Codice Civile art. 2059 - Danni non patrimoniali.

Francesco Agnino

Danni non patrimoniali.

[I]. Il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge [185 ss., 598 c.p.; 89 2, 120 c.p.c.].

Inquadramento

Il risarcimento del danno alla persona deve essere integrale, nel senso che deve ristorare interamente il pregiudizio, ma non oltre. Il danno non patrimoniale di cui all'art. 2059, identificandosi con il danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica, costituisce categoria unitaria non suscettiva di suddivisione in sottocategorie. Il riferimento a determinati tipi di pregiudizio, in vario modo denominati (danno morale, danno biologico, danno da perdita del rapporto parentale), risponde ad esigenze descrittive, ma non implica il riconoscimento di distinte categorie di danno.

L'evoluzione giurisprudenziale

I giudici di legittimità, in fattispecie riguardanti danni da circolazione da veicoli e da attività pericolose, con particolare riferimento ai prossimi congiunti della vittima principale dei sinistri, avevano superato i tradizionali limiti risarcitori prima ricondotti all'art. 2059 (ovvero risarcibilità del danno non patrimoniale inteso come danno morale puro, solo laddove venisse accertata in concreto una fattispecie di reato con tutti i suoi elementi costitutivi) ed era giunta a riconoscere la risarcibilità del danno morale ogniqualvolta fosse ravvisabile in astratto una fattispecie di reato, pur nei casi di colpa presunta e non accertata in concreto civilisticamente (Cass. n. 7281/2003; Cass. n. 7282/2003; Cass. n. 7283/2003).

Con successive sentenze, la Cassazione, confermando tale orientamento, aveva affermato l'estensione della nozione di «danno non patrimoniale» inteso come danno da lesione di valori inerenti alla persona «e non più solo come »danno morale soggettivo», e richiesto il ristoro anche dell'irreversibile perdita di un prossimo congiunto all'interno del nucleo parentale garantito e protetto dalla Carta Costituzionale (Cass. n. 8827/2003; Cass. n. 8828/2003)

A sua volta la Corte Costituzionale, aderendo a tale orientamento, aveva ritenuto tramontata la tradizionale affermazione secondo cui il danno non patrimoniale riguardato dall'art. 2059 si identificherebbe con il c.d. danno morale soggettivo aveva impostato concettualmente le categorie del danno in modo nuovo, sostituendo alla vecchia tripartizione 1) danno patrimoniale 2) danno biologico 3) danno morale, un sistema bipolare costituito da: 1) danno patrimoniale (danno emergente, lucro cessante); 2) danno non patrimoniale, (inteso come ogni danno di natura non patrimoniale derivante da lesione di valori inerenti alla persona) nel quale faceva rientrare il danno biologico (ovvero la lesione dell'integrità fisica e psichica della persona) ed il danno morale in senso lato, inteso come il riflesso soggettivo del danno, che a sua volta ricomprendeva il cd danno morale in senso stretto (o patema d'animo transeunte) ed il danno c.d. esistenziale o alla vita di relazione, incidente sulle esplicazioni della personalità nelle formazioni sociali, famiglia, ecc. in rapporto ad interessi costituzionalmente rilevanti (Corte cost. n. 233/2003);

Le due sentenze della Cass. n. 8827/2003 e 8828/2003, ancora, oltre a richiedere che il danno c.d. «esistenziale» fosse allegato e provato, suggerivano anche criteri per la liquidazione delle varie voci del danno non patrimoniale, richiamando il criterio equitativo ex artt. 1226 e 2056 e consentendo il cumulo fra danno morale in senso stretto e danno esistenziale (o alla vita di relazione), ma precisando che, in caso di duplice liquidazione, il «quantum» per il danno morale puro dovesse essere contenuto, stante la «sua più limitata funzione di ristoro della sofferenza contingente che gli va riconosciuta» e l'opportunità di un «giusto equilibrio fra le varie voci che concorrono a determinare il complessivo risarcimento».

In tale direzione, le Sezioni Unite, dopo avere puntualizzato, a livello teorico, che non sono consentite interpretazioni abrogatrici dell'art. 2059 e che il danno non patrimoniale, risarcibile esclusivamente in virtù di tale disposizione di legge, può trovare ristoro solo in tre distinte ipotesi: a) allorché si verta in ipotesi di reato, pur accertato anche presuntivamente secondo le regole civilistiche; b) negli altri casi stabiliti dalla legge; c) qualora sia accertata la lesione di un diritto inviolabile della persona garantito dalla Costituzione, hanno effettuato un deciso revirement nel senso dell'unificazione in un'unica categoria concettuale della nozione di danno non patrimoniale, confermando da un lato, la classificazione del danno nell'ambito della responsabilità aquiliana come bipolare, laddove si afferma: la rilettura costituzionalmente orientata dell'art. 2059, come norma deputata alla tutela risarcitoria del danno non patrimoniale inteso nella sua più ampia eccezione, riporta il sistema della responsabilità aquiliana nell'ambito della bipolarità prevista dal vigente codice civile tra danno patrimoniale (art. 2043) e danno non patrimoniale (art. 2059) indicando dall'altro l'opportunità di liquidare tale pregiudizio come categoria unitaria non suscettibile di suddivisioni in sottocategorie, e ritenendolo comprensivo sia dell'area del c.d. danno biologico sia di quella del c.d. del danno morale in senso lato, inteso come sofferenza psicologica non necessariamente transeunte, senza automatismi e valutando l'effettività del danno e del ristoro nella sua interezza (Cass. n. 26972/2008). 

La natura unitaria ed onnicomprensiva del danno non patrimoniale deve essere interpretata nel senso di attribuire al soggetto danneggiato una somma di denaro che tenga conto del pregiudizio complessivamente subito. E per stabilire se vi siano state duplicazioni nel risarcimento o se, viceversa, questo sia stato erroneamente sottostimato, non si deve fare riferimento ai nomi attribuiti dal giudice al pregiudizio lamentato (biologico, morale, esistenziale), ma esclusivamente al concreto pregiudizio preso in esame. Pertanto, nel procedere all'accertamento ed alla quantificazione del danno risarcibile, dovranno essere distintamente valutati - per gli aspetti non rientranti nel danno biologico, in quanto non conseguenti a lesioni psico-fisiche - sia l'aspetto interiore del danno sofferto, che quello dinamico-relazionale, destinato ad incidere negativamente su tutte le relazioni di vita esterne del soggetto (Cass. n. 9196/2018).

Si è precisato che la tutela riparatoria del danno non patrimoniale, estesa a situazioni giuridiche soggettive di rango costituzionale lese senza condotte integranti reato, può nel caso essere avallata proprio perché ciò che sostanzialmente era stato allegato, risponde alla tutela della libertà di autodeterminazione e di movimento che trova riconoscimento nella superiore normativa della Carta costituzionale; naturalmente, lo scrutinio, proprio del giudice di merito in fatto, deve superare non solo l'identificazione della situazione soggettiva lesa, e in specie della correlativa qualità, ma anche della soglia di sufficiente gravità e serietà, individuata quale limite imprescindibile della tutela risarcitoria (Cass. n. 28244/2029, confermata, nella specie, la decisione dei giudici del merito secondo cui il viaggio di oltre 24 ore su un treno regionale in defatiganti condizioni di carenza di cibo, necessario riscaldamento e possibilità di riposare, costituiva un'offesa effettivamente seria e grave, tale da non tradursi in meri e frammentati disagi, fastidi, disappunti, ansie o altro tipo di generica insoddisfazione).

In particolare, la violazione dei doveri conseguenti allo status di genitore non trova la sua sanzione necessariamente e soltanto nelle misure tipiche previste dal diritto di famiglia ma, nell'ipotesi in cui provochi la lesione di diritti costituzionalmente protetti, può integrare gli estremi dell'illecito civile e dare luogo ad un'autonoma azione volta al risarcimento dei danni non patrimoniali, ai sensi dell'art. 2059 c.c. (Cass. n. 28551/2023, fattispecie relativa alla quantificazione del danno non patrimoniale subito dalla figlia per la totale assenza della figura paterna).

La liquidazione del danno non patrimoniale

Il risarcimento del danno alla persona deve essere integrale, nel senso che deve ristorare interamente il pregiudizio, ma non oltre. Si è già precisato che il danno non patrimoniale di cui all'art. 2059, identificandosi con il danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica, costituisce categoria unitaria non suscettiva di suddivisione in sottocategorie. Il riferimento a determinati tipi di pregiudizio, in vario modo denominati (danno morale, danno biologico, danno da perdita del rapporto parentale), risponde ad esigenze descrittive, ma non implica il riconoscimento di distinte categorie di danno. È compito del giudice accertare l'effettiva consistenza del pregiudizio allegato, a prescindere dal nome attribuitogli, individuando quali ripercussioni negative sul valore-uomo si siano verificate e provvedendo alla loro integrale riparazione.

Il Supremo Collegio ha asserito che al fine di liquidare il danno alla persona il Giudice deve considerare: a) l'invalidità permanente causata dalla lesioni; b) le sofferenze prive di fondamento clinico, c) garantire una parità di trattamento; d) adeguare la valutazione per equivalente al caso concreto senza automatismi di sorta ma secondo il principio juxta alligata et probata (Cass. n. 23778/2014).

In conseguenza di ciò, i Giudici di legittimità evidenziano che il danno biologico deve essere valutato nel suo complesso senza una possibile distinzione di voci; principio che trova applicazione anche per il danno estetico, la sfera sessuale e la vita di relazione. Pertanto qualora la vittima chieda, nello specifico, anche la rifusione di una delle singole voci deve dimostrare che ricorrano delle circostanze del tutto anomale e particolari rispetto alle altre vittime con postumi analoghi.

Sotto altro aspetto, il danno, anche in caso di lesione di valori della persona, non può considerarsi in re ipsa, in quanto ne risulterebbe snaturata la funzione del risarcimento che verrebbe ad essere concesso non in conseguenza dell'effettivo accertamento di un danno bensì quale pena privata per un comportamento lesivo (Cass. n. 26972/2008), ma va provato dal danneggiato secondo la regola generale ex art. 2697.

A tale stregua, (pure) il danno non patrimoniale va dunque sempre allegato e provato, in quanto, l'onere della prova non dipende invero dalla relativa qualificazione in termini di «danno-conseguenza», tutti i danni extracontrattuali dovendo essere provati da chi ne pretende il risarcimento, e pertanto anche il danno non patrimoniale nei suoi vari aspetti, e la prova può essere data con ogni mezzo (Cass. n. 21223/2009).

Per tanto anche se l'attore chieda il risarcimento del danno biologico, del danno morale e di quello esistenziale, intesi come categorie ontologiche differenziate, la liquidazione del pregiudizio non patrimoniale subito dovrà essere in ogni caso unitaria, poiché la sofferenza lamentata è strettamente attinente alla lesione dell'integrità psicofisica.

Tuttavia, è altrettanto vero che detta prova, secondo le stesse Sezioni Unite, può essere fornita per presunzioni (Cass. n. 26972/2008). Trattandosi di pregiudizio (non biologico) a bene immateriale, particolare rilievo assume invero al riguardo la prova presuntiva (Cass. n. 794/2009).

I danni descrittivamente indicati come danno alla vita di relazione, danno da perdita del rapporto parentale, danno estetico sono ontologicamente diversi da quello che consegue alla lesione della integrità psicofisica (danno lato sensu, biologico), perché si collegano alla violazione di un diritto di rilevanza costituzionale diverso dal diritto alla salute tutelato dall'art. 32 Cost., gli uni e l'altro, peraltro, definitivamente trasmigrati — non come autonome categorie di danno, ma come entità descrittive della conformazione che l'unitaria figura del danno non patrimoniale di volta in volta assume in concreto — nell'area normativa dell'art. 2059 (Cass. n. 8827/2003; Cass. n. 8828/2003; Corte cost 233/2003), dopo che per anni avevano trovato copertura nell'ambito dell'art. 2043, in combinato disposto con i diritti fondamentali costituzionalmente tutelati (Cass. n. 7470/2002).

Il principio della unicità del risarcimento è destinato a coniugarsi, pertanto, con lo speculare principio della sua integralità.

Peraltro, sotto il profilo liquidatorio la Cassazione ha statuito che le tabelle milanesi sono da considerare come parametro ai fini della valutazione equitativa del danno biologico. Se però il giudice del merito applica altre tabelle, l'eventuale differenza nella liquidazione del danno può essere richiesta in sede di legittimità con l'invocazione della violazione di legge solo se la stessa questione è stata posta già nel giudizio di merito e se le dette tabelle milanesi sono state allegate nel detto giudizio di merito (Cass., n. 8045/2016).

Ad ogni modo, il danno non patrimoniale da lesione dei diritti fondamentali, tipico danno-conseguenza, non è in re ipsa alla lesione ma deve essere allegato e provato da chi chiede il relativo risarcimento anche se è consentito il ricorso a valutazioni prognostiche e a presunzioni sulla base di elementi obiettivi che è onere del danneggiato fornire. Anche il danno all'onore e alla reputazione non è in re ipsa, identificandosi il danno risarcibile non con la lesione dell'interesse tutelato dall'ordinamento ma con le conseguenze di tale lesioni, sicché la sussistenza di siffatto nocumento deve essere oggetto di prova, anche attraverso presunzioni (Cass. n. 9385/2018; Cass. n. 12855/2018, a mente della quale il danno non patrimoniale, anche quando sia determinato dalla lesione di diritti inviolabili della persona, come nel caso di lesione al diritto alla reputazione, non è in re ipsa ma costituisce un danno conseguenza, che deve essere allegato e provato da chi né domandi il risarcimento).

L'impossibilità di compiere determinati atti fisici non può dare luogo alla personalizzazione del danno in quanto tale pregiudizio costituisce la base del sistema di ristoro tabellare. Il danno morale, non suscettibile di accertamento medico-legale, deve essere considerata una voce autonoma rispetto al danno alla salute e deve essere oggetto di autonoma tutela ma, qualora tale voce non venga accertata, il Giudice deve liquidare il danno biologico epurato dall'aumento previsto dalle Tabelle del Tribunale di Milano. Il danno morale può essere dimostrato attraverso massime di esperienza e, comunque, pare ragionevole l'aumento previsto dalla Tabelle del Tribunale di Milano che poggiano su una proporzionalità diretta con la gravità della lesione (Cass. n. 25164/2020).

Analogamente, in presenza di un danno permanente alla salute, la misura standard del risarcimento prevista dalla legge o dal criterio equitativo uniforme adottato dagli organi giudiziari di merito (oggi secondo il sistema c.d. del punto variabile) può essere aumentata, nella sua componente dinamico-relazionale, solo in presenza di conseguenze dannose del tutto anomale, eccezionali ed affatto peculiari: le conseguenze dannose da ritenersi normali e indefettibili secondo l'id quod plerumque accidit (ovvero quelle che qualunque persona con la medesima invalidità non potrebbe non subire) non giustificano alcuna personalizzazione in aumento del risarcimento. Nel caso di lesione della salute, costituisce, pertanto, duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione del danno biologico - inteso, secondo la stessa definizione legislativa, come danno che esplica incidenza sulla vita quotidiana del soggetto e sulle sue attività dinamico relazionali - e del danno cd. esistenziale, appartenendo tali c.d. "categorie" o "voci" di danno alla stessa area protetta dalla norma costituzionale (l'art. 32 Cost.).Non costituisce duplicazione risarcitoria, di converso, la differente ed autonoma valutazione compiuta con riferimento alla sofferenza interiore patita dal soggetto in conseguenza della lesione del suo diritto alla salute, come stabilito dalla Corte costituzionale con la sentenza Corte cost. n. 235/2014, punto 10.1 e ss. (ove si legge che la norma di cui all'art. 139 cod. ass. "non è chiusa anche al risarcimento del danno morale"), e come oggi normativamente confermato dalla nuova formulazione dell'art. 138, lett. e), cod. ass., introdotta - con valenza evidentemente interpretativa - dalla legge di stabilità del 2016 (Cass. n. 24773/2020).

In tema di risarcimento del danno non patrimoniale subìto dalle persone giuridiche, il pregiudizio arrecato ai diritti immateriali della personalità costituzionalmente protetti, ivi compreso quello all'immagine e alla reputazione commerciale , non costituendo un mero danno-evento, e cioè in re ipsa, deve essere oggetto di allegazione e di prova, anche tramite presunzioni semplici (Cass. n. 19551/2023, in applicazione del principio, la S.C. ha confermato la decisione di merito che – pur ritenendo lesive dell'immagine della società attrice le numerose mail inviate da un dipendente licenziato ad interlocutori istituzionali, lamentando l'adozione di comportamenti non etici da parte dell'ente datoriale – aveva rigettato la domanda risarcitoria, difettando l'allegazione del danno conseguenza, anche con il ricorso a presunzioni semplici, per mancanza di elementi dai quali ricavare che gli interlocutori istituzionali della società avessero avuto effettiva contezza delle recriminazioni dell'ex dipendente, con conseguente pregiudizio per l'immagine societaria, quali affari o relazioni commerciali non conclusi in conseguenza della condotta diffamatoria realizzata).

Ed ancora, il danno non patrimoniale da vacanza rovinata, secondo quanto espressamente previsto in attuazione della direttiva n. 90/314/CEE (ratione temporis applicabile, e successivamente abrogata dalla direttiva n. 2015/2302/UE), costituisce uno dei casi previsti dalla legge ai sensi dell'art. 2059 c.c., ed è, pertanto, risarcibile all'esito del riscontro della gravità della lesione e della serietà del danno, da apprezzarsi alla stregua del bilanciamento del principio di tolleranza delle lesioni minime e della condizione concreta delle parti (Cass. n. 26142/2023, nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata, che aveva risarcito il danno non patrimoniale patito dai turisti di un campeggio in conseguenza dell'incendio propagatosi da un terreno limitrofo, indipendentemente dal riscontro della ricorrenza di un cd. pacchetto turistico di cui alla direttiva 90/314/CEE, attuata con il d.lgs. n. 111 del 1995).

Il giudice, chiamato a liquidare il danno da perdita del rapporto parentale, che comprende al suo interno il danno morale e la compromissione sul piano relazionale, derivanti dalla morte del congiunto, facendo contemporaneamente ricorso allo strumento tabellare e al proprio potere di valutazione equitativa, è tenuto ad indicare gli elementi di calcolo impiegati, così da rendere manifesto il percorso logico e giuridico compiuto, per giungere ad una liquidazione del danno, che tenga debitamente conto degli elementi di prova, emersi nel corso del giudizio (Cass. n. 761/2025).

Il danno morale

La Suprema Corte, successivamente alla pronuncia Cass. S.U., n. 26972/2008, ribadisce la autonomia ontologica del danno morale, autonomia che deve essere considerata in relazione alla diversità del bene protetto, che attiene alla sfera della dignità morale delle persone e pure attiene ad un diritto inviolabile della persona (Cass. n. 29191/2008; Cass. n. 28407/2008; Cass. n. 379/2009; Cass. n. 479/2009; Cass. n. 557/2009; Cass. n. 16197/2015).

Il positivo riconoscimento e la concreta liquidazione, in forma monetaria, dei pregiudizi sofferti dalla persona a titolo di danno morale mantengono integralmente la propria autonomia rispetto ad ogni altra voce del c.d. danno non patrimoniale, non essendone in alcun modo giustificabile l'incorporazione nel c.d. danno biologico, trattandosi (con riguardo al danno morale) di sofferenza di natura del tutto interiore e non relazionale, meritevole di un compenso aggiuntivo al di là della personalizzazione prevista per la compromissione degli aspetti puramente dinamico -relazionali della vita individuale (Cass. n. 32935/2022).

In termini precisi si è osservato che ogni vulnus arrecato a valori tutelato dalla Carta costituzionale si caratterizza per la sua doppia dimensione del danno relazione/proiezione esterna dell'essere, e del danno morale/interiorizzazione intimistica della sofferenza (Cass. n. 7766/2016).

Anche il Legislatore, peraltro, per ben due volte, sia pure in normative settoriali, torna a parlare di danno morale come autonoma categoria di danno: infatti, con l'introduzione dell'art. 5 d.P.R. n. 37/2009, dettato in tema di risarcimento del danno non patrimoniale al personale appartenente alla carriera militare impiegato in missioni all'estero, expressis verbis si qualifica il danno morale come autonoma categoria di danno non patrimoniale calcolato in percentuale sul danno biologico, esattamente ciò che le Sezioni Unite ritengono non possibile; e successivamente, con l'art. 1 d.P.R. n. 181/2009 in tema di accertamento e determinazione del danno per le vittime del terrorismo, non solo si tengono distinte le due voci di danno biologico e morale, ma si offre un'autonoma definizione normativa del danno morale stesso.

Deve tuttavia trattarsi di sofferenza soggettiva in sé considerata, non come componente di più complesso pregiudizio non patrimoniale. Ricorre il primo caso ove sia allegato il turbamento dell'animo, il dolore intimo sofferti, ad esempio, dalla persona diffamata o lesa nella identità personale, senza lamentare degenerazioni patologiche della sofferenza. Ove siano dedotte siffatte conseguenze, si rientra nell'area del danno biologico, del quale ogni sofferenza, fisica o psichica, per sua natura intrinseca costituisce componente. Determina quindi duplicazione di risarcimento la congiunta attribuzione del danno biologico e del danno morale nei suindicati termini inteso, sovente liquidato in percentuale (da un terzo alla metà) del primo. Esclusa la praticabilità di tale operazione, dovrà il giudice, qualora si avvalga delle note tabelle, procedere ad adeguata personalizzazione della liquidazione del danno biologico, valutando nella loro effettiva consistenza le sofferenze fisiche e psichiche patite dal soggetto leso, onde pervenire al ristoro del danno nella sua interezza (Cass. S.U., n. 26972/2008).

Il danno tanatologico

Relativamente al risarcimento iure hereditario del danno non patrimoniale subito dalla vittima, la giurisprudenza di legittimità aveva affermato il principio di diritto della irrisarcibilità per via ereditaria del danno da morte immediata (Cass. n. 6754/2011; Cass. n. 2654/2012; Cass. n. 13672/2010).

Il principio, come è noto, era stato espressamente elaborato da giudice delle leggi che aveva escluso profili di illegittimità costituzionale dell'art. 2043, in relazione al c.d. «danno biologico da morte», in dipendenza del limite strutturale della responsabilità civile, nella quale sia l'oggetto del risarcimento che la liquidazione del danno devono riferirsi non alla lesione per se stessa, ma alle conseguenti perdite a carico della persona offesa (Corte cost. 372/1994).

Di seguito (Cass. n. 8360/2010) i giudici di legittimità ritengono sia configurabile la trasmissibilità iure hereditatis del danno non patrimoniale, avuto riguardo alla circostanza che la morte, che in questo caso è intervenuta dopo mezz'ora dall'evento, determinerebbe la nascita della pretesa risarcitoria che spetta, appunto, agli eredi.

Sembra superato quell'orientamento giurisprudenziale restrittivo, che prevedeva la risarcibilità del danno solo nel caso di sopravvivenza della vittima in vita per un tempo apprezzabile.

Invero, danno biologico e morale iure hereditario sono risarcibili quante volte si verifichi uno spatium vivendi del defunto (Cass. n. 15491/2014).

Con riferimento a simili fattispecie, negli ultimi anni la Corte di Cassazione è pervenuta ad un orientamento secondo cui nel caso di danno per morte, la vittima consegue il diritto al risarcimento del danno biologico e del danno morale c.d. terminali, in tutti i casi in cui fra il fatto illecito e il decesso sia intercorso un apprezzabile, lasso di tempo (Cass. n. 21976/2007).

Infatti, in virtù della incompatibilità «ontologica» tra lesione della salute e perdita della vita (Cass. n. 2349/2004; Cass. n. 7632/2003), nell'ipotesi di sopravvivenza quodam tempore della vittima il danno biologico è trasmissibile non perché la vittima sia sopravvissuta (il che non avrebbe senso), ma perché ha subìto un danno giuridicamente apprezzabile, danno che invece manca allorché la morte sia immediata o quasi.

Quel che rileva, dunque, ai fini della risarcibilità del danno biologico agli eredi della vittima, nel caso di sopravvivenza quoad tempore di quest'ultima, non è se la sopravvivenza sia stata lunga o breve, ma se la vittima, nel tempo intercorso tra le lesioni e la morte, abbia patito un danno biologico: abbia, cioè, avuto la possibilità di apprezzare se stessa e la propria esistenza come irrimediabilmente vulnerate e compromesse (Cass. n. 1704/1997).

Con riferimento a simili fattispecie, negli ultimi anni la Corte di Cassazione è pervenuta ad un orientamento secondo cui nel caso di danno per morte, la vittima consegue il diritto al risarcimento del danno biologico e del danno morale c.d. terminali, in tutti i casi in cui fra il fatto illecito e il decesso sia intercorso un apprezzabile, lasso di tempo (Cass. n. 21976/2007).

In altri termini, è stato ammesso che la vittima può trasmettere agli eredi l'acquisito diritto al risarcimento del danno alla salute sofferto nel periodo intercorso tra la lesione e la morte (c.d. danno biologico terminale). Occorre però che la vittima sia sopravvissuta per un apprezzabile periodo di tempo (Cass. S.U., n. 26972/2008 che escluso la risarcibilità nel caso di morte immediata o intervenuta a breve distanza dall'evento lesivo, il risarcimento del danno biologico per le perdita della vita, riconoscendola per la perdita della salute solo se il soggetto sia rimasto in vita per un tempo apprezzabile, ed a questo lo commisura, osservando poi come venga in considerazione il tema della risarcibilità della sofferenza psichica, di massima intensità anche se di durata contenuta, nel caso di morte che segua le lesioni dopo breve tempo: sofferenza che, non essendo suscettibile di degenerare in danno biologico, in ragione del limitato intervallo di tempo tra lesioni e morte, non può che essere risarcita come danno morale, nella sua nuova più ampia accezione).

Il quadro testé delineato è stato fortemente criticato, da altra giurisprudenza che è pervenuta alla conclusione secondo la quale la perdita della vita non può lasciarsi, invero, priva di tutela (anche) civilistica, poiché il diritto alla vita è altro e diverso dal diritto alla salute, così che la sua risarcibilità costituisce realtà ontologica ed imprescindibile eccezione al principio della risarcibilità dei soli danni conseguenza (Cass. n. 1361/2014).

Le sezioni unite che hanno ritenuto la non risarcibilità iure hereditatis del danno dal perdita del bene vita, immediatamente conseguente alle lesioni derivanti da un fatto illecito; ribadendo, al contrario, la risarcibilità del danno da lesione del bene vita in capo al defunto, con conseguente trasmissibilità mortis causa dell'obbligazione risarcitoria agli eredi, qualora la morte segua dopo un apprezzabile lasso di tempo (Cass. n. 15350/2015).

Le sezioni unite sottolineano la primaria esigenza compensativa e consolatoria della responsabilità civile, affermando l'impossibilità di ricollegare la perdita di un bene ad un soggetto che logicamente con la morte diviene “assente” nel mondo del diritto.

La Corte si preoccupa, poi, di respingere l'argomento secondo cui l'irrisarcibilità di tale danno contrasterebbe con la coscienza sociale. Dopo aver evidenziato il rilievo che essa assume sul piano assiologico, senza comunque costituire criterio assoluto di interpretazione del diritto positivo, i giudici hanno sottolineato l'inopportunità di procedere ad una liquidazione del danno tanatologico perché finirebbe per far conseguire più denaro ai congiunti, già titolari iure proprio del diritto al risarcimento del danno da lesione del rapporto parentale qualora intrattenessero relazioni di tipo familiare giuridicamente apprezzabili con la vittima (Trib. Rimini 17 giugno 2014), con una duplicazione delle poste di danno. Inoltre il bene vita sarebbe tutelato dall'ordinamento penale, con conseguente applicazione del diritto al risarcimento dei danni non patrimoniali ex art. 185 c.p. in caso di illecito dannoso che costituisca persino reato.

Anche inconferente, per il Supremo Collegio, la posizione di quanti sostengono il paradosso della risarcibilità del danno biologico da lesioni gravissime e l'irrisarcibilità del danno da illecita privazione della vita, essendo l'assenza di tutela civile compensata dalla sanzione penale.

Infine, le Sezioni Unite escludono che possa procedersi alla risarcibilità del danno tanatologico inteso come danno evento, posto che l'intero sistema della responsabilità civile si caratterizza per la riparazione dei soli danni conseguenza di una condotta civilmente illecita, non potendo questo principio subire eccezioni di sorta.

Da quanto precede, discende la risarcibilità del solo danno morale a ristoro della sofferenza psichica provata dalla vittima di lesioni fisiche, alle quali sia seguita dopo breve tempo la morte, che sia rimasta lucida durante l'agonia in consapevole attesa della fine (Cass. S.U., n. 26972/2008).

Qualora il decesso è stato causato dalle lesioni partite dalla vittima, il de cuius acquista e trasmette agli eredi il diritto al risarcimento del danno biologico, ma soltanto di quello da invalidità temporanea: ed infatti, se la malattia causata dalle lesioni non guarisce, ma conduce la vittima alla morte, non è concepibile lo stabilizzarsi dei postumi, e di conseguenza non è configurabile alcun danno da invalidità permanente.

Ha osservato, sul punto, il giudice di legittimità che la nozione medico legale di «invalidità permanente» presuppone che la malattia sia cessata, e che l'organismo abbia riacquistato il suo equilibrio, magari alterato, ma pur sempre stabile. Pertanto, nell'ipotesi di morte causata dalle lesioni, non è configurabile alcuna invalidità permanente in senso medico legale, poiché la malattia in questo caso non si è risolta con esiti permanenti, ma ha determinato la morte dell'individuo (Cass. n. 3549/2004).

Il danno da perdita del rapporto parentale

In caso di morte di un congiunto, la stessa nozione di risarcimento per equivalente — e cioè di un intervento a carico del danneggiante che serva a rimettere il patrimonio del soggetto leso nella situazione in cui si sarebbe trovato se non fosse intervenuto l'atto illecito — ha senso solo con riferimento alle conseguenze di carattere patrimoniale del fatto pregiudizievole, predominante essendo invece la funzione consolatoria dell'erogazione pecuniaria (non a caso tradizionalmente definita denaro del pianto), inattuabile, per forza di cose, nei confronti del defunto (Cass. n. 6754/2011).

Peraltro, in tema di danno non patrimoniale — dovuto ai parenti della vittima del delitto di cui all'art. 589 c.p.non è necessaria la prova specifica della sussistenza di tale danno, ove sia esistito tra di essi un legame affettivo di particolare intensità, potendo a tal fine farsi ricorso anche a presunzione.

In tali casi (uccisione di un prossimo congiunto) ciò che rileva ai fini della risarcibilità del danno non patrimoniale è, fondamentalmente, il legame affettivo tra i congiunti, perfettamente idoneo a fondare, già di per sé (salvo prova contraria), la legittimazione attiva a pretendere il danno da morte del congiunto.

Con la conseguenza che il peculiare rapporto di ciascun familiare con la vittima, l'intensità del vincolo familiare, le abitudini di vita, le effettive sofferenze individualmente patite, l'eventuale sussistenza di una situazione di convivenza tra i soggetti in questione ed ogni altro elemento della fattispecie, possono incidere esclusivamente sul quantum, in modo da rendere la somma riconosciuta adeguata al particolare caso concreto.

Il fatto illecito, costituito dalle gravissime lesioni patite dal congiunto, dà luogo ad un danno non patrimoniale presunto, consistente nella conseguenze pregiudizievoli sul rapporto parentale, allorché colpisce soggetti legati da uno stretto vincolo di parentela, restando irrilevante, per l'operare di detta presunzione, la sussistenza di una convivenza tra gli stretti congiunti e la vittima del sinistro (Cass. n. 12146/2016).

Può allora ritenersi che il danno da perdita del rapporto parentale, conseguenza della lesione dei diritti costituzionali afferenti alla famiglia trova sufficiente supporto probatorio nella mera allegazione del fatto storico dell'uccisione del congiunto: provato il fatto-base della sussistenza del rapporto parentale con la vittima dell'illecito, può ritenersi provato presuntivamente non solo il dolore, ma anche che la privazione di quel rapporto determini negative ripercussioni interne ed esterne al nucleo familiare, ossia per l'appunto il danno da perdita del rapporto parentale, sicché il risarcimento di tale profilo di danno non pone ulteriori oneri probatori a carico dei superstiti danneggiati (dovendosi precisare che tale danno non può mai essere in re ipsa: Cass. n. 1295/2016).

Pertanto, i parenti della vittima possono far valere iure proprio il danno ingiusto, patrimoniale e non patrimoniale, e possono domandarlo come danno conseguenza, valorizzando le prove indiziarie ed i fatti di comune esperienza in relazione ad un rapporto parentale costituzionalmente tutelato.

Tuttavia, sotto il profilo probatorio si è precisato che in tema di risarcimento del danno da lesione o perdita del rapporto parentale, in caso di assenza del rapporto di parentela, non è sufficiente l'allegazione della mera convivenza, ma è necessaria l'allegazione della lesione di un legame affettivo (Cass. n. 31867/2023, in applicazione del principio, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva rigettato la domanda di risarcimento del danno parentale proposta dal convivente della madre del deceduto, sul rilievo che non era stata allegata l'esistenza di una relazione affettiva, dal momento che i testi escussi – nel processo penale a carico dei medici penitenziari – avevano dichiarato che il defunto ragazzo non gradiva tornare a casa o comunque tornare a vivere con il patrigno che lo aveva fatto oggetto di vessazioni).

Quando la liquidazione del danno non patrimoniale da uccisione d'un congiunto avvenga in base ad un criterio 'a forbice', che preveda un importo variabile tra un minimo ed un massimo, è consentito al giudice di merito liquidare un risarcimento inferiore al minimo solo in presenza di circostanze eccezionali e peculiari al caso di specie (Cass. n. 26440/2022, la corte ha ritenuto che tali non sono né l'età della vittima, né quella del superstite, né l'assenza di convivenza tra l'una e l'altro, circostanze tutte che possono solo giustificare la quantificazione del risarcimento all'interno della fascia di oscillazione tra minimo e massimo tabellare).

In tema di danno da lesione del rapporto parentale patito dal minore infante, l'esistenza di un pregiudizio subito dal nipote per i danni alla persona riportati dal nonno configura un danno futuro soltanto eventuale, come tale non risarcibile, non potendosi ritenere sussistente, in difetto dell'attualità del rapporto, una presunzione di afflittività conseguente alle menomate condizioni fisiche di questi (Cass. n. 13504/2023).

In tema di risarcimento del danno da perdita del rapporto parentale, la presunzione iuris tantum di esistenza del pregiudizio - configurabile per i membri della famiglia nucleare "successiva" (coniuge e figli) - si estende ai membri della famiglia "originaria" (genitori e fratelli), senza che assuma ex se rilievo il fatto che la vittima ed il superstite non convivessero o che fossero distanti; tale presunzione impone al terzo danneggiante l'onere di dimostrare che vittima e superstite fossero tra loro indifferenti o in odio, con conseguente insussistenza in concreto dell'aspetto interiore del danno risarcibile (c.d. sofferenza morale) derivante dalla perdita, ma non riguarda, invece, l'aspetto esteriore (c.d. danno dinamico-relazionale), sulla cui liquidazione incide la dimostrazione, da parte del danneggiato, dell'effettività, della consistenza e dell'intensità della relazione affettiva, desunta dalla coabitazione o da altre allegazioni fornite di prova (Cass. n. 5769/2024).

In materia di responsabilità civile, nell'ipotesi di concorso della vittima di un illecito mortale nella produzione dell'evento dannoso, il risarcimento del danno non patrimoniale da perdita del rapporto parentale, patito "iure proprio" dai familiari del deceduto, deve essere ridotto in misura corrispondente alla parte di danno cagionato da quest'ultimo a sé stesso, ma ciò non per effetto dell'applicazione dell'art. 1227, comma 1, c.c., bensì perché la lesione del diritto alla vita colposamente cagionata da chi la vita perde non integra un illecito della vittima nei confronti dei propri congiunti, atteso che la rottura del rapporto parentale ad opera di una delle sue parti non può considerarsi fonte di danno nei confronti dell'altra, costituendo una conseguenza di una condotta non antigiuridica (Cass. n. 16413/2024, in applicazione del principio, la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza impugnata che ha liquidato per intero il danno da perdita del rapporto parentale in favore dei congiunti, senza effettuare alcuna decurtazione per il concorso di colpa della vittima primaria, affermando trattarsi di "soggetti terzi rispetto all'illecito").

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