedimento. »: Cass. III, n. 44296/2013; Cass. V, n. 27967/2021; Cass. V, n. 28652/2021.
Segue. Riparazione per l'ingiusta detenzioneIn ordine ai rapporti fra reato continuato e riparazione per l'ingiusta detenzione, si è posto il problema della decorrenza del termine per proporre l'istanza relativamente ad uno (o più) dei reati posti in continuazione e per i quali vi è stata sentenza di assoluzione passata in giudicato. Sul punto si è ritenuto che, stante l'autonomia dei singoli reati, per i reati in ordine ai quali vi è stata assoluzione, il termine biennale per la presentazione della domanda — nell'ipotesi di una pluralità di reati, in relazione ai quali sono state emesse plurime ordinanze applicative di misure coercitive detentive, e che hanno successivamente costituito oggetto di diversi procedimenti, poi riuniti sotto il vincolo della continuazione e decisi con unica sentenza di primo grado, in parte di assoluzione (passata in giudicato), in parte di condanna (oggetto di impugnazione) — inizia a decorrere, per i reati in ordine ai quali vi è stata assoluzione, dal passaggio in giudicato della pronunzia assolutoria, a nulla rilevando la prosecuzione in appello per il reato oggetto di condanna». Infatti «il vincolo della continuazione è solo una fictio iuris a favore dell'imputato che ha funzione determinante unicamente quoad poename non elimina quindi l’autonomia a tutti gli effetti, sostanziali e processuali, dei singoli reati ritenuti in continuazione»: Cass. IV, n. 31319/2011; Cass. IV, n. 22627/2017; Cass. IV, n. 31432/2021. Segue. Reato continuato e mandato di arresto europeoSul punto, è consolidato il principio secondo il quale l'applicabilità della disciplina del mandato di arresto europeo anche alle richieste relative a reati commessi prima del 7 agosto 2002, quando gli stessi risultino unificati con altri posti in essere in epoca successiva, secondo un modello che ne comporti una valutazione unitaria analoga a quella propria della continuazione di cui all'art. 81, impone alla Corte di Appello che, in presenza di tale situazione, rifiuta la consegna per il motivo previsto dall'art. 18, lett. r), l. n. 69/2005, di disporre l'esecuzione in Italia dell'intera pena inflitta, ivi compresa quella relativa agli illeciti consumati anteriormente alla predetta data (Cass. VI, n. 21322/2014; Cass. VI, n. 52236/2017). In particolare, si è affermato che è possibile utilizzare la procedura mae anche per fatti/reato antecedenti il 7 agosto 2002 solo quando questi risultino collegati, anche ai fini di un unitario trattamento sanzionatorio, con fatti/reato successivi a tale data; tale collegamento (che deve caratterizzarsi per un'«unificazione secondo un modello che comporta una valutazione unitaria di essi analoga a quella propria della continuazione») deve risultare già dal titolo straniero azionato con la richiesta di consegna, ovvero deve essere delibato ed affermato dalla stessa corte d'appello che, in caso positivo, deve altresì applicare in concreto la pena risultante dalla previa riunione in continuazione tra i diversi reati. Debbono pertanto essere enunciati i seguenti principi di diritto, ai sensi dell'art. 173 disp. att. c.p.p.: — solo il collegamento accertato tra i reati oggetto dei distinti titoli/sentenze, secondo un modello che comporta una valutazione unitaria di essi analoga a quella propria della continuazione, legittima la procedura mae anche per i reati commessi prima del 7 agosto 2002, se la richiesta di consegna riguarda pure reati successivi a tale data, non essendo invece sufficiente la mera materiale compresenza di diversi titoli esecutivi nella richiesta di consegna formalmente unica; nel caso di applicazione dell'art. 18 lett. r), l. n. 69/2005 quando tale positiva valutazione unitaria, anche nel trattamento sanzionatorio, non risulti già dal titolo esecutivo estero azionato con la richiesta di consegna, compete alla corte d'appello verificare se sussista la continuazione tra i vari reati ed eventualmente dichiararla, rideterminando in coerenza la pena, ai fini della sua esecuzione in Italia, secondo le norme interne (Cass. fer., n. 32116/2011; Cass. VI, n. 42063/2017). Ciò significa quindi, che la Corte di appello deve valutare la configurabilità della continuazione tra i reati oggetto delle diverse sentenze — eventualmente acquisendo dall'autorità giudiziaria polacca informazioni e documenti ritenuti necessari ove ritenga di non poter decidere allo stato degli atti. Nel caso di deliberazione positiva, deve rideterminare la pena da espiare, in applicazione dell'art. 81; nel caso contrario, deve rifiutare la consegna — senza contestualmente disporre l'esecuzione della pena in Italia — per i reati commessi prima del 7 agosto 2002 che non risultassero «collegati» a quelli commessi successivamente, perché l'autorità polacca attivi separata procedura estradizionale. 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