Codice Penale art. 168 bis - Sospensione del procedimento con messa alla prova dell'imputato 1 2 3 .[I]. Nei procedimenti per reati puniti con la sola pena edittale pecuniaria o con la pena edittale detentiva non superiore nel massimo a quattro anni, sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria, nonché per i delitti indicati dal comma 2 dell'articolo 550 del codice di procedura penale, l'imputato , anche su proposta del pubblico ministero, può chiedere la sospensione del processo con messa alla prova4.5 [II]. La messa alla prova comporta la prestazione di condotte volte all'eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato, nonché, ove possibile, il risarcimento del danno dallo stesso cagionato. Comporta altresì l'affidamento dell'imputato al servizio sociale, per lo svolgimento di un programma che può implicare, tra l'altro, attività di volontariato di rilievo sociale, ovvero l'osservanza di prescrizioni relative ai rapporti con il servizio sociale o con una struttura sanitaria, alla dimora, alla libertà di movimento, al divieto di frequentare determinati locali. [III]. La concessione della messa alla prova è inoltre subordinata alla prestazione di lavoro di pubblica utilità. Il lavoro di pubblica utilità consiste in una prestazione non retribuita, affidata tenendo conto anche delle specifiche professionalità ed attitudini lavorative dell'imputato, di durata non inferiore a dieci giorni, anche non continuativi, in favore della collettività, da svolgere presso lo Stato, le regioni, le province, i comuni, le aziende sanitarie o presso enti o organizzazioni, anche internazionali, che operano in Italia, di assistenza sociale, sanitaria e di volontariato. La prestazione è svolta con modalità che non pregiudichino le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute dell'imputato e la sua durata giornaliera non può superare le otto ore. [IV]. La sospensione del procedimento con messa alla prova dell'imputato non può essere concessa più di una volta6. [V]. La sospensione del procedimento con messa alla prova non si applica nei casi previsti dagli articoli 102, 103, 104, 105 e 108.
[1] Articolo inserito dall'art. 3 l. 28 aprile 2014, n. 67. [2] V. d.m. 8 giugno 2015, n. 88, per il regolamento recante la disciplina delle convenzioni in materia di lavoro di pubblica utilità ai fini della messa alla prova dell'imputato. V. inoltre art. 3, comma 1, lett. i-bis), d.P.R. 14 novembre 2002, n. 313, con riferimento all'iscrizione nel casellario giudiziale dell'ordinanza che dispone la sospensione del procedimento con messa alla prova. [3] V. C. cost. 21 luglio 2016, n. 201, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 460, comma 1, lett. e),c.p.p., nella parte in cui non prevede che il decreto penale di condanna contenga l'avviso della facoltà dell'imputato di chiedere mediante l'opposizione la sospensione del procedimento con messa alla prova. V. ancheC. cost. 5 luglio 2018, n. 141, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 517 c.p.p., per contrasto con gli artt. 3, 24, comma 2, Cost., « nella parte in cui, in seguito alla nuova contestazione di una circostanza aggravante, non prevede la facoltà dell'imputato di richiedere al giudice del dibattimento la sospensione del procedimento con messa alla prova »; C. cost. 11 febbraio 2020, n. 14, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 516 c.p.p., per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., « nella parte in cui, in seguito alla modifica dell'originaria imputazione, non prevede la facoltà dell'imputato di richiedere al giudice del dibattimento la sospensione del procedimento con messa alla prova »; C. cost. 14 febbraio 2020, n. 19, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 456, comma 2, c.p.p., per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., « nella parte in cui non prevede che il decreto che dispone il giudizio immediato contenga l'avviso della facoltà dell'imputato di chiedere la sospensione del procedimento con messa alla prova ». [4] Comma modificato dall'art. 1, comma 1, lett. m), d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, che ha inserito le parole «, anche su proposta del pubblico ministero,» dopo la parola «l'imputato». Per l'entrata in vigore delle modifiche disposte dal citato d.lgs. n. 150/2022, vedi art. 99-bis, come aggiunto dall'art. 6, comma 1, d.l. 31 ottobre 2022, n. 162, conv., con modif., in l. 30 dicembre 2022, n. 199. [5] La Corte costituzionale, con sentenza 1° luglio 2025, n. 90, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del presente comma nella parte in cui non consente la sospensione del procedimento con messa alla prova per il reato previsto dall’art. 73, comma 5, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309. [6] La Corte costituzionale, con sentenza 12 luglio 2022, n. 174, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del presente comma, nella parte in cui non prevede che l’imputato possa essere ammesso alla sospensione del procedimento con messa alla prova nell’ipotesi in cui si proceda per reati connessi, ai sensi dell’art. 12, comma 1, lettera b), del codice di procedura penale, con altri reati per i quali tale beneficio sia già stato concesso. InquadramentoNel Titolo VI del Libro Primo del Codice è contenuta la disciplina normativa delle cause di estinzione del reato e della pena; al Capo I, tra le cause estintive del reato, si trova la sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato. Trattasi di un istituto di redente creazione, introdotto nell’ordinamento dalla l. n. 67/2014, pubblicata sulla G.U. 2 maggio 2014, n. 100, ed entrata in vigore il 17 maggio 2014. Tale figura giuridica riprende e adatta al processo per adulti un meccanismo già previsto per il rito minorile ex artt. 28 e 29, d.P.R. n. 448/1988. La legge istitutiva, all’art. 3, ha dunque disciplinato gli aspetti sostanziali dell’istituto, introducendo gli artt. 168-bis, ter e quater; la disciplina processuale è invece assicurata dagli articoli che vanno da art. 464-bis, a 464-novies c.p.p. (Titolo V bis del Libro VII del codice di rito, come inserito dall’art. 4, comma 1, lett. a) della medesima legge), nonché dalla nuova veste assunta dagli artt. 141-bis e 141-ter disp. att. c.p.p. (modificati dall’art. 5 della legge stessa). L’art. 6 della stessa legge sopra richiamata ha altresì modificato l’art. 3 d.P.R. 14 novembre 2002, n. 313 in tema di casellario giudiziale, prevedendo l’iscrizione dell’ordinanza che – ai sensi dell’art. 464-quater c.p.p. – dispone la sospensione del procedimento con messa alla prova. La ratio dell’istituto, ora esteso anche ai maggiorenni, risiede principalmente nella volontà del legislatore di ridurre il sovraffollamento carcerario, riservando la detenzione ai soggetti responsabili di reati di maggiore gravità o con una consolidata propensione criminale.. Si tratta dunque, di una precisa scelta di politica criminale. Una opzione finalizzata ad apprestare un rimedio alle condizioni spesso insostenibili, nelle quali versano molti istituti carcerari, evitando l’ingresso in carcere di soggetti che si siano resi responsabili di reati di non eccezionale caratura e che non abbiano ormai irreversibilmente adottato uno stile di vita aduso al crimine. Si è quindi anche inteso adeguare la vigente legislazione italiana ai plurimi inviti e richiami indirizzati, in tal senso, dalla Cedu. Infine, la finalità perseguita dal legislatore non può non essere anche quella di favorire l’agevole smaltimento della imponente mole di processi che affollano le Corti (Annunziata, 101). Profili generaliI primi commentatori della norma non hanno mancato di sottolineare la natura tecnicamente spuria dell'istituto, che sembra difficilmente classificabile già sotto il profilo sistematico. Si tratta infatti di un istituto che soffre di commistioni fortissime, tra i profili processuali e sostanziali, tanto che si tende da alcuni a considerarlo — più che una causa estintiva del reato — un vero e proprio procedimento speciale. La dottrina ha scritto che: “La commistione ontologica si riverbera sugli effetti previsti in caso di positivo superamento della probation: la prevista integrazione di una nuova causa di estinzione del reato determina, come di consueto, il proscioglimento dell'imputato” (Annunziata, 101). L’istituto mira ad accompagnare il soggetto in un percorso di riabilitazione sociale e di reinserimento,favorendo la sua adesione ai valori fondamentali della civile convivenza tra consociati, governata dalla supremazia della legge. Alla base vi è la convinzione che le pene detentive di breve durata siano spesso inefficaci ai fini del recupero del reo; anzi, si considera come queste espletino nella maggior parte dei casi una funzione ancor più destabilizzante, sotto il profilo della tenuta comportamentale e della cifra etica del soggetto. In alternativa alla detenzione, il sistema valorizza modalità di riparazione nei confronti della persona offesa e l’attivazione di un circuito solidaristico, consentendo all’imputato di saldare il proprio debito con la collettività attraverso condotte meritevoli e di utilità sociale. Si è infatti scritto quanto segue: «L’obiettivo che intende perseguire la probation processuale è quello di offrire immediatamente all’imputato (soprattutto se primario e accusato di un reato di minore gravità) un trattamento personalizzato che ne faciliti il recupero ed eviti il danno derivante non solo dalla detenzione in un istituto di pena (spesso occasione di un consolidamento degli aspetti devianti della personalità), ma anche dalle conseguenze sociali di essere stato comunque attinto da una decisione di condanna.» (Diotallevi, in Rassegna Lattazi-Lupo, 729). L’accesso al rito, in linea con il connotato premiale dell’istituto, che postula il definitivo recupero del soggetto, è a ciascuno consentito una sola volta. La formulazione normativaAmbito applicativo ed esclusioni soggettive L'istituto trova applicazione esclusivamente nei procedimenti promossi in relazione a reati che prevedano o una pena edittale solo detentiva, ovvero una pena detentiva che non sia superiore ad anni quattro. In tale ultimo caso, il computo della pena si effettua tenendo presente sia la pena detentiva, sia quest'ultima cumulata alla pena pecuniaria; la sanzione massima prevista deve in ogni caso essere contenuta entro i quattro anni di pena detentiva, sia che questa sia prevista congiuntamente a pena pecuniaria, sia che le due sanzioni si atteggino tra loro secondo un regime di alternatività. La sospensione con messa alla prova è inoltre consentita laddove si proceda — anche indipendentemente dall'entità della sanzione in astratto prevista — per alcuno dei reati indicati dall'art. 550 comma 2 c.p.p. (si tratta, come noto, dei casi nei quali è prevista la citazione diretta a giudizio). Un orientamento giurisprudenziale, ormai superato, sosteneva che, ai fini della verifica della soglia edittale di ammissibilità, si dovessero considerare anche le circostanze aggravanti ad effetto speciale e quelle per cui la legge prevede pene di specie diversa. Tuttavia, tale impostazione è stata definitivamente superata dalla decisione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, che ha sancito l'irrilevanza di tali circostanze nel determinare l'accesso alla messa alla prova. In sede di commento alla decisione della Corte, si è scritto quanto segue: “La soluzione adottata dal supremo Collegio appare condivisibile ed evita, altresì, un'interpretazione restrittiva dell'art. 168 bis c.p. Invero, si è sancito il principio secondo il quale la sussistenza di circostanze aggravanti non pregiudica ex ante l'ammissibilità al rito, in quanto il giudizio effettivo di ammissione alla prova è riservato al giudice, chiamato a valutare l'idoneità del programma trattamentale e la prognosi di esclusione della recidiva. Le conclusioni ai cui giunge la Corte evitano anche il pericolo di sovrapposizione dello spazio operativo della messa alla prova rispetto a quello di altre discipline quale, ad esempio, la causa di non punibilità per tenuità del fatto. Infatti, l'orientamento restrittivo, che tendeva a limitare l'istituto a reati rientranti nella fascia di gravità bassa, rischiava di tradire la stessa ratio della messa alla prova. Pertanto, rispetto alla chiarezza della lettera della legge, caratterizzata da un significativo silenzio in ordine agliaccidentalia delicti, i tentativi di limitare l'applicazione dell'istituto sulla base di un'interpretazione restrittiva, sembrano scontrarsi con la volontà del legislatore di allargare l'ambito di operatività della messa alla prova.” (Murro, 5). Restano esclusi dall'accesso all'istituto in commento i soggetti che siano stati colpiti da declaratoria quali delinquenti o contravventori abituali o professionali, ovvero che siano stati dichiarati delinquenti per tendenza. La ragione di tale ultima esclusione risulta in realtà abbastanza agevole da comprendere. Il percorso di riabilitazione e reinserimento sociale, che è presupposto fondante ed indefettibile della nuova figura, infatti, pare inconciliabile con l'emergere di personalità ormai irreversibilmente instradate verso la delinquenza (soggetti che in sostanza abbiano già dato prova di scarsa attitudine alla risocializzazione). Una preclusione derivante dalla immeritevolezza, che pare combaciare alla perfezione anche con l'altro limite soggettivo previsto dalla norma, rappresentato dal fatto che il beneficio in commento è comunque ammissibile soltanto una volta. Giova anche evidenziare come il meccanismo configurato dagli artt. 168-bis ss. — sebbene palesemente ricalcato sul sistema della messa alla prova in campo minorile — se ne differenzi poi quanto ad estensione e ad operatività. E infatti. La tipologia di messa alla prova regolamentata dagli artt. 28 e 29 d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448, non incontra preclusioni originate dalla caratura criminale del fatto commesso, ovvero dalla negativa personalità dell'autore dello stesso. È quindi prevista una possibilità di accesso alla messa alla prova che è sostanzialmente illimitata, per il minore. L'essenza dell'istituto e la sua funzione precipua, infatti, sono in relazione al processo minorile connotate dalla preponderante esigenza di agevolare il recupero del soggetto; restando lì dunque avulsi dall'istituto gli ulteriori scopi sopra evidenziati, che invece caratterizzano il nuovo strumento delineato dagli artt. 168 bis e ss. L'orientamento formatosi nella giurisprudenza di legittimità è nel senso che il giudice — al momento di vagliare la richiesta di sospensione con messa alla prova — sia tenuto a verificare la correttezza della qualificazione giuridica prospettata, rispetto al fatto sussunto in contestazione. Ed è altresì tenuto, ove ne ricorrano i presupposti, a modificarla; modifica che riverbera ovviamente poi rilevanti effetti, in tema di esistenza o meno dei presupposti legittimanti l'accesso alla figura in esame (vedere la giurisprudenza sotto richiamata). In data 27 ottobre 2022, la Corte di Cassazione a Sezioni Unite ha sancito come l'istituto della messa alla prova non possa trovare applicazione, per quanto attiene alla responsabilità degli enti exd.lgs. n. 231/2001. Infine, la giurisprudenza di legittimità ha dichiarato illegittimo il provvedimento di rigetto della richiesta di messa alla prova qualora esso si basi esclusivamente sull'omessa produzione del programma di trattamento, nel caso in cui quest'ultimo sia stato ritualmente richiesto all'ufficio di esecuzione penale. . La decisione non può prescindere, infatti, dalla valutazione in ordine all'idoneità di tale programma, che, pertanto, dev'essere elaborato e sottoposto al giudice, salvo che l'accoglimento della richiesta risulti radicalmente precluso dall'esistenza di una prognosi sfavorevole, quanto all'astensione dell'imputato dalla commissione di ulteriori reati (Cass. III, n. 18602/2024). Conseguenze dell'accesso alla prova Dalla sospensione del procedimento con messa alla prova deriva anzitutto l’obbligo in capo al soggetto beneficiario, di effettuare prestazioni indirizzate all’elisione delle conseguenze dannose o pericolose del reato; discende parimenti l’obbligo di risarcire, entro i limiti del possibile (dunque, di ciò che è concretamente esigibile dal soggetto), il danno direttamente collegato al fatto commesso. Colui che acceda all'istituto resterà inoltre affidato — per un periodo determinato — al servizio sociale; sarà quindi tenuto a svolgere un programma che può alternativamente implicare: attività di volontariato di rilievo sociale (dunque, dovrà adoperarsi principalmente nei campi della solidarietà o dell’assistenza); oppure osservanza di prescrizioni relative: ai rapporti con il servizio sociale (sarà tenuto ad attenersi a indicazioni fornite dal servizio sociale al quale è affidato); ai rapporti con una struttura sanitaria; alla dimora; alla libertà di movimento; al divieto di frequentare determinati locali. È inoltre previsto che — durante il periodo di messa alla prova — il beneficiario dello stesso debba anche effettuare un periodo di lavoro di pubblica utilità. Sarebbe a dire che dovrà prestare attività non retribuita in favore della collettività, per un arco temporale non inferiore a dieci giorni (ma con una durata giornaliera non superiore alle otto ore), anche non continuativi. Il tipo di lavoro dovrà ovviamente tener conto, per espressa previsione normativa, delle specifiche professionalità e attitudini lavorative del soggetto; dovrà inoltre essere espletato senza che risultino pregiudicate le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute di quest'ultimo. Modifiche introdotte a seguito della Legge 27 settembre 2021 n. 134. Con il d.lgs. n. 150/2022, in attuazione della l. n. 134/2021, recante delega al governo per l'efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari, sono state fra l'altro introdotte modifiche al testo dell'art. 168-bis. Qui al comma primo, dopo le parole: «l'imputato» è stata inserita la frase: «, anche su proposta del pubblico ministero,». In forza di tale novella, viene ampliata la possibilità di ricorso all'istituto della messa alla prova; si prevede infatti che la richiesta, presentata in tal senso da parte dell'imputato, possa anche essere l'espressione di una proposta proveniente dal P.M. La modifica, di natura processuale, e comunque di contenuto favorable, si applicherà immediatamente nei processi in corso, anche se aventi ad oggetto reati commessi prima del 30 dicembre 2022, data di entrata in vigore del d.lgs. n. 150/2022. Una rilevante innovazione riguarda l'obbligatorietà dello svolgimento di lavori di pubblica utilità (LPU), che da elemento meramente eventuale diviene ora parte integrante del programma di trattamento, salvo che non sussistano specifiche ragioni ostative. Tale previsione mira a rendere la messa alla prova un vero strumento di responsabilizzazione del reo, rafforzando la finalità di riparazione nei confrotni della collettività. La riforma ha ampliato il ruolo dell'ufficio di esecuzione penale esterna (UEPE), prevedendo che il giudice non possa pronunciarsi sulla richiesta di ammissione alla messa alla prova, senza aver acquisito il parere dell'UEPE, il quale è chiamato a verificare l'idoneità del programma trattamentale proposto. L'UEPE assume altresì un ruolo centrale nella fase di esecuzione, attraverso un più incisivo monitoraggio del rispetto dell prescrizioni imposte all'avvocato. In materia di revoca del beneficio, la legge ha introdotto un regime più rigoroso, prevedendo che la messa alla prova debba essere revocata qualora l'imputato commetta un nuovo reato doloso durante il periodo di sospensione. Le modifiche introdotte dalla l. 134/2021 puntano a rafforzare la funzione riparativa dell'istituto, rendendo obbligatorio il lavoro di pubblica utilità, e a garantire una maggiore efficienza nella gestione delle richieste di ammissione e nel monitoraggio del percorso rieducativo. L'ammissibilità della probation limitatamente ad alcune contestazioniMerita una attenta analisi la problematica inerente alla configurabilità di un accesso per così dire segmentato, ossia limitato solo ad uno o ad alcuni tra i più reati dei quali un determinato soggetto venga contestualmente chiamato a rispondere. È infatti in concreto immaginabile — ed anzi, piuttosto ricorrente — il caso in cui ad uno stesso soggetto vengano contestati, nell'ambito del medesimo procedimento, sia reati per i quali sia consentita la messa alla prova, sia altri destinati invece a rimanerne esclusi, stante il superamento dei limiti edittali. Alcuni interpreti della norma hanno prospettato la possibilità di una messa alla prova solo parziale, con conseguente prosecuzione del giudizio in ordine ai reati esclusi dall’operatività dell’istituto. La giurisprudenza ha però offerto alla questione una risposta decisamente negativa. Si è infatti valorizzata l’inconciliabilità logica esistente, fra la funzione di recupero — che è intimamente connessa all’istituto — ed un accesso allo stesso che sia limitato solo ad alcuni degli addebiti mossi al soggetto stesso, al quale praticamente verrebbe consentito una sorta di improprio ravvedimento limitato (Annunziata, 101). La giurisprudenza di legittimità ha precisato che l'imputato - laddove ritenga che il fatto si presti a essere giuridicamente ricondotto a diverso modello legale, idoneo all’ammissione all’istituto in esame, ha l'onere di allegare il programma di trattamento o, almeno, la relativa richiesta inoltrata all'Ufficio di esecuzione penale esterna, venendo in rilievo requisiti di ammissibilità dell'istanza di sospensione, ai sensi dell’art. 464-bis, comma 4, c.p.p. (Cass. 4, n. 36467/2024). Questioni di diritto intertemporaleStante la mancata previsione legislativa di una disciplina transitoria, si è immediatamente posta la questione inerente all’immediata operatività dell’istituto di nuova creazione, rispetto ai processi già in corso alla data di entrata in vigore della norma. Il Supremo Collegio ha desunto il principio basilare che governa la materia, attraverso la valorizzazione della intrinseca natura dell’istituto, che pare nettamente incompatibile con il giudizio impugnatorio. Sulla base di tale assunto dogmatico, la Corte ha dunque escluso l’applicabilità dell’istituto sia alla fase dell’appello, sia a quella del giudizio in Cassazione. E quindi: “[...] L’assenza di una formale disciplina transitoria impone di fare ricorso alla regola generale derivante dal principio tempus regit actum, con la conseguenza che sono da ritenere inammissibili quelle richieste di sospensione del processo con messa alla prova che vengono proposte a processo in corso, in cui siano già stati superati i rigorosi termini decadenziali previsti dall’art. 464-bis, comma 2, c.p.p.” (Diotallevi, in Rassegna Lattazi-Lupo, 734; si veda anche la giurisprudenza sotto richiamata). Il risarcimento del dannoSecondo i primi interpreti della norma, l’obbligo di risarcimento del danno non ha una mera funzione sanzionatoria, ma si inserisce in un percorso finalizzato alla risocializzazione del reo. L’obiettivo ultimo è il suo reinserimento sociale, nonché il recupero alla condivisione dei valori comunemente accettati dalla collettività e sussunti nei precetti penalistici. Dunque, una finalità che ha anche il connotato dell’emenda. Si tratta pertanto di una scelta, che è finalizzata ad apprestare tutela agli interessi lesi dal reato, ma anche a potenziare il meccanismo di rivisitazione critica del vissuto criminale del reo. Uno dei principali nodi interpretativi riguarda la determinazione del quantum risarcitorio. Premesso che il danno arrecato alla collettività viene compensato attraverso la prestazione di lavori di pubblica utilità, il risarcimento previsto dalla norma si riferisce al pregiudizio subito dal soggetto passivo del reato. Tale danno può assumere diverse forme, includendo sia il danno economico in senso stretto che la lesione morale parità dalla vittima. Un ulteriore profilo problematico riguarda la concreta esigibilità dell’obbligo risarcitorio. Il legislatore ha infatti ritenuto necessario vincolare l’adempimento di tale obbligo a un criterio oggettivo, rappresentato dalle sue condizioni economiche e dalla sua complessiva situazione personale. Il reo risulterà quindi giustificato rispetto all’inadempimento dell’obbligo risarcitorio, tutte le volte che riesca ad addurre e documentare situazioni che il giudice ritenga impeditive e non riconducibili al soggetto stesso, o almeno da quest’ultimo non governabili. Si è sul punto giustamente precisato quanto segue: “Configura, parimenti, un’ipotesi di risarcimento oggettivamente inesigibile il caso dell’irreperibilità della persona offesa o degli aventi diritto, ovvero il rifiuto – espresso anche per facta – da parte della persona offesa di ogni contatto con l’imputato. Altre ipotesi che, nella pratica, integrano una possibile valutazione di inesigibilità della prestazione risarcitoria possono individuarsi nel notevole lasso di tempo trascorso dai fatti, che potrebbe ragionevolmente rendere difficoltoso per l’imputato il rintraccio della persona offesa al fine di provvedere all’offerta reale di una congrua somma a titolo di risarcimento ex delicto; l’eventuale dichiarazione della persona offesa di essere stata integralmente risarcita, ovvero l’espressa rinuncia dell’avente diritto a pretendere il risarcimento del danno, mentre non avrebbe valore giustificativo la mera assenza di richiesta del risarcimento dei danni da parte della persona offesa o degli aventi diritto” (Fiorentin, 75). Il lavoro di pubblica utilitàÈ il momento centrale del nuovo istituto. La previsione codicistica richiama le altre disposizioni di analogo tenore presenti nell'ordinamento; quindi l'art. 54 d.lgs. 28 agosto 2000, che detta le norme per il processo dinanzi al giudice di pace e gli artt. 186 comma 8-bis e 187 comma 8-bis d.lgs. 30 aprile 1992, n. 285. La prestazione non retribuita a beneficio della collettività tiene conto delle specifiche attitudini del soggetto; essa si snoda secondo una durata quotidiana non superiore alle otto ore e per un tempo che non può essere inferiore a dieci giorni. Si è poi sottolineato che: “L'art. 168-bis non sembra richiedere obbligatoriamente che gli enti e le organizzazioni beneficiarie delle prestazioni dell'imputato ammesso alla probation siano legate all'Amministrazione da un rapporto di convenzione, né richiama il d.m. 26 marzo 2001 (G.U. 5 aprile 2001, n. 80) che prevede (art. 3) l'obbligo per il giudice di fare riferimento all'elenco degli enti convenzionati formati ai sensi del successivo art. 7” (Diotallevi, in Rassegna Lattanzi-Lupo, 731 e 732, il quale ricorda anche come — stando alla dottrina maggioritaria — la prescrizione indefettibile di prestare il lavoro di pubblica utilità rappresenti la parte più squisitamente sanzionatoria del nuovo istituto, risolvendosi in una “sanzione sostitutiva di tipo prescrittivo”, che avrebbe richiesto forse una previsione di maggior dettaglio, quanto a parametri di congruità e di durata). Profili di costituzionalitàmanifestamente infondata la questione di legittimità dell’art. 464, comma 2-bis, c.p.p. – prospettata per asserito contrasto con l’art. 3 Cost. – nella parte in cui non consente l’accesso all’istituto della sospensione con messa alla prova, in relazione ai processi già pendenti alla data di entrata in vigore della l. n. 67/2014, trattandosi di scelta rimessa alla valutazione discrezionale del legislatore (Cass. VI, n. 47587/2014). Sul solco di tale indirizzo, Cass. I, n. 11138/2016 ha anche precisato come – stante la carenza di una disciplina transitoria – la figura in esame debba ritenersi pacificamente applicabile ai fatti commessi in epoca anteriore, rispetto all’entrata in vigore della legge istitutiva; purché però non risultino superati i relativi sbarramenti processuali. La stessa decisione – a fronte della riproposizione delle medesime questioni di legittimità – sottolinea poi come l’istituto sia stato costruito dal legislatore quale «radicale alternativa, rispetto alla celebrazione di ogni tipologia di giudizio di merito». E rammenta come le questioni di incostituzionalità della nuova normativa – segnatamente inerenti al dettato dell’art. 464-bis c.p.p. – proposte per sospetta incompatibilità con gli artt. 3, 24, 111 e 117, comma 1, Cost. (quest’ultimo con riferimento all’art. 7 della CEDU), tutte riferite alla mancata previsione di una disciplina transitoria, nonché alla preclusione della possibilità di proporre l’istanza di sospensione laddove il giudizio sia già iniziato, debbano ormai reputarsi totalmente superate. Conforta tale assunto, infatti, la pronuncia emessa in tema dalla Consulta, che le ha appunto ritenute tutte non fondate (Corte cost. n. 240/2015, la quale, in motivazione, ha spiegato quanto segue: «L’istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova pur avendo effetti sostanziali, perché dà luogo all’estinzione del reato, è connotato comunque da un’intrinseca dimensione processuale e in ragion di ciò si giustifica la scelta legislativa di parificare la disciplina del termine per la richiesta, senza distinguere tra processi in corso e processi nuovi. Il legislatore, infatti, gode di ampia discrezionalità nello stabilire la disciplina di nuovi istituti processuali, a condizione che ciò non sia manifestamente irragionevole. La disposizione impugnata, inoltre, attesa la sua prospettiva processuale, è regolata dal principio tempus regit actum, e non già dal principio di retroattività della lex mitior, il quale, al contrario, riguarda esclusivamente la fattispecie incriminatrice e la pena. Sono prive di fondamento, infine, le asserite violazioni del diritto di difesa e del giusto processo, giacché sollevate nell’erroneo presupposto che nei processi in corso al momento dell’entrata in vigore della norma censurata dovrebbe riconoscersi all’imputato la facoltà di scegliere il nuovo procedimento speciale, del quale, invece, è stata legittimamente esclusa l’applicabilità da parte del legislatore»). La Consulta, con ord.n. 54/2017 del giorno 11 gennaio 2017 (depositata in data 10 marzo 2017), ha ritenuto manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale di Prato (ord. 21 aprile 2015, n. 289, in G.U. 16 dicembre 2015, n. 50), riguardanti gli artt. 168-bis e seguenti. Tali disposizioni normative erano state infatti sospettate di contrasto con gli artt. 3, 24 e 27 Cost., nella parte in cui manca la previsione di un termine massimo di durata della prestazione di lavoro di pubblica utilità nonché dei criteri utili per la determinazione della stessa; si temeva, in sostanza, che l’istituto non avesse la concreta attitudine ad assicurare trattamenti diversificati in relazione ai singoli casi. Osserva invece il Giudice delle leggi come l’istituto della messa alla prova implichi una diversificazione del contenuto del programma di trattamento, affidando poi al giudice la valutazione in ordine alla idoneità dello stesso in relazione alle specificità del caso concreto. Non risulta inoltre alcun profilo di incostituzionalità, in relazione alla mancata indicazione normativa della durata massima del lavoro di pubblica utilità. Tale durata può infatti desumersi dal dettato dell’art. 464-quater, comma 5, c.p.p. È poi rimesso alla prudente valutazione del giudice – ex art. 464-septies c.p.p. – l’esame in ordine all’esito della messa alla prova, in relazione alla condotta serbata dal soggetto ed al rispetto delle prescrizioni a lui imposte. La durata dell’esperimento, infine, deve esser commisurata anche ai canoni di giudizio indicati dall’art. 133 c.p. e dalle caratteristiche della prestazione lavorativa. I Giudici costituzionali infine (Corte cost. n. 231/2018) hanno recentemente dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 24, comma 1 e 25 comma 1, del d.P.R. n. 313/2002 “T.U. delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di casellario giudiziale, di anagrafe delle sanzioni amministrative dipendenti da reato e dei relativi carichi pendenti”, nella stesura precedente rispetto alle modifiche contenute nell’art. 4 d.lgs. n. 122/2018 (quest’ultima norma è stata pubblicata in G.U. n. 250 del 26 ottobre 2018 ed è in vigore dal 10 novembre 2018; le modifiche in essa contenute diverranno però efficaci – come disposto dalla norma medesima all’art. 7 – decorso un anno dalla pubblicazione in G.U.). La declaratoria di incostituzionalità dei sopra citati artt. 24 e 25 d.P.R. n. 313/2002 concerne dunque la parte in cui tali norme non prevedono che, nel certificato generale e nel certificato penale del casellario giudiziale rilasciati a richiesta dall’interessato, non debbano essere riportate le iscrizioni tanto dell’ordinanza di sospensione del processo con messa alla prova dell’imputato ex art. 464-quater c.p.p., quanto della sentenza dichiarativa dell’estinzione del reato, pronunciata a norma dell’art. 464-septies c.p.p. a seguito dell’esito positivo della prova. Corte cost. n. 174/2022 si è recentemente pronunciata in ordine alla legittimità costituzionale - sollevata in relazione all’art. 3 Cost. – dell’art. 168-bis, comma 4. La Consulta ha dunque dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma censurata, «nella parte in cui non prevede che l’imputato possa essere ammesso alla sospensione del procedimento con messa alla prova nell’ipotesi in cui si proceda per reati connessi, ai sensi dell’art. 12, comma 1, lettera b), del codice di procedura penale, con altri reati per i quali tale beneficio sia già stato concesso». Resteranno poi rimesse al prudente apprezzamento del giudice – ex art. 464-quater, comma 3, c.p.p. – sia l’effettuazione di una nuova valutazione in ordine all’idoneità del programma di trattamento, sia una ulteriore prognosi sull’astensione dalla perpetrazione di future condotte criminose ad opera dell’imputato. Valutazione che dovrà naturalmente avere riguardo alla natura ed alla gravità dei reati oggetto del nuovo procedimento, nonché considerare adeguatamente il percorso di riparazione e risocializzazione già effettuato nel corso della prima messa alla prova. Laddove reputi opportuno accordare nuovamente il beneficio, il giudice stabilirà poi la durata del periodo aggiuntivo di messa alla prova; resterà in ogni modo all’interno dei limiti complessivi dettati dall’art. 464-quater, comma 5 c.p.p., procedendo altresì ad una giusta valorizzazione del percorso già compiuto. Ciò in ossequio all’esigenza di garantire una risposta sanzionatoria praticamente unitaria, rispetto a tutti i reati avvinti dal concorso formale o commessi in esecuzione di un medesimo disegno criminoso. La Consulta, con la sentenza n. 146 del 2023 (Corte cost. n.146/2023) 2023, ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale del primo comma della norma in commento, per preteso contrasto con gli artt. 3, comma 1, e 27, comma 3, Cost., laddove non è in astratto consentito l’accesso all’istituto della messa alla prova in presenza di un fatto di omicidio stradale, allorquando non possa ravvisarsi alcuna circostanza aggravante e ricorra, invece, l’attenuante a effetto speciale del concorso di cause, tipizzata all’art. 589-bis, comma 7, c.p. CasisticaSi riportano alcune decisioni del Supremo Collegio, nelle quali si affrontano i principali temi interpretativi posti dall'istituto di nuova creazione. La questione attinente all’individuazione dei criteri da adoperare, al fine del computo dei limiti edittali utili per l’accesso all’istituto è come detto giunta all’attenzione delle Sezioni Unite della Cassazione. Tale contrasto è stato ormai risolto dalle Sezioni Unite, mediante l’enunciazione del seguente principio di diritto: "Ai fini dell'individuazione dei reati ai quali è astrattamente applicabile l'istituto della sospensione con messa alla prova, il richiamo contenuto nell'art. 168-bis c.p. alla pena edittale detentiva non superiore nel massimo a quattro anni va riferito alla pena massima prevista per la fattispecie base, non assumendo a tal fine alcun rilievo le circostanze aggravanti, comprese le circostanze ad effetto speciale e quelle per cui la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato." (Cass. S.U., n. 36272/2016). Occorre quindi avere riguardo esclusivamente alla pena edittale massima, che è prevista in relazione alla fattispecie base. Ossia, prescindendo dalla contestazione di circostanze aggravanti di qualsiasi tipo, anche se si tratti di circostanze ad effetto speciale o di quelle per le quali la legge stabilisce una pena diversa da quella ordinariamente prevista. La Corte ha dunque inteso - mediante tale decisione - dare la prevalenza all’orientamento che riteneva l’irrilevanza delle circostanze, ai fini della valutazione della richiesta di messa alla prova; a fondamento di tale scelta si pongono svariate argomentazioni, che sono di eterogenea natura, ma tra loro perfettamente combacianti: - l’interpretazione letterale dell’art. 168 bis, che non contiene alcun riferimento agli accidentalia delicti; - la ricostruzione della volontà del legislatore e della finalità perseguita dall’istituto; - una interpretazione logico-sistematica dell’istituto, fondata sul principio che l’estensione della messa alla prova a reati – specificamente indicati – di maggior caratura, risulti pienamente giustificata dalla connotazione dell’istituto stesso quale “trattamento sanzionatorio a contenuto afflittivo, non detentivo, che può condurre all’estinzione del reato” (caratteristica confermata, peraltro, dal dettato dell’art. 657-bisc.p.p., laddove è previsto che – nel determinare la pena residua da espiare in caso di fallimento della messa alla prova – debba detrarsi il periodo di prova comunque eseguito). Per le Sezioni Unite, in conclusione, deve allora operare il seguente principio: "Ai fini dell’individuazione dei reati ai quali è astrattamente applicabile la disciplina dell’istituto della sospensione con messa alla prova, il richiamo contenuto nell’art. 168 bis c.p. alla pena edittale non superiore nel massimo a quattro anni va riferito alla pena massima prevista per la fattispecie-base, non assumendo a tal fine alcun rilievo le circostanze aggravanti, comprese le circostanze ad effetto speciale e quelle per cui la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato". La Corte ritiene che la sospensione non possa essere disposta previa separazione dei processi, dunque soltanto in relazione ad alcune delle fattispecie ascritte, che lo consentano per limiti edittali. La ratio dell'istituto di nuova creazione, infatti risiede nel perseguimento di una totale elisione delle inclinazioni antisociali del reo, finalità che sarebbe in stridente contrasto logico con una rieducazione solo parziale (Cass. V, n. 7980/2016 e, nello stesso senso, Cass. II, n. 14112/2015 ). Allorquando ricorra il fatto di lieve entità, in tema di reati attinenti alle sostanze stupefacenti, la pena edittale massima non superiore ai quattro anni di reclusione, ivi prevista, legittima l'imputato a chiedere la sospensione del processo con messa alla prova (Cass. III, n. 28548/2014). Risulta estraneo ai presupposti richiesti dal legislatore per l'operatività dell'istituto in commento, il requisito dell'ammissione - ad opera del soggetto richiedente - della propria responsabilità in ordine ai fatti per i quali si procede. La decisione ammissiva del giudice, infatti, presuppone esclusivamente l'accertamento — sulla base di elementi di valutazione e conoscenza che possono anche rivelarsi molto scarni, stante lo stadio evolutivo del procedimento — dell'insussistenza dei presupposti utili a fondare una pronuncia di proscioglimento ex art. 129 c.p.p. (così dispone l'art. 464-quater comma 1 c.p.p.). Trattasi quindi di una attribuzione del fatto-reato all'imputato che si situa entro un confine valutativo molto angusto (la Corte qui richiama la plastica espressione «ristretti spazi cognitivi di merito», adoperata in tema di sentenza ex art. 444 c.p.p. da Cass. S.U., n. 36847/2014); una modalità di attribuzione che inoltre non postula il rilascio, da parte del soggetto stesso, di dichiarazioni autoaccusatorie. Fermo restando, naturalmente, che una eventuale confessione possa essere comunque oggetto di positiva valutazione da parte del giudice, quale segnale di buona condotta processuale. I Giudici, infine, stabiliscono una equipollenza fra l'istituto della messa alla prova e l'affidamento in prova al servizio sociale, che «rappresenta una forma di probation — non già processuale (come l'istituto in esame), ma — penitenziario, ossia che, ai fini dell'applicazione alla misura, non configura una ragione ostativa la mancata ammissione degli addebiti» (Cass. V, n. 24011/2015). È riservato al giudice — in sede di delibazione della richiesta di accesso all'istituto in commento — il potere di procedere anche ad una riqualificazione giuridica dell'accadimento fenomenico dedotto in contestazione, riconducendo magari lo stesso sotto l'egida normativa di altra fattispecie tipica. Tale modifica, naturalmente, esplicherà poi importanti effetti sul profilo della sussistenza dei presupposti richiesti per l'ammissibilità della sospensione (Cass. IV, n. 4527/2015). La decisione mediante la quale il giudice rigetti l'istanza di sospensione con messa alla prova, in ragione della mancata allegazione di idoneo programma di trattamento è illegittima. E infatti, stando al dettato dell'art. 464-bis comma 4 primo periodo c.p.p., la richiesta deve considerarsi proposta in modo rituale, sia quando sia corredata del programma di trattamento, sia nel caso in cui — stante l'impossibilità di predisporlo tempestivamente — risulti comunque rivolta richiesta in tal senso all'U.E.P.E. (Cass. V, n. 31730/2015). Profili processualiSi rende preliminarmente necessario un rapido inquadramento dell'istituto, anche per ciò che attiene all'aspetto più squisitamente processuale. E dunque, il meccanismo processuale può essere schematizzato nel modo che segue: a) Termini per l'accesso alla sospensione: La richiesta può essere proposta: — nel corso delle indagini preliminari (art. 464 ter c.p.p.). Con riferimento alla previsione della possibilità di formulare la richiesta di sospensione con messa alla prova in fase di indagini preliminari, sembra inevitabile che si possano porre seri problemi attuativi. Posto infatti che il giudice ammette il soggetto alla messa alla prova solo laddove non ravvisi gli estremi per una pronuncia ex art. 129 (art. 464 quater comma 1 c.p.p.), ci si è giustamente interrogati sulla conciliabilità fra la previsione della messa alla prova in sede di indagini preliminari — momento processuale connotato dalla fluidità degli atti ancora in itinere e dall'assenza di una cristallizzazione dell'incolpazione — e la struttura complessiva della figura in esame. Insomma, è possibile che la richiesta di messa alla prova intervenga in un momento nel quale gli accertamenti nei confronti dell'indagato (e non dell'imputato) siano ancora in corso. La mancata positivizzazione degli elementi gravanti sul soggetto, peraltro, rende difficoltoso immaginare in concreto una verifica operata dal giudice ai sensi dell'art. 129 c.p.p. Si è allora giustamente scritto: “In realtà, che l'istituto della messa in prova presupponga un giudizio positivo sulla responsabilità penale del soggetto, in quanto altrimenti si imporrebbe una soluzione liberatoria, è conclusione ormai consolidata con riferimento all'analogo istituto previsto nel processo minorile dall'articolo 28 del D.P.R. n. 448 del 1988 (Corte cost., n. 125/1985) e va quindi pacificamente ribadito anche nell'interpretazione di quello in esame, proprio valorizzando le sopra evidenziate indicazioni normative [...]. Proprio in ragione delle rilevate specificità di tale fase processuale non è facile trasferire e applicare una disciplina costruita, in modo evidente, per la fase successiva all'esercizio dell'azione penale, imponendosi uno sforzo ricostruttivo che renda l'istituto praticabile in modo affidabile e sicuro” (Amato, 87, laddove si potrà leggere una accurata disamina della questione procedurale). In realtà è l'intero iter delineato dal legislatore a suscitare — almeno sul punto specifico — profonde perplessità. Alcuni Autori hanno individuato analogie, fra il sistema in commento e quello che regolamenta l'accesso al cd. patteggiamento in fase di indagini preliminari, ai sensi dell'art. 447 c.p.p. Si è comunque ritenuto incongruo che la presentazione della richiesta debba esser formulata al G.i.p. (che non dispone di atti propri, se non eventualmente del fascicolo delle indagini difensive, depositato a norma dell'art. 391-octies c.p.p.) e non direttamente al p.m., per il successivo inoltro unitamente al consenso (per un esaustivo esame della tematica, si veda Diddi, 133); — fino al momento della formulazione delle conclusioni in udienza preliminare. Qui la dizione codicistica, inerente alla collocazione temporale dell'ultimo momento utile per la formulazione dell'istanza in udienza preliminare (“fino al momento della formulazione delle conclusioni a norma degli articoli 421 e 422”) è esattamente analoga a quella contenuta nel dettato dell'art. 438 comma 2 c.p.p., che indica lo sbarramento per la proposizione della richiesta di rito abbreviato. Si ritiene quindi che logicamente, per analogia, possa applicarsi quanto deciso da Cass. S.U., n. 20214/2014, la quale ha precisato come la richiesta ex art. 438 c.p.p. possa essere formulata non oltre il momento in cui il difensore dell'imputato rassegna le proprie conclusioni definitive. Questo deve dunque essere ritenuto anche l'ultimo momento utile per la formulazione — in fase di udienza preliminare — dell'istanza di sospensione con messa alla prova. In tema di riti alternativi, si richiama Cass. IV, n. 30983/2019; qui il Supremo Collegio ha precisato come il fatto che in primo grado si sia proceduto secondo le forme del giudizio abbreviato, non precluda all'imputato la deducibilità in secondo grado della natura asseritamente ingiustificata, del diniego oppostogli dal Giudice di prime cure a fronte di richiesta di sospensione con messa alla prova. — fino a che non venga formalmente dichiarato aperto il dibattimento di primo grado, laddove questo sia stato instaurato mediante giudizio direttissimo o decreto di citazione a giudizio (si evince da ciò, come la conclusione dell'udienza preliminare rappresenti — per i reati per i quali essa è prevista — lo sbarramento ultimo per la formulazione della richiesta de qua); con riferimento ancora al rito direttissimo, si è posta la questione inerente alla possibilità che l'imputato – una volta che sia stato tratto a giudizio per reato punito con pena ostativa all'accesso alla messa alla prova – possa comunque chiedere di esservi ammesso, previa ovviamente la riqualificazione del fatto al momento contestato. A fronte di tale richiesta, da formularsi comunque sempre entro la soglia di sbarramento rappresentata dalla dichiarazione di apertura del dibattimento, il giudice potrebbe sposare la tesi proposta e, riqualificato il fatto, ammettere l'istante alla sospensione. La riqualificazione giuridica, pur se rigettata unitamente alla richiesta di messa alla prova, potrebbe avvenire anche all'esito del giudizio; in tal caso – in assenza di espressa previsione normativa circa una possibilità di restituzione in termini – la dottrina riteneva ci si potesse dolere della mancata ammissione alla messa alla prova solo in sede di appello, quale punto specifico del gravame (v. Galati, 2). La Consulta ha invece recentemente dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 516 c.p.p., nella parte in cui non prevede la facoltà per l'imputato - a seguito della modifica dell'originaria imputazione - di chiedere al giudice del dibattimento la sospensione del procedimento con messa alla prova (Corte Cost. 14/2020). Segnaliamo infine una pronuncia della Suprema Corte, che ha ritenuto affetto da nullità per violazione di norma processuale – ma non abnorme – il provvedimento del Giudice monocratico, che restituisca gli atti al P.M. affinché questi emetta nuovo decreto di citazione diretta a giudizio dell'imputato, inserendo in tale decreto l'avviso della facoltà riservata all'imputato stesso, di chiedere la sospensione del procedimento con messa alla prova (Cass. II, n. 3864/2017). — entro quindici giorni dalla notificazione del decreto di giudizio immediato, a norma dell'art. 458 comma 1 c.p.p.; Corte Cost. n. 19/2020 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 456 co. 2 c.p.p., nella parte in cui non prevede che il decreto che dispone il giudizio immediato debba contenere l'avviso all'imputato della facoltà di chiedere la sospensione del procedimento con messa alla prova. — entro quindici giorni dalla notificazione del decreto penale di condanna, in sede di opposizione proposta ai sensi dell'art. 461 c.p.p. (art. 464 bis comma 2 c.p.p.); La Consulta, con sentenza del 21 luglio 2016 (Corte cost. n. 201/2016), ha stabilito l'incostituzionalità dell'art. 460 comma 1 lett. e) c.p.p., nella parte in cui non prevede che nel decreto penale di condanna vada inserito l'avviso all'interessato della facoltà di chiedere – in sede di opposizione al decreto penale medesimo - la sospensione del procedimento con messa alla prova. Secondo la Corte, l'avviso della possibilità di definizione alternativa del processo costituisce un momento fondamentale per l'esplicazione della corretta difesa, tanto che l'omissione di questo rappresenta appunto una violazione del diritto di difesa. Ed essendo previsto anche in riferimento alla messa alla prova – come in relazione ai riti alternativi - un termine anticipato e decadenziale per la formulazione della richiesta, se ne deduce come il mancato avviso all'imputato della possibilità di esercitare tale facoltà rappresenti una violazione del diritto di difesa, con conseguente lesione dell'art. 24 Cost. Stando al più recente orientamento espresso dal Supremo Collegio, nel caso di formulazione ex art. 168-bis, di istanza di sospensione del procedimento con messa alla prova, la quale istanza sia contenuta in un atto di opposizione a decreto penale di condanna, la competenza a delibare tale richiesta sarà riservata al giudice per le indagini preliminari (Cass. I, n. 21324/2017), In senso diametralmente opposto si era però indirizzata Cass. I, n. 25867/2016, la quale aveva ritenuto radicarsi in tal caso la competenza a decidere in capo al Giudice del dibattimento. — entro la dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, è anche consentito riproporre sia la richiesta rigettata in fase di indagini preliminari (art. 464-ter comma 4 c.p.p.), sia l'istanza colpita da ordinanza reiettiva pronunciata in udienza (art. 464-quater comma 9 c.p.p.); — In fase di appello, qualora l'imputato non l'abbia richiesta in primo grado.; b) Soggetti legittimati a formulare la richiesta: — l'imputato personalmente con sottoscrizione autenticata, a norma dell'art. 583 comma 3 c.p.p.; — il procuratore speciale (art. 464-bis comma 3 c.p.p.); c) Allegazioni all'istanza: — programma di trattamento elaborato d'intesa con l'ufficio di esecuzione penale esterna (U.E.P.E.); ; tale programma deve contenere le previsioni dettate dall'art. 464-bis comma 4 c.p.p.; — per ciò che attiene alle attività demandate ai servizi sociali, la legge dispone che le relative funzioni vengano svolte dagli uffici locali di esecuzione penale esterna (U.E.P.E.), nei modi indicati dall'art. 72 l. 26 luglio 1975, n. 354 e successive modificazioni (art. 141-ter disp. att. c.p.p.); d) Provvedimenti del giudice: — ove necessario al fine di decidere sull'ammissibilità dell'accesso alla sospensione — oltre che per adeguare il programma, gli obblighi e le prescrizioni alla concreta situazione — è prevista, da parte del giudice, la possibilità di acquisizione di ulteriori informazioni. Queste potranno concernere le condizioni personali, familiari, sociali ed economiche del richiedente e potranno essere assunte mediante l'utilizzo della polizia giudiziaria, dei servizi sociali o di altri enti pubblici. Le informazioni acquisite dovranno poi essere comunicate al pubblico ministero ed al difensore (art. 464-bis comma 5 c.p.p.); all'esito dell'acquisizione di informazioni integrative, al giudice è consentito integrare o modificare — con il consenso dell'imputato — il programma di trattamento (art. 464-quater comma 4 c.p.p.); allorquando il giudice, nell'esaminare la richiesta di ammissione alla messa alla prova, venga a conoscenza dell'esistenza di impedimenti di salute del richiedente, che siano tali da riflettersi sul regolare e tempestivo inizio e svolgimento della prova, deve prenderli in considerazione e - anche magari acquisendo approfondimenti ad opera dei servizi sociali o di altri enti competenti – e apportare integrazioni o modifiche al programma, al fine di farlo collimare con le esigenze dell'interessato (Cass. IV, n. 10787/2020); — se residuano dubbi circa la volontarietà della richiesta, al giudice è consentito disporre la comparizione personale del soggetto richiedente (art. 464-quater comma 2 c.p.p.); — laddove non ricorrano gli estremi per una pronuncia ex art. 129 c.p.p., il giudice sente le parti e la persona offesa nel corso della stessa udienza nel corso della quale sia stata formulata la richiesta, ovvero in udienza appositamente convocata ex art. 127 c.p.p. e - in caso di accoglimento - emette ordinanza già nella stessa sede (art. 464-quater comma 1 c.p.p.); — l'ordinanza ammissiva è subordinata alla valutazione prognostica operata dal giudice, il quale — attenendosi ai parametri valutativi dettati dall'art. 133 e reputando consono il programma prospettato — stimi inesistente il pericolo di commissione di ulteriori fatti illeciti (art. 464 quater comma 3 c.p.p.); — sul punto specifico inerente all'ampiezza ed alla natura della valutazione demandata al giudice, segnaliamo come l'ordinanza di sospensione del procedimento con messa alla prova — pronunciata ex art. 464-quater c.p.p. nei confronti di un determinato soggetto — non determini alcuna forma di incompatibilità del medesimo giudicante, in ordine alla prosecuzione del giudizio ordinario nei confronti di eventuali coimputati. Trattasi infatti di provvedimento adottato nella stessa fase processuale, che non postula alcuna penetrante valutazione circa il merito dell'impianto accusatorio, risolvendosi invece nell'esplicazione di una valutazione discrezionale, fondata sulla ponderazione dell'insussistenza di elementi di valutazione e conoscenza ictu oculi deponenti per il proscioglimento del soggetto (oltre che, ovviamente, sulla positiva considerazione del programma di trattamento proposto e sulla favorevole prognosi, circa la possibilità di perpetrazione di nuovi reati). Il Supremo Collegio ha altresì chiarito come la problematica inerente alla impropria espressione preventiva di giudizio possa magari solo porsi nel caso di una vera e propria “esuberanza motivazionale” manifestata nell'ordinanza de qua; in tal caso, però, i rimedi saranno quelli noti dell'astensione per gravi ragioni, ex art. 36 comma 1 lett. h) c.p.p., ovvero della ricusazione per indebita espressione di giudizio, ai sensi dell'art. 37, comma 1, lett. b) c.p.p. (Cass. III, n. 14750/2016); evidenziamo inoltre che - secondo Cass. IV, n. 8158/2020- il giudice che disattenda la richiesta di sospensione in base alla ritenuta impraticabilità di una prognosi favorevole relativamente alla futura condotta di vita dell'interessato, non è contestualmente tenuto a effettuare alcuna valutazione, in ordine alla bontà del programma di trattamento presentato; — il giudice fissa anche il termine per l'adempimento delle prescrizioni e degli obblighi di tipo risarcitorio o riparatorio ed eventualmente — laddove la persona offesa acconsenta — accorda la richiesta rateizzazione delle somme dovute a titolo di risarcimento (art. 464-quinquies comma 1 c.p.p.); — il giudice provvede inoltre, ove necessario, alla modifica delle prescrizioni originariamente indicate, sentito l'interessato ed il p.m. (art. 464 quinquies comma 3 c.p.p.). Si segnala che – secondo Cass. III, n. 5784/2018– deve ritenersi illegittima la modifica del programma di trattamento elaborato ai sensi dell'art. 464 bis c.p.p., laddove alla stessa il Giudice proceda de plano ossia in assenza di consultazione delle parti e senza il consenso dell'imputato. Cass. IV, n. 481/2021 ha precisato come sia indispensabile il consenso dell'interessato, nella determinazione della durata del lavoro di pubblica utilità in misura superiore, rispetto a quella individuata nel programma di trattamento presentato dall'interessato e redatto in unione con l'ufficio esecuzione penale esterna. Il giudice ha poi il potere di procedere ex art. 521 c.p.p. alla riqualificazione del fatto e così di ricondurre l'originaria contestazione entro l'alveo normativo di una fattispecie i cui limiti di pena consentano la sospensione del giudizio con messa alla prova dell'imputato; ciò può però esser fatto solo laddove lo stesso imputato solleciti sia tale riqualificazione, sia la concessione del beneficio che non può essere accordato d'ufficio (Cass. III, n. 8982/2019). Si richiama inoltre il principio di diritto cristallizzato in Cass. II, n. 34878/2019, a mente della quale il giudizio in ordine alla adeguatezza del programma presentato dall'interessato ai fini della sospensione del processo a suo carico, deve esser svolto attenendosi discrezionalmente ai parametri indicati dall'art. 133 c.p. Tale principio è stato di recente ribadito dalla recente pronuncia Cass. III, n. 23934/2024. In tale ottica, il giudice è tenuto anche a espletare tutti gli accertamenti che eventualmente ritenga indispensabili. Il concetto di adeguatezza – sempre attenendosi a quanto indicato dai giudici di legittimità - deve anzitutto essere inteso alla stregua della idoneità del programma a favorire il reinserimento dell'imputato; deve altresì essere commisurato alle condizioni di vita complessive del soggetto. Nel senso che tale programma deve essere anche indice dell'apprezzabilità dello sforzo posto in essere dall'imputato, al fine di eliminare le conseguenze dannose o pericolose del fatto compiuto e di risarcire il danno; — nel corso del periodo di sospensione del procedimento, il giudice procede — seguendo le modalità dettate per il dibattimento — all'acquisizione delle prove non rinviabili, oltre che di quelle che — almeno potenzialmente — presentino l'attitudine a condurre al proscioglimento del soggetto (art. 464-sexies c.p.p.); — positivamente terminato l'esperimento della messa alla prova ed acquisita la relazione dell'Uepe che aveva preso in carico l'imputato, il giudice pronuncia sentenza di estinzione del reato (art. 464-septies comma 1 c.p.p.); — in caso di esito negativo della prova, il giudice pronuncia ordinanza, a mezzo della quale ordina che il procedimento riprenda il suo corso ordinario (art. 464 septies comma 2 c.p.p.) e, in tal caso, l'istanza di sospensione non può essere riproposta (art. 464-novies c.p.p.); — il giudice provvede anche d'ufficio — previa però fissazione di udienza a norma dell'art. 127 c.p.p. e dandone preavviso non inferiore a dieci giorni alle parti ed alla persona offesa — alla revoca dell'ordinanza di sospensione con messa alla prova; in tal caso, cesserà l'esecuzione di prescrizioni ed obblighi, riprendendo il corso del procedimento dalla fase nella quale esso si trovava al momento della sospensione (art. 464-octies commi 2 e 4 c.p.p.), laddove si verifichi tale evenienza, l'istanza di sospensione non può essere riproposta (art. 464-novies c.p.p.). La giurisprudenza ha chiarito come la revoca exart. 464-octies c.p.p. debba essere assunta sempre nel rispetto del principio del contraddittorio; risulta pertanto viziato da nullità generale a regime intermedio exart. 178, comma 1, lett. c), c.p.p.il provvedimento di revoca emesso in assenza di previa fissazione di udienza camerale partecipata (Cass. VI, n. 45889/2019). e) Atti riservati al pubblico ministero: — nel corso delle indagini preliminari, il p.m. ha la possibilità, non l'obbligo — ove naturalmente lo consiglino la tipologia di reato e lo stato delle investigazioni — di avvisare l'interessato della facoltà di chiedere l'ammissione alla prova, nonché del fatto che l'eventuale esito positivo della stessa determinerà l'estinzione del reato (art. 141-bis disp. att. c.p.p.); — nel caso in cui sia formulata istanza di sospensione del procedimento con messa alla prova durante il corso delle indagini preliminari, gli atti vengono dal giudice rimessi al pubblico ministero, affinché questi, nel termine di cinque giorni, esprima consenso o dissenso (art. 464-ter comma 1 c.p.p.); — se vi è consenso, il giudice potrà provvedere ai sensi dell'art. 464-quater c.p.p. e, in tal caso, il pubblico ministero dovrà esprimersi per iscritto, motivando concisamente il parere e formulando anche l'imputazione, che naturalmente era fino a quel momento ancora non definitivamente formata, essendosi in fase di indagini preliminari (art. 464-ter commi 2 e 3 c.p.p.); — nel caso in cui intenda esprimere dissenso, il pubblico ministero sarà tenuto ad esporne le ragioni (art. 464-ter comma 4 c.p.p.); f) Durata ed effetti della sospensione: — l'esperimento costituito dalla messa alla prova del soggetto beneficiario non può avere, ai sensi dell'art. 464-quater comma 5 c.p.p., durata superiore a due anni (laddove si proceda per un reato punito con pena detentiva, sia essa prevista sola o congiunta a pena pecuniaria), ovvero ad un anno (allorquando il reato preveda la sola pena pecuniaria) ed il relativo periodo inizierà a decorrere dalla sottoscrizione del verbale di sottoposizione del soggetto alla messa alla prova (art. 464-quater comma 6 c.p.p.); — la sospensione del procedimento con messa alla prova dell'imputato non comporta l'applicabilità dell'art. 75 comma 3 c.p.p. (art. 464-quater comma 8 c.p.p.); g) Regime di impugnabilità delle decisioni: — l'ordinanza che decide sulla richiesta di sospensione con messa alla prova è ricorribile in Cassazione, ad opera dell'imputato e del pubblico ministero, il quale può anche decidere di agire sulla base di istanza formulata in tal senso dalla persona offesa (art. 464-quater comma 7 c.p.p.); — alla persona offesa è riservata impugnazione per due soli motivi specifici di doglianza, rappresentati dal mancato avviso della fissazione di udienza, ovvero dal fatto di non essere stato ascoltato prima della decisione (art. 464-quater comma 7 c.p.p.); — l'ordinanza di revoca della sospensione — che venga emessa dal giudice all'esito di udienza camerale, fissata proprio per la valutazione dei relativi presupposti — è ricorribile per cassazione (art. 464-octies comma 3 c.p.p.); — l'ordinanza di rigetto emessa in sede di udienza preliminare è reiterabile in fase dibattimentale, prima dell'apertura del dibattimento; si è inoltre scritto che: “Dovrebbero essere impugnabili le decisioni negative non reiterabili. Il pubblico ministero potrà ricorrere contro le decisioni contrastanti con il parere da lui formulato. [...]. Stante la genericità del riferimento, ex art. 570 c.p.p. dovrebbe essere legittimato anche il procuratore generale a prescindere dalla posizione assunta dal procuratore della repubblica” (Spangher, 605). Per ciò che concerne poi le tematiche processuali già affrontate dalla giurisprudenza segnaliamo poi che, secondo il Supremo Collegio, la richiesta di sospensione con messa alla prova — una volta rigettata in sede di udienza preliminare — può essere riproposta in giudizio, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento. Oppure, l'imputato ha facoltà di impugnare in Cassazione la decisione reiettiva del g.u.p. (Cass. II, n. 45338/2015). Sullo specifico tema, si veda anche Cass. V, n. 4586/2015, che ritiene autonomamente impugnabile con ricorso per cassazione tale ordinanza di rigetto, in base alla lettera dell'art. 464-quatercomma 7 c.p.p., che deroga al principio generale di cui all'art. 586 c.p.p., senza però porre differenziazioni fra l'ordinanza di accoglimento e quella di rigetto. Si sono pronunciate nel senso della autonoma ricorribilità in Cassazione dell'ordinanza reiettiva di richiesta di messa alla prova, anche prima della conclusione del relativo giudizio — fra le altre — Cass. V, n. 50021/2015 (che ha ritenuto ricorribile in Cassazione l'ordinanza di rigetto del giudice per le indagini preliminari), nonché Cass. V, n. 24011/2015. Segnaliamo poi altra decisione della Corte di Cassazione, che ha ricavato, dal tenore letterale dell'art. 464-uatercomma 7 c.p.p., la regola della ricorribilità immediata dei provvedimenti emessi dal giudice a seguito di richiesta di sospensione con messa alla prova. E dunque, indifferentemente, tanto dell'ammissione quanto del provvedimento reiettivo (a differenza di quanto invece previsto nel rito minorile, laddove l'art. 28 comma 3 d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448 prevede l'impugnabilità dell'ordinanza reiettiva esclusivamente in uno alla sentenza di primo grado). Il legislatore avrebbe dunque inteso consentire qui una immediata censura — ove ne ricorrano i presupposti — circa i provvedimenti negativi di ammissione alla presente causa estintiva (Cass. VI, n. 36687/2015). Altre decisioni dei Giudici di Piazza Cavour sono invece orientate in senso totalmente opposto, ritenendo la non autonoma ed immediata ricorribilità in Cassazione dell'ordinanza reiettiva suddetta, che diverrebbe così impugnabile solo unitamente alla sentenza di merito (si vedano Cass. V, n. 5656/2015, Cass. V, n. 41033/2015 e Cass. V, n. 5673/2014). Il tema relativo ai rimedi esperibili avverso l'ordinanza di rigetto di sospensione del procedimento con messa alla prova è stato sottoposto al vaglio delle Sezioni Unite, in ragione dell'esistenza di tale radicale contrasto sul tema (per l'ordinanza di rimessione alle S.U., si veda Cass. VI, n. 50278/2015). Le Sezioni Unite della Cassazione, con decisione resa all'esito dell'udienza del 31 marzo 2016, hanno risolto il contrasto stabilendo come l'ordinanza reiettiva della sospensione con messa alla prova non possa essere autonomamente impugnata. Tale decisione è frutto della considerazione della riproponibilità dell'istanza, che può essere nuovamente avanzata prima del completamento delle formalità di apertura del dibattimento in primo grado. Il ricorso immediato avverso l'ordinanza reiettiva di sospensione con messa dovrà pertanto essere dichiarato inammissibile (trattasi diCass. S.U., n. 33216/2016). Le Sezioni Unite hanno dunque risolto il contrasto insorto nella giurisprudenza di legittimità, statuendo che «l'ordinanza reiettiva della richiesta di messa alla prova non è immediatamente impugnabile, bensì suscettibile di costituire motivo di appello unitamente alla sentenza di primo grado, a norma dell'art. 586 c.p.p. Ciò in quanto l'art. 464-quater comma 7 c.p.p. - laddove prevede la possibilità di esperire ricorso per cassazione "contro l'ordinanza che decide sull'istanza di messa alla prova" – ha riguardo esclusivamente al provvedimento di tipo positivo; sarebbe a dire che tale disposizione normativa concerne soltanto l'ordinanza mediante la quale il giudice, accogliendo la richiesta formulata da parte dell'imputato, abbia disposto la sospensione del procedimento con messa alla prova». Con la sentenza n. 6046/2016 la Terza sezione penale (Cass. III, n. 6046/2016) ha affermato che l'ordinanza che decide sull'istanza di sospensione del procedimento con messa alla prova può essere impugnata autonomamente e immediatamente con ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 464-quater, comma 7, c.p.p., esclusivamente se accolta. In caso di rigetto, pur restando la possibilità per l'imputato di riproporre l'istanza fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento, l'ordinanza non è impugnabile di per sé, ma può essere appellata solo insieme alla sentenza di primo grado, secondo quando previsto dall'art. 586 c.p.p. La Corte ha poi escluso la possibilità di far ricorso all'istituto in commento in sede di appello, stante l'inconciliabilità fra la figura delineata dagli artt. 168-bis e ss. ed il sistema delle impugnazioni, nonché in ragione della mancata previsione legislativa di una disciplina specifica sul punto (Cass. IV, n. 43009/2015). Ancora in tema di giudizio di secondo grado, sottolineiamo una pronuncia dei Giudici di legittimità, i quali hanno escluso – una volta che il giudizio di primo grado sia stato celebrato secondo le forme del rito abbreviato – la possibilità di proporre in sede di appello la questione attinente al diniego, asseritamente ingiustificato, opposto dal primo giudice in ordine alla richiesta di sospensione con messa alla prova. Accenniamo brevemente al fatto che la Suprema Corte ha qui rimarcato la natura sostanziale di rito alternativo rivestita dall'istituto in commento; ha poi ricordato la sovrapponibilità, fra i termini che sono previsti per l'accesso al rito abbreviato e quelli che invece disciplinano la sospensione con messa alla prova. Equivalenza cronologica e processuale che – stante la carenza di una letterale previsione normativa in materia – impedisce la possibilità di far trasmigrare il processo dall'uno all'altro di tali riti (si veda Cass. II. n. 22545/2017).Si è comunque formato un vero e proprio contrasto giurisprudenziale, in ordine alla deducibilità in sede di appello del carattere ingiustificato del rigetto – espresso dal giudice di primo grado che abbia proceduto con le forme del rito abbreviato – dell'istanza di sospensione con messa alla prova. Cass. IV, n. 30983/2019 si è infatti espressa nel senso dell'insussistenza di qualsivoglia preclusione (e quindi, per la possibilità che venga prospettata in appello la medesima richiesta già disattesa, laddove se ne reputi infondato il rigetto in primo grado); di contrario avviso Cass. IV, n. 42469/2018, a mente della quale - una volta che sia stato celebrato il giudizio di primo grado secondo le forme del rito abbreviato - l'imputato non può dolersi, in secondo grado, del tenore ingiustificato del rigetto espresso ad opera del giudice di prime cure, in merito alla richiesta di sospensione con messa alla prova. La sospensione del processo con messa alla prova non è applicabile nemmeno nel giudizio di cassazione; neppure è consentito all'imputato instare per un annullamento della sentenza impugnata con rinvio al giudice di merito. La Corte ha chiarito come, alla luce dei principi enunciati da Corte cost. n. 263/2011, non si verifichi qui alcuna lesione del principio di retroattività della «lex mitior», tale da condurre all'applicazione della nuova figura anche in assenza di una disciplina transitoria (Cass. II, n. 26761/2015). Circa l'applicabilità del fenomeno della successione delle leggi penali e, correlativamente, della possibile applicazione retroattiva della lex mitior, richiamiamo anche Cass. IV, n. 45442/15. La decisione si situa sul solco interpretativo che reputa inapplicabile l'istituto della messa alla prova nel giudizio di Cassazione, momento processuale nel quale non è nemmeno consentito sollecitare l'annullamento della sentenza impugnata con rinvio al giudice di merito. L'elemento fondante dell'apparato motivazionale è da ricercare, ancora una volta, nella natura alternativa dell'istituto in commento, rispetto all'accertamento nel merito. Richiamiamo tale decisione, in quanto sono in essa sussunti gli importantissimi principi di diritto fissati da Corte cost. n. 263/2011 e dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, che è forse utile brevemente riportare per esteso (il passaggio da rileggere si trova appunto in C. cost. n. 263/2011 ed è il seguente: «La diversa e più ristretta, portata del principio convenzionale è confermata dal riferimento che la giurisprudenza europea fa alle fonti internazionali e comunitarie e alle pronunce della Corte di giustizia dell'Unione europea. Sia l'art. 15 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, sia l'art. 49 della Carta di Nizza, infatti, non si riferiscono a qualsiasi disposizione penale, ma solo alla legge «che prevede l'applicazione di una pena più lieve»; pertanto: «è da ritenere che il principio di retroattività della lex mitior riconosciuto dalla Corte di Strasburgo riguardi esclusivamente la fattispecie incriminatrice e la pena, mentre sono estranee all'ambito di operatività di tale principio, così delineato, le ipotesi in cui non si verifica un mutamento, favorevole al reo, nella valutazione sociale del fatto che porti a ritenerlo penalmente lecito o comunque di minore gravità»). La decisione reiettiva adottata in fase di indagini preliminari è invece, come sopra accennato, riproponibile prima dell'apertura del dibattimento (tale previsione codicistica è testuale, nell'art. 464 quater comma 9 c.p.p.). Con specifico riguardo alla fase esecutiva, Cass. I, n. 33049/2024 ha affermato che la sentenza che dichiara estinto il reato a seguito dell'esito positivo della messa alla prova, sebbene comporti gli effetti preclusivi previsti dall'art 168-bis, comma 4, c.p. e debba essere registrata per estratto nel casellario giudiziale, non attribuisce la competenza al giudice dell'esecuzione, poiché non contiene disposizioni che richiedano un intervento esecutivo. BibliografiaAmato, La messa alla prova vista dal P.M. - L'impegno è servizi sociali e lavori di pubblica utilità”, in Guida dir., 2014, n. 21 ; Annunziata, Prime criticità applicative in tema di sospensione del processo per la messa alla prova, in Dir. pen. e proc. 2016, n. 1; Diddi, La deflazione giudiziaria. Messa alla prova degli adulti e proscioglimento per tenuità del fatto”, a cura di Triggiani, Torino, 2014; Farini, Tovani, Trinci, “Compendio di diritto processuale penale” V ed., Roma, 2017; Fiorentin, La messa alla prova: il ristoro alle vittime”, in Guida dir., 1, 2014, n. 21; Galati-Randazzo,”La messa alla prova nel processo penale. Le applicazioni pratiche della legge n. 67/2014,” Milano, 2015; Marandola, Il criterio quantitativo della pena per l'ammissione alla messa alla prova, in Giur.it., 2015, n. 10; Murro, “Le Sezioni Unite tornano sulla messa alla prova: risolto il contrasto sul computo delle circostanze aggravanti”, su il Penalista.it, 24 gennaio 2017; Spangher, Procedura penale, Torino, 2014; Trinci, “Opposizione a decreto penale e messa alla prova: la Cassazione cambia idea sulla competenza”, in ilPenalista.it, 8 giugno 2017. |