Regio decreto - 16/03/1942 - n. 267 art. 1 - Imprese soggette al fallimento e al concordato preventivo 1 2 .
Sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori che esercitano una attivita' commerciale, esclusi gli enti pubblici. Non sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori di cui al primo comma, i quali dimostrino il possesso congiunto dei seguenti requisiti: a) aver avuto, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito della istanza di fallimento o dall'inizio dell'attivita' se di durata inferiore, un attivo patrimoniale di ammontare complessivo annuo non superiore ad euro trecentomila; b) aver realizzato, in qualunque modo risulti, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell'istanza di fallimento o dall'inizio dell'attivita' se di durata inferiore, ricavi lordi per un ammontare complessivo annuo non superiore ad euro duecentomila; c) avere un ammontare di debiti anche non scaduti non superiore ad euro cinquecentomila. I limiti di cui alle lettere a), b) e c) del secondo comma possono essere aggiornati ogni tre anni con decreto del Ministro della giustizia, sulla base della media delle variazioni degli indici ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati intervenute nel periodo di riferimento.
[1] Articolo modificato dall'articolo unico della legge 20 ottobre 1952, n. 1375 ; successivamente sostituito dall'articolo 1 del D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5 e, da ultimo, dall'articolo 1 del D.Lgs. 12 settembre 2007 n. 169, con la decorrenza indicata nell'articolo 22 del medesimo D.Lgs. 169/2007. [2] La Corte costituzionale, con sentenza 22 dicembre 1989, n. 570, aveva dichiarato l'illegittimità costituzionale del secondo comma del presente articolo, nel testo precedente la modifica, nella parte in cui prevedeva che quando è mancato l'accertamento ai fini dell'imposta di ricchezza mobile, sono considerati piccoli imprenditori gli imprenditori esercenti un'attività commerciale nella cui azienda risulta investito un capitale non superiore a lire novecentomila. InquadramentoIl processo esecutivo speciale concorsuale è stato dal legislatore destinato solo ed esclusivamente a risolvere quelle situazioni di particolare complessità e di potenziale conflitto esecutivo che si verificano allorquando il debitore è un imprenditore commerciale ed il suo patrimonio risulta essere incapiente rispetto alle obbligazioni che il medesimo ha assunto, tanto da potersi definire insolvenza (Pajardi-Paluchowski, 52). In realtà, l'ultima modifica dell'art. 1 l.fall., operata con il correttivo, ha cercato di ridurre ad unità il problema della fallibilità, introducendo in modo chiaro il principio secondo cui falliscono, di regola, tutti gli imprenditori commerciali, salvo, poi, nel secondo comma del detto articolo, indicare che esistono delle soglie al di sotto delle quali l'imprenditore non è sottoponibile a fallimento, giacché l'ordinamento non ritiene che in tali ultimi casi la insolvenza non meriti il costo, il tempo e l'impegno che le procedure fallimentari necessitano. La norma dettata dal comma 2 del menzionato art. 1 l.fall. è stata costruita, pertanto, come una eccezione alla regola generale formulata nel primo comma del medesimo articolo, sicché, secondo la versione normativa partorita dal c.d. decreto correttivo, spetta ora al debitore l'onere di provare di non possedere i requisiti soggettivi di «fallibilità». La qualità di imprenditore commercialeVa subito chiarito che chi fallisce è l'imprenditore e non già l'impresa (Bonocore; Satta, 1960, 116; Ragusa Maggiore, 1990; Pajardi, 1496; Ricci, 151 e 113). Ebbene, il decreto correttivo ha oggi puntualizzato che sono soggetti al fallimento e alle disposizioni sul concordato preventivo gli imprenditori che esercitano un'attività commerciale, esclusi gli enti pubblici. Ed invero, la definizione di imprenditore commerciale è dettata dal combinato disposto degli artt. 2082 e 2195 c.c.: il primo, come è noto, statuisce che «è imprenditore chi esercita professionalmente un'attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni e servizi»; ed il secondo precisa che si intendono commerciali gli imprenditori che esercitano un'attività industriale diretta alla produzione di beni ovvero di servizi ovvero un'attività intermediaria nella circolazione dei beni, un'attività di trasporto per terra, per acqua e per aria ed infine un'attività bancaria o assicurativa o altre attività ausiliarie alle precedenti. Così circoscritto il perimetro della definizione delineato dal legislatore, in dottrina (Pajardi-Paluchowski, cit., 53). In realtà, si tratta principalmente di un solo requisito, e cioè il primo, l'attività economica diretta alla produzione e allo scambio, rispetto al quale gli altri due indicati nel testo rappresentano dei meri corollari ovvero attributi qualificatori: così, anche Satta, 1996, 17. In giurisprudenza cfr. anche Cass. n. 5589/1983, la quale ha sottolineato come sia sufficiente che l'attività commerciale sia sistematica e continua, seppur con una rudimentale e limitata predisposizione di documenti, denaro ed altro e non richiede se non scarsi mezzi personali e materiali), è stato affermato che tre sono i requisiti principali della figura dell'imprenditore: l'attività economica diretta alla produzione o alla scambio di beni e servizi; l'organizzazione dell'attività; e la professionalità della stessa. La preoccupazione del legislatore che traspare dalle norme sopra richiamate non va letta in una chiave solo negativa: essa è diretta a escludere dalla categoria concettuale di imprenditore chi occasionalmente e senza alcuna programmazione produttiva compie un atto economico, la cui esecuzione è pur sempre posta in essere da un imprenditore. Ma allora il vero discrimen risiede nella «funzione» dell'atto economico posto in essere in rapporto al programma di attività del soggetto economico, e alla luce di ciò devono pertanto essere risolti i casi limite (secondo la giurisprudenza accreditata il requisito della professionalità non richiede necessariamente quello della continuità, dunque esso può caratterizzare anche un'attività stagionale, che come tale è fallibile: così Cass. n. 2321/1997; in dottrina, in senso conforme anche Ferri, 2010; Ferrara Borgioli, 115. Da soggiungere che in tal senso deve essere risolta anche la ulteriore questione della fallibilità dell'imprenditore in relazione al compimento da parte di quest'ultimo di un unico affare, giacché non importa una pretesa qualifica permanente del soggetto economico, perché rileva esclusivamente la funzione di quell'unico atto (Ricci, 46; in giurisprudenza, cfr. Cass. n. 4577/1976, in Foro it., 1977, I, 369). In ordine poi al limite negativo «oggettivo», va precisata la sicura esclusione del lavoratore intellettuale, anche se la organizzazione del lavoro risulta essere complessa e strutturata, giacché ciò che manca in questo caso è la produzione e lo scambio di servizi, e ciò anche in considerazione della circostanza che il lavoro intellettuale non è configurabile come servizio ai sensi dell'art. 2238 c.c. (si pensi anche alle grandi strutture moderne degli studi professionali; cfr., in giurisprudenza Trib. Bologna 2 luglio 1977, in Dir. fall. 1977, II, 1024. Secondo Galgano, 1991, 15, il criterio discretivo sarebbe fornito dall'offerta di servizio in proprio ( non fallibile) e l'offerta del servizio altrui (astrattamente fallibile). Va peraltro aggiunto che la legge esige come necessario e sufficiente, ai fini della dichiarazione di fallimento, l'esercizio dell'attività, non bastando da sola la iscrizione nel registro delle imprese. In realtà, la iscrizione nel registro di regola costituisce una presunzione semplice della sussistenza in capo al soggetto iscritto della natura di imprenditore commerciale (Pajradi, 1500). In ordine, infine, al profilo della necessaria sussistenza dello scopo di lucro per la qualifica di un'attività come imprenditoriale e più in particolare, per quanto qui interessa, imprenditoriale commerciale, si deve reputare sufficiente la sussistenza dello scopo di lucro in astratto per un determinato tipo di attività. In ordine alla irrilevanza dello scopo di lucro che attiene solo al movente soggettivo che spinge l'imprenditore ad intraprendere attività economica, si legga Cass. n. 5766/1994. La giurisprudenza ha avuto atteggiamenti dapprima alterni: così, Trib. Roma 7 luglio 1962, in Dir. fall., 1962, II, 593 aveva escluso la fallibilità di una organizzazione a scopi esclusivamente culturali; ma Trib. Milano 17 giugno 1994, in Foro it., 1994, I, 3445 aveva assoggettato a fallimento una formazione collettiva cosiddetta non profit poiché lo status di imprenditore commerciale si può acquistare anche quando vi sia obbligatoria ed intenzionale devoluzione degli utili a fini altruistici umanitari ovvero quando si tenda semplicemente ad una gestione economica alla pari. Va aggiunto che la giurisprudenza ha correttamente affermato anche la conciliabilità dell'intento mutualistico proprio delle cooperative con il lucro, con la conseguenza che le società cooperative che hanno per oggetto un'attività commerciale sono soggette a fallimento, anche nella ipotesi in cui detta attività non sia contemplata con oggetto sociale, ma sia stata solo in concreto esercitata (così Cass. S.U., n. 766/1969; Cass. S.U., 12 marzo 1986). L'imprenditore individualeL'attività imprenditoriale può essere svolta, secondo i dettami del diritto commerciale, tanto da una persona fisica, l'imprenditore individuale cioè, tanto da un ente collettivo, e cioè una società, una cooperativa, una associazione non riconosciuta ovvero ancora una associazione riconosciuta o una holding collettiva, e così via. Il primo profilo da considerare è dunque quello della capacità dell'imprenditore individuale, potendosi affermare che chiunque abbia la capacità di agire giuridicamente, per ciò solo, ha anche la capacità di esercitare una attività imprenditoriale commerciale valida. Tuttavia, questa seconda sfera di capacità sembra più vasta della prima. Ed invero, l'art. 397 c.c. stabilisce che il minore emancipato può esercitare una impresa commerciale, senza l'assistenza del curatore, se a ciò è autorizzato dal tribunale, previo parere del giudice tutelare e sentito il curatore. Peraltro, il favor legislativo verso la possibilità di esercitare l'attività imprenditoriale, espressa nel codice civile, si accentua viepiù con l'esame del disposto normativo dettato dall'art. 425 c.c., che consente altresì che l'inabilitato possa continuare l'esercizio della impresa commerciale, se è autorizzato dal tribunale, su parere del giudice tutelare. Sul punto, va ricordato che, sebbene sia vero che in quest'ultima ipotesi in esame l'autorizzazione possa essere subordinata alla nomina di un institore, ciò sta a significare che l'inabilitato può essere autorizzato dal tribunale ad esercitare senza la presenza di questo strumento di sostegno, e dunque liberamente, situazione che può ricorrere allorquando l'attività sia iniziata prima della inabilitazione ovvero nella ipotesi in cui l'impresa sia stata ricevuta per donazione ovvero per successione a causa di morte (cfr. in argomento, Moruzzi, 1976, I, 10; Ragusa Maggiore, 1980, I, 52). In ordine, poi, alla ulteriore questione relativa al regime di titolarità dell'impresa nella ipotesi in cui non intervenga l'autorizzazione da parte del tribunale dell'incapace, deve ritenersi che non possa considerarsi e definirsi imprenditore commerciale l'incapace che non sia autorizzato, atteso che anche qui non vale il criterio dell'esercizio effettivo che prescinda dai requisiti formali dell'attività ovvero da infrazioni e divieti (così anche, Pajardi-Paluchowski, 57). Invero, qui è in gioco la capacità di agire e dunque la imputabilità civile e la riferibilità dell'attività al soggetto, dovendosi i terzi ritenere sufficientemente tutelati dal regime di pubblicità che assiste l'istituto dell'incapacità giuridica in relazione all'età ovvero ancora alla interdizione del soggetto. Ne discende che se una impresa esercitata personalmente da un minore non emancipato ovvero da un interdetto senza autorizzazione si trova in stato di insolvenza, allora l'unico strumento di tutela delle ragioni dei creditore dovrà essere trovato nell'aggressione esecutiva ordinaria individuale. Ciò vale anche per il minore non emancipato e per l'interdetto allorquando è illegittima l'autorizzazione fornita al legale rappresentante che esercita l'attività imprenditoriale e la stessa soluzione deve essere privilegiata anche nelle ipotesi di inabilitato non autorizzato o non legittimamente autorizzato (Satta, 1996, 27). La giurisprudenza si muove su un piano differente, di maggiore tutela dell'affidamento creato nei terzi, quando esamina il problema del soggetto che è totalmente incapace, ma del quale l'ordinamento non si è mai occupato, cosicché non vi sia alcuna forma di pubblicità in ordine a questo suo status, giungendo in tali casi ad affermare di regola la irrilevanza dell'incapacità naturale ai fini della instaurazione del procedimento concorsuale: cfr. Cass. 16 gennaio 1964, n. 101, in Giust. it., 1965, I, 1, 1546. Un accenno merita, infine, l'ipotesi che la giurisprudenza ha individuato sotto il nome di «holding unipersonale». In realtà, vi sono state delle ipotesi concrete nelle quali le operazioni di coordinamento del gruppo economico sono state qualificate come attività imprenditoriale non tanto perché costituiscono una fase dell'attività imprenditoriale delle società controllate, ma piuttosto perché costituiscono una attività imprenditoriale esercitata in via mediata senza la quale non si produrrebbero i risultati economici del gruppo (Pajardi-Paluchowski, 58). In realtà, il fondamento giuridico del fenomeno ora descritto si rinviene negli artt. 2361 e 2429-bis c.c., che forniscono rilevanza non solo all'oggetto sociale immediato della società operativa, ma anche a quello mediato dell'impresa controllante, in cui l'attività viene esercitata in nome proprio, da parte della holding. Ebbene, allorquando una persona fisica abbia svolto attività di direzione, coordinamento e finanziamento, prospettandosi come «interlocutore di riferimento» in ambito commerciale nei confronti del gruppo di imprese controllate, allora è configurabile una holding, assumendo il detto soggetto la qualità di imprenditore commerciale come tale assoggettabile al fallimento qualora la sua impresa personale si trovi in stato di insolvenza (App. Ancona, 21 settembre 2004, in Cort. Marc., 2006, 213; cfr. anche in dottrina Lamanna, 510. Secondo tale autorevole dottrina, il socio di una società di capitali che abbia poteri di ingerenza e di amministrazione deve essere considerato imprenditore e, in quanto tale, fallibile analogamente a quanto accade per il principio della fallibilità del socio limitatamente responsabile che viene collegato ad un ruolo sostanziale di imprenditore). Sul punto, anche la giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. n. 1439/1990; si legga anche Cass. n. 12113/2002; in dottrina, si rimanda anche a Minutoli, 427, secondo cui non è sufficiente perché possa essere assoggettata a fallimento che la persona fisica esorbiti dai limiti imposti dalla partecipazione azionaria ed eserciti il controllo e la gestione delle società di cui detiene le quote, ponendo in essere così la figura della «holding pura», bensì occorre un qualcosa in più e precisamente che detta persona possa essere inquadrata nella categoria degli imprenditori commerciali, unici soggetti sottoponibili a procedura concorsuale secondo la legge vigente) si è pronunciata delineando le condizioni per la fallibilità della holding e che possono essere riassunte nell'esercizio di attività di indirizzo, controllo e coordinamento delle società partecipate, attraverso specifici atti negoziali idonei a perseguire un utile risultato di gruppo, caratterizzati dalla spendita del nome della persona fisica detentrice, dovendosi tuttavia integrare questi requisiti con la possibilità di riconoscere in capo al soggetto quella professionalità e continuità dell'attività di produzione e scambio di servizi che lo possano qualificare come imprenditore. Segue. La holding unipersonale. Come è noto la configurazione della holding ha ricevuto pieno riconoscimento nella giurisprudenza di legittimità che ha individuato i requisiti necessari alla sua configurazione (Cass. n. 1439/1990). La Corte regolatrice ha affermato che è configurabile una autonoma impresa assoggettabile a fallimento nel caso di cosiddetta «holding personale», fattispecie che ricorre allorquando una persona fisica, che sia a capo di più società di capitali, in veste di titolare di quote o partecipazioni azionarie, svolga professionalmente e con stabile organizzazione l'attività di indirizzo, controllo e coordinamento delle società del gruppo, non limitandosi così al solo esercizio dei poteri inerenti la qualità di socio (cfr. Cass. n. 405/1999; Cass. n. 12113/2002, Cass. n. 3724/2003; Cass. n. 23344/2010. La giurisprudenza ha più volte riconosciuto che l'attività di direzione unitaria possa essere esercitata non solo da società, come di regola avviene, ma anche da persone fisiche: cfr. la citata Cass. n. 1439/1990, in Fall. 1990, 510 ss. con nota di Lamanna, La holding quale impresa commerciale (anche individuale) e il dogma della personalità giuridica, cit.), nonostante in dottrina tale orientamento abbia suscitato non poche perplessità (Fava, 1197 e Circolare Assonime 44/07 in Riv. Soc., 2006, 1100; in giurisprudenza, cfr., anche Cass. n. 8721/1992; Cass. n. 12113/2009). Sul punto, giova precisare che la holding personale di cui qui in parola configura, perciò, autonoma impresa quando la sua attività – che può consistere nella esclusiva gestione del gruppo (cosiddetta holding pura) ovvero assumere natura ausiliaria o finanziaria (cosiddetta holding operativa) – si esplichi in atti, anche negoziali, posti in essere dall'holder in nome proprio (così, Trib. Roma 19 dicembre 2012, n. 753). In realtà, l'attività deve avere l'obiettiva attitudine a produrre utili risultati economici per il gruppo o le sue componenti con la precisazione, tuttavia, che il fine di lucro, riconducibile al coordinamento ed alla direzione svolti, non può consistere esclusivamente nella sommatoria dei risultati altrimenti conseguibili dalle singole società ma deve presentare un quid pluris connesso al dato economico-sostanziale dell'unità dell'impresa. Ne consegue che, muovendo da tale premessa, è possibile ipotizzare l'holding personale in funzione della sua fallibilità, allorquando la persona fisica che ne sia titolare sia, da un lato, titolare di partecipazioni azionarie nelle società del gruppo ed agisca peraltro in nome proprio con un'assunzione personale della responsabilità dei propri atti negoziali (abusando così della persona giuridica con un comportamento che travalica quello del socio tiranno) e, dall'altro lato, disponga di una organizzazione imprenditoriale autonoma, agendo con finalità di lucro e realizzando altresì una economicità aggiuntiva o la produzione di un plusvalore conseguente alla attività di coordinamento e controllo. Preme sottolineare che, nonostante in passato una minoritaria giurisprudenza di merito ( cfr. Trib. Padova 2 novembre 2001, in Fall., 2002, 1218) abbia criticato l'impostazione accolta dalla giurisprudenza di legittimità sostenendo pertanto che per la qualificazione dell'impresa come holding non sarebbero necessari né la spendita del nome né l'organizzazione dei mezzi propri né l'autonoma economicità, la giurisprudenza di merito prevalentesi è adeguata invece all'insegnamento della Suprema Corte (cfr. Trib. Genova 26 settembre 2005, in Fall. 2006, 424; Trib. Napoli 8 gennaio 2007, Trib. Roma 28 novembre 2006 e Trib. Vicenza 23 novembre 2006, tutte in Fall. 2007, 407 ss.; App. Bologna 23 maggio 2007). Va, tuttavia, segnalato che l'art. 2497 c.c., come novellato dalla riforma del diritto societario e l'art. 147 l.fall., come novellato dal d.lgs. n. 5 del 2006, hanno modificato in buona sostanza il quadro normativo di riferimento, di talché è necessario stabilire se il richiamato orientamento della giurisprudenza di legittimità (prevalente anche, come detto, nella giurisprudenza di merito) possa essere o meno confermato sulla base anche delle norme attualmente vigenti (v. ancora Trib. Roma, 19 dicembre 2012, n. 753, cit.). Ebbene, va ricordato innanzitutto che l'art. 147 l.fall. nella sua attuale formulazione limita espressamente la estensione del fallimento ai soci illimitatamente responsabili di società di persone e della s.a.p.a., escludendo così la «responsabilità patrimoniale in estensione» al di fuori dei casi in cui si accerti un abuso del dominio dell'impresa. L'art. 2497 c.c., d'altro canto, per un verso normativizza il concetto di direzione e controllo dei gruppi societari e, per altro verso, rafforza la tutela dei creditori e dei soci di minoranza perché consente di configurare una responsabilità contrattuale (ipotesi prevista dal primo comma) o extracontrattuale (prevista dal secondo comma) di colui che, esercitando la direzione ed il coordinamento delle società appartenenti al gruppo, abbia abusato delle persone giuridiche. Deve, inoltre, evidenziarsi che, secondo l'interpretazione prevalente, l'art. 2497 c.c. è applicabile in virtù di una lettura costituzionalmente orientata della norma anche all'ipotesi in cui il controllo del gruppo sia riconducibile ad una persona fisica quantunque il tenore letterale della disposizione in esame, utilizzando il concetto di «ente o persona giuridica», sembrerebbe indurre ad escludere tale possibilità. Occorre pertanto ritenere ancora attuale il principio già affermato dalla giurisprudenza di legittimità (deve pertanto ritenersi ancora condivisibile quell'orientamento della giurisprudenza di legittimità consolidatosi prima della riforma del diritto societario, non essendovi peraltro pronunce di legittimità che abbiano valutato l'impatto della nuova normativa sul tema. Invero, anche la Suprema Corte con la sentenza n. 23344/2010, nel ribadire l'orientamento di Cass. n. 8154/1990, si é limitata solo a precisare che la fattispecie concreta esaminata non era soggetta ratione temporis alla applicazione dell'art. 2497 c.c.) secondo cui qualora la holding facente capo ad una persona fisica abbia accentrato in sé la direzione ed il coordinamento del gruppo che aveva una sua qualificazione identitaria proprio nel nominativo della persona fisica, si deve ritenere che l'insolvenza della società formale capogruppo e delle plurime controllate, accertata con diverse sentenze, sia prova evidente del fatto che anche l'holder persona fisica versasse in stato di insolvenza. Sul punto, giova ricordare che alcuni autori (cfr. Panzani, 2009, 9) hanno sottolineato che non costituisce ostacolo per poter configurare la sussistenza dell'attività di impresa l'esistenza dei requisiti richiesti dall'art. 2082 c.c., ed in particolare la professionalità, l'organizzazione e il fine di lucro. Ed invero, sovente alla gestione unitaria da parte della holding si accompagna un sistema di flussi finanziari accentrati e diretti dalla holding e rispetto ai quali le delibere assunte dalle singole società dipendenti assumono carattere puramente strumentale (Musuraca, La fallibilità della holding individuale, in ilfallimentarista.it, 14 gennaio 2014. Sul punto, va aggiunto che in genere, come del resto avviene anche nei gruppi in cui la capogruppo è una società di capitali, anche la cassa delle singole società è accentrata e gestita dalla holding). Per quanto riguarda il requisito della professionalità esso sussiste qualora l'attività sia esercitata in modo stabile e continuativo (sul requisito della professionalità come elemento essenziale della nozione generale di imprenditore, Campobasso, 32; Spada, il quale afferma che «per professionalità si intende un impegno stabile nell'esercizio dell'attività» e precisa che «solo alle iniziative produttive che non si presentino occasionali e saltuarie si applica lo statuto dell'imprenditore»). Pertanto, il requisito in questione non deve dunque essere inteso come sinonimo di esclusività o di prevalenza, potendo ben essere stabile e continuativa anche un'attività non qualificabile come prevalente o esclusiva (in questo senso, Campobasso, cit.; in giurisprudenza, tra le molte, Cass. n. 2321/1997; Trib. Torino, 4 luglio 1980, in Fall., 1981, 762). Quanto all'autonoma economicità dell'attività della holding, è opportuno ricordare che, secondo un ormai consolidato orientamento giurisprudenziale (sopra ricordato), il requisito deve ritenersi sussistente in tutti i casi in cui l'attività direttiva possa dirsi idonea al perseguimento di un risultato economico – inteso come differenza positiva o perlomeno come pareggio, tra i ricavi e i costi dell'attività – ulteriore rispetto a quello raggiungibile dalle singole società ed imputabile direttamente al capogruppo. Il requisito dell'organizzazione deve ritenersi presente in tutte le ipotesi in cui il capogruppo eserciti l'attività di direzione, coordinando tra loro una pluralità di fattori produttivi che sono il capitale, il lavoro proprio e il lavoro altrui non essendo tuttavia necessario che tutti i fattori produttivi vengano congiuntamente utilizzati nell'attività economica ed essendo al contrario sufficiente che siano tra loro coordinati anche soltanto due di essi (cfr. sempre Musuraca, La fallibilità della holding individuale, cit.). Deve ritenersi, come già sopra accennato e come riportato dal tradizionale insegnamento della giurisprudenza di legittimità che la spendita del nome da parte della holding individuale (o societaria) sia requisito fondamentale ai fini della qualificazione dell'attività di direzione e coordinamento come attività di impresa e della assoggettabilità a fallimento del soggetto capogruppo (cfr. Cass. n. 1439/1990; Cass. 9 agosto 2002, n. 12113; Cass. n. 3724/2003; Trib. Genova 26 settembre 2005; Trib. Napoli, 8 gennaio 2007; App. Milano, 17 luglio 2008, in Fall. 2009, 169 ss. Ritengono invece irrilevante il requisite della spendita del nome Trib. Vicenza, 23 novembre 2006, in Fall. 2007; cfr. anche Fimmanò, 2007, 419; Penta, 172 ss.). Questo orientamento giurisprudenziale sostiene che la holding e in particolare quella individuale, è assoggettabile a fallimento in quanto imprenditore commerciale solo ed esclusivamente nel caso in cui essa, nell'esercizio dell'attività di direzione, abbia posto in essere in nome proprio atti, anche negoziali, che siano fonte di obbligazioni. In sostanza, la holding può fallire solo se ha contratto direttamente obbligazioni in nome proprio delle quali risponderà, ex art. 2740 c.c., con l'intero suo patrimonio. La responsabilità patrimoniale della holding individuale presuppone l'agire in nome proprio. La holding può essere chiamata a rispondere soltanto delle obbligazioni da essa direttamente assunte spendendo il proprio nome e non anche delle obbligazioni contratte dalle, e in nome delle, società dirette e coordinate (Musuraca, La fallibilità della holding individuale, cit, ibidem). Di conseguenza, l'insolvenza del capogruppo, ovvero la sua impossibilità di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni, deve essere valutata con riguardo alle sole obbligazioni personali e dunque alle sole obbligazioni direttamente assunte attraverso la spendita del nome, non potendosi invece valutare anche le obbligazioni contratte in nome delle società dirette e coordinate. Ebbene, un importante corollario di questa tesi è che i creditori i quali possono utilmente chiedere il fallimento e insinuarsi al passivo della holding insolvente sono esclusivamente quelli che hanno direttamente contrattato con l'impresa capogruppo, e non già invece i creditori che hanno intrattenuto rapporti creditizi solamente con le singole società del gruppo (cfr. Giovannini, nota a Cass. n. 12113/2012, in Giur. comm., 2004, II, 23). In realtà, si tratta di una soluzione che garantisce una forma di tutela soltanto ai creditori i cui crediti trovino origine in atti compiuti dal capogruppo in nome proprio, rimanendo invece i creditori delle singole società i quali non abbiano avuto alcun rapporto con la holding sprovvisti di qualsiasi rimedio nei confronti del socio di controllo. Sul punto, va ulteriormente precisato che, come sopra accennato, parte della dottrina, come pure parte della giurisprudenza di merito non aderisce alla succitata tesi precisando che «ai fini dell'assoggettamento della holding individuale a fallimento non occorra alcuna esteriorizzazione dell'attività di direzione e coordinamento in quanto ciò che rileva non è l'imputazione diretta o indiretta degli atti di impresa al dominus ma il dato fattuale o giuridico del governo della condotta unitaria; il sistema normativo delineato non esige ai fini della configurazione della responsabilità l'esteriorizzazione di atti. L'attività di direzione tirannica professionalmente organizzata, in spregio ai principi di corretta gestione imprenditoriale, delle società strumentali etero dirette configura di per sé attività di impresa ed una conseguente responsabilità per tutte le obbligazioni delle società dominate e nei confronti di tutti i creditori» (cfr. Trib. Ancona 10 agosto 2009; e App. Ancona, 5 marzo 2010, in Giur. comm., con nota di Prestipino). In realtà, parte della dottrina (cfr. Panzani, 2009, cit.) ha criticato l'eccessivo rigore della giurisprudenza nel richiedere che la spendita del nome si traduca nel compimento di veri e propri atti negoziali da parte della holding. Se invero le ragioni del ricorso a questa struttura organizzata intorno alla figura di una o più persone fisiche di riferimento che organizzano l'attività di varie società sono di non apparire direttamente, allora è evidente che non si rinverranno mai atti negoziali posti in essere direttamente dalla holding. Se l'attività d'impresa a quest'ultima riferibile è un'attività mediata, che passa attraverso l'operare di una società dipendente, per necessità gli atti negoziali saranno posti in essere dalla società operativa e non dalla holding, salvo il caso, poco probabile, che la o le persone fisiche si risolvano ad intervenire in prima persona magari con la concessione di garanzie, ipotesi che ricorrerà solo ove la situazione di crisi o di dissesto avrà reso indispensabile siffatta forma di intervento (cfr. Spada, Della permeabilità differenziata della personalità giuridica nell'ultima giurisprudenza commerciale, in Giur. comm. 1992, I, 433; Inzitari, 1985, 689; Esposito, 18). Se peraltro il requisito della spendita del nome della holding potesse essere inteso, in conformità a quanto avviene nei fatti, nel senso che ai terzi creditori è noto che la società operativa gode dell'appoggio e del sostegno della holding e che pure è noto che le scelte gestionali fanno capo alla holding, si potrebbe affermare che il requisito della spendita del nome è soddisfatto perché i terzi in tanto si sono risolti a contrarre con la società operativa, in quanto sapevano che alle spalle della stessa stava la holding e non hanno trattato con gli amministratori della società operativa ma direttamente con le persone fisiche in cui si sostanzia la holding (Musuraca, La fallibilità della holding individuale, cit., ibidem). In buona sostanza, solo una minoritaria giurisprudenza di merito e taluni interpreti hanno criticato l'impostazione accolta dalla giurisprudenza di legittimità sostenendo che per la qualificazione dell'impresa come holding non sarebbero necessari né la spendita del nome, né l'organizzazione dei mezzi propri né l'autonoma economicità (Cfr. Trib. Padova, 2 novembre 2001, in Fall. 2002, 1218. Di contro, invece, la giurisprudenza di merito prevalente si è adeguata alla Suprema Corte (cfr. Trib. Genova, 26 settembre 2005, in Fall. 2006, 424; Trib. Napoli, 8 gennaio 2007; Trib. Roma, 28 novembre 2006 e Trib. Vicenza 23 novembre 2006, tutte in Fall. 2007, 407; App. Bologna 23 maggio 2007; App. Trieste 12 aprile 2011). In ordine, poi, all'accennata problematica relativa alla possibile incidenza delle modifiche intervenute all'art. 2497 c.c. come novellato dalla riforma del diritto societario e all'art. 147 l.fall. secondo la riforma del d.lgs. n. 5/2006 sulla quaestio iuris in ordine alla possibilità di addivenire alla dichiarazione di fallimento del soggetto persona fisica che abbia svolto attività di coordinamento imprenditoriale ovvero di sostegno finanziario di varie società di capitali da costui controllate (e ciò in estensione dei fallimenti delle società controllate o quale autonomo soggetto imprenditoriale configurandosi un'ipotesi di holding personale di tipo operativo), giova ricordare che l'interpretazione maturata nella vigenza delle precedenti norme, sia di diritto fallimentare sia di diritto societario, si era attestata nel ritenere possibile la dichiarazione di fallimento nei casi di abuso della personalità giuridica, dell'imprenditore occulto, sia esso socio occulto, holding personale di fatto occulta, socio tiranno, azionista sovrano, amministratore di fatto, attraverso l'estensione del fallimento della società dominata nei confronti del soggetto dominante con il meccanismo dell'imputazione sostanziale degli atti, l'abuso di personalità giuridica, la simulazione di società, così che, individuato in capo al dominante la riferibilità degli atti dell'impresa fallita ed in conseguenza dell'esercizio di attività di impresa, fosse possibile estenderne il fallimento (per una ricostruzione completa delle questioni si rimanda all'esaustivo contributo di Musuraca, La fallibilità della holding individuale, cit.). Orbene, prima della riforma dell'art. 147 l.fall. la ripercussione del fallimento di una società di capitali sull'imprenditore occulto, sulla holding di fatto ed occulta, passavano, sul piano teorico, attraverso il tentativo di trovare nell'art. 147 l.fall. un principio generale di imputazione diverso dalla spendita del nome. Come è noto, il richiamato orientamento arrivava ad affermare, in via analogica, il fallimento dell'imprenditore individuale occulto che dirigeva il proprio prestanome. Tale impostazione, anche attraverso la trasposizione in ambito delle società di capitali, arrivava a teorizzare il fallimento del socio tiranno, e cioè del socio che si serve della società come «cosa» propria al fine di perseguire fini ed interessi del tutto personali. In realtà, ora la nuova formulazione dell'art. 147 l.fall. non consente più l'estensione del fallimento al socio illimitatamente responsabile della società di capitali che sia divenuto tale al di fuori della forma caratterizzante il tipo normativizzato. Invero, il nuovo comma primo dell'art. 147 circoscrive espressamente la regola dell'estensione ai soci, pur se non persone fisiche, illimitatamente responsabili, di società appartenenti «ad uno dei tipi regolati nei capi III, IV e VI del titolo V del libro V del codice civile», di talché, fuori da questi casi, non c'è la responsabilità patrimoniale «automatica» in estensione. Presupposto per la dichiarazione di fallimento del dominus chiamato a rispondere di tutti i debiti delle società etero dirette, i cui creditori concorreranno sul suo patrimonio in concorso con i suoi creditori diretti, è pertanto l'autonomo accertamento dell'abuso del dominio sull'impresa. Ebbene, in questa indagine il momento centrale non è dato da indici formali come la qualità di socio unico (diretto o indiretto) oppure l'esistenza di un contratto di dominazione, ma dalla configurazione di un'attività di direzione dell'impresa, individuale o collettiva, abusiva, cioè contro l'interesse dell'impresa etero diretta e in violazione dei principi di corretta gestione imprenditoriale. Così oggi, per effetto delle riforme, la ripercussione del fallimento di una società di capitali sull'imprenditore occulto, sulla holding di fatto od occulta, passa necessariamente attraverso il microsistema normativo di cui all'art. 2497 c.c., risultando in realtà disciplinata ed introdotta una nuova forma di responsabilità, cioè quella da abusivo dominio che – potendo talora configurare un esercizio professionale dell'attività di impresa – può generare, in caso di insolvenza, l'assoggettamento a procedure concorsuali del dominus (sul punto sempre Musuraca, La fallibilità della holding individuale, cit. Si tratterebbe, all'evidenza, di una procedura del tutto autonoma, cui può dare impulso il curatore, i creditori ed anche il P.M. dovendosi ritenere, una volta accertata l'esistenza di uno stato di comprovata insolvenza, che i legittimati ad agire siano tutti i soggetti indicati dall'art. 6 l.fall. Si legga anche Trib. Roma 19 dicembre 2012, n. 753, cit., la quale compie un'ulteriore importante precisazione, ovvero che l'invocata norma di cui all'art. 2497 c.c. sia applicabile in virtù di una lettura costituzionalmente orientata della norma anche all'ipotesi in cui il controllo del gruppo sia riconducibile ad una persona fisica — come nel caso esaminato dal tribunale capitolino — quantunque il tenore letterale della disposizione in esame, utilizzando il concetto di «ente o persona giuridica», sembri indurre ad escludere tale possibilità. La giurisprudenza di merito si è in questo senso espressamente pronunciata di recente (cfr. Trib. Venezia 11 ottobre 2012, in Soc. 2013) affermando che «la disciplina di cui agli art. 2497 c.c. e ss. è applicabile anche nei casi in cui ad esercitare attività di direzione e coordinamento sia una persona fisica o una holding di fatto» rilevando la sussistenza degli indici sintomatici dell'esistenza di una capogruppo di fatto e ciò in quanto le persone fisiche detenevano quote societarie delle società controllate e svolgevano ruoli preponderanti nell'amministrazione delle stesse; le attività e l'organizzazione delle società controllate erano da considerarsi etero dirette attraverso flussi costanti di direttive ed infine in quanto era stato possibile rinvenire ricavi derivanti da fatturati intercompany). Ne discende che il dominus non sarà automaticamente e necessariamente insolvente e fallibile come accade con il sistema dell'estensione per il socio illimitatamente responsabile nelle ipotesi contemplate dall'art. 147 l.fall., trattandosi comunque di responsabilità comunque risarcitoria. Dall'altra parte, va anche aggiunto che il sistema complessivo in materia è sempre più orientato verso il modello della responsabilità risarcitoria piuttosto che della responsabilità patrimoniale, come confermano proprio le suindicate riforme. Peraltro, il nuovo art. 2476, comma settimo c.c., ben può essere valorizzato per colpire con lo strumento della responsabilità risarcitoria forme di «dominio» abusivo del socio sulla società e per «compensare», nel caso del socio unico, la drastica riduzione della responsabilità illimitata e l'inapplicabilità della regola. In conclusione, può affermarsi che occorrerà accertare se il dominus sia o meno capiente e dunque in grado di soddisfare le pretese creditorie rappresentate dal passivo delle società dominate assoggettate a procedura concorsuale ed in secondo luogo accertare se abbia esercitato l'attività di direzione abusiva con quelle caratteristiche di stabilità, professionalità ed organizzazione che integrano lo status di imprenditore commerciale (cfr. sempre Trib. Roma, 19 dicembre 2012, n. 753, cit., la quale si spinge oltre precisando che l'holding personale facente capo alla persona fisica accentrava in sé la direzione ed il coordinamento del gruppo, che aveva una sua qualificazione «identitaria» proprio nel nome della persona fisica, di talché l'insolvenza della società ricorrente che aveva chiesto il fallimento della persona fisica, «formale» capogruppo, come pure quella delle plurime società controllate — accertata con diverse sentenze del Tribunale di Roma — è considerata prova evidente del fatto che anche l'holder persona fisica versasse in stato di insolvenza. Il tribunale di Roma è arrivato a ritenere che la decozione delle società partecipate fosse conseguenza dell'insolvenza dello holder, attesa l'esercitata funzione di gestione delle società partecipate). Ebbene, le conseguenze del sopradescritto fenomeno sono notevoli, ove si consideri che non si potrà più ammettere il fallimento del socio unico come collegato semplicemente allo status di socio, se non nel caso in cui lo stesso abbia esercitato un'attività di etero direzione abusiva, in qualunque forma, anche contrattuale. E così vengono definitivamente superate anche le varie soluzioni offerte in passato dalla dottrina, come quella della c d. supersocietà, cioè della società di fatto tra persone fisiche e giuridiche (Ascarelli, 1519 ss.; si v. anche Biagivi, 1954, passim) e della holding tiranna (cfr. Trib. Messina, 15 febbraio 1996; Trib. Bologna 23 ottobre 1998, in Dir. fall. 1999, II, 11254; Trib. Sulmona, 8 novembre 2005, in Fall. 2005, 952) che, applicando in estensione la regola della responsabilità illimitata del socio unico, ne sanciva la imputazione dei debiti di ogni società del gruppo, sino poi ad ammettere il conseguente fallimento in estensione dell'unico socio (Weigmann, 537; Rordorf, 596). L'imprenditore collettivo. La necessità di esercitare un'attività economica organizzata tesa allo scambio di beni o servizi tramite una organizzazione di mezzi, di persone, di rapporti e nello stesso tempo di limitare il rischio di tale attività ad un pecunio determinato ha determinato la convenienza di gestire l'attività imprenditoriale attraverso una persona giuridica ovvero un ente non fornito di personalità giuridica, ma comunque dotato di autonomia patrimoniale. In realtà, le società regolari sono sempre state considerate dalla giurisprudenza come esercenti un'attività imprenditoriale, e ciò indipendentemente dall'effettivo svolgimento dell'attività statutaria, poiché si reputava costantemente che acquistassero la qualità di imprenditore commerciale dal momento della loro iscrizione e che nascessero proprio allo scopo di essere imprenditori commerciali (Cass. n. 8849/2005, in Fall. 2005, 1431; Cass. n. 8694/2001; Cass. n. 8694/2001; cfr. anche Cass. n. 1479/1999, secondo cui è assoggettabile a fallimento una società per azioni anche nel caso in cui si sia limitata a svolgere solo attività prodromica all'esercizio di quella propriamente produttiva non ancora iniziata; cfr. ulteriormente Cass. n. 9084/1994, la quale aveva ritenuto che una s.r.l. che asseriva di avere svolto esclusivamente attività agricola fosse fallibile; in dottrina, in senso critico, Patti, 624; Bonsignori, 14). Orbene, la riforma della legge fallimentare, introducendo le c.d. soglie di fallibilità, ha in realtà previsto una sorta di parificazione di trattamento tra tutti gli imprenditori individuali e collettivi, giacché l'esistenza di uno dei tre parametri alternativi dimensionali di cui all'art. 1 l.fall. consente di pronunciare la dichiarazione di fallimento e, peraltro, solo una delle tre soglie presuppone che l'attività istituzionale statutaria sia già iniziata, e più precisamente quella di cui alla lettera b che riguarda i ricavi lordi che, di regola, presuppongono la operatività dell'impresa. In realtà, avere un attivo patrimoniale dall'inizio dell'attività, se di durata inferiore a tre anni, superiore ad euro trecentomila ovvero ancora una debitoria complessiva superiore ad euro cinquecentomila consente la possibile dichiarazione di fallimento dell'impresa che ancora non abbia mai iniziato il core business e che si è solo limitata ad una attività preparatoria dell'impresa. La sola iscrizione non consente la declaratoria di fallimento né dell'imprenditore individuale né di quello collettivo (così Pajardi-Paluchowski, 60). Quanto, poi, alle persone fisiche che sono socie degli enti collettivi sopra descritti, il cui trattamento è descritto dall'art. 147 (e per la cui trattazione si rimanda infra), si deve qui solo ricordare che falliscono tutti i soci che sono illimitatamente responsabili in quanto appartenenti ad enti nel cui paradigma legale tipico il legislatore abbia inserito soci illimitatamente responsabili (così Pajardi-Paluchowski, ibidem). Ne discende che di regola non falliscono i soci delle società di capitali, salvo che non si tratti di società di capitali irregolari, e dunque non ancora registrate, giacché in tal caso falliscono coloro che hanno esplicitato all'esterno la volontà dell'ente ex art. 2331 c.c., ente che pertanto viene assoggettato a fallimento come società irregolare (in giurisprudenza, si veda Trib. Milano 21 aprile 1977, in Giur. comm. 1978, II, 931. In dottrina, Provinciali, 743, secondo cui nel caso di mancata registrazione rispondono tutti i soci a prescindere dal tipo di società che si voleva costruire, sia quelli noti e sia quelli ignoti al momento della dichiarazione di fallimento). Il principio posto dal legislatore è quello di integrare, tramite il patrimonio del socio, la capacità patrimoniale imperfetta degli enti collettivi che falliscono, sicché sono esclusivamente le società di persone a subire l'allargamento soggettivo del fallimento ai propri soci illimitatamente responsabili, mentre, in presenza di enti collettivi che abbiano personalità giuridica e capacità patrimoniale perfetta, l'integrazione, quasi di natura fideiussoria, del patrimonio dei soci viene esclusa proprio dalla limitatezza della responsabilità che questi enti perseguono in favore dei propri soci. Sul punto, va invero chiarito che i soci illimitatamente responsabili falliscono non in quanto imprenditori commerciali, ma in quanto ritenuti indispensabili per integrare dal punto di vista patrimoniale la capacità dell'ente cui partecipano (così Pajardi-Paluchowski, 61). Deve peraltro chiarirsi che la esistenza dello scopo di lucro, come nella ipotesi dell'imprenditore individuale, risulta essere sostanzialmente indifferente, come confermato dalle affermazioni in subiecta materia della giurisprudenza che ha ritenuto fallibili anche le società sportive, le società calcistiche e le associazioni non riconosciute (così, Trib. Bologna 18 giugno 1993, in Dir. fall. 1994, II, 549; Trib. Verona 23 febbraio 1991, in Foro. it., 1992, I, 558; Trib. Venezia 4 giugno 1984, in Dir. fall. 1985, II, 159, con la precisazione tuttavia che le dette pronunzie sono tutte precedenti alla legge 18 novembre 1996, n. 58 la quale ha riconosciuto alle società sportive professionistiche la possibilità di avere scopo di lucro). In senso negativo, non sono imprenditori commerciali collettivi le associazioni in partecipazione e la comunione, tranne, in quest'ultima ipotesi, il caso di una comunione incidentale per donazione o per successione ereditaria che abbia per oggetto una azienda commerciale e ove gli eredi la continuino oltre i limiti strettamente necessari al fine di alienarla o liquidarla. Per contro, deve invece ritenersi imprenditore commerciale il consorzio con attività esterna, le varie tipologie di «gestione dei creditori» che normalmente danno vita a società irregolari, giacché la finalità di soddisfacimento dei crediti non snatura l'imprenditore collettivo formato dai creditori. Infine, ha rilevanza esterna l'istituto regolato dall'art. 230-bis c.c. in tema di impresa familiare, per il quale deve ritenersi che, in caso di insolvenza di quest'ultima, tutti i soci familiari diventano soci di fatto dell'impresa stessa partecipando o avendo diritto di partecipare alla direzione della impresa, nonché alle sue sorti commerciali e come tali pertanto assoggettabili al fallimento in caso di dissesto. Possono essere considerati come enti collettivi fallibili anche l'associazione non riconosciuta e la formazione collettiva così detta no profit. È configurabile una "holding" di tipo personale allorquando una persona fisica, che sia a capo di più società di capitali in veste di titolare di quote o partecipazioni azionarie, svolga professionalmente, con stabile organizzazione, l'indirizzo, il controllo ed il coordinamento delle società medesime, non limitandosi, così, al mero esercizio dei poteri inerenti alla qualità di socio. A tal fine è necessario che la suddetta attività, di sola gestione del gruppo (cosiddetta “holding” pura), ovvero anche di natura ausiliaria o finanziaria (cosiddetta “holding” operativa), si esplichi in atti, anche negoziali, posti in essere in nome proprio, fonte, quindi, di responsabilità diretta del loro autore, e presenti, altresì, obiettiva attitudine a perseguire utili risultati economici, per il gruppo e le sue componenti, causalmente ricollegabili all'attività medesima (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza della corte d’appello che aveva respinto il reclamo dell’“holder” persona fisica dichiarato fallito, il quale, sebbene con la coesistenza di una società capogruppo - anch’essa dichiarata fallita - delle società dirette dal primo, aveva svolto un'attività diversa ed ulteriore da tale soggetto, con spendita diretta del proprio nome, autonoma organizzazione e connotazione imprenditoriale) (Cass. I, n. 5520/2017). Le soglie di fallibilitàLa riforma organica delle procedure concorsuali e il c.d. correttivo hanno innovato i requisiti soggettivi di fallibilità ed hanno introdotto specifiche regole di giudizio per il relativo accertamento (la portata della innovazione normativa è stata peraltro chiarita anche da Corte cost. n. 198/2009, su cui infra). Ai sensi del novellato art. 1, comma secondo, l.fall. non sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori che esercitano un'attività commerciale (ad eccezione degli enti pubblici), i quali dimostrino il possesso congiunto dei seguenti requisiti: a) aver avuto, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell'istanza di fallimento o dall'inizio dell'attività se di durata inferiore, un attivo patrimoniale di ammontare complessivo annuo non superiore ad euro trecentomila; b) aver realizzato, in qualunque modo risulti, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell'istanza di fallimento o dall'inizio dell'attività se di durata inferiore, ricavi lordi per un ammontare complessivo annuo non superiore ad euro duecentomila; c) avere un ammontare di debiti anche non scaduti non superiore ad euro cinquecentomila. Ebbene, dalla relazione illustrativa allo schema di decreto legislativo recante la riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali e dalla relazione illustrativa al cd. correttivo emerge con chiarezza come il legislatore abbia inteso rispondere alla finalità di aggiornare la nozione di piccolo imprenditore con spirito deflattivo delle dichiarazioni di fallimento e, al contempo, superare le incertezze interpretative causate dal riferimento all'art. 2083 c.c. (dopo la riforma, in giurisprudenza, è subito stato chiarito che la nozione civilistica di piccolo imprenditore era stata completamente soppiantata, ai fini della legge fallimentare, dai criteri quantitativi e qualitativi dell'art. 1, comma 2, l.fall. [cfr. App. Torino 22 giugno 2007, in Fall. 2007, 10, 1237, secondo cui ai fini della individuazione dell'imprenditore soggetto a procedura concorsuale deve farsi esclusivo riferimento ai criteri dimensionali prescritti dal novellato art. 1, comma secondo, l.fall., senza la necessità di indagare ulteriormente se costui sia da considerare piccolo imprenditore alla stregua dei criteri previsti dall'art. 2083 c.c.; ancora Trib. Firenze 20 maggio 2008, in Foro tosc. 2009, 110, per il quale il novellato art. 1 l.fall. ha soppiantano i criteri qualitativi dell'art. 2083 c.c. Peraltro, la Suprema Corte ha puntualmente osservato che il regime concorsuale riformato ha tratteggiato la figura dell'«imprenditore fallibile» con riferimento esclusivo a parametri soggettivi di tipo quantitativo, i quali prescindono del tutto da quello, canonizzato nel regime civilistico, della prevalenza del lavoro personale rispetto all'organizzazione aziendale fondata sul capitale e sull'altrui lavoro (così Cass. n. 13086/2010)]. Sul fronte della giurisprudenza penalistica, è stato chiarito da Cass. S.U., n. 19601/2008, che il giudice penale investito del giudizio relativo a reati di bancarotta ex artt. 216 ss. l.fall. non può sindacare la sentenza dichiarativa di fallimento, quanto al presupposto oggettivo dello stato di insolvenza dell'impresa e ai presupposti soggettivi inerenti alle condizioni previste per la fallibilità dell'imprenditore, sicché l'accertamento del giudice civile è vincolante per il giudice penale). Per la storia, va ricordato che in realtà la prima modifica attuata con la legge n. 5 del 2006, al comma 2 dell'art. 1, l.fall. aveva descritto coloro che, ai fini del comma uno, potevano essere sottoposti a fallimento, ciò in quanto il comma uno continuava a stabilire che erano soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori che esercitassero un'attività commerciale con esclusione degli enti pubblici e dei piccoli imprenditori. Risultavano perciò fallibili coloro che, alternativamente, avevano effettuato investimenti nell'azienda per un capitale di valore superiore ad euro 300.000, ovvero coloro che avevano realizzato, in qualunque modo risultasse, ricavi lordi calcolati sulla media degli ultimi tre anni, ovvero dall'inizio dell'attività se di durata inferiore, per un ammontare complessivo annuo pari ad euro 200.000, in quanto definiti non piccoli imprenditori ai sensi del comma uno. In realtà, la stesura tormentata dell'art. 1 era stata determinata dalla provenienza di due criteri indicanti le soglie di fallibilità alternative da due commissioni di studio diverse, che avevano pertanto dovuto trovare una sintesi finale in un testo normativo che non brillava per chiarezza ed univocità. Nel comma uno si individuavano coloro che erano soggetti alla procedura e gli esclusi da essa, quali eccezione al primo principio, e nel comma due si specificano le caratteristiche che questi ultimi dovevano presentare per potersi sottrarre alla procedura concorsuale liquidatoria. Ciò aveva inevitabilmente determinato, soprattutto nella dottrina processualcivilistica, un intento di elaborazione della norma quale insieme di affermazione e di eccezioni, con corrispondente divaricazione dell'onere della prova gravante sui soggetti coinvolti e con interpretazione a volte difformi in ordine alla individuazione del soggetto sul quale gravasse l'onere di provare le soglie di fallibilità, ciò che era stato determinato, come già sopra rilevato, da una scrittura atecnica ed imprecisa per la definizione dei concetti sopra indicati. Sul punto, va ricordato che se il criterio generale dell'onere della prova era quello dell'art. 2697 c.c., avrebbe dovuto concludersi nel senso che la prova del superamento delle cosiddette soglie di fallibilità dovesse ricadere in capo al creditore, tuttavia non erano mancate decisioni giurisprudenziali che avevano rilevato come il mancato raggiungimento dei limiti di cui all'articolo 1 doveva essere oggetto di prova da parte del debitore (così, Trib. Firenze 31 gennaio 2007, in Fall. 2007, 591. Si leggano sul testo intermedio: Zanichelli, 1 ss.; Fortunato, 2006, 35 ss). Tuttavia, la prima applicazione dell'art. 1 l.fall., nella versione «intermedia», ha evidenziato, soprattutto in alcuni contesti geografici ove invale l'uso degli imprenditori a non depositare presso il registro delle imprese i bilanci d'esercizio ovvero a non redigere la dichiarazione dei redditi, una flessione se non un vero e proprio azzeramento, in alcuni casi, nelle dichiarazioni dei redditi, con una sorta di effetto perverso secondo cui l'esclusione dalla fallibilità aveva interessato non solo gli imprenditori realmente piccoli, ma aveva favorito tutti quegli imprenditori che, pur non essendo piccoli, tuttavia vivevano ai margini della legalità commerciale, concedendo loro un facile escamotage per sottrarsi alle conseguenze delle proprie scorrettezze (basti pensare a pratiche come quelle sopra descritte ovvero ancora a quelle di porre in liquidazione e nell'immobilismo l'azienda per sottrarsi agevolmente alle dichiarazioni di fallimento) (si leggano sul punto le condivisibili affermazioni di Vitiello, 21; in giurisprudenza, si legga anche Trib. Roma 12 dicembre 2006, in Fall., 2007, 555). Non vi è stupore, pertanto, se l'occasione di correzione concessa dalla legge n. 228 del 2006 al legislatore delegato sia stata subito raccolta per una riscrittura dell'art. 1 l.fall. Così, oltre ai due criteri inseriti in precedenza, e sottoposti nel correttivo a revisione, si è aggiunto anche l'indebitamento, quale misura del disagio cui sono sottoposti i creditori e del pericolo, cui è comunque sottoposto l'intero mercato. Dal punto di vista concettuale, la più grande innovazione è rappresentata proprio dal superamento definitivo della figura del piccolo imprenditore, che invero scompare dalla legge fallimentare, per essere definitivamente sostituita da una nozione nuova che non ha più equivalenti nell'ambito del codice civile, e cioè la figura dell'imprenditore commerciale non sottoponibile a fallimento, laddove la scelta è dettata da una motivazione evidentemente di tipo politico-economico, astratta da categorie giuridiche pregresse ovvero di altro genere, così superando alcune letture dell'art. 1 effettuate dalla giurisprudenza di merito che correvano il rischio di vanificare tutto l'impianto della riforma (si allude a quelle interpretazioni secondo cui, indipendentemente dalle soglie di cui all'art. 1 che definivano in realtà gli imprenditori medi e medi-grandi, in ogni caso erano esclusi dal fallimento solo i piccoli imprenditori e, dunque, nella fascia residua posta tra il limite delle soglie e il disposto dell'art. 2083 c.c. era la discrezionalità del tribunale a dover scegliere se l'imprenditore fosse o meno assoggettabile a fallimento per la prevalenza o meno del lavoro sul capitale investito (in giurisprudenza, si legga Trib. Firenze 31 gennaio 2007 e Trib. Firenze 15 marzo 2007; in dottrina, cfr. Bailetti,). L'art. 2221 c.c., dunque, deve essere integrato con l'art. 1 della l.fall. per poter identificare quali siano i piccoli imprenditori che non falliscono, atteso che la legge delega non aveva il potere di modificare anche il testo del codice civile, modifica che tuttavia ora si imporrebbe, considerato che nel complesso del codice sono contemplati diversi concetti di piccolo imprenditore a fini distinti (così Pajardi-Paluchowski, 65). In ordine agli attuali limiti dimensionali, va detto che i parametri di riferimento dell'art. 1 l.fall. hanno tutti carattere contabile e sono desumibili, in linea generale, dall'esame delle scritture contabili per gli imprenditori commerciali collettivi e dall'inventario annuale che si chiude con il bilancio per gli imprenditori individuali (Macrì, 1001 s. In ogni caso, occorre individuare il dato reale al di là di quello apparente, nel senso di verificare la correttezza e veridicità del dato contabile apparente nell'ambito delle regole codicistiche o nel senso di verificare la correttezza e veridicità del dato contabile apparente, al di là delle regole codicistiche: in giurisprudenza, si legga Cass. n. 11007/2012 che ha stabilito che i bilanci degli ultimi tre esercizi costituiscono la base documentale imprescindibile, ma non anche una prova legale, con la conseguenza che se non ritenuti attendibili dal giudice, sulla base di alcuni indici sintomatici, quali i rilievi del curatore nella relazione ex art. 33 l.fall., l'approvazione di plurimi bilanci nella stessa assemblea, il difetto del «quorum» pur essendovi solo due soci e la mancata contabilizzazione di un consistente debito verso terzi, l'imprenditore rimane comunque onerato della prova circa la sussistenza dei requisiti della non fallibilità; cfr. anche App. Torino 4 marzo 2011, in Fall. 2011, 632, secondo cui i bilanci degli ultimi tre esercizi, ancorché privi di efficacia di prova legale, costituiscono la base documentale imprescindibile della dimostrazione che il debitore ha l'onere di fornire per sottrarsi alla dichiarazione di fallimento, in particolare quando siano stati redatti conformemente alle disposizioni di legge in materia e non siano stati oggetto di impugnativa per violazione delle disposizioni stesse, con la conseguenza che il debitore può contestare i dati dei propri bilanci purché la prova del fallimento possa desumersi da documenti altrettanto significativi; v. anche Cass. I, n. 25025/2020, per la quale, poiché i bilanci degli ultimi tre anni non assurgono a prova legale, il debitore può assolvere l’onere che gli incombe con strumenti probatori alternativi, segnatamente avvalendosi delle scritture contabili dell’impresa come di qualunque altro documento, anche formato da terzi, idoneo a fornire la rappresentazione storica dei fatti e dei dati economici e patrimoniali dell’impresa; v. anche Trib. Udine 13 gennaio 2012, in osservatorio-oci.org, che ha opinato nel senso che la valutazione dell'ammontare dell'attivo patrimoniale, in quanto mirante a far emergere la realtà economica dell'impresa, deve prescindere dalla formale applicazione dei principi contabili e della normativa in tema di redazione dei bilanci ogni qualvolta il loro rigoroso rispetto venga a determinare una divergenza tra il dato «formale» contabile e la reale dimensione dell'impresa; si legga inoltre Trib. Terni 4 luglio 2011, in Fall. 2011, 1427, secondo il quale i dati contabili dell'impresa insolvente non assumono valore di prova legale né introducono una limitazione all'assunzione e valutazione delle prove nel corso dell'istruttoria prefallimentare, all'esito della quale è possibile procedere ad una loro rettifica ed integrazione, essendo scopo della norma quello di accertare le dimensioni reali ed effettive dell'impresa ritenuta insolvente). Sul punto, va aggiunto che la giurisprudenza di merito, a differenza della giurisprudenza di legittimità (che si è espressa con poche sentenze sul punto di tipo conservativo) si è mostrata molto sensibile alla necessità di valorizzare il dato contabile sostanziale, in linea con l'evoluzione normativa in materia contabile. Il d.lgs. n. 38/2005, che ha dato attuazione al Regolamento CE 1606/2002, prevede, ora, che per società di determinate dimensioni o che esercitano determinate attività bisogna ricorrere ai principi contabili internazionali che non necessariamente coincidono con i principi contabili codicistici e che sono ispirati al fondamentale principio del «fair value» (così ancora, Macrì, cit., ibidem). Ne discende che l'applicazione di questo criterio porta alla rivalutazione dei cespiti, all'emersione di plusvalenze, alla preferenza del valore reale dei beni piuttosto che del criterio del costo storico dei cespiti, all'accantonamento delle somme da rivalutazione. Peraltro, la regola codicistica dell'art. 2423 c.c., secondo cui il bilancio deve essere redatto con chiarezza e deve rappresentare in modo veritiero e corretto la situazione patrimoniale e finanziaria della società nonché il risultato economico di esercizio, con la conseguente necessità di informazioni complementari o disapplicazioni normative da evidenziare nella nota integrativa, è dettata solo in funzione della continuità aziendale, laddove invece ciò che interessa al tribunale nella fase pre-fallimentare è la consistenza dimensionale della società, per evitare dispendi di tempo ed economici nella trattazione di procedure scarsamente significative (così si esprime in modo del tutto condivisibile, Macrì, ibidem. In realtà, la piattaforma probatoria a disposizione del tribunale diverge, secondo il tipo di società o di impresa: cfr. Trib. Novara 23 giugno 2011, che ha precisato che l'onere della prova sul requisito dell'art. 1 l.fall. dev'essere assolto mediante la produzione dei libri contabili che l'imprenditore commerciale è obbligato a tenere ai sensi dell'art. 2214 ss. c.c., mentre l'imprenditore individuale e la società di persone sono tenute a depositare tutti i documenti contabili che consentano l'accesso ad una chiara, trasparente, completa ed intellegibile rappresentazione della situazione economica, finanziaria e contabile dell'impresa; cfr. anche App. Cagliari 8 giugno 2011, che ha ritenuto assolto l'onere probatorio da parte della società di persone che produca in sede di reclamo una parte delle scritture contabili non tenute regolarmente le quali siano comunque idonee a ricostruire le reali dimensioni dell'impresa; cfr. ancora Trib. Terni 24 giugno 2010, secondo cui la produzione dei bilanci relativi agli ultimi tre esercizi antecedenti la data di deposito dell'istanza di fallimento ex art. 1, comma secondo, lett. a) e b), l.fall., non è sufficiente di per sé a dimostrare la non fallibilità dell'imprenditore, giacché dev'essere depositata la situazione patrimoniale, economica e finanziaria aggiornata, prescritta dall'art. 15, comma quarto, l.fall., ai fini della prova del presupposto di cui alla lett. c), ed il tribunale può acquisire anche d'ufficio altra documentazione che consenta la valutazione dell'attendibilità dei dati esposti in bilancio; si legga anche App. Bari 25 gennaio 2010, il quale ha osservato che il tipo di contabilità semplificata prescelta dall'imprenditore non impedisce che quest'ultimo possa assolvere comunque all'onere probatorio, giacché, anche dalla suddetta contabilità possono trarsi elementi che, approfonditi dal giudice con l'esercizio di poteri istruttori officiosi, possono condurre all'effetto perseguito dal legislatore di evitare fallimenti antieconomici; si veda inoltre App. Napoli 24 marzo 2009, che ha reputato non assolto l'onere probatorio, nell'ipotesi in cui l'imprenditore individuale, al fine di comprovare il possesso congiunto dei requisiti di esenzione dal fallimento previsti dalla norma, produca in giudizio delle dichiarazioni dei redditi inviate per via telematica oltre i termini prescritti dalla normativa di settore ovvero predisposte e depositate in epoca successiva alla pendenza del ricorso per la dichiarazione di fallimento). Venendo, ora, nello specifico ai requisiti dettati dal più novellato art. 1, giova ricordare che per «attivo patrimoniale» si intende quella parte del bilancio disciplinata dagli artt. 2424 e 2425 c.c. per le società di capitali e quella parte dell'inventario redatto all'inizio di ogni esercizio e contenente l'indicazione delle attività ai sensi dell'art. 2217 c.c. per gli imprenditori individuali e le società di persone (Macrì, cit., ibidem). Nelle ipotesi delle società di capitali occorre guardare al complesso delle voci di cui all'art. 2424 c.c. e dunque alle immobilizzazioni (immateriali, materiali e finanziarie), all'attivo circolante (rimanenze, crediti, attività finanziarie, disponibilità liquide), ai ratei ed ai risconti (così, in giurisprudenza anche Cass. n. 22146/2010; Cass. n. 17553/2009; Trib. Novara 3 novembre 2012, secondo cui, nel caso degli imprenditori collettivi obbligati a redigere e depositare il bilancio di esercizio, l'attivo di cui all'art. 1, comma secondo, lett. a), l.fall., è quello delle voci di cui all'art. 2424, lett. a), b), c) e d), c.c., appostate in conformità ai criteri di valutazione previsti dal successivo art. 2426 c.c.; cfr. inoltre Trib. Sulmona 30 gennaio 2007, in Fall. 2007, 469). Nel caso, invece, degli imprenditori non tenuti alla redazione del bilancio, si è ritenuto che tra le poste attive della situazione patrimoniale vadano incluse anche le rimanenze di magazzino, mentre nel passivo devono essere computati i debiti contratti per l'acquisto degli stessi beni (cfr. Cass. n. 17553/2009, cit.). Pertanto, deve ritenersi che, per quanto concerne il primo requisito dimensionale, oggi è, dunque, certo che occorra far riferimento al valore complessivo delle voci dell'attivo di bilancio di cui all'art. 2424 c.c., vale a dire: crediti verso i soci per i versamenti ancora dovuti (voce A), immobilizzazioni (voce B), attivo circolante (voce C), ratei e risconti attivi (voce D), senza alcuna possibilità di operare la compensazione tra partite attive e passive in violazione del divieto posto dall'art. 2423-ter c.c., implicando, come logica conseguenza, la necessità di far capo ai criteri di valutazione sanciti dall'art. 2426 c.c. (in questo senso, v. Cass. n. 22146/2010; App. Torino 4 marzo 2011, in Fall., 2011, 1327 ss., con nota di A. Guiotto, I dati di bilancio nella valutazione di fallibilità, cit.), anziché ai valori di mercato al momento del giudizio, come ipotizzato da una parte minoritaria della dottrina e della giurisprudenza: Silvestrini, 233; Verna, 1255 ss.; Badini Confalonieri, 444 ss.; App. Lecce 21 gennaio 2008), salvo il caso in cui si sia verificata, negli esercizi precedenti l'istruttoria fallimentare, una causa di scioglimento della società non formalizzata da una deliberazione dell'assemblea dei soci, giacché in tale ultima ipotesi potranno essere abbandonati i canoni di valutazione di going concern per far luogo a quelli di liquidazione (Guiotto, I dati di bilancio nella valutazione di fallibilità, cit., 1335). Va aggiunto, per completezza di indagine, che risulta essere convincimento diffuso quello secondo cui anche i beni utilizzati in forza di un contratto di leasing finanziario debbano essere considerati nel computo della soglia patrimoniale, ancorché l'impresa fallenda non li abbia contabilizzati in bilancio secondo il c.d. «metodo finanziario» imposto dai Principi contabili internazionali (IAS 17) (Potito-Sandulli, 27; Guiotto, I dati di bilancio nella valutazione di fallibilità., cit., 1334; Mandrioli, Presupposti per la dichiarazione di fallimento, in AA.VV., Le riforme della legge fallimentare, a cura di Didone, Torino, 2009, 68 ss. In giurisprudenza, cfr. Trib. Trani, 4 luglio 2011, in Fall. 2011, con nota di Canazza, Onere della prova, poteri di indagine del Tribunale e(d esame dei) presupposti di fallibilità). A sostegno di tale orientamento viene fatto persuasivamente osservare, da un lato, che, in caso contrario, si darebbe luogo ad una censurabile disparità di trattamento rispetto ad imprenditori che, invece di ricorrere al leasing per l'acquisto di beni strumentali, ne abbiano acquistato la proprietà ricorrendo all'indebitamento nelle forme tradizionali e, dall'altro, che, ai sensi dell'art. 2427, n. 22, c.c., i dati inerenti ai contratti di leasing debbono essere evidenziati nella nota integrativa, la quale, per norma di legge, è parte integrante del bilancio d'esercizio. Va aggiunto che, secondo una autorevole dottrina, nel caso di imprenditore individuale titolare di una pluralità di aziende l'unitarietà giuridica del soggetto persona fisica e la conseguente unitarietà del suo fallimento postulano una valutazione dell'attivo patrimoniale complessivo e non atomistico (riferito, cioè, alla singola impresa di cui si assume lo stato di insolvenza), e ciò a differenza dei gruppi di società, laddove alla possibile unitarietà imprenditoriale ed aziendale fa tuttavia riscontro l'autonomia patrimoniale o la soggettività perfetta delle singole componenti del gruppo (Cavalli, 54). Peraltro, deve essere ulteriormente ricordato, per completezza di indagine, che la dottrina dominante ritiene che nell'attivo patrimoniale debbano essere ricompresi anche i beni personali dell'imprenditore individuale (Sandulli, Le «dimensioni» dell'imprenditore, in AA. VV., Le procedure concorsuali, a cura di Caiafa, Padova, 2011, 9; Aprile, Sub art. 1, in AA. VV., La legge fallimentare, a cura di Ferro, Padova, 2011, 17; Ferri Jr., 2009, 16; Jachia, 50). Tale soluzione troverebbe fondamento sull'assunto che il primo comma dell'art. 2217 c.c. obbliga l'imprenditore commerciale individuale ad indicare nel libro inventari anche le attività e passività estranee all'impresa. E tale conclusione parrebbe coerente con il principio della responsabilità patrimoniale generale sancito dall'art. 2740 c.c. (Sandulli, Le «dimensioni» dell'imprenditore, cit., 9; Aprile, Sub art. 1, cit., 17; Ferri Jr., 2009, 16; Jachia, 50). La tesi riportata, il cui accoglimento appare preferibile anche in relazione al rispetto del principio generale da ultimo menzionato, non trova tuttavia riscontro unanime in dottrina, giacché si sostiene che – se la finalità della norma, che fissa le soglie di fallibilità, è quella di definire i limiti dimensionali della piccola impresa ai fini fallimentari (e ciò in considerazione del trascurabile impatto sociale delle crisi che coinvolgono le imprese di minori dimensioni, le quali saranno pertanto soggette alle disposizioni dettate per l'insolvenza del debitore civile: cfr. l. 27 gennaio 2012, n. 3) –, allora le attività e le passività da considerare dovrebbero essere soltanto quelle relative all'esercizio dell'attività aziendale (Stasi, La prova della mancanza dei requisiti di non fallibilità, cit., ibidem. Analogamente orientato è anche Ventoruzzo, L'esenzione dal fallimento in ragione delle dimensioni dell'impresa, in Riv. soc. 2009, 1062. Questa conclusione troverebbe conforto, secondo la dottrina da ultimo menzionata, nelle indicazioni contenute nella «Relazione illustrativa», laddove viene precisato che occorre fare riferimento alle voci elencate nell'art. 2424 c.c., dal momento che il bilancio dell'imprenditore individuale non deve evidenziare le attività e le passività extraziendali. Analogamente orientato è, anche, Mandrioli, Presupposti per la dichiarazione di fallimento, cit., 70). Sul punto, giova ricordare che la scelta normativa del correttivo di far riferimento all'attivo patrimoniale rispetto alla nozione di capitale investito introdotta inizialmente con il d.lgs. n. 5/2006 ha il merito di aver consentito l'ancoraggio ad un dato contabile certo, con un significato giuridico preciso. Nel precedente regime normativo c.d. intermedio, la giurisprudenza si era prodigata in svariate definizioni, facendovi rientrare anche l'autofinanziamento effettuato dall'impresa per l'acquisto di beni strumentali (così Cass. 23 marzo 2012, n. 4738), i crediti (così Cass. n. 22150/2010), tutto l'attivo patrimoniale nell'accezione degli att. 2424 ss. c.c. (in tal senso Trib. Piacenza 22 gennaio 2007, in Dir. fall., 2007, 420 e in Giur. it. 2007, 2223), considerando il suo valore al momento del suo impiego e non con riferimento alla parte residua esistente al momento della conclamata insolvenza (così, App. Brescia 21 febbraio 2007, in Fall. 2007, 591); cfr. ancora App. Napoli 9 agosto 2007, secondo cui negli investimenti rilevanti rientrano tutti gli elementi necessari al ciclo operativo dell'impresa, ovvero non solo le immobilizzazioni, ma anche i beni e servizi in uso stabile, a fronte di un corrispettivo o in leasing. Tuttavia, con riferimento ai beni immobili, v. App. L'Aquila 22 febbraio 2012, in Fall. 2012, 742 che ha ritenuto di utilizzare il criterio di apprezzamento al loro costo storico al netto degli ammortamenti; nello stesso senso già Cass. n. 22146/2010, che ha statuito il principio secondo cui per gli immobili, iscritti tra le poste attive dello stato patrimoniale, opera – al pari che per ogni altra immobilizzazione materiale – il criterio di apprezzamento del loro costo storico al netto degli ammortamenti, quale risultante dal bilancio di esercizio, ai sensi dell'art. 2426, nn. 1 e 2, c.c., e non il criterio del valore di mercato al momento del giudizio, chiarendo che tale preferibile interpretazione risponde all'esigenza non tanto di evitare dei fallimenti anti-economici, ma di agevolare l'istruttoria prefallimentare, ancorandola a parametri facilmente accertabili dalle scritture contabili; in dottrina, si legga Fortunato, 2006, 63 il quale, a sua volta, cita l'indagine congiunta svolta dal presidente della sezione fallimentare di Milano e dai professori universitari in materie aziendalistiche che aveva condotto a ben tre e diverse interpretazioni della nozione legislativa di capitale investito: 1) conferimenti di capitali in azienda dei soci o dell'imprenditore; 2) immobilizzazioni oltre all'attivo circolante; 3) le sole immobilizzazioni con l'ulteriore dubbio se in esse dovessero ricomprendersi i beni in leasing, che secondo i principi IAS andavano coimputati anch'essi e gli ammortamenti. Per Cass. I, n. 979/2021 i prelievi dalla cassa sociale da parte dei soci, non giustificati in utili effettivamente conseguiti, concorrono a formare l’attivo patrimoniale, trattandosi di somme soggette ad azione di ripetizione dell’indebito da parte della società. Ebbene, deve ritenersi, comunque, in relazione al precedente regime normativo, che gli investimenti che si volevano considerare erano quelli contenuti nell'attivo patrimoniale che, ora, dopo il correttivo, deve essere considerato in via integrale, compresi i ratei ed i riscontri attivi e comprese le componenti dell'attivo circolante, nonché ogni altra componente, anche se non direttamente connessa alla capacità produttiva dell'impresa, come nella ipotesi di crediti verso i soci per versamenti ancora dovuti. Va aggiunto che il riferimento normativo all'attivo riportato nello stato patrimoniale in relazione agli esercizi di bilancio considerati fa sì che debbano ritenersi idonei soli valori provenienti da notizie promananti dai bilanci approvati e depositati in relazione al triennio indicato nella lettera a) del comma 2 (in tal senso si esprime, anche così Pajardi-Paluchowski, cit., 67), avendo invero il correttivo risolto, sotto quest'ultimo peculiare profilo, anche il dubbio interpretativo insorto ante correttivo in ordine all'arco temporale di riferimento per la valutazione del paramento degli investimenti (al punto che taluno aveva affermato che, non essendovi limiti alle valutazioni a ritroso, l'ammontare dei trecentomila euro riguardava tutti gli investimenti eseguiti sin dal sorgere della società. Ebbene, l'attuale stesura dell'art. 1 fa sì che il superamento, in uno degli ultimi tre esercizi, dell'importo dell'attivo patrimoniale indicato, e cioè della soglia contabile di trecentomila euro, escluda per il soggetto imprenditore di sottrarsi al fallimento, eccependo la carenza dei propri requisiti in ordine alla declaratoria di fallimento, e consente dunque di avere quale riferimento un dato prossimo alla manifestazione della insolvenza, evitando peraltro prassi diverse tra i diversi tribunali in ordine all'orizzonte temporale da prendersi in considerazione, come ha inteso la relazione al decreto correttivo. In realtà, l'orizzonte temporale qui è stato ragguagliato a quello che il legislatore, già implicitamente, aveva indicato, nella ipotesi di richiesta di dichiarazione in proprio ai sensi dell'art. 14 l.fall., quando aveva imposto il deposito delle scritture contabili e fiscali obbligatorie concernenti i tre esercizi precedenti ovvero dall'inizio dell'attività se questa ha avuto una durata minore. Da ultimo, va chiarito che, quanto ai dati pregressi, la limitazione agli ultimi tre esercizi esclude che possano essere valutati bilanci più risalenti, ma, poiché, l'onere della prova della non sussistenza del requisito dimensionale di cui qui in parola pesa, quale eccezione, sul debitore convenuto, nella ipotesi di mancata acquisizione officiosa dei bilanci utili per le dette valutazioni (su cui, però, vedi infra), è il debitore che subirà le conseguenze della sua inerzia probatoria, con la conseguenza della sua fallibilità nella ipotesi di mancata dimostrazione della insussistenza del requisito patrimoniale relativo alla consistenza dell'attivo patrimoniale. Ne discende che la stesura della norma rappresenta invero un implicito incentivo alla redazione dei bilanci e al loro deposito, al fine di poter disporre di elementi di prova da produrre nella istruttoria prefallimentare e comunque non è di stimolo all'omesso deposito dei bilanci, atteso che dallo stesso non può più promanare alcun vantaggio. Venendo a scrutinare il secondo requisito, va ricordato che l'art. 1, secondo comma, lett. b, l.fall. richiede ora che l'imprenditore per essere insuscettibile alla declaratoria di fallimento deve aver realizzato nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell'istanza di fallimento ovvero dall'inizio dell'attività, se di durata inferiore, ricavi lordi per un ammontare complessivo annuo non superiore ad euro 200.000. Sul punto, giova ricordare che le modifiche apportate al requisito di cui alla lett. b) implicano ora la necessità, per sottrarsi alla dichiarazione di fallimento, che il limite dei duecentomila euro di ricavi lordi non sia superato in nessuno dei tre anni antecedenti la presentazione della domanda di fallimento, in quanto è stato soppresso il riferimento alla media ponderata degli ultimi tre anni. Ne discende che se l'imprenditore supera anche in uno solo degli ultimi tre anni il ricavo lordo di euro duecentomila è certamente sottoponibile alla procedura concorsuale liquidatoria (per una completa disamina dell'istituto, si rimanda inoltre a Pajardi-Paluchowski, 69). Tuttavia, deve ritenersi che a maggiori incertezze interpretative dia invece luogo proprio il requisito dimensionale dei ricavi, anche nella formulazione riveduta del correttivo, in quanto il legislatore ha lasciato irrisolti molti dei dubbi che si agitavano nella vigenza del testo del 2006. Ed invero, mentre può dirsi pacifico che nel computo dei ricavi lordi debbono essere prese in considerazione le voci A1 e A5 del conto economico di cui all'art. 2425 c.c., al netto dei resi, degli sconti, degli abbuoni, dei premi e delle imposte direttamente gravanti sulla vendita dei prodotti e sulle prestazione dei servizi (ai sensi dell'art. 2425 bis c.c.), dubbi invece sussistono sulla rilevanza degli ulteriori componenti positivi di reddito risultanti dal conto economico quali: ricavi accessori, dividendi, canoni attivi, interessi attivi, royalties, utili su cambi, contributi, variazioni positive delle rimanenze e dei lavori in corso su ordinazione, rivalutazioni, proventi straordinari (Stasi, La prova della mancanza dei requisiti di non fallibilità, cit., ibidem). Deve ritenersi, conformemente all'opinione espressa da una parte autorevole della dottrina (Fortunato, 2006, I, 62 ss.; contra, Mattei, 222 ss.), che possa e debba tenersi conto soltanto di quei componenti di reddito che siano espressione di ricavi di natura monetaria derivanti dall'esercizio dell'impresa e dotati di un qualche carattere di stabilità, con la esclusione dal computo del parametro reddituale sia dei proventi di natura straordinaria che non hanno carattere ricorrente, sia le rivalutazioni degli asset aziendali (i quali, stante la loro natura di costi sospesi, solo impropriamente potrebbero essere sussunti nel concetto di «ricavo»), sia le variazioni positive delle giacenze di magazzino e dei lavori in corso su ordinazione (che rappresentano anch'essi costi sospesi), in quanto inidonei a misurare l'effettiva dimensione dell'impresa. Venendo ora alle indicazioni estraibili dalla giurisprudenza, va ricordato che – siccome l'art. 1, comma secondo, lett. b), l.fall. impone di prendere in considerazione i ricavi annui lordi «in qualunque modo risulti» – allora alcune decisioni hanno ritenuto che tra i ricavi bisogna tener conto anche di quelli non annotati nelle scritture contabili, ma accertati dall'amministrazione finanziaria anche in modo non definitivo, o quelli emersi dalle indagini effettuate dalla Guardia di Finanza (cfr. App. L'Aquila 22 febbraio 2012, cit.; nello stesso senso già Trib. Udine 19 maggio 2011, e Trib. Udine 13 maggio 2011, in Fall. 2011, 1247. Si veda altresì Cass. n. 17281/2010 in Fall. 2011, 447, con nota di Vella, secondo cui i ricavi lordi vanno considerati sulla base degli atti a disposizione, a prescindere dalle allegazioni del debitore). Per Cass. I, n. 980/2021 la nozione di ricavi lordi non comprende, neppure per le società in liquidazione, le somme ritratte dalla cessione a terzi di cespiti aziendali, dovendo tenersi conto soltanto di quanto ottenuto dalle vendite di rimanenze e dall’esecuzione di eventuali contratti pendenti. Quanto alla nozione di ricavi lordi, la giurisprudenza di merito ha puntualizzato che occorre far riferimento, come per l'attivo, alle corrispondenti indicazioni fornite dalla disciplina codicistica di bilancio e in particolare alle voci dell'articolo 2425 c.c. A1, 2, 3 e 5 (con l'avvertenza che i valori delle voci 2 e 3, se negativi, vanno detratti), C15 e C16, E20 (plusvalenze da alienazione di immobilizzazioni), mentre vanno escluse dal computo le voci A4 (incrementi delle immobilizzazioni per lavori interni) e D18 (rivalutazioni) (così, Trib. Novara 3 novembre 2012, cit.; secondo Trib. Imperia 29 novembre 2010, i ricavi lordi vanno calcolati al lordo dell'I.V.A. Per Trib. Piacenza 22 gennaio 2007, cit., nel caso di imprese in contabilità semplificata, occorre guardare alla dichiarazione dei redditi e più precisamente alla nozione dell'art. 85 T.U.I.R.; inoltre, secondo Trib. Pordenone 6 novembre 2010; Trib. Pordenone 4 novembre 2010, il ricavo lordo costituisce un dato di flusso assunto dal legislatore con riferimento al periodo annuale pari normalmente alla durata dell'esercizio sociale, con la conseguenza che, ove l'esercizio abbia avuto durata inferiore, i ricavi conseguiti in detto periodo dovranno essere ragguagliati nell'anno). Per quanto attiene i documenti dai quali è possibile accertare i ricavi lordi, non vi è dubbio che il documento principe è il bilancio e precisamente quella parte di esso che prende il nome di conto economico, altrimenti detto conto profitti e perdite. Tuttavia, deve ritenersi che i ricavi possano essere desunti anche da altri elementi, principalmente in via induttiva considerando l'entità della massa dei debiti ovvero le esecuzioni mobiliari o immobiliari ovvero, e meglio, tramite informazioni ricevute dalla Guardia di Finanza ovvero ancora tramite prove emerse nel corso di un processo penale. Infine, per la valutazione del requisito di cui all'art. 1, comma secondo, lett. c), l.fall., occorre procedere all'esame dell'esposizione complessiva dell'imprenditore, anche con riguardo ai debiti non scaduti, trattandosi di un requisito assunto dal legislatore quale indice dimensionale dell'impresa. Quanto a quest'ultimo parametro, relativo, come detto, all'esposizione debitoria, introdotto ex novo dal decreto correttivo, mentre non si registrano dissensi sul fatto che, ai fini della verifica del superamento della soglia di 500.000 euro, occorra far riferimento ai debiti liquidi e certi esposti nella macroclasse D) del passivo, dubbi, invece, sussistono per quanto attiene alle passività iscritte nelle lettere B), C) ed E). Tra le varie tesi prospettate in dottrina, sembra preferibile quella di chi reputa che siano da considerare: a) i debiti derivanti da garanzie rilasciate, personali o reali, allorché il debitore sia stato escusso e la garanzia sia divenuta conseguentemente operativa; b) i debiti sottoposti a condizione risolutiva fino a che l'evento dedotto in condizione non si sia verificato; c) i debiti per trattamento di fine rapporto di lavoro subordinato; d) i debiti giudizialmente contestati fino a quando non sia intervenuta una sentenza definitiva che disconosca, in tutto o in parte, il debito; e) i ratei passivi perché rappresentativi di debiti maturati al termine dell'esercizio (Potito-Sandulli, 29; Mandrioli, Presupposti per la dichiarazione di fallimento, cit., 79 ss.). Peraltro, risulta anche condivisibile l'affermazione in dottrina secondo cui non si possa tener conto dei Fondi per rischi ed oneri e dei risconti, giacché i primi, come precisa l'art. 2424-bis c.c., caratterizzati dalla mera probabilità dell'esborso, o – in caso di certezza di questo – dall'indeterminatezza dell'ammontare o della data di sopravvenienza ed i secondi in quanto non rientranti nell'ambito dei debiti, trattandosi di ricavi sospesi da rinviare ai futuri esercizi (Stasi, La prova della mancanza dei requisiti di non fallibilità, cit., ibidem). Anche secondo le indicazioni contenute nella giurisprudenza, vanno considerati, ai fini che qui interessano, i debiti condizionati, come quelli derivanti dalla prestazione di garanzie che presuppongono la preventiva escussione del debitore (cfr. Cass. n. 25870/2011); così come devono altresì essere considerati i debiti contestati, giacché la contestazione non ne impedisce l'inclusione nel computo dell'indebitamento complessivo e non si sottrae alla valutazione del giudice chiamato a decidere sull'apertura della procedura concorsuale anche se la relativa pronuncia non pregiudica l'esito della controversia volta all'accertamento di quel credito(cfr. Cass. n. 25870/2011). Deve poi ritenersi, conformemente alla giurisprudenza di legittimità, del tutto indifferente la natura del debito, civile o commerciale (cfr. Cass. n. 8930/2012; secondo App. Brescia 9 luglio 2010, ai fini dell'accertamento dello stato d'insolvenza occorre tener conto del complesso delle obbligazioni già scadute al tempo della dichiarazione di fallimento che si possono ritenere ragionevolmente certe, comprese quelle contestate ogni qualvolta il giudice le ritenga sufficientemente certe). In ordine a quest'ultimo parametro, va detto che l'assunzione di oltre euro cinquecentomila, tra quelli scaduti e non scaduti, stabilisce pertanto la dimensione dell'indebitamento che rende l'insolvenza socialmente rilevante e giustifica, dunque, il costo della procedura. Esso peraltro, considerato che può sussistere alternativamente agli altri due criteri, contribuisce a coprire quella area di inapplicabilità del precedente art. 1 l.fall. che si verificava nella ipotesi in cui un'impresa non operava da alcuni anni, a tal punto da non avere ricavi lordi né investimenti negli ultimi tre anni, pur presentando un importo di debiti rilevante. Ne discende che la introduzione di questo ulteriore parametro alternativo deve ritenersi quanto mai opportuna, poiché consente di colpire l'insolvenza di entità rilevante indipendentemente dalla prossimità ad una attività ancora vitale e rilevante e che consente inoltre all'imprenditore cha abbia tale entità di debiti di accedere comunque alle procedure di composizione concordata della crisi (Pajardi-Paluchowski, 72). Quanto, poi, al periodo temporale di riferimento, il testo novellato dell'art. 1 l.fall. chiarisce che la soglia dell'attivo patrimoniale annuo non deve essere superata in alcuno dei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell'istanza di fallimento, ovvero dall'inizio dell'attività se di durata inferiore; ed analogo limite temporale è stato previsto anche per il requisito dei ricavi lordi. Sul punto, va ricordato che una parte della dottrina, facendo leva sulla previsione del quarto comma dell'art. 14 l.fall., che contempla l'ordine di deposito, oltre che dei bilanci degli ultimi tre esercizi, anche di una situazione patrimoniale, economica e finanziaria, ritiene coerente intendere la locuzione normativa dell'art. 1 nel senso che, mentre sarebbe sicuramente precluso al giudice risalire a dati eccedenti al triennio, non gli sarebbe comunque negata la possibilità di vagliare anche i dati patrimoniali e reddituali dell'esercizio in corso nel momento in cui inizia l'istruttoria fallimentare (Panzani, 2008, 27; Cavalli, 54). Altra parte della dottrina reputa, invece, che la situazione patrimoniale, economica e finanziaria, di cui al menzionato art. 14, sia da visualizzare alla stregua di un bilancio intermedio considerato, dal principio contabile OIC n. 30, come relativo ad un autonomo esercizio e che, conseguentemente, il calcolo del possesso congiunto dei requisiti di cui alle lett. a e b della norma vada effettuato considerando l'esercizio intermedio cristallizzato nel bilancio infrannuale nonché i due precedenti rappresentati dalle risultanze dei relativi bilanci (Mattei, 222 ss). Risulta preferibile la tesi secondo cui occorre avere esclusivo riguardo ai tre esercizi annuali chiusi antecedentemente la data di presentazione del ricorso ex art. 6 l.fall., con la conseguenza che, laddove l'impresa fallenda abbia superato una o tutte le soglie di fallibilità previste dall'art. 1 l.fall. proprio nel periodo infrannuale, la stessa potrà essere dichiarata fallita l'anno successivo, se sussisterà ancora l'insolvenza (Trib. Sulmona 12 febbraio 2008, in Fall., 2008, 943). Sul punto, preme sottolineare che la richiamata impostazione, sebbene evidenzi nella sua concreta applicazione il rischio di un eccessivo arretramento dell'esame da parte del tribunale, riveste tuttavia il notevolissimo vantaggio di prendere in esame esercizi tutti chiusi, senza la necessità di complesse istruttorie, in conformità con la ratio del legislatore di semplificare l'accertamento dei presupposti per la dichiarazione di fallimento. Ed invero, che questa sia la volontà del legislatore del correttivo risulta un dato non superabile, atteso che il legislatore del 2006 ha voluto eliminare i dubbi che erano nati dalla precedente dizione che considerava i ricavi «degli ultimi tre anni». Peraltro, va aggiunto che la norma, ove richiama i «tre esercizi antecedenti», non opera alcuna distinzione, sicché deve trattarsi di tre esercizi completi, e non parcellizzati e che ove, poi, la società faccia registrare ricavi superiori ai 200.000 euro proprio nel periodo infrannuale, tale società potrà essere sempre dichiarata fallita – come già sopra accennato – l'anno successivo, se sussisterà ancora l'insolvenza, a meno che non sia irrimediabilmente decorso il termine annuale. Infine, non può essere sottovalutato che in linea con tale ultima interpretazione è stata anche la modifica apportata all'art. 14 l.fall., ove si legge che l'imprenditore che chiede il proprio fallimento deve depositare in cancelleria le scritture contabili e fiscali obbligatorie concernenti i «tre esercizi» precedenti, oltre all'indicazione dei ricavi lordi per ciascuno degli ultimi «tre esercizi» (così anche Trib. Latina, 27 novembre 2013). Altra diversa e più complessa questione si prospetta allorché venga richiesto il fallimento di una società fusa con un'altra per incorporazione o mediante costituzione di una nuova società (Ventoruzzo, L'esenzione dal fallimento in ragione delle dimensioni dell'impresa, cit., 1079). Sul punto, è d'obbligo ricordare che, secondo il più recente orientamento giurisprudenziale, anche alle società che si estinguono per effetto della fusione è applicabile la regola generale, sancita dall'art. 10 l.fall., della fallibilità nell'anno successo alla cessazione dell'impresa (Cass. n. 2210/2007). Ebbene, sembra pertanto ragionevole ritenere che, ove l'istanza di fallimento venga presentata nell'esercizio successivo a quello in cui si concluso il procedimento di fusione, si possa e si debba fare riferimento, oltre che ai dati del bilancio relativo all'esercizio antecedente a quello del perfezionamento della fusione, alle risultanze del c.d. bilancio di chiusura della società incorporata o fusa (Stasi, La prova della mancanza dei requisiti di non fallibilità, cit., ibidem). Nella diversa ipotesi in cui il procedimento di fusione, iniziato in un esercizio, si sia completato in quello successivo in cui viene presentata l'istanza di fallimento, occorrerà fare, invece, riferimento alle risultanze dei bilanci annuali della società fusa o incorporata (vale a dire ai bilanci dei due esercizi precedenti rispetto quello in cui la fusione si è perfezionata). Analoghi principi devono valere, mutatis mutandis, anche per il fallimento della società scissa in caso di scissione totale e conseguente estinzione di questa società (Stasi, La prova della mancanza dei requisiti di non fallibilità, loc. cit., secondo cui peraltro nell'ipotesi di scissione parziale, è ai bilanci d'esercizio della sola società scissa che, alla luce del dato positivo, sembrerebbe consentito fare riferimento, ancorché l'operazione fosse stata ideata e realizzata al solo intento di non superare le soglie di fallibilità, facendo così indurre all'autore qualche perplessità sulla coerenza dei parametri fissati dalla legge di riforma). Da soggiungere, infine, che il riferimento cronologico in discorso non vale per il requisito dell'indebitamento, sicché il suo ammontare andrà determinato avendo riguardo alla situazione esistente al momento del perfezionamento della fusione. Da ultimo, occorre ricordare che nel caso della società in liquidazione volontaria è dubbio se il triennio debba decorrere a ritroso dalla presentazione del ricorso di fallimento o dalla messa in liquidazione della società. Secondo una parte della giurisprudenza di merito (Trib. Reggio Calabria 8 giugno 2010, in Fall. 2010, 1335) ed in modo del tutto condivisibile a parere di chi scrive, non devono considerarsi come anni di riferimento quelli antecedenti al deposito dell'istanza di fallimento, bensì i tre esercizi antecedenti alla messa in liquidazione della società. Secondo altri, al fine di stabilire se una società in liquidazione sia assoggettabile al fallimento, il requisito dimensionale relativo ai ricavi lordi conseguiti negli ultimi tre anni dovrebbe essere riferito al periodo di attività e non a quello di inattività conseguente allo stato di liquidazione, poiché, diversamente, si arriverebbe ad escludere dal fallimento anche imprenditori di rilevanti dimensioni (Trib. Taranto 19 marzo 2007, in Fall. 2007, 591. Negli stessi termini App. Napoli 29 ottobre 2008). Viceversa, per altra parte della giurisprudenza (Trib. Piacenza 22 gennaio 2007. Analogamente per Trib. Roma 12 dicembre 2006, in Dir. fall. 2007, 239, non può essere dichiarato il fallimento di una società in liquidazione che, nell'ultimo triennio, non abbia emesso alcuna fattura e non abbia svolto alcuna attività, posto che il superamento della soglia dei ricavi lordi e degli investimenti dev'essere guardato con riferimento agli ultimi tre esercizi antecedenti all'istanza di fallimento e senza riferimento all'attività precedente la fase di liquidazione. Nello stesso senso anche App. Milano 30 agosto 2007, secondo il quale, al fine di stabilire se un'impresa sia assoggettabile al fallimento, bisogna guardare ai risultati degli ultimi tre esercizi antecedenti l'istanza di fallimento senza poter segmentare l'attività della società in fase di attività, inattività e liquidazione), il periodo triennale ai fini della fallibilità si dovrebbe calcolare anche nel caso delle imprese in liquidazione con riferimento ai tre esercizi anteriori alla data dell'istanza di fallimento e non dal precedente momento della cessazione anche di fatto dell'attività imprenditoriale. Peraltro, dovrebbe essere chiaro che la circostanza che un'impresa sia in liquidazione non esclude necessariamente la sua valenza come struttura organizzativa e dunque come struttura in qualche modo ricollocabile nel mercato, così come non è da escludere la utilità di un procedimento concorsuale nel caso di una significativa debitoria. È necessario dunque adeguare i criteri indicati dalla legge alla nuova finalità della struttura aziendale, non più vista in prospettiva di continuazione, bensì vista in termini liquidatori. Ne consegue che l'ammontare dell'attività patrimoniale andrà valutato in base ai valori di bilancio di liquidazione o, in mancanza di bilanci, a valori di mercato (Trib. Napoli, 1° ottobre 2008, in Corr. merito 2009, 29). Infine, va precisato che anche in ipotesi di società in liquidazione, spetta all'imprenditore la prova del possesso dei requisiti soggettivi di non fallibilità, dovendosi anche qui ribadire che a tal fine non è però sufficiente la produzione dei bilanci relativi solo a due degli esercizi anziché a tre, anche laddove si deduca che l'impresa sia rimasta praticamente inattiva, essendo stato già liquidato il patrimonio e saldati tutti i debiti all'epoca scaduti (App. Ancona 22 ottobre 2010). In ordine, poi, alla soglia dei trentamila euro, può ritenersi che la stessa integri una sorta di «quarto» requisito dimensionale, sempre con finalità deflattive del procedimento fallimentare, sottratto al principio dispositivo della prova e rilevabile d'ufficio (secondo App. L'Aquila 14 febbraio 2012, in Fall. 2012, 683, la verifica del mancato superamento della soglia di euro trentamila, prevista dall'art. 15, ult. comma, l.fall., deve avvenire d'ufficio ad opera del giudice il quale non può fare esclusivo riferimento alle somme di cui alle istanze di fallimento, ma deve riferirsi «agli atti dell'istruttoria prefallimentare» genericamente intesi, dovendo quindi tener conto delle informazioni urgenti richieste d'ufficio dal tribunale ai sensi dell'art. 15, comma quarto, l.fall., e delle prove disposte dal tribunale o dal giudice delegato su istanza di parte o d'ufficio ex art. 15, comma sesto, l.fall. Per Trib. Roma 24 dicembre 2008, in Fall. 2009, 1205 con nota di Badini Confalonieri, la soglia dell'indebitamento prevista dall'art. 15 l.fall. si configura non come fatto impeditivo ex art. 2697 c.c., ma come condizione obiettiva di procedibilità, che dev'essere oggetto di rilevazione del tribunale in ogni caso, in base agli atti acquisiti per l'accertamento dei presupposti di cui agli artt. 1 e 5 l.fall., senza che vi sia spazio per l'applicazione dell'onere della prova quale regola di giudizio per il caso dubbio; pertanto, se mancano gli elementi per ritenere superata detta soglia, non avendo il debitore adempiuto alla prescrizione del deposito della sua situazione contabile aggiornata, non può farsi luogo alla dichiarazione di fallimento. Secondo Trib. Sulmona 11 novembre 2010, in Fall. 2011, 248, a differenza della prova per il mancato superamento dei parametri dimensionali che incombe sul debitore, la prova del mancato superamento della soglia minima di euro trentamila può essere assunta d'ufficio dal tribunale anche in mancanza di una specifica eccezione da parte del resistente, trattandosi di eccezione in senso lato). In tema di fallimento, ai fini della prova della sussistenza dei requisiti di non fallibilità di cui all’art. 1, comma 2, l.fall., i bilanci degli ultimi tre esercizi che l’imprenditore è tenuto a depositare, ai sensi dell’art. 15, comma 4, l.fall., sono quelli già approvati e depositati nel registro delle imprese, ex art. 2435 c.c., sicchè, ove difettino tali requisiti o essi non siano ritualmente osservati, il giudice può motivatamente non tenere conto dei bilanci prodotti, rimanendo l’imprenditore onerato della prova circa la sussistenza dei requisiti della non fallibilità (Cass. I, ord. n. 13746 /2017).
L'onere della provaIl legislatore del correttivo è intervenuto anche sul fronte dell'onere della prova in sede di procedimento per la dichiarazione di fallimento, sancendo il principio secondo il quale spetta al debitore, in via d'eccezione, fornire la dimostrazione dello status di soggetto non fallibile, ferma restando la possibilità del tribunale di utilizzare i propri poteri officiosi per verificare la ricorrenza dei requisiti dimensionali (Corte cost. n. 198/2009, in Foro it. 2009, I, 2576 ss., con nota di Fabiani). Date queste opportune premesse, va sicuramente condivisa l'affermazione secondo cui la circostanza che l'art. 18 del d.P.R. n. 600/1973 esenti dalla tenuta delle scritture delle scritture contabili di cui all'art. 2214 c.c. (val dire libro giornale, libro degli inventari, schede di contabilità generale etc.) le imprese individuali e le società di persone che abbiano realizzato nel precedente periodo d'imposta ricavi non superiori a 400.000 euro, se esercenti attività di prestazione di servizi, e 700.000 euro negli altri casi, non vale ad escludere l'obbligo di tenuta dei medesimi documenti contabili a fini diversi da quelli fiscali allorché non sussistano anche i presupposti indicati dall'art. 2083 c.c.per il riconoscimento della qualifica di piccolo imprenditore (Stasi, La prova della mancanza dei requisiti di non fallibilità, loc. cit.. Come correttamente rilevato in giurisprudenza, è, infatti, principio assolutamente fermo e consolidato quello per cui il regime tributario di contabilità semplificata non comporta «per le imprese l'esonero dall'obbligo di tenuta dei libri e delle scritture contabili disposto dall'art. 2214 c.c., sia ai fini civili che agli effetti penali previsti dalla legge fallimentare, perché il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 18, che ammette una contabilità semplificata per i contribuenti minori, fa «salvi gli obblighi di tenuta delle scritture previste da disposizioni diverse dal presente decreto», sicché nel caso di inadempimento a tale obbligo si possono configurare gli elementi integrativi del reato di bancarotta»). Né questo principio può essere messo, oggi, in discussione dalla nuova formulazione dell'art. 1 l.fall., non potendosi ragionevolmente dubitare della sopravvivenza della definizione di piccolo imprenditore offerta dal codice civile ai fini dell'applicazione delle disposizioni dettate dagli artt. 2214 ss. in tema di scritture contabili (Ventoruzzo, L'esenzione dal fallimento in ragione delle dimensioni dell'impresa, cit., per il quale la nozione di piccolo imprenditore contenuta nel codice civile avrebbe, oggi, rilievo solo ai della definizione dell'ambito di applicazione della disciplina delle scritture contabili e della pubblicità legale; in giurisprudenza cfr. Trib. Terni 4 luglio 2011), con l'ovvia conseguenza che, non potendo essere considerati piccoli imprenditori ai sensi dell'art. 2083 c.c.le società titolari di imprese commerciali, dovranno ritenersi escluse dall'obbligo di tenere le scritture contabili previste dal codice civile soltanto le imprese individuali che, pur rientrando nell'area della fallibilità, siano caratterizzate dalla prevalenza del lavoro personale e familiare. Il disposto normativo di cui all'art. 1, comma secondo, l.fall. presenta una evidente divaricazione con quanto invece disposto dall'art. 15, atteso che la prima norma dispone espressamente che «non sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori di cui al primo comma, i quali dimostrino il possesso congiunto dei seguenti requisiti», mentre l'ultimo comma dell'art. 15 l.fall. si limita a statuire che «non si fa luogo alla dichiarazione di fallimento se l'ammontare dei debiti scaduti e non pagati risultanti dagli atti dell'istruttoria prefallimentare è complessivamente inferiore a euro trentamila» (Vella, 447). Ne discende che, a differenza della prima ipotesi — in cui la qualificazione delle soglie dimensionali quale fatto impeditivo discende agevolmente dall'onere probatorio posto a carico del debitore —, nella seconda il legislatore richiede una valutazione globale del materiale istruttorio comunque acquisito agli atti del procedimento, lasciando aperto il dubbio se si tratti di un fatto costitutivo (Santangeli, 157 ss., il quale pure sottolinea che l'onere probatorio posto a carico del creditore ben potrebbe restare superato dal mancato assolvimento dell'onere del debitore di produrre i bilanci degli ultimi tre esercizi e la situazione patrimoniale, economica e finanziaria aggiornata all'attualità, da cui il tribunale potrebbe trarre argomenti di prova, ai sensi degli artt. 118 e 116 c.p.c.) o, come crede chi scrive, estintivo (così anche De Santis, 2010, 76 s.). Seguendo la lettura del citato secondo comma dell'art. 1 l.fall., si può concludere con sicurezza nel senso che — come probabilmente voluto dal legislatore del correttivo — l'onere della prova dei requisiti di non fallibilità gravi solo ed esclusivamente sul debitore. Tuttavia, va aggiunto che, attraverso una lettura sistematica e combinata delle varie disposizioni che disciplinano l'istruttoria prefallimentare, si perviene ad una conclusione parzialmente difforme (in questo senso si muove anche la giurisprudenza di legittimità (così Cass. n. 22546/2010), la quale ha ribadito, in tema di dichiarazione di fallimento e di onere della prova nel procedimento dichiarativo, che, pur dopo la riforma del 2006 e dopo il d.lgs. correttivo del 2007, «nella materia fallimentare vi è un ampio potere di indagine officioso in capo allo stesso organo giudicante. Di ciò è sicuro indice non solo la previsione contenuta nella fine del quarto comma dell'art. 15 legge fallimentare, là dove si precisa che il tribunale, dopo aver ordinato al debitore fallendo il deposito dei bilanci relativi agli ultimo tre esercizi nonché atti da cui risulti una situazione economica aggiornata, può comunque chiedere informazioni urgenti, potendosi a tal fine avvalere, evidentemente, di ogni organo pubblico a ciò competente, ma anche quanto previsto alla lettera b) del secondo comma dell'art. 1 della legge fall., ove è chiarito che i dati relativi all'ammontare dei ricavi lordi realizzati dal debitore nel triennio antecedente alla data di deposito della istanza di fallimento sono utilizzabili in «qualunque modo risulti» e quindi non soltanto sulla base delle allegazioni probatorie del debitore» (così anche si legga, Cass. n. 13086/2010). Deve ravvisarsi, da un lato, nella utilizzabilità dei dati relativi ai ricavi lordi «in qualunque modo risulti» (art. 1, comma secondo, l.fall.), e dunque anche indipendentemente dalle allegazioni del debitore e, dall'altro, nella facoltà per il tribunale, dopo aver ordinato il deposito dei bilanci relativi agli ultimi tre esercizi, di chiedere comunque informazioni urgenti, ex art. 15, comma quarto, l.fall. ed infine, nella disposizione di cui all'art. 18, comma decimo, l.fall., che in sede di reclamo contro la sentenza dichiarativa di fallimento legittima il collegio ad assumere, anche d'ufficio, i mezzi di prova ritenuti necessari, gli indici interpretativi di una diversa e più articolata ricostruzione, capace di dischiudere significativi varchi verso una concreta ingerenza officiosa nell'indagine prefallimenatre, come tale finalizzata a colmare le lacune probatorie ritenute sussistenti nella istruttoria (così si esprime Vella, loc. cit. In questa direzione, si leggano anche Cass. n. 11309/2009, in Foro it. 2009, 10, I, 2577, con nota di Fabiani; Cass. n. 2118/1980; Cass. n. 23727/2008; Cass. S.U., n. 141/2006; Cass. S.U., n. 13533/2001. Nella prassi applicativa, la riformulazione dell'art. 1 l.fall. ad opera del correttivo è stata immediatamente letta come introduzione di una sorta di «presunzione di fallibilità» — iuris tantum — dell'imprenditore commerciale, non altro apparendo il significato del secondo comma, per cui «non sono soggetti alle disposizioni sul fallimento» gli imprenditori commerciali — diversi dagli enti pubblici — i quali «dimostrino» il possesso congiunto dei requisiti di cui alle lett. a), b) e c) del medesimo comma (cfr. App. Napoli 5 giugno 2009; App. Ancona 22 ottobre 10). Residuava peraltro, tra i giudici di merito — come in dottrina —, il dubbio se anche il tribunale potesse rilevare d'ufficio il mancato superamento dei limiti dimensionali posti dal legislatore (in senso favorevole Trib. Tolmezzo 14 ottobre 2008; contra Trib. Napoli 1 ottobre 2008, in Fall. 2009, 597 ss. e, in caso affermativo, al ricorrere di quali condizioni, segnatamente se solo in caso di dubbio circa il superamento delle soglie di fallibilità — ma fermo restando l'onere della prova del loro mancato superamento a carico dell'imprenditore, quale fatto impeditivo della dichiarazione di fallimento (App. Napoli 19 maggio 2009), ovvero con possibilità di attivazione dei poteri istruttori officiosi anche in assenza di attività deduttiva del fallendo, e quindi anche in caso di sua contumacia (cfr. Trib. Padova 11 giugno 2008). Tale posizione ha immediatamente ricevuto l'autorevole avallo del Giudice delle leggi, per il quale la diversa tesi, contraria all'attribuzione dell'onere della prova della fallibilità a carico del debitore, «avrebbe delle conseguenze i cui effetti non sarebbero giustificabili alla luce della dichiarata ratio legis che ha presieduto alla adozione della novella del 2007 , poiché finirebbe per riversare sul creditore istante o sul pubblico ministero questo onere, quale fatto costitutivo della domanda di fallimento, in contrasto col «principio della attribuzione dell'onere probatorio alla parte più vicina alla prova stessa, ricavabile dall'art. 2697» e finendo così per configurare «un onere non di rado inesigibile», specie con riferimento alla prova della complessiva esposizione debitoria dell'imprenditore (Corte cost. n. 198/2009, cit., 114 ss. In quel contesto, la Consulta ha sottolineato l'ampio «potere di indagine officioso in capo allo stesso organo giudicante», di cui «è sicuro indice non solo la previsione contenuta nella fine del quarto comma dell'art. 15 della legge fallimentare, là dove si precisa che il tribunale, dopo aver ordinato al debitore fallendo il deposito dei bilanci relativi agli ultimi tre esercizi nonché atti da cui risulti una situazione economica aggiornata, può comunque chiedere informazioni urgenti, potendosi a tal fine avvalere, evidentemente, di ogni organo pubblico a ciò competente, ma anche quanto previsto alla lettera b) del secondo comma dell'art. 1 della l.fall., ove è chiarito che i dati relativi all'ammontare dei ricavi lordi realizzati dal debitore nel triennio antecedente alla data di deposito della istanza di fallimento sono utilizzabili in «qualunque modo risulti» e quindi non soltanto sulla base delle allegazioni probatorie del debitore», osservando che un «prudente e consapevole uso di siffatto potere è di per sé strumento idoneo ad evitare, nei limiti di quanto ragionevolmente dovuto, la possibilità che siano dichiarati fallimenti che, date le caratteristiche del debitore, sarebbero ingiustificati»). In tema di fallimento, ai fini della prova della sussistenza dei requisiti di non fallibilità di cui all'art. 1, comma 2, l.fall., i bilanci degli ultimi tre esercizi che l'imprenditore è tenuto a depositare, ai sensi dell'art. 15, comma 4, l.fall., costituiscono strumento di prova privilegiato dell'allegazione della non fallibilità, in quanto idonei a chiarire la situazione patrimoniale e finanziaria dell'impresa, senza assurgere però a prova legale, essendo soggetti alla valutazione, da parte del giudice, dell'attendibilità dei dati contabili in essi contenuti secondo il suo prudente apprezzamento ex art. 116 c.p.c., sicché, se reputati motivatamente inattendibili, l'imprenditore rimane onerato della prova della sussistenza dei requisiti della non fallibilità (Cass. I, ordinanza n. 30516/2018). Il superamento del principio inquisitorio. Ebbene, la giurisprudenza di legittimità ha definitivamente chiarito che l'onere, posto a carico del creditore, di provare la sussistenza del credito e la qualità di imprenditore in capo al debitore, non esclude, ai sensi dell'art. 15 l.fall., la sussistenza di spazi residuali di verifica officiosa da parte del tribunale, che può assumere informazioni urgenti, utili al completamento del bagaglio istruttorio, e non esclusivamente strumentali all'adozione di un'eventuale misura cautelare, in quanto il procedimento, pur essendo espressione di giurisdizione oggettiva perché incide su diritti soggettivi, consacrando il potere dispositivo delle parti, nel contempo tutela interessi di carattere generale ed «ha attenuato, ma senza eliminarlo, il suo carattere inquisitorio» (così, Cass. n. 13086/2010, cit.). Tuttavia sul punto va precisato che, non essendo più consentita l'iniziativa d'ufficio per la dichiarazione di fallimento, può farsi luogo agli accertamenti istruttori officiosi previsti dal 6 comma e, a fortiori, alle «informazioni urgenti» di cui al 4 comma dell'art. 15 1.fall., soltanto se l'attore allega quanto meno un principio di prova in ordine alla sussistenza dello stato d'insolvenza (Trib. Mantova 16 novembre 2006, in Fall. 2007, 559, con nota di Montanari, La nuova disciplina del giudizio di apertura del fallimento: questioni aperte in tema di istruzione e giudizio di fatto). Invero, l'attivazione dei poteri officiosi del tribunale in sede prefallimentare implica un «ruolo di supplenza» del giudice, «volgendo a colmare le lacune delle parti». Lo stesso è tuttavia limitato ai fatti dedotti dalle parti quali allegazioni difensive, ma non è rimesso a presupposti vincolanti, richiedendo una valutazione del giudice di merito competente circa l'incompletezza del materiale probatorio, l'individuazione di quello utile alla definizione del procedimento, nonché la sua concreta acquisibilità e la rilevanza decisoria (Cass. n. 17281/2010). Peraltro va aggiunto, in termini generali, che — ove il tribunale stabilisca di colmare le lacune dell'attività probatoria delle parti disponendo mezzi istruttori officiosi — deve sempre portare a conoscenza le stesse — sotto pena di nullità del provvedimento finale — delle fonti di prova officiosamente assunte, che concorreranno a formare il suo convincimento, mettendo così le parti in condizione di articolare difese (De Santis, 2010, 231). Ne discende pacificamente che, in sede prefallimentare, il tribunale non può ricercare di propria iniziativa, cioè fuori dal processo, fatti rilevanti ai fini della decisione, allo stesso modo in cui naturalmente «non può giovarsi del suo sapere privato, prendendo d'ufficio un'iniziativa probatoria al fine di rendere giudiziale e non meramente privata quella conoscenza» (De Matteis, 140). Resta fermo il consolidato principio, per il quale, in relazione all'opzione difensiva del convenuto, consistente nel contrapporre alla pretesa attorea fatti ai quali la legge attribuisce autonoma idoneità modificativa, impeditiva o estintiva degli effetti del rapporto, occorre distinguere il potere di allegazione da quello di rilevazione: il primo compete esclusivamente alla parte e va esercitato nei tempi e nei modi previsti dal rito in concreto applicabile (soggiacendo alle relative preclusioni e decadenze), mentre il secondo può essere esercitato (e soggiace perciò alle preclusioni previste per le attività di parte) solo nei casi in cui la manifestazione della volontà dell'interessato sia strutturalmente prevista quale elemento integrativo della fattispecie difensiva (come nel caso di eccezioni corrispondenti alla titolarità di un'azione costitutiva), ovvero quando singole disposizioni espressamente prevedano come indispensabile l'iniziativa di parte, dovendosi in ogni altro caso ritenere la rilevabilità d'ufficio dei fatti modificativi, impeditivi o estintivi risultanti dal materiale probatorio legittimamente acquisito, senza che ciò comporti un superamento del divieto di scienza privata del giudice o delle preclusioni e decadenze previste: De Santis, 2010, cit., ibidem; v. anche Cass. n. 27518/2008; Cass. n. 12353/2010). Ne risulta così in larga parte superata, con i temperamenti sopra indicati, la concezione, lato sensu «inquisitoria» del regime dell'istruttoria prefallimentare vigente Sub Julio, così come costruita dalla giurisprudenza pratica, giacché il detto regime era funzionale ad un procedimento che «ha carattere sommario e camerale, investe materia sottratta al potere dispositivo delle parti, tende al riscontro dei presupposti per l'instaurazione della procedura concorsuale, senza un preciso accertamento delle obbligazioni facenti carico all'imprenditore» (Cass. n. 3300/1980. In dottrina, v. Carnelutti, 633, il quale evidenziava che il giudizio di opposizione a sentenza dichiarativa di fallimento non era compatibile con l'onere di provare l'inesistenza dei presupposti del fallimento, essendo, per l'appunto, dominato dal principio inquisitorio). Sul punto giova ricordare per la storia che soltanto nella successiva ed eventuale fase dell'opposizione a sentenza dichiarativa di fallimento il detto procedimento riacquistava il profilo di un giudizio ispirato alla «regola di ripartizione degli oneri probatori», sia pure con forti caratteristiche di inquisitorietà (Cass. n. 16356/2004). In termini generali, va pertanto ribadito che deve ritenersi superato il principio di inquisitorietà cd. in senso formale, che riconosce al giudice il potere di ammettere liberamente e senza vincoli di forma prove officiose e, in un'ottica di progressivo accostamento dell'istruttoria prefallimentare al rito cognitorio, occorre considerare tendenzialmente superato anche il principio dell'inquisitorietà cd. in senso sostanziale, in forza del quale il giudice può tenere conto anche di fatti non rappresentati in giudizio dalle parti del procedimento, a condizione che li sottoponga al contraddittorio (De Santis, 2010, 233. Vedi, nella vigenza del precedente regime normativo, anche Ricci, 176, per il quale «la previa allegazione nel processo è anche l'unica condizione, alla quale l'iniziativa del giudice deve sottostare»). Sul punto va ulteriormente precisato che l'art. 15 1. fall., nel prevedere che il giudice delegato all'istruttoria prefallimentare provveda all'ammissione ed all'espletamento dei mezzi istruttori richiesti dalle parti o disposti d'ufficio, ha inteso richiamare i principi dell'istruttoria prevista dal rito ordinario, per quanto attiene anche alle modalità di assunzione delle prove. Ne discende che la discrezionalità giudiziale di disporre mezzi officiosi deve esercitarsi — oltre che, come detto, iuxta alligata partium — anche nel contesto del catalogo legale dei mezzi di prova, senza possibilità di debordare d'ufficio nel campo delle prove atipiche (Zanichelli, 37. Sul punto, si rimanda a quanto osservato anche da De Santis, 2010, 233, il quale evidenzia che la garanzia di tipicità dei mezzi di prova, oltre che essere un dato desumibile dal diritto positivo, è anche, e soprattutto, garanzia di difesa delle parti, le quali, prima ancora che abbia inizio il processo, devono conoscere gli strumenti che il giudice potrebbe, in ipotesi, utilizzare officiosamente per la formazione del proprio convincimento: v. anche Montesano-Arieta, 217). La ripartizione degli oneri probatori. La questione relativa alla ripartizione dell'onere probatorio in seno al procedimento prefallimentare, con particolare riguardo all'onere di provare la ricorrenza (o la non ricorrenza) dei parametri dimensionali di fallibilità previsti dall'art. 1 l.fall., è stata oggetto di grande attenzione anche da parte della giurisprudenza teorica e della dottrina più autorevole (in dottrina, Capo, I presupposti del fallimento, in AA. VV., Fallimento e altre procedure concorsuali, a cura di Fauceglia-Panzani, I, Torino, 2009, 34 ss.). Come è a tutti noto, la norma prevede che non sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori commerciali, i quali dimostrino il possesso congiunto dei seguenti requisiti: a) aver avuto, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell'istanza di fallimento, o dall'inizio dell'attività se di durata inferiore, un attivo patrimoniale di ammontare complessivo annuo non superiore ad euro trecentomila; b) aver realizzato, in qualunque modo risulti, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell'istanza di fallimento, o dall'inizio dell'attività se di durata inferiore, ricavi lordi per un ammontare complessivo annuo non superiore ad euro duecentomila; c) avere un ammontare di debiti anche non scaduti non superiore ad euro cinquecentomila. Sul punto, giova ricordare che la Cassazione ha affermato il principio secondo cui l'accertamento dei requisiti per la dichiarazione di fallimento di un imprenditore commerciale va condotto sulla base delle risultanze istruttorie da chiunque provenienti, con la conseguenza che solo in caso di insufficienza degli elementi di prova acquisiti opera la regola di giudizio fondata sull'onere della prova (Cass. n. 11309/2009 che ha, per prima, nell'ambito della giurisprudenza di legittimità post-riforme, disquisito sul punto in discussione). L'onere della prova dei requisiti dimensionali incombe, expressis verbis, sul debitore contro il quale sia stata presentata la domanda di fallimento, mentre l'onere della prova della qualità di imprenditore commerciale del debitore incombe sul creditore istante (Cass. n. 11309/2009 che ha, per prima, nell'ambito della giurisprudenza di legittimità post-riforme, disquisito sul punto in discussione). Peraltro, di poco successiva in ordine temporale è la pronunzia della Corte cost. (Corte cost. n. 198/2009, in Fall., 2009, 1142 ss., con nota di commento di De Santis, Istruttoria prefallimentare ed oneri della prova, che ha certificato la legittimità costituzionale dell'art. 1, comma secondo, l.fall., avendo il giudice delle leggi statuito che la ragionevolezza della detta previsione legislativa riposa sulla circostanza che una diversa previsione equivarrebbe a rovesciare l'onere probatorio sul creditore o sul pubblico ministero istante per il fallimento, con la conseguenza di renderlo «non di rado inesigibile», attesa la difficoltà «per un soggetto che non sia lo stesso debitore di fornire una prova adeguata della complessiva esposizione debitoria di questo»). Peraltro, a fugare il paventato dubbio di costituzionalità dell'art. 1 l.fall., concorre, secondo la Consulta, la considerazione che «nella materia fallimentare vi è un ampio potere di indagine officioso in capo allo stesso organo giudicante», al quale la legge attribuisce il potere «di acquisire aliunde, o tramite l'apporto probatorio delle altre parti del procedimento, gli elementi necessari per verificare la sussistenza dei requisiti richiesti», che può avvenire anche nel giudizio di gravame ex art. 22 l.fall., il cui quarto comma prevede che l'accoglimento del reclamo, da parte della corte d'appello, contro il decreto di rigetto della domanda di fallimento determina la rimessione degli atti al tribunale «salvo che, anche su segnalazione di parte, accerti che sia venuto meno alcuno dei presupposti necessari» (per una ricostruzione completa della problematica leggi anche De Santis, 2011, 668 ss). Successivamente, sempre la giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 13086/2010, cit.) ha chiarito che la regola di ripartizione dell'onus probandi sottesa all'art. 1, secondo comma, l.fall. riposa sul principio c.d. di prossimità della prova, ponendo a carico del debitore l'onere di provare di essere esente dal fallimento, mercé la dimostrazione del non superamento congiunto dei parametri dimensionali ivi prescritti. Peraltro, il giudice di legittimità ha affermato il principio secondo cui deve escludersi in subiecta materia la possibilità di ricorrere — quanto all'individuazione dei presupposti di fallibilità del debitore — al criterio sancito dalla norma sostanziale contenuta nell'art. 2083 c.c., il cui richiamo nel disposto dell'art. 2221 c.c. (che consacra l'immanenza dello statuto dell'imprenditore commerciale al sistema dell'insolvenza, salve le esenzioni ivi previste) non spiega alcuna rilevanza esegetica. IL regime concorsuale riformato ha tratteggiato infatti la figura dell'imprenditore fallibile, affidandola in via esclusiva a parametri soggettivi di tipo quantitativo, che prescindono del tutto da quello canonizzato nel regime civilistico della prevalenza del lavoro personale rispetto all'organizzazione aziendale fondata sul capitale e sull'altrui lavoro (con la conseguenza che «la società commerciale, che per sua stessa definizione non può qualificarsi piccolo imprenditore ai sensi dell'art. 2083 c.c. può essere esente dal fallimento se non raggiunge i parametri dimensionali indicati nell'art. 1», nel mentre, «in senso speculare ma inverso, l'imprenditore individuale che esercita l'attività commerciale nelle condizioni postulate dall'art. 2083 c.c. nondimeno non si giova di tale condizione, che pur ha efficacia scriminante secondo il disposto dell'art. 2221 c.c. poiché sarà comunque dichiarato fallito se non dimostra di non aver superato i limiti dimensionali anzidetti»). Peraltro l'onere, posto a carico del creditore, di provare la sussistenza del proprio credito e la qualità di imprenditore in capo al debitore non esclude, ai sensi dell'art. 15 l.fall., la sussistenza di spazi residuali di verifica officiosa da parte del tribunale, che può assumere informazioni urgenti, utili al completamento del bagaglio istruttorio e non esclusivamente strumentali all'adozione di un'eventuale misura cautelare, e ciò per la ragione secondo la quale il procedimento, pur essendo espressione di giurisdizione oggettiva dal momento che incide su diritti soggettivi e consacra il potere dispositivo delle parti, nel contempo tutela interessi di carattere generale, avendo le riforme attenuato, ma senza eliminarlo, il suo carattere inquisitorio. Sulla stessa linea interpretativa si è, poi, collocata la successiva giurisprudenza teorica, la cui riflessione si è prevalentemente incentrata sull'individuazione dei limiti del potere di indagine officiosa residuato in capo al tribunale a seguito delle riforme della legge fallimentare (cfr. Cass. n. 17821/2010). La Cassazione ha sostenuto che, pur dopo l'abrogazione dell'iniziativa d'ufficio, tenuto conto dell'esigenza di evitare la pronuncia di fallimenti ingiustificati il giudice fallimentare può tuttora, da un lato, assumere informazioni urgenti (ex art. 15, quarto comma, l.fall.) e utilizzare i dati dei ricavi lordi in qualunque modo essi risultino (e dunque a prescindere dalle allegazioni del debitore, ex art. 1, secondo comma, lett. b, l.fall.), e dall'altro assumere mezzi di prova officiosi ritenuti necessari nel giudizio di impugnazione (ex art. 18 l.fall.) (nella citata pronunzia — Cass. n. 17281/2010, cit., con nota di Vella —, si precisa che si tratterebbe «di un ruolo di supplenza assegnato al tribunale, il cui esercizio non è rimesso all'esistenza di presupposti vincolanti, ma che, al contrario, richiede una valutazione di merito da parte del giudice competente per la dichiarazione di. fallimento, relativamente alla incompletezza del materiale probatorio acquisito, alla individuazione di quello astrattamente utile per una corretta definizione della procedura, alla concreta acquisibilità dei dati idonei a colmare le deficienze riscontrate, alla rilevanza dei detti dati sulla decisione da adottare». Si legga anche Cass. n. 22546/2011, in Fall., 2011, 22 ss., con osservazioni di Genoviva, la quale esaminando la natura, i limiti e la funzione del giudizio di reclamo ex art. 18 l.fall., ha statuito che quest'ultimo è caratterizzato, per la sua specialità, da un effetto devolutivo pieno, e che ad esso non si applicano i limiti previsti, in tema di appello, dagli artt. 342 e 345 c.p.c. Ne consegue che il debitore, benché non costituito avanti al tribunale, può indicare anche per la prima volta, in sede di reclamo, i mezzi di prova di cui intende avvalersi, ai fine di dimostrare l'insussistenza dei limiti dimensionali di fallibilità). Ebbene, va detto che il ritrarsi nell'ambito dell'istruttoria prefallimentare del principio inquisitorio in favore del principio dispositivo ha ampliato comunque l'ambito applicativo della regola sulla ripartizione dell'onere della prova, di cui all'art. 2697 c.c. Occorre chiarire in termini generali che grava quindi sul ricorrente l'onere di provare i fatti costitutivi della sua pretesa, mentre il debitore resta onerato di provare i fatti impeditivi, modificativi o estintivi della pretesa avversaria. Ne consegue che l'attore è onerato di provare il fondamento della legittimazione attiva, e cioè la titolarità del credito, a cui il debitore può, tra l'altro, contrapporre l'estinzione (totale o parziale) dello stesso (avvenuta a seguito del pagamento o della compensazione), ovvero il fatto impeditivo della prescrizione. Peraltro, l'attore è altresì onerato di provare la qualità di imprenditore commerciale del debitore, ai sensi dell'art. 1 l.fall., e ciò anche attraverso le risultanze camerali. A questa allegazione il debitore può contrapporre la qualità di piccolo imprenditore (perché esercita, anche in via di fatto, attività agricola o artigianale), restando onerato della relativa prova (cfr. De Santis, 2011, ibidem). Inoltre, l'attore dovrà provare che l'imprenditore, formalmente cancellato dal registro delle imprese da più di un anno — e dunque astrattamente non fallibile ai sensi dell'art. 10 l.fall. — abbia in fatto proseguito nel tempo l'esercizio dell'impresa. In realtà, l'area dell'onere della prova gravante sul ricorrente si estende alla sussistenza dello stato di insolvenza, mentre è sul debitore convenuto che incombe l'onere di dimostrare — facendo, in ipotesi, riferimento ai valori patrimoniali dell'impresa, ovvero depositando lettere di affido bancario — che gli inadempimenti o gli altri «fatti esteriori», allegati e provati dal ricorrente quali sintomi dell'insolvenza, in realtà esprimono al contrario uno stato di momentanea crisi, in via di superamento. Per quanto attiene, invece, all'onus probandi dei requisiti dimensionali di fallibilità, la questione è ormai, come si è visto, risolta, oltre che dallo stesso art. 1 l.fall. (come modificato dal d. lgs. n. 169/2007), dalla concorde giurisprudenza di legittimità (con l'avallo della Consulta), nel senso che è sul debitore che grava la prova dell'assenza dei suddetti presupposti. Tale criterio risponde al principio di matrice pretoria di maggior vicinanza ovvero di prossimità della prova, essendo ovvio che il miglior conoscitore dei propri requisiti dimensionali di fallibilità non può che essere lo stesso imprenditore (così, ancora De Santis, 2011, ibidem). Sorgono, tuttavia, taluni casi dubbi, in relazione ai quali la legge non somministra elementi diretti al fine di sciogliere il nodo della ripartizione dell'onere della prova tra le parti, ma in relazione ai quali potrebbe essere parimenti utile il richiamo proprio al criterio di prossimità della prova. Per riportare un caso pratico, nella ipotesi in cui il lavoratore subordinato faccia istanza di fallimento del datore di lavoro allegando la sussistenza di un credito, asseritamente inadempiuto, derivante da un premio di produttività, legato dal contratto collettivo al raggiungimento di determinati risultati economici, ne potrà derivare che, una volta provata dall'attore l'astratta spettanza del premio, gli elementi di informazione di cui le imprese dispongono circa i risultati economici legati all'andamento dell'impresa (che di norma sono noti all'imprenditore, ma non anche al lavoratore), potrebbero far sì che quest'ultimo sia onerato della prova negativa (è la fattispecie decisa da Cass. n. 20484/2008). Invero, il criterio della vicinanza dovrebbe essere invocato anche in relazione ad una ulteriore questione, riveniente dall'ultimo comma dell'art. 15 l.fall., ove, a differenza che nell'ipotesi della prova dei requisiti dimensionali di fallibilità, il legislatore non ha esplicitamente chiarito se debba essere il ricorrente a provare che il convenuto ha un'esposizione debitoria superiore alla somma di trentamila euro (in assenza della quale non può farsi luogo a dichiarazione di fallimento), ovvero se grava sul convenuto la prova di non avere debiti superiori a quella cifra. Sul punto, giova ricordare che il criterio dell'indebitamento minimo rappresenta una condizione per l'accoglimento della domanda di fallimento che permane lungo tutto il corso dell'istruttoria prefallimentare e che può operare anche a dispetto dell'avvenuto accertamento dello stato di insolvenza. Ne discende che la circostanza di avere un indebitamento inferiore ai trentamila euro rappresenta, dunque, un fatto impeditivo-negativo, la cui prova incombe sul convenuto, che potrà a questo fine avvalersi di mezzi di prova sicuramente a lui più «vicini» (e cioè bilanci, elenco protesti, e altro). Ne consegua ancora che, raggiunta la prova del fatto impeditivo negativo, si ribalta l'onere probatorio sul ricorrente-creditore, il quale si accolla in definitiva il rischio di non avere provato in corso di causa l'esistenza di debiti oltre la soglia di legge, ulteriori rispetto a quelli che di desumono dalle prove offerte dal convenuto. In realtà l'ammontare dei debiti può risultare anche dagli atti di causa o da altri documenti depositati dalle parti o acquisiti d'ufficio. In concreto, inoltre, è buona pratica per il ricorrente, il cui credito non superi la soglia di legge, allegare al ricorso di fallimento il bilancio del debitore o una visura dei protesti o dei pignoramenti trascritti, da cui risulti l'esistenza di debiti di ammontare più elevato, che, da soli o cumulati, superino l'ammontare di trentamila euro. Ed infine deve concordarsi ancora una volta con quella autorevole dottrina (De Santis, 2011, ibidem), secondo la quale l'onere processuale — codificato dall'art. 115, comma primo, c.p.c. (nel testo modificato dalla L. n. 69/2009), gravante sulla parte costituita — di contestare esplicitamente le allegazioni avversarie, con il conseguente effetto di relevatio ab onere probandi, vale anche nel giudizio di istruttoria prefallimentare con alcuni «correttivi». Occorre altresì precisare che — per principio generale (senz'altro applicabile anche al processo di fallimento) — le regole di riparto dell'onere della prova non implicano affatto che la dimostrazione degli elementi costitutivi del diritto controverso debba ricavarsi esclusivamente dalle prove offerte da colui che è gravato dal relativo onere, nel senso che esse vanno contemperate con il c.d. principio di acquisizione (avente, secondo la giurisprudenza, fondamento nei principi costituzionali del giusto processo), secondo cui le risultanze istruttorie, comunque acquisite al processo, e quale che sia la parte ad iniziativa o ad istanza della quale si siano formate, concorrono tutte alla formazione del convincimento del giudice (Cass. n. 18647/2010). L'onere di provare i requisiti dimensionali di fallibilità. Sul punto va necessariamente premesso, ante omnia, che dall'esame combinato della nozione codicistica e di quella concorsuale di piccolo imprenditore commerciale, nonché dell'assoggettabilità di quest'ultimo alle procedure concorsuali emerge una sorta di «corto circuito» normativo (l'espressione è di De Santis, 2011, ibidem). Come è noto, l'art. 1 l.fall., come originariamente sostituito dal d.lgs. n. 5/2006, assoggettava alle norme sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori esercenti un'attività commerciale con esclusione dei piccoli imprenditori (individuali e collettivi), per la cui individuazione fissava requisiti dimensionali alternativi. Ebbene, il d.lgs. n. 169/2007, modificando la norma, ha espunto dal testo il riferimento ai piccoli imprenditori, ancorando il presupposto dimensionale della fallibilità al possesso congiunto dei requisiti di cui prima si è già detto. Tuttavia, il legislatore delle riforme fallimentari non ha ritenuto di raccordare tale previsione da un lato con l'art. 2083 c.c., che assegna la qualifica di piccoli imprenditori ai coltivatori diretti del fondo, agli artigiani, ai piccoli commercianti ed a coloro che esercitano un'attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della famiglia e, dall'altro, con l'art. 2221 c.c., che testualmente sottrae al fallimento ed al concordato preventivo gli enti pubblici ed i piccoli imprenditori, salve le disposizioni contenute in leggi speciali. Ne discende che, così, un imprenditore commerciale in stato d'insolvenza potrebbe avere i requisiti dimensionali di fallibilità richiesti dall'art. 1 l.fall., ma rientrare in una delle categorie di piccolo imprenditore tipizzate dall'art. 2083 c.c, ponendo l'interprete di fronte ad una non agevole operazione di «quadratura del cerchio». Va ricordato che, secondo un'opzione interpretativa, il silenzio normativo attorno alla relazione corrente tra gli artt. 2083 e 2221 c.c. da un lato, e l'art. 1 l.fall. dall'altro lato andrebbe superato nel senso che la rinnovata norma contenuta nella legge concorsuale avrebbe implicitamente abrogato in parte qua l'art. 2221 squalificando, ai fini che qui interessano, il criterio «integrativo» dell'art. 2083 c.c., sicché dovrebbe farsi riferimento soltanto all'art. 1 l.fall. (ed alla logica di ripartizione dell'onus probandi ad esso sottesa) per la delimitazione dell'area di non fallibilità (c.d. no failure zone) (cfr., ex multis, Santagata, 11 ss.; Ventoruzzo, Sub art. 1, in AA). Tale indirizzo di pensiero è stato condiviso anche dalla giurisprudenza di legittimità, la quale ha escluso la possibilità di ricorrere — quanto all'individuazione dei presupposti di fallibilità del debitore — al criterio sancito dall'art. 2083 c.c., sicché l'art. 2221, che ad esso fa testuale rinvio, non avrebbe alcuna rilevanza esegetica, atteso che il regime concorsuale riformato ha tratteggiato la figura dell'imprenditore fallibile affidandola in via esclusiva a parametri soggettivi di tipo quantitativo, prescindendo dalla tipologia di attività svolta (cfr. Cass. n. 13086/2010, sopra citata. Secondo il ragionamento della Corte, il nuovo art. 1 l.fall. «chiaramente privilegiando il criterio quantitativo rispetto a quello per categorie, ha posto termine al dibattito esegetico sorto circa la sopravvivenza in ambito concorsuale della nozione di piccolo imprenditore avendo eliminato qualsiasi spazio di applicabilità al sistema concorsuale di tale ultima figura attraverso la fissazione di limiti quantitativi entro i quali l'attività dell'imprenditore (nozione correttamente preferita a quella oggettiva dell'impresa, pur valorizzata dall'intero impianto della riforma, che, come rileva la dottrina, non rappresenta un soggetto ma qualifica l'attività esercitata dal soggetto che opera professionalmente in campo economico) deve rientrare per essere sottratta al fallimento, nell'ottica della fissazione di un limite di utilità economica dell'apertura della procedura»). Peraltro, una opposta, ancorché minoritaria, opzione interpretativa ritiene che, in assenza di esplicita abrogazione dell'art. 2221 c.c., il vigente art. 1 l.fall. avrebbe implicitamente relegato all'area della no failure zone anche gli imprenditori da considerarsi piccoli ai sensi dell'art. 2083 c.c. (Ferri jr., 2007, I, 737). Secondo altra autorevole opinione (De Santis, 2011, ibidem), dovrebbe ritenersi che le riforme della legge fallimentare non abbiano affidato all'interprete convincenti elementi per ritenere pacificamente che l'art. 2221 c.c. — nella parte in cui sottrae al fallimento (ed al concordato preventivo) il piccolo imprenditore, individuato con i criteri dell'art. 2083 c.c.- sia stato implicitamente abrogato dall'art. 1 l.fall. (come riformato). Il criterio dimensional-quantitativo, di cui all'art. 1 l.fall., non può oggi non essere considerato come quello di indole generale ai fini dell'individuazione degli imprenditori fallibili. Tuttavia, l'impasse interpretativa potrebbe essere risolta, riconducendo la questione in esame proprio nella discussione dell'alveo delle regole di ripartizione degli oneri probatori. Sul punto giova ricordare che — nella giurisprudenza precedente le riforme fallimentari e sotto l'ègida applicativa del previgente testo dell'art. 1 l.fall. – nel processo finalizzato all'accertamento dei presupposti soggettivo ed oggettivo della dichiarazione di fallimento non sussisteva la presunzione juris tantum della mancanza della qualifica di piccolo imprenditore nel soggetto esercente l'attività imprenditoriale, e ciò sino al momento in cui egli non provasse tale sua più modesta qualità, di modo che la valutazione del giudice doveva fondarsi sugli elementi probatori forniti da ciascuna parte in relazione ai rispettivi assunti e secondo le regole generali dell'onere della prova. Ne conseguiva che, stante la regola secondo cui onus probandi incumbit ei qui dicit, spettava al creditore fornire gli elementi di prova a sostegno dell'istanza di fallimento, anche con riferimento alla qualifica di imprenditore commerciale del debitore, onerato, viceversa, di neutralizzarne la consistenza con altrettanti decisivi e contrastanti elementi di prova (cfr. Cass. n. 744/1990). Oggi, tuttavia, la situazione è parzialmente ribaltata, e ciò nel senso che dall'art. 1 l.fall. non è più argomentabile un generale onere probatorio, gravante sull'attore, circa i requisiti dimensionali di fallibilità del debitore (De Santis, 2011, ibidem). Tuttavia, permanendo la previsione espressa dell'art. 2221 c.c., ed assumendo quest'ultima carattere di «specialità» rispetto al criterio d'indole generale contenuto dell'art. 1 l.fall., occorrerebbe chiedersi se al debitore non basti provare di rientrare in una delle categorie descritte dall'art. 2083 c.c., e cioè di essere un piccolo imprenditore secondo i parametri civilistici (il che astrattamente lo sottrarrebbe, ai sensi dell'art. 2221 c.c., al fallimento) per ribaltare sull'attore l'onere di provare la sussistenza dei requisiti dimensionali del debitore, questi ultimi rilevanti ai fini della normativa concorsuale (cfr. Trib. Salerno 7 aprile 2008, decr., in Fall., 2008, 939 ss., in una fattispecie in cui la qualità di piccolo imprenditore risultava dagli atti dell'istruttoria prefallimenatre, non essendo il debitore neppure comparso in giudizio). In altre parole, secondo la teorica sopra indicata, una volta chiarito che siano provati da un lato da parte del creditore-ricorrente il fatto (costitutivo) dell'essere il debitore un imprenditore commerciale e, dall'altro, il fatto (impeditivo del fallimento) di essere un piccolo imprenditore da parte del debitore-convenuto ai sensi dell'art. 2083 c.c., dovrebbe dedursene che è l'attore a doversi nuovamente caricare dell'onere di provare — oltre allo stato d'insolvenza — anche il (contro) fatto impeditivo delle dimensioni minime di fallibilità del debitore (De Santis, 2011, ibidem. Secondo l'Autore tale soluzione avrebbe il duplice pregio di sottrarre l'interprete all'imbarazzo di assegnare all'art. 1 l.fall. una vis abrogans dell'art. 2221 c.c. - ed, in parte qua, del consolidato sistema civilistico che concerne lo statuto del piccolo imprenditore —, che ad esso la legge non ha esplicitamente assegnato; ed, al contempo, di preservare l'intenzione del legislatore riformista di tracciare l'area della failure zone sulla base di criteri dimensionali d'indole quantitativa). Deve tuttavia ritenersi maggiormente convincente la diversa tesi sposata dalla giurisprudenza di legittimità sopra indicata (Cass. n. 13086/2010, già citata) per la quale si è esclusa correttamente la possibilità di ricorrere — quanto all'individuazione dei presupposti di fallibilità del debitore — al criterio sancito dall'art. 2083 c.c., sicché l'art. 2221, che ad esso fa testuale rinvio, non avrebbe più alcuna rilevanza esegetica, atteso che il regime concorsuale riformato ha tratteggiato la figura dell'imprenditore fallibile affidandola in via esclusiva a parametri soggettivi di tipo quantitativo, prescindendo dalla tipologia di attività svolta. La diversa opzione ermeneutica sopra riferita, se rigorosamente applicata, porterebbe ad un inaccettabile ribaltamento dell'onere della prova in tema di dimostrazione del presupposto soggettivo di non fallibilità, e ciò in senso contrario a quello oggi definitivamente stabilito dal legislatore nell'art. 1 della l.fall. Ciò, tuttavia, non esclude che la parte ricorrente-creditrice debba allegare e provare, nel ricorso introduttivo e nella successiva istruttoria prefallimentare, l'attività di tipo commerciale svolta dall'imprenditore attinto dalla istanza di fallimento. Da ultimo, va comunque ribadito sul tema qui dibattuto in materia di ripartizione degli oneri probatori che la giurisprudenza di legittimità ravvisa nella utilizzabilità dei dati relativi ai ricavi lordi «in qualunque modo risulti» (cfr. art. 1, secondo comma, l.fall.), dunque anche indipendentemente dalle allegazioni del debitore, nella facoltà per il tribunale, dopo aver ordinato il deposito dei bilanci relativi agli ultimi tre esercizi, di chiedere comunque informazioni urgenti, ex art. 15, quarto comma, l.fall.; e, infine, nella disposizione di cui all'art. 18, decimo comma, l.fall., che in sede di reclamo contro la sentenza dichiarativa di fallimento legittima il collegio ad assumere, anche d'ufficio, i mezzi di prova ritenuti necessari, le «spie» di una diversa e più articolata ricostruzione, capace di dischiudere significativi varchi verso una concreta ingerenza officiosa nell'indagine prefallimentare, finalizzata a colmare le lacune probatorie ritenute sussistenti e bilanciata solo dalla necessità che il suo oggetto sia inscritto all'interno dei fatti dedotti quali allegazioni difensive delle parti, in ossequio alla intervenuta soppressione dell'iniziativa officiosa per la dichiarazione di fallimento (Vella, Oneri probatori e poteri istruttori, Oneri probatori officiosi e poteri officiosi nel nuovo procedimento di dichiarazione di fallimento, in Fall. 2011, 449 ss.). Segue. Irrilevanza del requisito soggettivo di fallibilità nell'accertamento dello stato di insolvenzaGli artt. 195 e 201 l.fall. prevedono l'accertamento dello stato di insolvenza di un'impresa assoggettabile alla procedura di liquidazione coatta amministrativa precedentemente o successivamente al decreto che ne dispone la procedura stessa. In realtà, detto accertamento, a differenza di quanto accade nella procedura fallimentare, non è necessario per avviare la liquidazione coatta amministrativa, essendo previsti dalle leggi speciali anche eventi diversi dall'insolvenza idonei a dare accesso alla procedura in esame (cfr. gli artt. 80 legge bancaria; 57 Tuf; art. 1 d.lgs. n. 233/1986; art. 34 d.lgs. n. 415/1996; art. 15 d.lgs. n. 252/2005; art. 11 d.lgs. n. 153/1999; art. 245 d.lgs. n. 209/2005, i quali prevedono la possibilità per l'autorità amministrativa di disporre la liquidazione coatta anche quando l'ente si sia reso colpevole di gravissime violazioni di legge). La legge individua soltanto gli effetti conseguenti alla dichiarazione dello stato di insolvenza: quello di rendere obbligatoria la messa in liquidazione della impresa (ex art. 195, comma quarto, l.fall.) e quello di rendere applicabili alla procedura le disposizioni dettate dal titolo II, capo III, sezione III (ovvero le norme in tema di azioni revocatorie), anche nei riguardi dei soci a responsabilità limitata (secondo quanto previsto dall'art. 203 l.fall.). Nulla si prevede invece in ordine alla disciplina del suddetto accertamento. In realtà, a seguito della riforma apportata dal d.lgs. n. 5/2006, così come modificato dal successivo d.lgs. n. 169/2007, non sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori (esercenti un'attività commerciale) i quali dimostrino il possesso congiunto dei requisiti indicati al secondo comma dell'art. 1 l.fall. Sul punto, la giurisprudenza di merito (cfr. App. Torino, 29 settembre 2010, rel. Patti, in Fall., 2011, 991 ss., con nota Barbieri, Contra, Trib. Trento, 22 novembre 2012, decr., il quale evidenzia che «l'art. 2545-terdecies c.c., dopo aver previsto, al comma 1°, che in caso di insolvenza l'autorità governativa alla quale spetta la vigilanza sulla società cooperativa dispone la liquidazione coatta amministrativa e che le cooperative che svolgono attività commerciale sono soggette anche a fallimento, al comma 2° disciplina i rapporti fra le due procedure in base al principio della prevenzione (sì che la dichiarazione di fallimento preclude la liquidazione coatta amministrativa e l'apertura di quest'ultima procedura preclude la dichiarazione di fallimento). Può dunque ritenersi che sia proprio questa norma che, stabilendo che le società cooperative commerciali possono essere indifferentemente soggette all'una ovvero all'altra procedura concorsuali, postula l'identità del relativo presupposto applicativo. Inoltre, nella misura in cui il fallimento delle imprese cooperative soggette anche a tale procedura concorsuale richiede necessariamente il superamento dei limiti di fallibilità stabiliti dall'art. 1 l.fall., il ritenere che la dichiarazione dello stato di insolvenza possa aver luogo a prescindere da quei limiti dà luogo ad un'ingiustificata disparità di trattamento fra le cooperative ed ogni altra impresa commerciale: per le prime, a differenza delle seconde, le azioni revocatorie potrebbero essere esercitate, e, soprattutto, la responsabilità penale potrebbe essere affermata, anche quando si trattasse di piccole imprese. Né, d'altro canto, questa disparità di trattamento può trovare giustificazione nell'interesse pubblico sotteso alla procedura di liquidazione coatta amministrativa – che è quello di eliminare dal mercato imprese insolventi, e che trova appunto soddisfazione nell'apertura di tale procedura. Una lettura costituzionalmente orientata delle disposizioni che ne occupano induce pertanto a ritenere che il superamento dei limiti dimensionali di fallibilità costituisca presupposto applicativo sia della dichiarazione di fallimento che di quella dello stato di insolvenza») ha affermato in modo del tutto condivisibile che nell'accertamento dello stato di insolvenza di una società cooperativa il Tribunale deve limitarsi ad accertare il solo requisito oggettivo, restando escluso ogni sindacato valutativo circa i requisiti soggettivi (sul punto si rimanda al commento dell'art. 5 l.fall.). Sul punto, una parte della dottrina ha tuttavia precisato che l'orientamento della giurisprudenza pratica sarebbe senz'altro condivisibile quando la cooperativa sia assoggettabile solo alla procedura di liquidazione coatta amministrativa, e ciò per espressa previsione dettata dall'art. 195 l.fall. ed essendo la procedura di liquidazione coatta amministrativa diretta a tutelare interessi diversi rispetto a quella fallimentare (così Barbieri, Irrilevanza del requisito soggettivo di fallibilità nell'accertamento dello stato di insolvenza, cit..). Secondo questa teorica, il discorso invece cambierebbe allorquando la impresa cooperativa sia una impresa commerciale, come tale assoggettabile ad entrambe le procedure. In tal caso non ci sarebbe la possibilità di un preliminare accertamento dello stato di insolvenza per la specifica preclusione di cui all'art. 195 l.fall.. Ebbene, solo là dove fosse invece accertato la non assoggettabilità a fallimento dell'impresa per la mancanza dei requisiti minimi previsti dall'art. 1 l.fall., allora tornerebbe applicabile l'art. 195 l.fall. (Barbieri, Irrilevanza del requisito soggettivo di fallibilità nell'accertamento dello stato di insolvenza, cit., ibidem. Secondo l'A. l'orientamento sopra espresso troverebbe una conferma anche nella lettera stessa dell'art. 1, secondo comma, l.fall., ai sensi del quale il mancato raggiungimento dei requisiti indicati determina la non assoggettabilità dell'impresa alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo, lasciando così impregiudicata l'eventuale assoggettabilità a liquidazione coatta amministrativa — non espressamente richiamata — per dette imprese). Casi dubbi di attività imprenditoriale commercialeL'imprenditore agricolo La questione della esenzione dalla procedura di fallimento dell'imprenditore agricolo e la compatibilità di tale esenzione con il parametro di legittimità costituzionale (cfr. Trib. Torre Annunziata, ord. 12 gennaio 2011, in Dir. fall., 2010, 546, con nota di Cordopatri, con la quale è stata rimessa alla Corte Costituzionale, poiché rilevante e non manifestamente infondata, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1 l.fall., per violazione dell'art. 3 Cost., nella parte in cui esso non include gli imprenditori che esercitano un'attività agricola ex art. 2135 c.c. alla soggezione delle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo. Tuttavia, la Corte cost. con ordinanza n. 104/2012 ha dichiarato «inammissibile la questione di costituzionalità della sottrazione degli imprenditori agricoli alla procedura concorsuale qualora il giudice a quo abbia omesso di individuare la concreta attività svolta dall'operatore economico e si sia limitato a considerare il dato formale della sua iscrizione con la qualifica di società-imprenditore agricolo, presso la Camera di commercio e l'indicazione, quale oggetto sociale, dell'attività di pesca, allevamento ittico e del commercio di prodotti ittici»), all'evidenza non di poco conto per la verità, è stata oggetto di dibattito già da diverso tempo in seno alla dottrina più attenta (cfr. Ferri, 2010, 56 ss.; Fauceglia, I presupposti per la dichiarazione di fallimento, in AA.VV., Trattato di diritto delle procedure concorsuali, a cura di Apice, Torino, 2010, 25 ss.; Fortunato, La nuova nozione di impresa agricola, 20; Alessi, Sub art. 2135, in AA. VV., Commentario al codice civile, Milano, 2010, XI ss.). In realtà, il diverso trattamento riservato agli imprenditori agricoli non trova più giustificazione, soprattutto alla luce della riforma del 2001 che ha modificato, per non dire stravolto, la disposizione di cui all'art. 2135 c.c., e con essa – inevitabilmente – la nozione di imprenditore agricolo (cfr. sempre Trib. Torre Annunziata, cit., secondo cui la scelta del legislatore, notoriamente nel senso di continuare ad esonerare gli imprenditori agricoli (e quelli ad essi equiparati) dalla assoggettabilità alle norme sul fallimento e, per questo, contestata da larga parte della dottrina, non si dimostra più razionale, o, meglio, ragionevole, non ricorrendo allo stato le ragioni che storicamente sono state impegnate a giustificare (riuscendovi) tale esenzione. Queste, come noto, erano sostanzialmente due: da un lato, il riferimento al cd. doppio rischio, al quale era assoggettato chi coltivava il fondo; dall'altro lato, il minore ricorso al credito e la consequenziale minore esigenza di tutela del credito stesso). Peraltro, tali conclusioni sono vieppiù avvalorate dalla circostanza che il progresso tecnologico ha comportato una notevole «industrializzazione» dell'agricoltura, con la conseguenza che la intervenuta riforma del 2001, nel descrivere ed individuare le attività agricole principali, ne ha eliminato una delle fondamenta, e cioè la indispensabilità che la coltivazione del fondo, la selvicoltura e l'allevamento di animali debbano svolgersi sul fondo. In realtà, tale processo di industrializzazione ha spinto una parte della dottrina (il riferimento è ancora e sempre a Ferri, 2010, 57 s.) a ritenere che, qualora la produzione e la trasformazione dei beni (attività notoriamente commerciali) ovvero la fornitura di beni o di servizi assuma il carattere di attività industriale, si è in presenza di vere e proprie attività commerciali, ai sensi dell'art. 2195, comma 1, n. 1, c.c., e come tali soggette allo statuto dell'imprenditore commerciale (per questo, alle norme sul fallimento e sul concordato preventivo). Sempre ad avviso di tale condivisibile ed autorevole dottrina, la circostanza che l'art. 2135 c.c. faccia rientrare expressis verbis tali attività nel novero delle attività agricole non è di ostacolo a che le stesse attività possano essere qualificate altresì, qualora ovviamente ne ricorrano gli estremi, come attività commerciali ai sensi e per gli effetti dell'art. 2195 c.c. Peraltro, con riferimento al ricorso al credito, non si può trascurare che anche questa è pratica ai giorni nostri diffusa fra gli imprenditori agricoli, come dimostrato dall'evidenza della esperienza concreta. Si mostrerebbe in tal senso corretto distinguere i diversi fenomeni che possono verificarsi anche in agricoltura, così da rendere in tutto applicabile all'imprenditore che pure svolga un'attività agricola ai sensi dell'art. 2135 c.c. il disposto dell'art. 1 l.fall., con ciò riferendosi anche e soprattutto alle soglie dimensionali in esso contenute, al pari di qualsivoglia imprenditore commerciale. Si deve pertanto concludere nel senso che l'esenzione dal fallimento dell'imprenditore agricolo non appare oggi più giustificata, giacché la logica per cui sarebbe meritevole di tutela e di particolare protezione chi sopporta un doppio rischio d'impresa, in quanto esposto alle incertezze dell'ambiente naturale (c.d. rischio biologico) ancora prima che a quelle del mercato, appare, da un lato, logorata (come detto) dalla crescente evoluzione tecnologica e, dall'altro, erosa da un quadro legislativo che ha progressivamente dilatato la nozione di impresa agricola. Più precisamente, per quanto concerne quest'ultimo punto, è da ribadire, come sopra già accennato, che il legislatore, attraverso la riformulazione, con il d.lgs. n. 228/2001, dell'art. 2135 c.c. e la disciplina dedicata, con il d.lgs. n. 226/2001, all'imprenditore ittico, ha finito per annullare quel confine tra le due categorie dell'imprenditore agricolo e dell'imprenditore commerciale che, da sempre labile, è divenuto pressoché inesistente, centrando, così, sia pure senza volerlo, l'obiettivo della loro unificazione. L'esercizio in forma imprenditoriale di una qualsiasi delle attività indicate nell'art. 2135 c.c. (coltivazione del fondo, allevamento animali – riferimento quest'ultimo che ha sostituito quello al bestiame contenuto nella formulazione previgente della norma – e selvicoltura) è sufficiente per far assumere a soggetto che le esercita la qualifica di imprenditore agricolo, con la conseguenza che lo svolgimento delle attività in forma imprenditoriale deve far ritenere l'imprenditore agricolo soggettivamente fallibile ai sensi del primo comma dell'art. 1 l.fall. (cfr. Trib. Latina. decr. 29 aprile 2011). Ai fini della nozione di impresa agricola desumibile dall'art. 2135 c.c., rilevante ai fini dell'esenzione dalla dichiarazione di fallimento, l'attività di produzione di energia mediante l'utilizzo di biomasse può essere inclusa tra le attività connesse ad attività agricola prevalente ex art 1, comma 423, della l. n. 266 del 2005, ove siano rispettati i limiti quantitativi dell'energia prodotta stabiliti dalla legge, dovendo comunque procedersi all'indagine sull'origine delle biomasse e sul rapporto tra produzione agricola e produzione di energia, dovendosi così interpretare il chiaro dato letterale dell'art. 14, comma 13 quater, del d. lgs. n. 99 del 2004, che espressamente si riferisce solo alla produzione delle biomasse e non alla produzione di energia mediante biomasse (Cass. I, ord. n. 2162/2023). Risulta soggetta a fallimento l'impresa agricola costituita in forma societaria, quando risulti accertato in sede di merito l'esercizio in concreto di attività commerciale, in misura prevalente sull'attività agricola contemplata in via esclusiva dall'oggetto sociale, nonostante la sopravvenuta cessazione dell'attività commerciale al momento del deposito della domanda di fallimento nei suoi confronti. Cass. I, n. 5342/2019. L'esenzione dell'imprenditore agricolo dal fallimento postula la prova – da parte di chi la invoca (art. 2697, comma 2, e principio della vicinanza della prova) – delle condizioni per ricondurre l'attività di commercializzazione dei prodotti agricoli, esercitata, nell'ambito di cui all'art. 2135, comma 3, dovendosi adeguatamente dimostrare che essa ha come oggetto prodotti ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del fondo (Cass. VI, n. 1049/2021). L'imprenditore occulto. La volontà di esercitare l'attività di impresa, senza assumerne i relativi rischi, sta in genere alla base dell'assunzione della qualità di imprenditore in modo anomalo, occultandosi dietro un prestanome-imprenditore fittizio (che si configura pertanto come mandatario con simulazione della titolarità dell'impresa), ovvero simulando un rapporto di dipendenza da un prestanome (configurandosi invero come institore simulato dell'imprenditore fittizio), ovvero, ancora, celando un rapporto sociale e simulando un'individualità della figura imprenditoriale; ovvero ancora riducendo un organismo sociale a mero strumento della propria attività imprenditoriale individuale, snaturando nelle strutture o confondendo il patrimonio sociale e quello individuale ovvero, infine, assumendo come proprie obbligazioni sociali, persino senza essere socio. Ebbene, in tutte queste ipotesi – variamente denominate, come imprenditore-occulto, imprenditore indiretto, prestanome, socio sovrano, socio tiranno – si deve individuare un principio fondamentale alla luce del quale interpretare la realtà nella quale si coniuga la figura imprenditoriale (così Pajardi-Paluchowski, 78). E cioè, è a dirsi che l'imprenditore commerciale riveste tale qualità assumendo tutte le obbligazioni che fanno capo all'impresa ed esponendosi alle relative conseguenze o sanzioni, ed in particolare alle azioni esecutive individuali o concorsuali. La realtà dell'esercizio dell'attività imprenditoriale e commerciale, diretta o indiretta, immediata o mediata, non può essere snaturata né dal mezzo né da un apporto di carattere interpersonale che il soggetto abbia scelto per porla in essere ovvero per mascherarla, non rilevando in tal modo nemmeno la spendita del proprio nome e dunque la esteriorizzazione o l'occultamento del nome, come di regola avviene nelle società di fatto o irregolari. Ne discende che, almeno inizialmente, non occorre considerare la problematica della tutela dei terzi, dovendo al contrario discutersi solo ed esclusivamente dell'assunzione della qualità di imprenditore con riferimento all'attività effettivamente esercitata, attività che diviene pertanto la matrice unica dell'effettiva titolarità dell'impresa, con le conseguenze legali che da ciò derivano (così, sempre Pajardi-Paluchowski, ibidem). Detto altrimenti, deve ribadirsi che vi è un solo modo di esercitare un'attività imprenditoriale commerciale, senza assumere la qualifica di imprenditore commerciale, e dunque restando indenne dalle conseguenze di tale assunzione sia sotto il profilo della limitazione della responsabilità patrimoniale, sia della sottoposizione a fallimento, ed è quello per l'appunto di operare attraverso il diaframma «reale» della soggettività piena di una persona giuridica, sottostando tuttavia alle regole di questa soluzione. In realtà, il problema è, ancora una volta, quello di evitare l'abuso dello strumento prescelto, sia che lo si voglia rendere palese o occulto. Sul punto, non si può dimenticare che l'attività, occulta o meno, è interessata dalla normativa fallimentare in un momento patologico, e cioè quello del dissesto e della mancata soddisfazione delle obbligazioni, con la conseguenza che ciò che occorre sanzionare è l'utilizzo distorto di quella intercapedine posta artatamente tra il debitore e i creditori. Viene da questo punto di vista in discorso la interessante questione del fallimento delle società di fatto holding (vedi supra). Sul punto, occorre ricordare la nota sentenza resa dalla Suprema Corte di Cassazione (Cass. n. 1439/1990, in Fall. 1990, 510, con nota di Lamanna, La holding quale impresa commerciale (anche individuale) e il dogma della personalità giuridica, cit.; ma, anche, sempre in relazione al medesimo caso, la sentenza dichiarativa di fallimento resa dal Trib. Roma 15 marzo 1980, in Foro it. 1980, I, 2285, nonché la sentenza di rigetto dell'opposizione resa dal Trib. Roma 3 luglio 1982, in Dir. fall. 1982, II, 1610, con nota di Ragusa Maggiore; in dottrina, si legga anche Marziale, Brevi note sul principio della responsabilità limitata nelle società di capitali e sul suo superamento secondo cui l'attività di direzione e coordinamento di un gruppo di imprese cui sia funzionalizzato l'esercizio dei poteri derivanti dal possesso di uno o più pacchetti azionari — sia essa svolta da una società di capitali, da una persona fisica o da una società di fatto — determina l'acquisto della qualità di imprenditore in capo a chi la eserciti qualora, oltre ad essere qualificata dai requisiti usualmente intesi dell'«organizzazione» e della «professionalità», la stessa sia posta in essere in nome dell'esercente e risulti astrattamente idonea a far conseguire al gruppo vantaggi economici ulteriori rispetto a quelli acquisibili in mancanza dell'opera di coordinamento (per una disamina esauriente della questione, si rimanda anche a Signorelli, Fallimento di società di fatto holding, in Fall. 2011, 565). Ne discende che il soggetto imprenditore così identificato esercita direttamente solo una fase dell'attività d'impresa (quella corrispondente alla stessa opera di direzione), mentre le altre fasi vengono esercitate indirettamente, per il tramite delle società controllate, ed è al loro contenuto che bisogna rifarsi per individuare il ramo della produzione o dello scambio connesso alla qualifica imprenditoriale attribuita all'esercente l'attività direttiva. Pertanto, affinché all'attività d'impresa dell'imprenditore-holding sia riconosciuta natura commerciale, è sufficiente che anche solo una delle attività svolte dalle società controllate sia compresa in uno dei tipi previsti dall'art. 2195 c.c. Diversamente, il soggetto che eserciti un'attività di direzione e governo di un gruppo di imprese acquista egualmente la qualità di imprenditore commerciale quando, oltre a detta attività, ponga in essere anche attività di servizi ausiliarie a sostegno delle attività operative svolte dalle società controllate, purché nell'esercitarle il medesimo spenda il proprio nome e le stesse attività ausiliarie appalesino un'economicità autonoma rispetto all'economicità propria delle attività svolte dalle società controllate (così sempre Signorelli, Fallimento di società di fatto holding, cit., ibidem). I principi fissati dalla giurisprudenza di legittimità sopra richiamata e poi confermati anche da quella stratificatasi nel tempo (Cass. I, n. 23344 /2010), costituiscono un fondamentale punto di riferimento soprattutto quando si tratti dell'attività d'impresa svolta a livello di macrogruppi societari, oppure si tratti di responsabilità d'impresa, tutte le volte in cui, cioè, quest'ultima sia stata esercitata non in modo diretto ma indirettamente, mediante la gestione d'un'altra impresa attraverso una partecipazione al suo capitale e tale gestione si esplichi, soprattutto, attraverso il compimento di atti riferibili direttamente al soggetto (e cioè, persona fisica-capogruppo) e tale attività sia posta in essere nell'interesse del gruppo stesso. Sul punto, giova ricordare che la giurisprudenza, sia di legittimità che di merito, ha valutato il fenomeno delle aggregazioni imprenditoriali, riconoscendo come, nella pratica economica, esse fossero assai diversificate, con aspetti poliedrici e polivalenti, scegliendo le situazioni più aderenti al caso di specie e, per l'effetto, di fronte alla mancanza di una generalizzata regolamentazione normativa del fenomeno del gruppo d'imprese, ha individuato quelle norme che consentono di qualificare o meno la capogruppo come imprenditore commerciale e così, dopo aver escluso sia le aggregazioni societarie su base contrattuale, sia l'holding mista o holding di tipo industriale, l'attenzione si è focalizzata sulla holding pura e sull'holding operativa, dovendosi intendere per holding pura quel tipo di aggregazione societaria che assolve una funzione puramente strumentale e che mediante il possesso di uno o più pacchetti azionari e l'esercizio dei poteri inerenti, esplichi l'attività di direzione e controllo del gruppo, mentre l'holding operativa esplica l'attività direttiva anche mediante l'esercizio di funzioni economiche e finanziarie nei confronti delle società possedute. Viceversa, qualora un soggetto si limiti puramente alla gestione patrimoniale delle quote o delle azioni possedute in altre società controllate o collegate, dedicandosi al loro mero godimento derivante dai diritti patrimoniali ed amministrativi ad esse connessi, esso non può certamente essere considerato holding (Signorelli, Fallimento di società di fatto holding, cit., ibidem). Ne discende che, pertanto, ciò che fa la differenza è l'esercizio della direzione unitaria delle società partecipate (in termini generali, in tema di holding, cfr. Ferrara Jr.-Corsi, Gli imprenditori e le società, Milano, 2009, 823; Galgano, Diritto commerciale, Le società, Bologna, 2005, 240; Ferri, Manuale di diritto commerciale, Torino, 1988, 531; Ferri, 1985, 953; Denozza, 52; Bonelli, I 578; Scognamiglio, 1984, I, 622; Frè, 277; Borgioli, 29; Libonati, 1981, 185; Jaeger, I «gruppi» tra diritto interno e prospettive comunitarie, in Giur. comm., 1980, I, 916; Libonati, 1959, 73; Pisani Massamormile, 593; Messineo, 1932). In ordine alle differenze tra holding pura e socio tiranno, deve dirsi che la holding si distingue dal socio tiranno sia perché quest'ultimo è caratterizzato non da un agire economicamente in proprio ed in prima persona, o anche in prima persona, del socio dominante, ma dall'azione in via esclusiva attraverso gli organi delle società dominate, ed inoltre dalla creazione di confusione tra i patrimoni del socio dominante e della società dominata, laddove il gruppo non è un unico soggetto di diritto e sia le società controllate sia la società controllante rimangono autonomi soggetti di diritto e assumono la sola responsabilità patrimoniale connessa alle obbligazioni assunte in nome proprio, con la precisazione che, quand'anche il gruppo tenesse un comportamento che esorbitasse dai limiti suoi propri, eludesse i limiti propri dell'autonomia patrimoniale e personale delle società componenti, operando con abuso di maggioranza, con usurpazione dei poteri gestori o di controllo, con inosservanza delle regole di vincolo sulla disponibilità del patrimonio sociale, non per questo verrebbe meno l'autonomia delle componenti, dovendo dette situazioni trovare disciplina e sanzione in forme tipiche della singola attività e diverse dalla responsabilità patrimoniale per obbligazioni sociali (Galgano, 1990, 6; Schiano di Pepe, 1990, 117; Scognamiglio, 1988, I, 365; Inzitari, 1988, 457; Ragusa Maggiore, 1982, II, 302; Partesotti, 651; Bigiavi, 1967, IV, 49; in giurisprudenza: Cass. n. 10688/2004, in Cass. pen. 2005, 3781, con nota di Napoleoni; Cass. n. 3349/2003, in Giur. it. 2003, 1858, con nota di Iozzo, Sulla società di fatto collaterale alla società di capitali; Cass. n. 405/1999, in Fall. 1999, 1216, con nota di Rago; Cass. n. 8271/1992; Cass. n. 5143/1982, in Foro it. 1982, I, 2410, con osservazioni di Silvestri; Cass. n. 4577/1976, in Giust. civ., 1977, I, 647, con nota di Di Amato, Fallimento della società controllata ed azionista sovrano. Condizioni per la titolarità, da parte di quest'ultimo, di un'impresa individuale avente per oggetto un'attività commerciale, ed in Foro it. 1977, I, 369, con nota di Niccolini; Cass. n. 848/1971, in Foro it., 1971, I, 1539, con nota di Andrioli; Cass. n. 907/1966; Cass. n. 870/1964; Cass. n. 2886/1959; Cass. n. 989/1959, in Giur. it. 1959, I, 1, 624, con nota di Bigiavi; App. Milano 5 febbraio 1982, in Giur. comm. 1982, II, 614, con nota di Denozza, Presti, Questioni in tema di unico azionista; App. Roma 19 febbraio 1981 e App. Roma 12 giugno 1981, entrambe in Fall., 1982, 1191; Trib. Milano 25 settembre 1980, in Giur. it., 1981, I, 2, 612). Occorre ora chiarire il punto nodale della questione, e cioè se l'holding (sia essa pura sia essa operativa) sia una semplice realtà economica (una società senza impresa), risolvendosi sotto il profilo giuridico nella pluralità dei soggetti che la compongono, da considerarsi nella loro autonomia, ovvero se sia, a sua volta, un'impresa, proprio in virtù dell'attività di coordinamento e di direzione delle varie società controllate. È assolutamente ininfluente, ai fini dell'attribuzione della qualità d'imprenditore commerciale, che le attività caratterizzanti la holding siano svolte da una persona fisica piuttosto che da una persona giuridica (società di fatto o società regolarmente registrata), atteso che sia nell'imprenditorialità sociale, sia nell'imprenditorialità individuale, ciò che caratterizza l'imprenditore è il genere di attività svolta e le modalità operative inerenti. Sul piano dell'attività, la direzione e il coordinamento tecnico-finanziario del socio dominante il gruppo; il riflesso dell'attività d'impresa delle società operative sull'attività della capogruppo, cui danno oggetto e contenuto; l'attitudine del coordinamento della capogruppo ad operare con modalità economiche, si presentano tutte con modalità e con identiche funzioni nella due figure della società e della persona fisica holding (Signorelli, Fallimento di società di fatto holding, cit., ibidem). Sul punto, va precisato che la holding, pur non esercitando direttamente alcuna attività di produzione o scambio di beni o servizi, tuttavia realizza un'attività di partecipazione ad attività di produzione e scambio, con la conclusione che lo scopo di partecipare ad attività imprenditrice può essere sufficiente, non solo ai fini dell'art. 2247, ma anche a quello degli artt. 2082 e 2195 c.c., facendo qualificare come commerciale lo scopo della società. Ponendo in relazione questo conclusione al concetto di «fase dell'attività d'impresa», mutuato dall'art. 2602 c.c., in tema di consorzi, potrebbe considerarsi l'attività di direzione e di coordinamento della holding come una fase dell'attività imprenditoriale con la conseguenza che la holding sarebbe imprenditore in quanto professionalmente e con adeguata organizzazione svolga una fase delle imprese esercitate dalle società operative e sarebbe imprenditore commerciale qualora l'attività svolta dalle società operative abbia natura commerciale. Altra teorica (Galgano, 1973, 97) assume, invece, il diverso indirizzo che ravvisa l'imprenditorialità della capogruppo nel concetto di attività mediata, che trae origine da un insieme di norme tra loro coordinabili, che permetterebbe di ritenere come il nostro ordinamento giuridico riconosca che un'attività d'impresa possa essere esercitata sia in via immediata sia in via mediata. Tale ricostruzione si fonda, da un lato, sulla circostanza che dalla normativa dei consorzi è facilmente ritraibile il concetto di esercizio di «fase» dell'attività d'impresa, cosicché possa spiegarsi l'imprenditorialità delle componenti del consorzio proprio con il concetto di attività esercitata in via mediata, cioè esercitata in prima persona dal consorzio, ma riflettentesi nei suoi effetti direttamente sulle consorziate; e, dall'altro, sul fatto che dall'art. 2361 c.c.si può agevolmente trarre l'insegnamento per cui il fenomeno della partecipazione può far sì che l'oggetto della partecipata influisca su quello della partecipante, divenendo oggetto di quest'ultima, e derivandone che «una data attività di produzione e scambio può integrare l'oggetto sociale, sia come oggetto immediato (società operativa), sia come oggetto mediato (holding), il che significa, ulteriormente, che l'imprenditorialità della holding non deriva dal fatto che essa svolga l'attività di partecipazione e di coordinamento tecnico-finanziario, in sé e per sé considerata, ma deriva dalla specifica attività di produzione e di scambio che forma oggetto delle società operanti ed il cui esercizio, in forma indiretta tramite la direzione ed il coordinamento ed a mezzo della partecipazione di controllo, è attuabile dalla capogruppo....». La capogruppo, dunque, è imprenditore per il fatto di esercitare attività imprenditoriale nella sua completezza, in una fase in via diretta, ed in altra fase in modo mediato ed indiretto (Cass. n. 1439/1990). In ordine, poi, all'imprenditore occulto e alla teoria relativa (come è noto, l'ideatore e costruttore della teoria dell'imprenditore occulto è Biagivi, 1954, cit.; cfr. anche Ascarelli, 1315; in giurisprudenza, cfr. Cass. n. 9589/1982), si deve osservare che non necessariamente un soggetto che intende occultare l'assunzione di responsabilità legale di imprenditore è poi, dal punto di vista fattuale, effettivamente imprenditore occulto, in quanto potrebbe preferire servirsi, per l'apparente titolarità delle attività e delle obbligazioni, di un prestanome ovvero di una sua società di comodo, e cioè di uno schermo. Sul punto, va osservato che non vi è alcuna prescrizione normativa che imponga, al fine di considerare legittimo un imprenditore collettivo, che era stato erroneamente considerato imprenditore individuale, che il vincolo sociale debba essere manifestato esteriormente. L'unico elemento necessario e sufficiente, che legittima la esattezza delle ricostruzione nei termini della esistenza della società, riguarda la sussistenza effettiva del vincolo sociale, giacché, in presenza di quest'ultimo, la identificazione dell'imprenditore va eseguita in tal senso e il fallimento va dichiarato nei confronti dell'imprenditore collettivo. Ed infine, in ordine alla individuazione delle figura della c.d. società di fatto, va detto che, nel linguaggio della giurisprudenza, è definita «società di fatto» la società di persone che non abbia compiuto l'iter necessario per la sua regolare costituzione; ovvero si configura una società di fatto quando due o più soggetti agiscono tra loro come soci pur non avendo manifestato esplicitamente né per scritto né verbalmente la volontà di sottoscrivere un contratto di società: ove abbia per oggetto un'attività commerciale, la società di fatto è da considerare una società collettiva irregolare (Galgano-Bonsignori, Il fallimento delle società, in AA. VV., Trattato di diritto commerciale, diretto da Galgano, Padova, 1988, 56; Pajardi, 1623). Tale fenomeno è in realtà assai diffuso, emergendo a livello giurisprudenziale al momento dell'insolvenza proprio ai fini della dichiarazione di fallimento (Cass. n. 3349/2003, in Giur. it., 2003, 1859, con nota di Iozzo, Sulla società di fatto collaterale alla società di capitali; Cass. n. 2200/2003; Cass. n. 4089/2001; Cass. n. 9030/1997; Cass. n. 6770/1996, in Fall., 1997, 162, con nota di Figone; Cass. n. 84/1991; Cass. n. 2359/1990). In dottrina si legga anche Sacco, Sulla società di fatto, in Riv. dir. civ., 1995, 59 ss., ove si afferma che «La società di fatto ha preceduto, nella macrostoria del diritto, il contratto convenzionale di società. Non chiese — per nascere ed impiantarsi — il permesso a nessuno Stato e a nessun legislatore. Non nacque con il proposito di sanare la nullità del contratto convenzionale. La società di fatto, come ogni altro rapporto fattuale (come il possesso, come il consorzio di fratelli, come la potestà parentale) esisteva quando l'uomo non scriveva, ed esisteva quando l'uomo non concludeva convenzioni, ed esisteva quando l'uomo non parlava»). L'imprenditore paraintellettuale. L'imprenditore c.d. paraintellettuale è una figura che ha creato problemi interpretativi, perché si pone sul confine tra l'attività intellettuale e quella commerciale di presentazione di servizi. Tra le ipotesi concrete esaminate dalla giurisprudenza è quella dell'esattore, per il quale tuttavia il problema è stato risolto dalla circostanza che, dal 1999, la detta attività deve essere necessariamente svolta da imprenditori che abbiano assunto la forma giuridica di società per azioni (in base alla disposizione contenuta nel decreto legislativo n. 46 del 1999 che ha affidato il compito di esazione al così detto concessionario). Peraltro, anche in precedenza era stata esclusa l'esistenza di un aspetto intellettuale caratterizzante la detta attività, sicché era stata ammessa la fallibilità dell'esattore (cfr. Pajardi, Codice, sub. art. 1, § 4; Cuneo, 183-185; in giurisprudenza App. Catania, 24 gennaio 1970, in Dir. fall. 1970, II, 508). Un altro esempio di lavoro paraintellettuale è rappresentato dall'investigatore privato, la cui attività certo non rientra tra le attività professionali tipiche e va inquadrata in una prestazione di servizi, ai sensi dell'art. 2195, n. 1, c.c. e come tale è pertanto assoggettabile a fallimento, in caso di insolvenza e nella ipotesi in cui vi sia superamento delle soglie di fallibilità previste dall'art. 1 l.fall. (cfr. Trib. Torino 26 settembre 1991, in Fall. 1992, 624, secondo cui il momento intellettuale della raccolta dei dati relativi al fatto investigativo è meramente strumentale ed antecedente al servizio prestato al cliente, consentendo ciò l'assoggettabilità a fallimento. Per quanto riguarda, invece, i così detti istituti di vigilanza privata, la natura imprenditoriale è stata riconnessa al raggiungimento di un risultato economico per l'ente: cfr., sul punto, Cass. n. 10863/1994). In realtà, anche il titolare di una autoscuola, che fornisce servizi, istruzione e rinnova le patenti, svolge una attività che ha una sua qualità intellettuale, ma che è solo prodromica alla vendita di servizi che l'autoscuola produce e poi scambia ai fini di lucro e con una attività organizzata, con la conseguenza anche qui che il detto titolare può essere assoggettato a fallimento se ha i requisiti dimensionali (cfr. Cass. n. 3974/1994. Ad analoghe conclusioni deve pervenirsi per le figure dell'odontotecnico (cfr. Cass. 14 marzo 1962, in Dir. fall., 1962, II, 286, secondo cui lo stesso è fallibile allorquando abbia una organizzazione produttiva dei manufatti dentistici che scambia a carattere speculativo), dell'ottico e dell'ortopedico; mentre Trib. Perugia, 25 marzo 1994, in Fall., 1994, 877, ha escluso che possa fallire il cartomante ove sia privo di una organizzazione imprenditoriale e non fornisca il proprio servizio in termini di esercizio di una attività economica organizzata. Per quanto concerne l'amministratore di condominio, si reputa di regola che prevalga il profilo intellettuale su quello organizzativo: cfr. Trib. Bologna, 2 luglio 1997, in Dir. fall. 1997, II, 1024, con nota Bonsignori, L'amministratore di condominio non è imprenditore commerciale). Infine, per quanto riguarda la posizione del farmacista, si tratta di una delle figure nelle quali più comunemente si affianca una dimensione intellettuale, parallela a quella del medico, con l'esercizio di una attività indubitabilmente commerciale, che è quella per l'appunto di vendita di prodotti farmaceutici e medicinali. Peraltro, va aggiunto che la compenetrazione completa tra l'attività intellettuale e quella imprenditoriale nella figura del farmacista è altresì recepita dal legislatore, il quale afferma che è invalido il trasferimento della titolarità della farmacia se, insieme al diritto di esercizio della stessa, non viene trasferita anche l'azienda commerciale connessa, di talché, ove tale scissione avvenga, il trasferimento sarà soggetto a decadenza (per l'assoggettabilità del farmacista a fallimento: cfr. Trib. Roma, 5 luglio 1995, in Dir. fall., 1996, II, 776; in dottrina, cfr. Schiavon, 133). Del resto, anche il Testo Unico delle leggi Sanitarie stabilisce che il fallimento è una delle cause di decadenza dell'autorizzazione pubblica all'esercizio della farmacia ed esprime perciò la intima generale convinzione che il farmacista sia un imprenditore commerciale. L'imprenditore commerciale monopolista. Ancorché sia una ipotesi astrattamente difficile da realizzarsi, quella del fallimento del legal-monopolista è una fattispecie che potrebbe ricorrere nel caso della insolvenza del tabaccaio. Ebbene, non sembra possano residuare dubbi in ordine alla circostanza che si tratti di un imprenditore commerciale come gli altri (cfr. Trib. Milano 20 marzo 1956, in Dir. fall. 1957, II, 196), che per ragioni organizzative nella commercializzazione di alcuni prodotti ovvero nella gestione di determinati servizi da parte dello Stato, svolge un'attività di fornitura di beni o di servizi in regime di monopolio legale (si pensi in tal senso anche all'impresa erogatrice di gas). A ben vedere, va rilevato che se vi sia stata predisposizione di una organizzazione imprenditoriale di mezzi e persone e vi sia stata conseguente assunzione del rischio imprenditoriale, non si intravede la ragione per cui l'imprenditore legal-monopolista dovrebbe essere sottratto alla sanzione del fallimento, atteso che se è vero, per un verso, che questi soggetti imprenditoriali non dovrebbero poter scegliere liberamente i propri contraenti in quanto fornitori di un servizio essenziale, è altrettanto vero, per altro verso, che ove abbiano ragione di dubitare della solvibilità del contraente ovvero lo stesso si sia reso inadempiente allora ben potranno eccepire tale inadempimento per rifiutare la prestazione legalmente dovuta ovvero ancora per rifiutarsi di contrarre (così Pajardi-Paluchowski, 85). Le fondazioni d'impresa e le associazioni non riconosciute Anche per tali figure imprenditoriali, vale il consueto principio interpretativo informatore, e cioè deve ritenersi che prevalga l'attività effettivamente svolta dall'ente, indipendentemente da quella che dovrebbe essere l'attività tipica che astrattamente dovrebbe realizzare (Cottino-Bonfante, 25 ss.; Provinciali, 175). Pertanto, se l'associazione utilizza i proventi della sua attività per finanziare una attività di impresa che poi si rivela insolvente, allora essa è fallibile, ma il fallimento non produce automaticamente l'estensione della procedura a tutti gli associati, bensì solo a quelli illimitatamente responsabili ai sensi dell'art. 38 c.c., cioè coloro che abbiano agito in nome e per conto dell'associazione (cfr. Cass. n. 9589/1993, che ha evidenziato la necessità del concreto esercizio di una attività commerciale in via esclusiva o prevalente rispetto ad ogni altra attività e che la stessa sia esercitata in via diretta, per cui sia imputabile all'ente. In realtà, la sussistenza di una finalità altruistica nell'associazione è assolutamente ininfluente rispetto allo status di imprenditore commerciale che la stessa acquista quando esercita concretamente attività imprenditoriale: Cass. n. 1396/1999; in dottrina, cfr. Lo Cascio, 73; Ragusa Maggiore, 1994, 436). Tuttavia, deve concordarsi con quanti ritengono che l'applicazione in subiecta materia dell'art. 38 c.c. per determinare l'ambito soggettivo di applicazione della sanzione del fallimento equivalga in realtà ad una forzata applicazione di un connotato tipico del diritto civile in sede commerciale (così, condivisibilmente si legga Pajardi-Paluchowski, cit., 88). Deve ritenersi pertanto che sia l'esame della fattispecie concreta a portare alla precisa individuazione dei soggetti responsabili dell'attività d'impresa e della gestione economica e, nei confronti di questi, si deve ritenere che l'art. 147 l.fall. debba essere applicato per avere espresso all'esterno la volontà dell'ente. Sul punto, va osservato che le possibilità di deviazioni dall'attività tipica istituzionale sono così tante e così variegate da sconsigliare l'adozione del parametro dettato dall'art. 38 c.c. per la individuazione dei soggetti cui indirizzare la declaratoria di fallimento, giacché potrebbero essere coinvolti soggetti estranei all'attività di impresa. Da ultimo, va detto che non esistono ostacoli concettuali ad assoggettare a fallimento anche le fondazioni, anch'esse enti non profit, purché esercitino di fatto in via esclusiva un'attività di impresa commerciale ed abbiano assunto in sé la natura di attività di impresa (cfr. Trib. Milano 17 giugno 1994, in Foro it., 1994, I, 3544; Trib. Milano 16 luglio 1998, in Fall., 1999, 445). In realtà, la giurisprudenza di legittimità ha affermato che se la fondazione riconosciuta, eccedendo i limiti imposti dallo statuto, giunge di fatto ad esercitare in via esclusiva o principale un'attività di impresa commerciale e divenga insolvente, deve ritenersi che tale attività, essendo incompatibile con lo schema funzionale, sia imputabile all'associazione a latere fra i soggetti che, partecipando a vario titolo a detta attività, hanno in tal modo abusato del nome della fondazione, ammettendo così la possibilità di far fallire tale associazione attraverso la estensione da applicarsi in virtù sia dell'art. 38 c.c. e sia dell'art. 147 l.fall. a coloro che hanno agito in nome e per conto apparentemente della fondazione, ma in realtà della sottostante associazione, di identica denominazione: cfr. Cass. n. 5305/2004, in Dir. fall., 2005, II, 843, annotata da Rondinone, Il caso della fondazione abusiva di impresa quale paradigma di applicazione della teoria dell'impresa e gli esiti del libro primo del codice civile. Gli enti pubblici. Secondo il combinato disposto del nuovo art. 1 l.fall. e dell'art. 2221 c.c., gli enti pubblici non possono essere assoggettati a fallimento anche se siano imprenditori commerciali. Ne discende che non sono suscettibili di dichiarazioni di fallimento gli enti centrali, gli enti locali e gli enti periferici che fanno capo gerarchicamente alla pubblica amministrazione nella sua attività di gestione della cosa pubblica ed inoltre gli enti pubblici economici, ai quali si riferisce l'art. 2093 c.c., ove si statuisce che le norme del libro quinto del codice si applicano agli enti pubblici inquadrati nelle associazioni professionali (così Pajardi-Paluchowski, 89). A ben vedere, per gli enti pubblici il legislatore ha escluso il fallimento in base a considerazioni di politica legislativa. Vi è una preferenza accordata alla liquidazione coatta amministrativa per tutti gli imprenditori che coinvolgono attività di interesse pubblico, poste in essere da soggetti che sin dal loro sorgere vengono, proprio per tale ragione, sottoposti al controllo dell'autorità amministrativa. Gli enti pubblici sono uno strumento primario attraverso il quale il potere amministrativo gestisce la cosa pubblica e gli interessi pubblici, rispetto ai quali la procedura fallimentare, con le sue esigenze processuali e con il suo esasperato rispetto del diritto di difesa e dei diritti soggettivi, risulterebbe in realtà poco funzionale (Arena, Spunti sulle società commerciali pubbliche, sugli enti pubblici imprenditoriali a struttura istituzionale, sulle società per azioni in mano pubblica e sugli enti pubblici non imprenditori sotto l'aspetto della privatizzazione. In parte disposta, in parte disponenda, in parte attuata ed in parte attuanda, in Dir. fall. 1994, I, 180). Sulla questione dell'assoggettabilità delle società pubbliche alle procedure concorsuali, a partire dalla fine del decorso decennio, sono emersi nella giurisprudenza di merito due orientamenti contrapposti che l'hanno risolta attraverso altrettanti differenti approcci (Salvato, 2013). Il primo orientamento, definibile come «tipologico», a sua volta, è connotato da due diverse impostazioni, giacché, secondo alcune pronunce, nel senso dell'applicabilità della legge fallimentare sarebbe dirimente la qualificazione della natura privata della società, una volta che sia stata iscritta come tale nel registro delle imprese; secondo altre pronunce, invece, occorrerebbe aversi riguardo alla natura della società, con la sottrazione, in presenza di determinati indici della natura pubblicistica, alla sfera del diritto privato ed alle procedure concorsuali. Ebbene, questo secondo approccio, definibile cd. «funzionale», individua, invece, la disciplina giuridica applicabile a queste società, sulla base di una valutazione di compatibilità di quella di diritto comune con le specifiche norme di settore (D'Attorre, Società in mano pubblica e concordato preventivo (nota a Trib. Napoli, 31 ottobre 2012), in Fall., 2013, 869; D'Attorre, 2010, 689; D'Attorre, 2009, 713). Ebbene, la diversità delle soluzioni è, all'evidenza, lesiva dell'esigenza di certezza. Questo obiettivo, dopo anni di incertezze, sembra conseguito grazie a due recenti arresti della Suprema Corte (Cass. n. 21991/2012, in Fall. 2013, 1273, con nota di Balestra, Concordato di società a partecipazione pubblica e profili di inammissibilità della domanda; Cass. n. 22209/2013). La prima pronuncia già era caratterizzata da univoche considerazioni espressive dell'accoglimento del criterio «tipologico», coniugato secondo il paradigma dell'inammissibilità della riqualificazione, e dalla conferma che «le società costituite nelle forme previste dal codice civile ed aventi ad oggetto un'attività commerciale sono assoggettabili al fallimento indipendentemente dall'effettivo esercizio di una siffatta attività, in quanto esse acquistano la qualità di imprenditore commerciale dal momento della loro costituzione, non dall'inizio del concreto esercizio dell'attività d'impresa, al contrario di quanto avviene per l'imprenditore commerciale individuale». Sul punto, occorre concordare con quanti (si v. di nuovo, in tema, Salvato, 2013,cit., ibidem), sostengono che alcuni passaggi argomentativi della Corte potevano, tuttavia dare luogo a qualche dubbio, nella parte in cui avevano sottolineato l'importanza della mancata previsione di incisivi poteri del socio pubblico e della particolare destinazione dei ricavi ed affrontato la questione della rilevanza del servizio oggetto dell'attività della società. Orbene, la sentenza 27 settembre 2013, n. 2209 ha fornito in subiecta materia la necessaria chiarezza, affermando, da un lato, che una società non muta la sua natura di soggetto privato sol perché un ente pubblico ne possiede, in tutto o in parte, il capitale e che, dall'altro lato, l'art. 4 della l. n. 70/ 1975, laddove stabilisce che alcun nuovo ente pubblico può essere istituito o riconosciuto se non per legge, richiede che la qualità di ente pubblico, se non attribuita da una espressa norma, deve almeno essere desumibile da un quadro normativo di riferimento chiaro ed inequivoco. Peraltro, la Corte puntualizza, nell'arresto da ultimo menzionato, che norme speciali concernenti la costituzione della società, la partecipazione pubblica al suo capitale e la designazione dei suoi organi, non incidono sul modo in cui essa opera nel mercato né possono comportare il venir meno delle ragioni di tutela dell'affidamento dei terzi contraenti contemplate dalla disciplina privatistica. Ed infine, il giudice di legittimità chiarisce definitivamente che l'eventuale divergenza causale rispetto allo scopo lucrativo non è sufficiente ad escludere che, laddove sia stato adottato il modello societario, la natura giuridica e le regole di organizzazione della partecipata restino quelle proprie di una società di capitali disciplinata in via generale dal codice civile. Peraltro, è da dirsi, a conforto di quanto sostenuto da parte della giurisprudenza di legittimità che, nel nostro ordinamento, ai fini dell'applicazione dello statuto dell'imprenditore commerciale rileva non il tipo dell'attività esercitata, ma la natura del soggetto. Ne discende che, una volta che il legislatore ha permesso di perseguire l'interesse pubblico attraverso lo strumento privatistico, da ciò consegue l'assunzione dei rischi connessi all'insolvenza, pena la violazione principi di uguaglianza e di affidamento dei soggetti che con esse entrano in rapporto ed attesa la necessità del rispetto delle regole della concorrenza (Salvato, 2010, I, 603; la soluzione da ultimo prospettata è peraltro conforme a quanto affermato da dalla Corte di cassazione (a Sezioni Unite) in ordine alla questione del riparto di giurisdizione in tema di responsabilità degli organi sociali della società pubblica a partire dalla sentenza Cass. S.U., n. 26806/2009. Appaiono, infatti, inclini ad un'accezione estensiva della responsabilità amministrativa per danno erariale, Cass. S.U., n. 10063/2011; Cass. S.U., n. 8429/2010; Cass. S.U., n. 5032/2010, attentamente esaminate dalla dottrina, per evidenziarne l'inidoneità a far ritenere che «l'impostazione fatta propria dalla sentenza n. 26806 del 2009 (...) sembra ormai penetrata nella giurisprudenza successiva». In tema, v. anche Fimmanò, La giurisdizione sulle «società pubbliche» (nota a Cass. S.U., 3 maggio 2013, n. 10299/2013), in Soc. 2013, 974). Altra questione da affrontare, nella materia in esame, è quello della definizione della nozione di «organismo di diritto pubblico» in ragione delle sue conseguenze giuridiche. Ebbene, il diritto comunitario e le norme interne che ne hanno dato attuazione escludono, invero, che il carattere di diritto privato di un dato ente sia sufficiente a negarne la riconduzione a detta categoria, ai fini dell'applicabilità delle regole del codice dei lavori pubblici, ma non impongono di considerarlo tale ad ogni effetto (Goisis, 316; v. sempre Salvato, 2010cit.). Ebbene, quando un soggetto giuridico svolge attività in contesti diversi deve osservare regimi giuridici differenti, ma un soggetto che, sotto alcuni profili, costituisce un organismo di diritto pubblico non è necessariamente tale in relazione ad ogni attività (Chiti, Impresa pubblica e organismo di diritto pubblico: nuove forme di soggettività giuridica o nozioni funzionali, in Organismi e imprese pubbliche, natura delle attività e incidenza sulla scelta del contraente e tutela giurisdizionale, a cura di M.A. Sandulli, in Servizi pubblici e appalti, in Quaderni, Milano, 2004, 72) e il diritto europeo non può essere richiamato, per applicare alle figure imprenditoriali aventi connotati pubblicistici conseguenze ulteriori rispetto a quelle dallo stesso previste (Rossi). Sul punto, va chiarito che l'«approccio totalizzante» (l'espressione è di Salvato, 2013cit., ibidem) è stato, forse, superato anche dal giudice amministrativo, con le sentenze che, recentemente, hanno distinto le società pubbliche che svolgono attività di impresa da quelle che esercitano attività amministrativa. In riferimento alle prime, è stato affermato che, qualora la società svolga «un'attività con metodo economico» (e ciò nel senso che la stessa deve garantire almeno la copertura dei costi con i ricavi), la stessa resta «assoggettata, sul piano sostanziale, allo statuto privatistico dell'imprenditore, con applicazione soltanto di alcune regole pubbliche quali, ad esempio, quelle che configurano la responsabilità amministrativa per danno erariale subito dai soggetti pubblici partecipanti». Le società pubbliche che svolgono attività amministrativa (tra le quali sono state ricondotte anche le società in house, su cui infra) in presenza di dati caratteri (puntualmente indicati) sono, invece, soggette allo statuto della pubblica amministrazione (si v. Cons. St. VI, n. 1574/2012. Secondo queste pronunce, per stabilire quando ricorre l'una o l'altra ipotesi, occorre aver riguardo: «i) alle modalità di costituzione; ii) alla fase dell'organizzazione; iii) alla natura dell'attività svolta; iv) al fine perseguito». Peraltro, l'attività svolta non è di impresa se «manca il carattere essenziale dell'assunzione del relativo rischio (cfr. artt. 2247 e 2082 c.c.)» e la almeno tendenziale compensazione dei costi di produzione con i ricavi della cessione dei beni e dei servizi prodotti «rappresenta il contenuto minimo della economicità che deve caratterizzare l'impresa» (cfr. Cons. St. VI, n. 122/2013). Importante, infine, è anche il chiarimento dell'Adunanza plenaria (v. Cons. st., Ad. Plen., n. 16/2011), secondo cui, sul piano dell'interpretazione «storica», le imprese pubbliche, già sottratte al diritto dei pubblici appalti, vi sono state attratte limitatamente ai «settori speciali», e non in termini generali. Le imprese pubbliche sono imprese private sulle quali «le amministrazioni aggiudicatrici» esercitano direttamente o indirettamente un'influenza dominante e sono soggetti aggiudicatori con riguardo ai settori speciali e nei limiti stabiliti dalla parte terza del codice dei contratti pubblici, con la conseguenza che per le attività e i servizi «estranei» agli stessi agisce come soggetto privato. L'ambito dei settori speciali è puntualmente determinato, va inteso in maniera restrittiva e l'assoggettamento dell'affidamento di un servizio alla disciplina per essi dettata non può essere desunto soltanto dal fatto che l'appalto sia affidato da un ente che opera in questi. La disciplina dei contratti pubblici per i settori speciali è, quindi, applicabile esclusivamente per gli affidamenti inerenti le attività «speciali» ed e ad esse riferibili. Quest'ultimo carattere difetta nel caso di appalto «aggiudicato per scopi diversi dall'esercizio delle specifiche missioni rientranti nei settori speciali e non legato a tali missioni da vincoli strumentali» e, quindi, qualificato come «estraneo» all'ambito dell' azione della direttiva 2004/17/CE. In tal senso, v. inoltre l'efficace sintesi di Nicodemo, Imprese pubbliche: se l'appalto é «estraneo» ai settori speciali, la giurisdizione é del g.o. (nota a C. Stato A.P. n. 16 del 2011), in Urbanistica e appalti, 2011, 1171). Orbene, va detto che, nel quadro di tali orientamenti e alla luce del più recente orientamento della giurisprudenza di legittimità, le premesse dalle quali muovere sono, in primo luogo, che di società di diritto speciale è possibile argomentare soltanto quando una disposizione legislativa introduca deroghe puntuali alle statuizioni del codice civile, non in presenza di «un'ordinaria società di capitali, in cui pubblico non è l'ente bensì il soggetto, o alcuni dei soggetti, che vi partecipano e nella quale, perciò, la disciplina pubblicistica che regola il socio pubblico e quella privatistica che regola il funzionamento della società convivono» (Fimmanò, 2009, 897). Peraltro, si rientra nel paradigma concettuale della società privata, se la società pubblica è stata costituita nell'osservanza della legge, secondo le forme e nei modi previsti dal codice civile, con ciò acquisendo personalità giuridica privata, non essendo ammissibile una riqualificazione della stessa quale soggetto pubblico, e ciò in contrasto con la forma legittimamente assunta ed all'esito dell'esercizio di un potere di disapplicazione delle norme di dubbia legittimità (Salvato, 2013, cit., ibidem). Ne discende che la disposizione alla quale occorre avere riguardo resta, pertanto, l'art. 1 l.fall. (App. Napoli 27 maggio 2013, App. Napoli 24 aprile 2013). Questa norma stabilisce quale presupposto soggettivo per l'assoggettamento al fallimento e al concordato preventivo il possesso della qualità di imprenditore commerciale di natura privata. Ebbene, di tale natura non è possibile dubitare, quando il legislatore abbia consentito lo svolgimento di una determinata attività mediante una società di diritto comune, che può costituire oggetto di una regolamentazione pubblicistica, o essere sottratta a quella di diritto comune, esclusivamente nei casi ed entro i limiti nei quali ciò sia stabilito dalle norme che quella attività disciplinano. Pertanto, il fulcro della questione è la identificazione delle condizioni necessarie per ritenere che la società pubblica svolga un'attività commerciale (cfr. Trib. Palermo 11 febbraio 2010; Trib. Velletri 8 marzo 2010) con assunzione di rischio, rilevando a questo scopo l'oggetto e la modalità con cui la stessa è espletata. La identificazione degli elementi necessari per ritenere che la società eserciti un'attività industriale o commerciale va effettuata avendo riguardo all'attività svolta, non già alle esigenze che esse mira a soddisfare, significative ad altro fine (Cintioli, «Di interesse generale e non avente carattere industriale o commerciale»: il bisogno o l'attività ?, (Brevi note sull'organismo di diritto pubblico), cit., 87, Rossi, cit.). Dunque, occorre che l'attività sia espletata dalla società in difetto delle manifestazioni tipiche del potere d'imperio, che essa non agisca in veste di pubblica autorità e non si avvalga di prerogative che esorbitano dal diritto comune, di privilegi, di poteri coercitivi sui privati (Tesauro, 643). Inoltre, l'attività non deve avere ad oggetto la gestione di un servizio pubblico di carattere sociale (cfr. CGCE 22 gennaio 2002, C-218/00, Soc. Cisal, e 16 marzo 2004, C-264, 306, 354 e 355/01, Aok Bundesverband, concernenti l'attività svolta da organismi di previdenza), ma può consistere anche nella gestione di un servizio di interesse generale, se compatibile con l'applicabilità delle regole della concorrenza (CGCE 19 maggio 1993, C-320/91, Corbeau). Ebbene, la società deve operare in una situazione obiettiva di competizione, all'interno di un mercato concorrenziale, circostanza, all'evidenza, insussistente nei casi nei quali l'esistenza di un regime di esclusiva ovvero di monopolio sottrae l'impresa alla competizione ed al rischio tipici del mercato, ovvero quando la società non svolge attività diretta al pubblico (consumatori o utenti), in regime di concorrenza. Dopo gli ultimi interventi della Corte di cassazione, la questione che residua è ancora quella dell'identificazione dell'imprenditore commerciale e della perdurante attualità di una nozione di scopo di lucro in senso meramente oggettivo che, se coincidente con quella di economicità, può risultare inidonea ad esprimere una ragione di assoggettamento alle procedure in esame. Si tratta, al fondo, di approfondire se sia valorizzabile l'intento di realizzare e distribuire un utile tra i soci, evidentemente inesistente quando, per espressa previsione statutaria, ovvero per la concreta prassi seguita, «la società non si prefigge di distribuire gli utili e non avverte perciò la «pressione» degli azionisti o quando, pur avendo questo scopo, può fruire di risorse esterne provenienti dall'amministrazione», e cioè, quando «non sconta un vero rischio di impresa nella sua azione quotidiana» (Cintioli, «Di interesse generale e non avente carattere industriale o commerciale: il bisogno o l'attività?, cit., 89). Pertanto, le deviazioni dalla disciplina generale possono assumere rilievo se ed in quanto influiscano sulla qualità di imprenditore commerciale. A tale scopo, è opportuno esaminare le principali tipologie nelle quali si articolano le società pubbliche e vanno menzionate anzitutto le società cc.dd. strumentali, e cioè quelle identificate dall'art. 13 del d.l. n. 223/2006 (convertito, con modificazioni, dalla l. n. 248/2006), come le società che svolgono attività rivolta agli stessi enti promotori o comunque azionisti della società, con funzioni di supporto delle amministrazioni pubbliche, e dunque destinata essenzialmente alla P.A. (Cons. St. V, n. 2012/2011; Cons. St. V, n. 4346/2009; Cons. St. V, n. 3766/2009). Si tratta, invero, di società con oggetto sociale esclusivo (Cons. St., Ad. plen., n. 1/2008), «fondate sulla distinzione tra attività amministrativa in forma privatistica e attività d'impresa di enti pubblici». Ebbene, la disciplina che le concerne mira ad «evitare che un soggetto, che svolge attività amministrativa, eserciti allo stesso tempo attività d'impresa, beneficiando dei privilegi dei quali esso può godere in quanto pubblica amministrazione» (Cons. St., Ad. plen., 3 marzo 2008, n. 1, cit.). Per tale ragione il legislatore ha vietato alle stesse l'attività cd. extra moenia e, quando ciò accada, potrebbe essere necessario riflettere sull'esistenza degli elementi imprescindibili per l'assunzione della qualità di imprenditore commerciale. Inoltre, l'art. 3, comma 27, l. n. 244/2007, non identifica una particolare tipologia di società pubblica, ma si limita a stabilire un divieto generale di coinvolgimento delle amministrazioni pubbliche in società di capitali che abbiano per oggetto la produzione di beni e servizi non necessari al perseguimento delle finalità istituzionali delle amministrazioni stesse (la norma, come pure ha sottolineato la Corte cost. n. 148/2009 —, mira ad evitare che soggetti dotati di privilegi svolgano attività economica al di fuori dei casi nei quali ciò è imprescindibile per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali, ovvero per la produzione di servizi di interesse generale, al fine di eliminare eventuali distorsioni della concorrenza, scongiurando una commistione non irragionevolmente ritenuta pregiudizievole della concorrenza). Ne consegue che si tratta di società che svolgono attività non ontologicamente in contrasto con quella che fa sorgere la qualità di imprenditore commerciale, il cui acquisto neppure è impedito dal possesso di partecipazioni in tali società da parte di soggetti pubblici. Restano, da ultimo, le società in house, espressione che identifica una modalità dell'autoproduzione pubblica, caratterizzata dall'essere realizzata non mediante un servizio «interno» alla P.A., bensì attraverso un ente distinto da questa controllato (da sola o congiuntamente ad altre P.A.), ovvero mediante un rapporto contrattuale con altri soggetti pubblici. Nonostante indubbi profili di specialità, per le società in house la questione sembrerebbe identica a quella che si pone in generale per le società cc.dd. pubbliche. Anch'esse, come tutte le altre riconducibili a questo genus indeterminato, sono, infatti, iscritte nel registro delle imprese come società, non come «enti pubblici» o «semi-amministrazioni». Dichiarata tale natura ai terzi, esse suscitano un affidamento che sarebbe disatteso se le norme codicistiche risultassero disapplicabili a favore della giurisdizione contabile e l'eventuale partecipazione totalitaria da parte dell'ente pubblico è, a questo proposito, irrilevante, in quanto non fa venire meno l'esigenza di tutelare i creditori sociali. Da ultimo, giova ricordare che l'entrata in vigore del T.U. in materia di società a partecipazione pubblica, di cui al d.lgs. n. 175/2016, pubblicato sulla G.U. n. 120 dell'8 settembre 2016 (di seguito anche indicato come TUSPP), attuativo della delega contenuta all'art. 18 della l. n. 124/2015, costituisce il primo intervento normativo organico sulle partecipazioni pubbliche in società di capitali, materia sinora considerata da norme isolate collocate in svariati settori dell'ordinamento e non poste a sistema. L'adozione del TUSPP, ispirato ad esigenze di riordino e di chiarificazione della materia, induce ad una rilettura del fenomeno della partecipazione dello Stato, rectius delle pubbliche amministrazioni, nelle attività economiche. Va aggiunto che le società in house providing non hanno conosciuto, se si eccettuano i tentativi di circoscriverne l'utilizzo una vera e propria normativa organica di riferimento: i presupposti applicativi sono stati elaborati in via pretoria e hanno trovato una (forse definitiva) sistemazione all'interno dell'art. 16 del precitato Testo unico, letto in combinato con la norma definitoria di cui all'art. 2 (si legga sul punto, Della Rocca). L'art. 14 del d.lgs. n. 175/2016 così, oggi, recita (senza operare alcuna distinzione): «le Società a partecipazione pubblica sono soggette alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo, nonché, ove ne ricorrano i presupposti, a quelle in materia di amministrazione straordinaria delle grandi imprese insolventi di cui al decreto legislativo 8 luglio 1999, n. 270, e al decreto-legge 23 dicembre 2003, n. 347, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 febbraio 2004, n. 3». L'intenzione di non operare distinzioni per le società in house emerge, con chiarezza, dalla relazione illustrativa, ove si legge che «non si è ritenuto di accogliere le osservazioni del Consiglio di Stato e della Commissione V Bilancio della Camera che mirano a differenziare la disciplina delle crisi aziendali rispetto a diverse tipologie di società (in house o strumentali): si tratta di una soluzione contraria all'impostazione privatistica della disciplina delle crisi ravvisabile nel testo unico in esame». Va tuttavia segnalato, per completezza, che la sentenza della Corte costituzionale n. 251/2016 ha dichiarato l'illegittimità di alcuni articoli della l. n. 124/2015, la c.d. Legge delega Madia di riforma della Pubblica Amministrazione. Fra gli articoli dichiarati incostituzionali è ricompreso anche l'art. 18, cioè la norma in attuazione della quale è stato emanato dal Governo il d.lgs. n. 175/2016 “Testo Unico sulle società a partecipazione pubblica”. L'illegittimità costituzionale dell'art. 18 è stata dichiarata nella parte in cui prevede che il Governo adotti i relativi decreti legislativi attuativi “previo parere”, anziché “previa intesa”, in sede di Conferenza Unificata. Le società in house. In ordine alla possibilità di fallimento delle c.d. società in house (Fiorani, 532; D'Attore, 2010, 691; Fimmanò, 245/2011), occorre accogliere – anche qui – la tesi dell'assoggettabilità a fallimento anche delle dette società, qualora possano essere annoverate nella categoria degli imprenditori commerciali, secondo la definizione contenuta nell'art. 1 l.fall. Sul punto, va precisato che la sottrazione degli enti pubblici alla disciplina delle procedure concorsuali vale sia per le c.d. imprese organo sia per gli enti pubblici economici, spiegandosi la ragione giustificatrice dell'esclusione in parola sulla incompatibilità della procedura concorsuale, caratterizzata da un'esecuzione generale sul patrimonio del debitore e collettiva dell'intero ceto creditorio, con l'ordinaria attività degli enti di cui si tratta, giacché, diversamente ragionando, si determinerebbe, in caso di assoggettamento alle procedure concorsuali, la sostituzione degli organi fallimentari a quelli politici, con una inammissibile interferenza giudiziaria sulla sovranità dell'ente e dei suoi organi e, lo spossessamento del debitore e la cessazione dell'attività d'impresa, con un inaccettabile pregiudizio al regolare svolgimento dell'attività economica rispondente alla realizzazione di interessi generali. Tuttavia, là dove non possa essere ravvisato, in dipendenza della eventuale apertura di una procedura concorsuale, alcun pregiudizio ad attività di interesse pubblico, le disposizioni concorsuali potranno essere applicate anche agli enti pubblici, potendosi pertanto ritenere fallibili anche le società partecipate da enti pubblici, a nulla rilevando l'entità della partecipazione, eventualmente anche totalitaria (così, Trib. S.M. Capua Vetere 24 maggio 2011; Trib. Velletri 8 marzo 2010). In realtà, il discrimen tra enti che possono fallire ed enti che non rientrano invece nel raggio di applicazione dell'art. 1 l.fall. dovrebbe essere ricercato nel carattere necessario della loro attività rispetto alla tutela di finalità pubblicistiche, piuttosto che nella loro natura pubblica o privata (così, Trib. Latina, 16 settembre 2013). A tal proposito, la giurisprudenza e la dottrina si sono da tempo cimentate, come già sopra esaminato: cfr. supra) in una complessa actio finium regundorum, giustificata, soprattutto, dalla necessità di delimitare l'ambito di applicazione soggettiva di una serie di norme pubblicistiche variamente previste per enti pubblici, amministrazioni pubbliche et similia. Ebbene, la necessità di definire la nozione di ente pubblico si è inoltre resa storicamente necessaria non solo per distinguere — quanto a disciplina applicabile — le persone giuridiche private da quella pubbliche, ma anche al fine di individuare, all'interno delle seconde, la categoria dell'ente pubblico economico. Inoltre, con riguardo, più in particolare alla soggezione a fallimento, i profili di specialità che sicuramente connotano la società in house, come tali idonei a sorreggere una «visione tendenzialmente unitaria della pubblica amministrazione locale, a prescindere dalla concreta forma organizzativa in cui si articolano i suoi plessi» hanno pertanto indotto la giurisprudenza della Corte dei Conti (Corte conti 11 ottobre 2012) non già a negare la sottoposizione a fallimento di tale tipo di società, bensì a ritenere che «il comune, unico socio che agisce con i poteri di controllo analogo e di stringente direzione e coordinamento della società in house, in caso di insolvenza societaria risponde dei debiti di quest'ultima». Sul punto, devono essere apprezzate – per ritenere fallibile una società partecipata da un ente pubblico – una serie di circostanze, tra le quali il fatto se la detta società, oltre a svolgere attività imprenditoriale di tipo commerciale (costituente quest'ultima la precondizione necessaria, invero, per l'assoggettabilità dell'ente privato alle procedure concorsuali), ispiri la sua gestione a criteri di imprenditorialità e di economicità e sia dotata di autonomia gestionale, finanziaria, contabile e patrimoniale rispetto agli enti partecipanti (App. Napoli 15 luglio 2009, Fall., 10, 690; Cass. S.U., n. 2005/7799). In realtà, giova ricordare che la posizione tradizionale della giurisprudenza è nel senso che la semplice partecipazione di enti pubblici alla composizione di una società commerciale non priva ancora quest'ultima della sua natura le qualifica di imprenditore (cfr. Cass. n. 7799/2005, ove può leggersi che «... la società per azioni con partecipazione pubblica non muta la sua natura di soggetto di diritto privato solo perché lo Stato o gli enti pubblici (Comune, Provincia, etc.) ne posseggano le azioni, in tutto o in parte, non assumendo rilievo alcuno, per le vicende della medesima, la persona dell'azionista, dato che tale società, quale persona giuridica privata, opera «nell'esercizio della propria autonomia negoziale, senza alcun collegamento con l'ente pubblico»: il rapporto tra la società e l'ente lo cale «è di assoluta autonomia, sicché non è consentito al Comune incidere unilateralmente sullo svolgimento del rapporto medesimo e sull'attività della società per azioni mediante l'esercizio di poteri autoritativi o discrezionali». Invero, la legge non prevede «alcuna apprezzabile deviazione, rispetto alla comune disciplina privatistica delle società di capitali, per le società miste incaricate della gestione di servizi pubblici istituiti dall'ente locale... La posizione del Comune all'interno della società è unicamente quella di socio di maggioranza, derivante dalla «prevalenza» del capitale da esso conferito; e soltanto in tale veste l'ente pubblico potrà influire sul funzionamento della società... avvalendosi non già dei poteri pubblicistici che non gli spettano, ma dei soli strumenti previsti dal diritto societario, da esercitare a mezzo dei membri di nomina comunale presenti negli organi della società (v. art. 2459 c.c.)»; in precedenza, cfr. anche Cass. n. 8454/1998; Cass. n. 5085/1997; Cass. n. 4989/1995). Inoltre, va aggiunto che il sempre maggiore affidamento di servizi a rilevanza pubblicistica – in precedenza svolti direttamente da enti pubblici territoriali – a persone giuridiche costituite secondo le forme delle società commerciali ha però mutato il quadro economico – sociale di riferimento e indotto la giurisprudenza a ripensare la suddetta posizione. Ed invero, pur rimanendo fermo il principio di fondo, secondo cui la semplice appartenenza di una società commerciale alla mano pubblica non fa ancora di questa un ente pubblico, si è giunti all'affermazione secondo la quale non è sufficiente che la struttura di un soggetto collettivo sia articolata secondo le forme privatistiche della società commerciale per escludere che quest'ultimo, sostanzialmente, abbia natura di ente pubblico. Sul punto, va precisato che il discrimen fra natura privatistica e pubblicistica è stabilito dalla presenza di determinati indici rivelatori, attinenti alla struttura, all'attività, al regime di controllo, all'ingerenza dell'ente pubblico partecipante nella gestione di tali soggetti, indici da esaminarsi caso per caso (cfr. Cass. n. 9096/2005; la giurisprudenza di legittimità ha così affrontato vari casi, fra cui quello della gestione del servizio relativo agli impianti e all'esercizio dei mercati annonari all'ingrosso del Comune di Milano: Cass. n. 3899/2004; l'affidamento, da parte della Regione Sicilia, all'Ente nazionale addestramento professionale, della gestione di corsi di formazione professionale disciplina ti e finanziati dalla pubblica amministrazione: Cass. n. 715/2002; l'affidamento, sempre da parte della Regione Sicilia, al Centro regionale siciliano radio e telecomunicazioni, di simili corsi di formazione: Cass. n. 10963/1991; Cass. n. 2668/1993; l'assegnazione di lavori di realizzazione di una discarica per rifiuti solidi, effettuata dal comune di Milano alla Azienda municipalizzata per i servizi ambientali: Cass. n. 20886/2004; anche la giurisprudenza di merito ha avuto modo di affrontare tale problematica: Trib. S.M. Capua Vetere, 24 maggio 2011, cit., che ha così statuito: «La società per azioni con partecipazione pubblica non muta la sua natura di soggetto di diritto privato per il solo fatto che l'ente pubblico ne possegga in tutto o in parte le azioni. Pertanto, se la società partecipata dalla mano pubblica si avvale degli strumenti previsti dal diritto societario, essa non può che essere ritenuta un soggetto di natura privata. Le forme privatistiche di esercizio di impresa commerciale potranno eventualmente porre questioni attinenti alla natura pubblica o privata del soggetto partecipato da enti pubblici solo qualora l'aspetto gestionale e di attività di detti enti risultasse completamente avulso dalle regole e dagli schemi del diritto commerciale, così da rappresentare la società un mero organo, un'articolazione che si immedesima nel soggetto pubblico che la partecipa. Su questo tema la giurisprudenza ha affermato che gli indici di valutazione riguardanti sia l'aspetto gestionale che l'attività della società che gestisce il servizio pubblico in favore dell'ente locale che interamente la partecipa attengono in sintesi alla concorrenza dei seguenti dati: a) il soggetto affidatario deve svolgere la maggior parte della propria attività in favore dell'ente pubblico; b) l'impresa non deve aver acquisito una vocazione commerciale che rende precario il controllo dell'ente pubblico e che può risultare, tra l'altro, dall'ampliamento dell'oggetto sociale, dall'apertura obbligatoria della società ad altri capitali, dall'espansione territoriale dell'attività della società a tutto il territorio nazionale e dall'estero; c) il consiglio di amministrazione della società non deve avere poteri gestionali di rilievo e l'ente pubblico esercita poteri maggiori rispetto a quelli che il diritto societario riconosce alla maggioranza sociale; d) le decisioni di maggior rilievo devono essere sotto poste al vaglio preventivo dell'ente affidante»; negli stessi termini si è espresso il medesimo Trib. S.M. Capua Vetere con sentenza del 22 luglio 2009; Trib. Catania, 26 marzo 2010, che ha così affrontato la questione in esame: «È qualificabile quale ente pubblico non assoggettabile alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo, ai sensi dell'art. 1, l.fall., la società per azioni esercente il servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti solidi urbani partecipata esclusivamente da enti pubblici dotata di poteri di imposizione e di riscossione tipicamente pubblicistici. È qualificabile quale ente pubblico non assoggettabile alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo, ai sensi dell'art. 1, l.fall., la società per azioni in mano pubblica esercente il servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti solidi urbani «necessaria» all'ente territoriale, in quanto inerente allo svolgimento di servizi pubblici essenziali destinati al soddisfacimento di bisogni collettivi»; ed infine, Trib. Velletri,8 marzo 2010, cit., ha ribadito che «È assoggettabile a procedura concorsuale – e può quindi essere ammessa al concordato preventivo – la società per azioni interamente partecipata da capitale pubblico e che utilizzi risorse pubbliche per lo svolgimento della propria attività qualora la sua sfera d'azione sia riconducibile al diritto privato secondo uno schema comunque inquadrabile nel modello previsto dal codice civile (nella specie, il potere di indirizzo riconosciuto all'ente pubblico è limitato all'espletamento del servizio nel territorio di riferimento, gli enti locali non hanno alcun potere di ingerenza nella gestione complessiva della società e di verifica del bilancio e non esercitano comunque un potere analogo a quello esercitato dall'ente pubblico sui propri servizi; l'oggetto sociale ammette infine l'espletamento dell'attività a favore di terzi»). Come già sopra ricordato (v. supra), la giurisprudenza della Cassazione si è espressa anche di recente in senso contrario alla esenzione delle società in mano pubblica dal fallimento. È sufficiente ricordare la sentenza emessa da Cass. n. 2199/2012 (fruibile in Fall., 2013, 1273 con nota di Balestra, Concordato di società a partecipazione pubblica e profili di inammissibilità della domanda) e quella emessa da Cass. n. 22209/2013. Ebbene, la prima di tali sentenze si fondava sul rilievo che le società commerciali previste dal codice civile acquistano la qualità di imprenditore commerciale sin dal momento della costituzione e non dal momento dell'inizio dell'esercizio dell'attività, rimanendo assoggettabili ab origine al fallimento. La seconda invece ha negato che la società perda la sua natura di soggetto di diritto privato per il solo fatto che un ente pubblico ne detenga la maggioranza delle partecipazioni (Panzani, 2013, 7 ss.). Peraltro, l'ultimo arresto giurisprudenziale sopra ricordato risulta essere del tutto convincente anche là dove precisa che l'eventuale deroga al principio lucrativo non è sufficiente a escludere, in presenza dell'adozione del modello societario, che la natura giuridica e le regole di organizzazione della società rimangano quelle che sono proprie di una società di capitali, secondo quanto stabilito dal codice civile. Come accennato anche nel § precedente, la corte regolatrice ha altresì evidenziato che — ai fini dell'assoggettamento a fallimento — rileva la natura del soggetto e non l'attività esercitata giacché, diversamente opinando, un soggetto interamente privato, concessionario di un pubblico esercizio, sarebbe sottratto alle procedure concorsuali, ribadendo da ultimo che la tutela dei terzi e della concorrenza comportano che, una volta scelta la strada di perseguire l'interesse pubblico tramite lo strumento privatistico, non si possa derogare all'assunzione dei rischi connessi all'insolvenza, pena la violazione dei principi di uguaglianza e affidamento. Da ultimo, sono intervenute in subiecta materia le Sezioni Unite, ribadendo in linea di principio l'orientamento seguito nel 2009 e nella successiva giurisprudenza (Cass. n. 26283/2013; Cass. S.U., n. 26806/2009, in Giur. it., 2010, con nota di Patrito, Responsabilità degli amministratori di società a partecipazione pubblica: profili di giurisdizione e diritto sostanziale; e in Giur. comm. 2011, II, 306, con nota di Fiorani, Le azioni di responsabilità nelle società a partecipazione pubblica e di Lamorgese, Società a partecipazione pubblica, responsabilità, giurisdizione). Ebbene, la sentenza del 2009 aveva affermato il principio, confermato nella recentissima decisione delle Sezioni Unite, che le società di capitali costituite o partecipate non cessano sol per questo di essere società di diritto privato, la cui disciplina è dettata dal codice civile, come confermato dall'art. 2449 c.c. Risulta dunque evidente che, per la giurisprudenza di legittimità, la partecipazione pubblica in una società di capitali non è elemento sufficiente a escluderne l'assoggettabilità a fallimento e alle altre procedure concorsuali. Tuttavia, le Sezioni Unite sono giunte a diversa conclusione proprio per le società c.d. in house, di cui qui in discorso, a condizione che esse siano interamente partecipate dall'ente pubblico o da enti pubblici, che l'ente sia il destinatario prevalente dell'attività della società, che l'ente si sia riservato in base allo statuto poteri diretti d'intervento e di condizionamento dell'attività della società che non si riducano al mero potere del socio di maggioranza di condizionare la vita della società attraverso l'utilizzo di poteri connessi alla partecipazione (Panzani, 2013, 9). Sul punto, le Sezioni Unite hanno osservato che nel caso della società in house l'ente pubblico ha poteri maggiori rispetto a quelli che si può riservare il socio unico di una s.p.a. ovvero di una s.r.l. ovvero il socio che esercita potere di direzione e di controllo ex art. 2497 c.c. ovvero ancora il socio di una s.r.l. che si riserva statutariamente poteri amministrativi ex art. 2468, comma 3, c.c., perché tutti questi poteri non sono equiparabili ad un vero e proprio potere gerarchico, come quello che l'ente può riservarsi nella società in house. Di qui pertanto l'affermazione secondo cui la società in house non sarebbe soggetto giuridico diverso rispetto all'ente pubblico. In realtà, il modello organizzativo sarebbe sempre quello della società di capitali, ma «di una società di capitali, intesa come persona giuridica autonoma cui corrisponda un autonomo centro decisionale e di cui sia possibile individuare un interesse suo proprio, non è possibile parlare». È dunque evidente che la strada è ormai aperta per riqualificare la società in house come soggetto di diritto pubblico, in particolare come ente pubblico, non essendo soggetto distinto dall'ente che lo partecipa, con conseguente esclusione del fallimento. Pur essendo questo l'ultimo approdo della giurisprudenza di legittimità, occorre ribadire con forza il principio tradizionale secondo cui, allorquando lo Stato ovvero l'ente pubblico sceglie il modello privatistico, ad esso deve sottoporsi integralmente, e ciò anche per quanto concerne l'assoggettabilità a fallimento, dovendosi anche tutelare in subiecta materia il principio di affidamento dei terzi creditori. La questione è stata ora risolta dalla normativa dall'art. 14 del T.u. in materia di Società a partecipazione pubblica, sopra citato. Va tuttavia precisato che con sentenza n. 3196/2017, la Suprema Corte ha definitivamente statuito il principio della fallibilità delle società cd. pubbliche. La società di capitali con partecipazione in tutto o in parte pubblica, è assoggettabile al fallimento in quanto soggetto di diritto privato agli effetti dell'art. 1 l.fall., essendo la posizione dell'ente pubblico all'interno della società unicamente quella di socio in base al capitale conferito, senza che gli sia consentito influire sul funzionamento della società avvalendosi di poteri pubblicistici, né detta natura privatistica della società è incisa dall'eventualità del cd. controllo analogo, mediante il quale l'azionista pubblico svolge un'influenza dominante sulla società, così da rendere il legame partecipativo assimilabile ad una relazione interorganica che, tuttavia, non incide affatto sulla distinzione sul piano giuridico-formale, tra P.A. ed ente privato societario, che è pur sempre centro di imputazione di rapporti e posizioni giuridiche soggettive diverso dall'ente partecipante (cfr. Cass, I , n. 5346/2019). Gli enti ecclesiastici. Deve ritenersi assoggettabile alle norme sulle procedure concorsuali anche l'ente ecclesiastico che eserciti attività commerciale organizzata in forma di impresa (cfr. Trib. Roma 30 maggio 2013, in Il fallimentarista.it.). Il fine spirituale, di religione o altruistico non pregiudica, pertanto, l'attribuzione del carattere di imprenditorialità anche laddove «le prestazioni siano organizzate in modo da conseguire un pareggio dei ricavi e dei costi» (così, Trib. Roma, cit. supra). Sul punto, è stato affermato dalla giurisprudenza di merito che la nozione di imprenditore, ai sensi dell'art. 2082 c.c.«va intesa in senso oggettivo, dovendosi riconoscere il carattere imprenditoriale all'attività economica organizzata che sia ricollegabile ad una attitudine a conseguire la remunerazione dei fattori produttivi, rimanendo invece irrilevante lo scopo di lucro, che riguarda il movente soggettivo che induce l'imprenditore ad esercitare la sua attività» (così sempre Trib. Roma, cit.). Sempre secondo la sopra riportata giurisprudenza pratica, ai fini della liquidazione dell'intero patrimonio dell'ente ecclesiastico, non può non tenersi conto della duplicità delle finalità e delle funzioni cui l'ente stesso è preposto. Ne discende che dovrà, pertanto, essere valutata separatamente l'attività di impresa da quella religiosa, di culto ed assistenziale (secondo Trib. Roma, cit., «I beni dell'ente ecclesiastico funzionali al compimento delle attività non imprenditoriali dell'ente «non potranno costituire oggetto di liquidazione concorsuale in funzione del pagamento dei debiti dell'ente ecclesiastico nella sua funzione di imprenditore»). In realtà, questa ultima soluzione potrà determinare qualche difficoltà nell'applicazione pratica, non essendovi, in tal caso, un vero e proprio patrimonio «di destinazione», così come oggi riconosciuto anche per le società commerciali ex artt. 2447-bis ss. c.c. (Di Majo, Brevi osservazioni sull'ente ecclesiastico quale imprenditore commerciale ed assoggettabilità alle procedure concorsuali, in Il fallimentarista.it, 26 settembre 2013). Ebbene, in tal caso il patrimonio, più che figurare «destinato» ad un determinato affare, dovrà essere più empiricamente «riferito» all'attività, se religiosa o di culto o imprenditoriale. Onde dovrà essere attentamente valutato, nella liquidazione dei beni dell'ente, quali beni possano essere più direttamente collegati alla attività primaria dell'ente – che è quella religiosa – e quali invece no. La nozione «di attività» religiosa o diversa da essa, cui ha riguardo l'art. 7 del nuovo Concordato tra Stato e Chiesa (ratificato dalla l. n. 121/1985), potrebbe non essere un criterio del tutto esaustivo, ove non integrato con altri criteri, come quello della particolare connotazione che può rivestire la stessa attività (imprenditoriale) svolta dall'ente (ad es. di prevalente assistenza di pazienti economicamente bisognosi) o dalla sua dimensione (se proporzionalmente minima) rispetto alla struttura dell'ente stesso (in quanto ecclesiastico) (Di Majo, Brevi osservazioni sull'ente ecclesiastico quale imprenditore commerciale ed assoggettabilità alle procedure concorsuali, cit.). La «destinazione» dunque, se non introdotta formalmente da atti a ciò diretti, può diventare rilevante in via di fatto, in quanto strumentale «all'attività». In via definitiva, può affermarsi con sicurezza, unitamente ad una condivisibile giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 16612/2008, Cass. n. 7725/2004, Cass. n. 97/2001, Cass. S.U., n. 3353/1994), il principio secondo cui la natura altruistica, spirituale, religiosa di un ente ecclesiastico non impedisce l'assunzione della veste di imprenditore ove l'attività esercitata abbia le caratteristiche dell'attività commerciale. Pertanto, ove l'ente ecclesiastico assuma la veste di imprenditore, l'ente dovrà essere assoggettato alle norme sulle procedure concorsuali, inclusa dunque quella fallimentare e dell'amministrazione straordinaria. Del resto, la diversità ontologica tra ente pubblico, non fallibile, ed ente ecclesiastico impedisce la possibilità di una assimilazione, per la via di interpretazione estensiva, del secondo ente al primo. L'art. 1 l.fall. sottopone l'imprenditore insolvente, id est l'ente ecclesiastico, alla regola generale del fallimento ed anche la procedura di amministrazione straordinaria ai sensi degli artt. 1 e 4 della c.d. Legge Marzano, laddove si parla tuttavia di impresa e non già di imprenditore. Per la storia, occorre ricordare due sentenze di legittimità che hanno affrontato la questione relativa alla possibile assunzione di tali enti della veste imprenditoriale. La più risalente (Cass. n. 341/1983) escluse che potesse applicarsi una disposizione specifica della legge cambiaria, presupponente la natura imprenditoriale, sulla base del rilievo che, nel caso esaminato, l'attività d'impresa risultava svolta soltanto «in via accessoria e strumentale» (cfr. anche Cass. n. 9589/1993; Cass. n. 5770/1979). Nella seconda pronuncia, relativa alla applicabilità dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori, la Suprema Corte affermò la natura di imprenditore commerciale di un ente ecclesiastico civilmente riconosciuto esercente professionalmente l'attività d'impresa (Cass. sez. lav., n. 10636/1995). Ebbene, la corte regolatrice rileva che le finalità spirituali o ideali perseguite non escludono il rilievo che la concreta organizzazione dell'attività esercitata e il perseguimento del criterio dell'economicità finiscono per assumere il fine di qualificare l'attività svolta alla stregua di attività di impresa commerciale, con l'effetto di imporre l'applicazione dello statuto dell'impresa. Pertanto, deve ritenersi che, anche alla luce di tali ultime considerazioni, appaiono del tutto irrilevanti sia le finalità ultime sia la natura del soggetto collettivo. Ed invero, costituisce condizione necessaria e sufficiente che venga svolta attività d'impresa, con il criterio della economicità. Ne discende che può ritenersi opinione oramai pacifica quella secondo cui una fondazione ovvero un'associazione (riconosciuta o meno) possano esercitare attività d'impresa e che, in tale ipotesi, siano soggette allo statuto dell'imprenditore, non mutando i termini della questione neanche la circostanza che l'attività d'impresa commerciale sia svolta da un ente ecclesiastico (Trib. Paola 3 dicembre 2009; Trib. Roma 30 maggio 2013). 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