Regio decreto - 16/03/1942 - n. 267 art. 104 ter - Programma di liquidazione 1Programma di liquidazione1
Entro sessanta giorni dalla redazione dell'inventario, e in ogni caso non oltre centottanta giorni dalla sentenza dichiarativa di fallimento, il curatore predispone un programma di liquidazione da sottoporre all'approvazione del comitato dei creditori. Il mancato rispetto del termine di centottanta giorni di cui al primo periodo senza giustificato motivo e' giusta causa di revoca del curatore2. Il programma costituisce l'atto di pianificazione e di indirizzo in ordine alle modalita' e ai termini previsti per la realizzazione dell'attivo, e deve specificare: a) l'opportunita' di disporre l'esercizio provvisorio dell'impresa, o di singoli rami di azienda, ai sensi dell'articolo 104, ovvero l'opportunita' di autorizzare l'affitto dell'azienda, o di rami, a terzi ai sensi dell'articolo 104-bis; b) la sussistenza di proposte di concordato ed il loro contenuto; c) le azioni risarcitorie, recuperatorie o revocatorie da esercitare ed il loro possibile esito; d) le possibilita' di cessione unitaria dell'azienda, di singoli rami, di beni o di rapporti giuridici individuabili in blocco; e) le condizioni della vendita dei singoli cespiti3. f) il termine entro il quale sara' completata la liquidazione dell'attivo4. Il termine di cui alla lettera f) del precedente comma non puo' eccedere due anni dal deposito della sentenza di fallimento. Nel caso in cui, limitatamente a determinati cespiti dell'attivo, il curatore ritenga necessario un termine maggiore, egli e' tenuto a motivare specificamente in ordine alle ragioni che giustificano tale maggior termine5. Il curatore , fermo restando quanto disposto dall'articolo 107, può essere autorizzato dal giudice delegato ad affidare ad altri professionisti o societa' specializzate alcune incombenze della procedura di liquidazione dell'attivo6. Il comitato dei creditori può proporre al curatore modifiche al programma presentato. [ L'approvazione del programma di liquidazione tiene luogo delle singole autorizzazioni eventualmente necessarie ai sensi della presente legge per l'adozione di atti o l'effettuazione di operazioni inclusi nel programma]7. Per sopravvenute esigenze, il curatore può presentare, con le modalità di cui ai commi primo, secondo e terzo, un supplemento del piano di liquidazione. Prima della approvazione del programma, il curatore può procedere alla liquidazione di beni, previa autorizzazione del giudice delegato, sentito il comitato dei creditori se già nominato, solo quando dal ritardo può derivare pregiudizio all'interesse dei creditori. Il curatore, previa autorizzazione del comitato dei creditori, può non acquisire all'attivo o rinunciare a liquidare uno o più beni, se l'attività di liquidazione appaia manifestamente non conveniente. In questo caso, il curatore ne dà comunicazione ai creditori i quali, in deroga a quanto previsto nell'articolo 51, possono iniziare azioni esecutive o cautelari sui beni rimessi nella disponibilità del debitore. Il programma approvato e' comunicato al giudice delegato che autorizza l'esecuzione degli atti a esso conformi8. Il mancato rispetto dei termini previsti dal programma di liquidazione senza giustificato motivo e' giusta causa di revoca del curatore. E' altresi' giusta causa di revoca, in presenza di somme disponibili per la ripartizione, il mancato rispetto dell'obbligo di cui all'articolo 110 primo comma9. [1] Articolo inserito dall'articolo 91 del D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5. [2] Comma sostituito dall'articolo 7, comma 1, del D.Lgs. 12 settembre 2007 n.169, con la decorrenza indicata nell'articolo 22 del medesimo D.Lgs. 169/2007 e successivamente modificato dall'articolo 6, comma 1, lettera a), del D.L. 27 giugno 2015 n. 83, convertito, con modificazioni, dalla Legge 6 agosto 2015, n. 132; per l'applicazione vedi l'articolo 23, comma 3, del medesimo decreto. [3] Comma sostituito dall'articolo 7, comma 1, del D.Lgs. 12 settembre 2007 n.169, con la decorrenza indicata nell'articolo 22 del medesimo D.Lgs. 169/2007. [4] Lettera inserita dall'articolo 6, comma 1, lettera b), del D.L. 27 giugno 2015 n. 83, convertito, con modificazioni, dalla Legge 6 agosto 2015, n. 132; per l'applicazione vedi l'articolo 23, comma 3, del medesimo decreto. [5] Comma aggiunto dall'articolo 6, comma 1, lettera c), del D.L. 27 giugno 2015 n. 83, convertito, con modificazioni, dalla Legge 6 agosto 2015, n. 132; per l'applicazione vedi l'articolo 23, comma 3, del medesimo decreto. [6] Comma modificato dall'articolo 6, comma 1, lettera d), del D.L. 27 giugno 2015 n. 83, convertito, con modificazioni, dalla Legge 6 agosto 2015, n. 132; per l'applicazione vedi l'articolo 23, comma 3, del medesimo decreto. [7] Comma modificato dall'articolo 7, comma 1, del D.Lgs. 12 settembre 2007 n.169, con la decorrenza indicata nell'articolo 22 del medesimo D.Lgs. 169/2007. [8] Comma inserito dall'articolo 7, comma 1, del D.Lgs. 12 settembre 2007 n.169, con la decorrenza indicata nell'articolo 22 del medesimo D.Lgs. 169/2007. [9] Comma aggiunto dall'articolo 6, comma 1, lettera e), del D.L. 27 giugno 2015 n. 83, convertito, con modificazioni, dalla Legge 6 agosto 2015, n. 132; per l'applicazione vedi l'articolo 23, comma 3, del medesimo decreto. Da ultimo modificato dall'articolo 6, comma 1, lettera c), del D.L. 3 maggio 2016, n. 59, convertito, con modificazioni, dalla Legge 30 giugno 2016, n. 119. InquadramentoL'introduzione del programma di liquidazione ha rappresentato invero uno degli aspetti più innovativi della riforma, con l'attribuzione allo stesso di un ruolo essenziale nell'attività di liquidazione (Guglielmucci, 2006, 240 e 260; Panzani, 2009, 1139). In realtà, l'introduzione del programma di liquidazione è stata il frutto del recepimento di una prassi virtuosa riscontrabile già in passato in alcuni tribunali, soprattutto in presenza di fallimenti significativi dal punto di vista patrimoniale ed economico (Mandrioli, 339; Ambrosini, 623). La riforma fallimentare, voluta in nome di una maggiore efficienza, snellezza e praticità della procedura, non poteva che concentrare molte delle novità sulla fase di liquidazione, che costituisce il cuore delle procedure fallimentari, il momento decisivo per verificare se gli organi preposti siano stati efficienti. Sul punto, è stato affermato in dottrina che «Il programma di liquidazione, che si profila come un sub procedimento regolato dall'art. 104-ter l.fall., collocato nella fase iniziale di realizzazione dell'attivo fallimentare, rappresenta l'espressione dei più ampi poteri di iniziativa nell'amministrazione conservativa e liquidatoria che la nuova legge riconosce al curatore» (Ferri, 399). GeneralitàSul tema della liquidazione dell'attivo, il d.lgs. n. 6/2006 raccoglieva, come detto, alcune prassi virtuose che sotto il governo della previgente legge fallimentare si sono sviluppate nei tribunali, mirando a superare le rigidità del garantismo di un procedimento di liquidazione che si appiattiva sulle norme del processo civile, e precisamente sull'esecuzione individuale. L'intento del legislatore, espresso nella Relazione illustrativa alla riforma, è stato di evitare lo svolgimento di attività di liquidazione attraverso «operazioni diversificate, non coordinate, occasionali e non rientranti in una strategia unitaria» e dunque «i rischi di irrazionali disgregazioni liquidatorie», obiettivo realizzabile «nel quadro di un razionale programma di liquidazione». La vera novità in merito alla procedura di liquidazione dell'attivo consiste, pertanto, nell'aver previsto che la detta procedura sia governata attraverso un documento programmatico e non più dunque con operazioni diversificate, non coordinate ed occasionali. Dottrina autorevole ha affermato che: «Il programma di liquidazione costituisce una delle maggiori novità introdotte dalla riforma. Nella disciplina dettata dalla legge fallimentare del 1942 il curatore era libero di procedere alla liquidazione dei beni in vista del successivo soddisfacimento dei creditori nelle forme e nei tempi ritenuti più opportuni salva la necessità di munirsi dell'autorizzazione del giudice delegato per la liquidazione dei beni mobili e di promuovere l'emanazione da parte di quest'ultimo di provvedimenti che disponevano la vendita degli immobili» (Panzani, 2009, 1139). Va aggiunto che se nel testo dell'art. 104-ter l.fall., così come formulato dal d.lgs. n. 5/2006, era stata riconosciuta al piano di liquidazione una funzione autorizzatoria delle vendite, con il decreto correttivo è stato eliminato tale profilo, essendo ora necessaria l'autorizzazione del g.d.per i singoli atti, per arrivare alla vera essenza di tale strumento, e cioè atto di pianificazione e di indirizzo della liquidazione (AA.VV., 620). In tal modo, il programma di liquidazione consente la conoscenza ed il conseguente controllo da parte dei creditori, del giudice e dei terzi in ordine alle modalità ed i termini per la monetizzazione dell'attivo, nonché per una gestione coordinata degli atti liquidatori (Paluchowski, 958). Sul punto, va aggiunto che, diversamente dal sistema previgente, la fase della liquidazione, il cui inizio non deve ora attendere l'emissione del decreto di esecutività dello stato passivo, può collocarsi contestualmente alle operazioni di esame dei crediti e dei diritti dei terzi sui beni, e ciò in considerazione della circostanza secondo cui l'attività di pianificazione delle operazioni di liquidazione non presuppone tanto l'accertamento delle poste passive, quanto piuttosto la ricognizione e l'accertamento dell'attivo fallimentare da sottoporre a liquidazione concorsuale. Orbene, alla luce delle novità introdotte dalla legge di riforma e dal successivo decreto correttivo, oggi, le operazioni di liquidazione dei beni appresi all'attivo fallimentare devono rispondere ad obiettivi preordinati ad una strategia unitaria, e ciò in un quadro programmato e razionale coerente con i requisiti identificabili, trasparenti e dunque anche verificabili, sia sotto il profilo dei risultati ottenuti sia sotto quello dei risultati realizzabili attraverso l'attività svolta dagli organi della procedura, ed in primo luogo del curatore fallimentare, alla cui diretta responsabilità è riconducibile la predetta attività programmatoria. È stato autorevolmente affermato che «Il programma si presenta come il progetto che il curatore deve redigere ed al quale deve attenersi per quanto concerne le modalità e i termini per la realizzazione dell'attivo. Esso pertanto costituisce una mappa dell'attività del curatore, tanto più importante e significativa perché soggetta, secondo la previsione dell'art. 104-ter all'approvazione del comitato dei creditori. È stato osservato che il programma di liquidazione è espressione del bisogno di managerialità nella gestione del fallimento. Con esso la precedente libertà del curatore di dettare i tempi e i modi della liquidazione è incanalata in tempi definiti e schemi predeterminati. La liquidazione va dunque programmata attraverso un articolato piano che consacra precisi e analitici impegni operativi» (Panzani, 2009, 1139). Nella prima versione della riforma, poi rettificata dal decreto correttivo, si era disegnato uno schema fondato sul potere di «approvazione» del piano di liquidazione da parte del g.d., redatto dal curatore e già autorizzato dal comitato dei creditori. In realtà, il mantenimento, nella fase della liquidazione, di un potere autorizzatorio così concepito in capo al giudice delegato era stato commentato come un elemento di asimmetria rispetto ai principi ispiratori della legge delega di riforma del diritto fallimentare, tesi avvalorata anche dall'incongruenza tra il dato normativo presente proprio nella legge delega e quello poi adottato nel decreto n. 5/2006. La legge delega, invero, in merito al programma di liquidazione, stabiliva che fosse il comitato dei creditori ad approvare il piano strategico del curatore, con il quale il comitato deve condividere le scelte gestionali, riservando al giudice delegato il solo potere di autorizzazione del programma. L'art. 7 del decreto correttivo n. 169/2007, che riscrive l'art. 104-ter l.fall., riporta, invece, il comitato dei creditori nel ruolo centrale dell'intero procedimento in esame, attribuendogli il potere di approvare il piano, e dunque di esprimersi, in modo vincolante, sul merito della strategia adottata dal curatore, e cioè, in modo più particolare, su come egli intenda sfruttare al meglio le opportunità di realizzo, sulla percorribilità delle azioni da intraprendere, sulla concreta fattibilità di una cessione in blocco dei beni ovvero di operazioni straordinarie, lasciando al giudice delegato la valutazione di legittimità dei singoli atti che il curatore intraprende, legittimità che si sostanzia nel giudizio di conformità di detti atti con il contenuto del piano di azione programmatico, elaborato dal curatore, all'esito di un confronto con il comitato dei creditori (Mastrogiacomo, 261). È altresì da segnalare che il decreto correttivo introduce, dopo il settimo, un nuovo comma che impone la comunicazione al giudice delegato del programma di liquidazione una volta approvato dal comitato dei creditori, affinché egli possa provvedere alle singole autorizzazioni. Le prassi sub IulioVa detto che, già prima della riforma, presso alcuni uffici giudiziari era usuale, quanto meno nelle procedure che presentavano significativi valori patrimoniali, che il curatore fallimentare impostasse il complesso delle attività liquidatorie mediante l'elaborazione di un organico programma iniziale, fondato sulla ricognizione e valutazione degli elementi attivi presenti nel patrimonio e di quelli potenzialmente acquisibili e sull'analisi delle opzioni liquidatorie concretamente prospettabili. In realtà, in questi uffici la scelta metodologica della programmazione delle attività di liquidazione ha contribuito a far maturare linee operative tendenzialmente comuni alla generalità delle procedure fallimentari che sono state poi considerate dal legislatore della riforma per la definizione normativa dell'istituto in esame. Tuttavia, dette prassi virtuose, ancorché concretassero l'applicazione di elementari regole di tecnica gestionale anche alla liquidazione fallimentare, sono rimaste fortemente circoscritte rispetto ad un contesto applicativo nazionale ove si continuava a svolgere l'attività liquidatoria fallimentare senza alcuna programmazione e senza che fossero previamente individuati dal curatore i necessari standard temporali e i protocolli operativi di riferimento (Fontana, 220). Nel precedente regime normativo, la realtà applicativa più frequente contemplava liquidazioni fallimentari svolte in modo frammentario, con modalità operative non programmate e con cadenze temporali non riconducibili ad alcun criterio di razionalità tecnica, ma rimesse ad una discrezionalità del curatore pressoché illimitata. Il risultato concreto di tali liquidazione era nella maggior parte dei casi del tutto insoddisfacente. Si consideri che le prassi applicative ci hanno regalato esempi di liquidazioni del patrimonio fallimentare avvenute dopo diversi anni dalla dichiarazione di fallimento ovvero di spese in prededuzione per l'occupazione di locali da parte della curatela che superano i valori di realizzo dei beni mobili ivi allocati o ancora di azioni legali per il recupero dei crediti svolte senza le necessarie previe verifiche sulla solvibilità dei debitori con conseguenti costi della procedura non coperti dal mancato recupero giudiziale del credito ovvero di azioni revocatorie e di responsabilità non azionate tempestivamente o non esercitate per la mancata raccolta da parte del curatore dei necessari riscontri probatori. Ma l'elenco delle anomalie e delle inefficienze potrebbe allungarsi. La causa di tali anomalie è stato nel tempo determinata, oltre che dalla mancanza da parte dei professionisti nominati per la gestione delle procedure fallimentari di un adeguato sistema di informazione per delineare il quadro cognitivo necessario a definire la liquidazione dell'attivo fallimentare, anche e soprattutto dalla mancanza di una programmazione della liquidazione che ab initio costringesse il curatore fallimentare a delineare le linee programmatiche della liquidazione attraverso la preventiva indicazione, da un lato, dei cespiti da monetizzare e, dall'altro, delle modalità programmatorie di sviluppo della liquidazione che prevedessero tempi e procedure per la più celere e la più conveniente realizzazione dell'attivo fallimentare attraverso la sua trasformazione monetaria per il migliore soddisfacimento concorsuale degli interessi del ceto creditorio. Ebbene, l'introduzione dello strumento del programma di liquidazione, unitamente al mutato assetto normativo degli organi della procedura nella procedura fallimentare e alla forte flessibilizzazione delle procedure di liquidazione dell'attivo, rappresenta invero lo strumento utilizzato dal legislatore per prevenire le sopra descritte patologie applicative, imponendo così al curatore, già nella immediatezza della dichiarazione di fallimento, l'elaborazione di una strategia organica con l'indicazione dei tempi e delle modalità della propria azione e fornendo agli altri organi della procedura uno strumento cognitivo indispensabile per verificare l'efficienza della gestione della procedura sulla base di una continua ricognizione tra quanto programmato e quanto realizzato dal curatore fallimentare (Fontana, 223). Ne consegue che il programma di liquidazione rappresenta sia uno strumento di pianificazione del programma liquidatorio sia uno strumento cognitivo indispensabile per la verifica dell'efficienza della gestione della procedura fallimentare. Il sistema normativo previgenteNel vigore della precedente disciplina, la fase della liquidazione non poteva svolgersi immediatamente dopo la dichiarazione di fallimento, ma iniziava in un momento successivo all'apertura della procedura e riguardava specificatamente la vendita dei beni. Invero, solo dopo l'accertamento del passivo e cioè dopo la emissione del decreto di esecutività dello stato passivo, salvo le ipotesi di vendite anticipate, il curatore poteva procedere alla vendita dei beni mobili o immobili come stabiliva l'art. 104 l.fall. (Ferrara-Borgioli, 580; Montanari, 9 ss). Tale asimmetria temporale rispondeva ad un'esigenza che era quella di consentire di verificare preliminarmente l'ammontare del passivo fallimentare per evitare che si cedessero beni del fallito, magari infrangendo l'unità dell'impresa, quando la massa debitoria fallimentare fosse risultata inferiore all'attivo, e nel contempo favorire la presentazione eventuale di una domanda di concordato (Bonsignori, 1986, 631; Ragusa Maggiore, 442; Calandra Bonaura, 162; Guglielmucci, 2004, 264). Pertanto, nella precedente normativa, dopo la esecutività dello stato passivo, il curatore, sotto la direzione del giudice delegato e sentito il comitato dei creditori, se già nominato, doveva procedere alla vendita dei beni acquisiti all'attivo fallimentare ovvero all'attuazione dell'esercizio provvisorio, se autorizzato. In particolari casi di urgenza collegate, ad esempio, alla deperibilità dei beni, il curatore poteva essere autorizzato, con decreto motivato del giudice delegato e sentito sempre comitato dei creditori, a procedere anticipatamente alla vendita. Si trattava di una disciplina impostata sulla falsariga delle vendite nel espropriazione forzata singolare ) cfr. il richiamo operato dal previgente art. 105 l.fall. al codice di rito, salva la compatibilità dei successivi articoli in materia di vendite mobiliari e immobiliari), ed incentrata su di una concezione atomistica delle vendite (D'Aquino, 2007, 774), la cui esecuzione era di volta in volta subordinata all'autorizzazione del giudice delegato. In quest'assetto procedimentale, la liquidazione si svolgeva in mancanza di un preventivo programma-guida ed il giudice delegato operava per un controllo contabile solo ex post in base ai prospetti di cui all'articolo 33 l.fall. (D'Aquino, o ult. loc. cit.; Fontana, 221). Ed invero, eliminando il vincolo dell'accertamento del passivo e creando uno strumento di indirizzo gestionale, quale il programma di liquidazione, con la novellata procedura fallimentare, il curatore ha, oggi, la possibilità di tutelare il patrimonio aziendale, o soltanto i cespiti patrimoniali, in modo snello e decisamente più agevole, in una prospettiva di maggiore efficienza. Sul punto, è stato precisato, in dottrina, che «Nella disciplina sino ad oggi vigente, il curatore era libero di procedere alla liquidazione dei beni in vista del successivo soddisfacimento dei creditori nelle forme e nei tempi ritenuti più opportuni, salva la necessità di munirsi dell'autorizzazione del giudice delegato per la liquidazione dei beni mobili e di promuovere l'emanazione da parte di quest'ultimo dei provvedimenti che disponevano la vendita degli immobili» (Panzani, 2009, 1065). Sotto la precedente normativa, si soleva comunque distinguere la liquidazione in senso stretto, individuata negli artt. 104 e seguenti della l.fall., dalla liquidazione in senso lato (Satta, Diritto fallimentare, 366; Azzolina, 853; Ferrara-Borgioli, 579; Bonsignori, o ult. cit., 634), ossia di quella complessiva attività di monetizzazione degli assets patrimoniali, che comprendeva anche lo operazioni di conservazione del patrimonio diverse dalla vendita. In effetti, il già citato art. 104 l.fall. disponeva esplicitamente solo sulle vendite dei beni, mentre, in realtà, il significato che può attribuirsi alla definizione «liquidazione dell'attivo» non esclude, in generale, che vengano ricomprese tutte le operazioni che tendono a convertire i beni in denaro per il soddisfacimento dei creditori. Sul punto, era pertanto discusso in dottrina (Bonsignori, o ult. cit, 634; De Semo, 443; Provinciali, 1575) se all'intera fase della liquidazione dovessero applicarsi i dettami degli art. 104 e seguenti l.fall., ovvero se le attività di conversione in denaro diverse dalla vendite avessero un regime diverso e pertanto si dovessero applicare differenti criteri a cui il curatore doveva far riferimento nello svolgimento della sua attività. Detto altrimenti, la quaestio consisteva nello stabilire se tutte le operazioni che si concludevano con l'acquisizione di una massa attiva dovessero essere postergate alla chiusura dello stato passivo ed ottenere una preventiva autorizzazione del giudice delegato, come stabilito dall'art. 104 l.fall.. Le attività liquidatorie diverse dalle vendite che vedevano impegnato il curatore potevano individuarsi, tra le altre, nella riscossione dei crediti, nel realizzo della liquidazione della partecipazione del fallito in società di persone per effetto dell'esclusione di diritto ex art. 2270 c.c., nel risultato positivo delle transazioni e delle azioni giudiziarie che vedevano l'intervento della curatela come parte (Mastrogiacomo, 263). In realtà, va precisato, sul punto qui in esame, che, secondo l'interpretazione unanime (Bonsignori, o ult. cit., 641), i principi regolatori dell'attività del curatore nei suddetti casi non dovevano essere ricercati nelle norme sulla liquidazione in senso stretto, ma potevano invece individuarsi nelle altre norme del diritto fallimentare ed in particolare nelle norme che regolano la funzione del curatore, quale organo deputato all'amministrazione e alle attività conservative del patrimonio del fallito, ovvero nella lettura sistematica dei principi che governano le finalità della procedura fallimentare. Si riteneva, ad esempio, che la riscossione dei crediti del fallito, maturati prima delle dichiarazione, non dovesse richiedere la preventiva autorizzazione del g.d. essendo atto non discrezionale, anzi costituente un preciso dovere del curatore, subito esercitabile non appena assunta la funzione gestoria (De Ferra, 238). Del pari, la riscossione della somma liquidata in sede di esclusione del fallito nelle società di persona non aveva bisogno dell'intervento autorizzativo del giudice, benché l'accertamento della dimensione monetaria del valore della quota dovesse essere spesso determinato in via giudiziale, richiedendo, solo sotto tale profilo, la necessaria e preventiva autorizzazione a stare in giudizio, come, del resto, per qualsiasi domanda rivolta a qualsiasi giudice. Nel medesimo ambito operativo, si inseriva la tematica del potere del curatore di stipulare i contratti di locazione, ed in particolare il contratto di affitto d'azienda, strumento che la prassi ha destinato alla conservazione dell'impresa, quale entità economica separata dall'imprenditore, e che consentiva anche di risolvere il problema della custodia dei beni durante le lungaggini della procedura, trasferendo all'affittuario gli oneri e le responsabilità (Mastrogiacomo, 263). Natura e funzione del programma di liquidazioneIl concetto di liquidazione dell'attivo è stato tradizionalmente inteso in due diverse accezioni. Secondo un primo orientamento, la liquidazione dell'attivo è rappresentata dalla conversione dei beni del fallito in danaro, al fine del soddisfacimento dei creditori, attuata per il solo tramite delle vendite fallimentari(Ferrara-Borgioli, 579: vigente la pregressa normativa, si riteneva che l'esazione dei crediti potesse essere iniziata subito dopo la emanazione della sentenza dichiarativa di fallimento, a differenza della liquidazione vera e propria di cui agli artt. 104 e ss. il cui inizio era invece differito al momento successivo all'emanazione del decreto di cui all'art. 97 l.fall. In ogni caso, era avvertita l'esigenza di isolare, all'interno di una liquidazione in senso lato, nelle quali possono comprendersi le operazioni di incasso suindicate, la liquidazione vera e propria di cui agli artt. 104 ss., attuata per il tramite della vendita e legata a limiti temporali e procedurali nella sua applicazione). Una diversa opinione identifica la liquidazione dell'attivo con la monetizzazione, comunque attuata, del patrimonio del fallito (Provinciali, 1974). In tale prospettiva, la trasformazione dei beni del fallito in somme liquide può avvenire anche in seguito ad operazioni diverse dalla vendita. Pertanto, aderendo a questa opzione ermeneutica dovrebbero ritenersi comprese nella fase della liquidazione anche le esazioni di crediti, interessi di capitali, frutti naturali. In seguito alla riforma attuata con il d.lgs. n. 6/2005 e con il successivo decreto correttivo del 2007, occorre rilevare una nuova portata normativa alle due diverse accezioni sopra riportate in ordine alla natura della liquidazione fallimentare. Invero, la più lata nozione di liquidazione trova oggi un proprio fondamento normativo proprio nell'articolo 104-ter l.fall. ed uno specifico riscontro nel programma di liquidazione predisposto dal curatore avente ad oggetto operazioni — come l'esercizio provvisorio dell'impresa, l'affitto d'azienda, le azioni risarcitorie, recuperatorie ovvero revocatorie — non riconducibili all'attività di liquidazione intesa in senso stretto (Montanari, Enc. Giur. Sole 24 ore, 719). Sul punto, va aggiunto che le disposizioni relative al procedimento liquidativo propriamente inteso subiscono, ora, una contrazione applicativa solo nelle fattispecie di particolare urgenza, come nella ipotesi di vendita di beni deperibili ovvero da attuarsi nel contesto dell'esercizio provvisorio (Montanari, o ult. loc. cit.). Ebbene, la riforma del diritto fallimentare ha profondamente innovato, come già sopra rilevato, la sezione relativa alla liquidazione dell'attivo, atteso che uno degli scopi principali che si è prefisso la detta legge di riforma è stato quello di assicurare il miglior realizzo del patrimonio del fallito ovvero la monetizzazione di qualsiasi componente di esso, che sia suscettibile di valutazione economica. In termini di celerità e di risultati economici, si è consentito altresì di mantenere in vita, in tutto o in parte, le organizzazioni imprenditoriali che abbiano ancora la capacità di operare all'interno del meccanismo economico del mercato (Pajardi-Paluchowski, 572). Si è stabilito, nella legge di riforma, che la liquidazione debba iniziare al più presto, subito dopo la redazione da parte del curatore fallimentare di un programma documentato di pianificazione della liquidazione stessa, intesa nella accezione lata sopra ricordata, pianificazione che contempli le generali strategie relative alla corretta determinazione dell'attivo fallimentare e alla sua più celere e più vantaggiosa liquidazione e che possa svolgersi su un binario parallelo all'accertamento del passivo e alla ricerca della ricostruzione delle responsabilità dell'imprenditore e del patrimonio depauperato. Ne discende che il legislatore ha inteso enfatizzare il ruolo di manifesto programmatico attribuito al programma, specificando, con il decreto correttivo, che il programma di liquidazione costituisce verbatim «l'atto di pianificazione e di indirizzo in ordine alle modalità e dei tempi previsti per la realizzazione dell'attivo»: secondo Esposito, Il programma di liquidazione nel decreto correttivo, 1078 ss., rimane, pur dopo la correzione, un atto a formazione progressiva e plurisoggettiva, in quanto condiviso, a vario titolo, dagli organi della procedura, nell'ambito del quale si pianifica la liquidazione dell'attivo fallimentare, in guisa da dotare la stessa di un elemento di efficienza collegato all'essenza stessa della programmazione, sua volta elemento di ottimizzazione di qualsivoglia attività. Esso è il progetto sulla cui traccia si «costruisce l'edificio della conversione dei valori in denaro», evitando che l'ufficio «torni sulla vicenda» nuovamente con inutile spreco di risorse e di tempi. Sul punto, la dottrina ha affermato che «Il programma intanto è elemento di efficienza, in quanto – una volta approvato dal comitato dei creditori ed ottenuta l'autorizzazione degli atti ad esso conformi dal giudice delegato – sia possibile l'immediato passaggio alla fase successiva: quella del realizzo, ossia l'esecuzione delle operazioni pianificate sicché la modalità può dirsi correttamente esposta laddove possa affermarsi che, in esito all'approvazione del programma e all'autorizzazione del giudice, il curatore non debba far altro che seguire il percorso delineato in tutti i suoi aspetti, onde provvedere alla vendita o all'atto di liquidazione, sì da rispettare anche il disposto di cui all'art. 38 l.fall. che gli impone di adempiere ai doveri derivanti dal piano di liquidazione approvato» (Esposito, Il programma di liquidazione nel decreto correttivo, 1080). Va detto che la caratteristica principale di questa nuova impostazione programmata delle attività liquidatorie fallimentari si manifesta nella completezza, analiticità ed estrema elasticità delle modalità temporali e formali relative alla fase di monetizzazione di ogni risorsa economicamente liquidabile dell'attivo fallimentare, e ciò anche in ragione della complessiva strategia individuata dal curatore, che ora è diventato il vero organo propulsore dell'intera fase di liquidazione. È proprio il curatore fallimentare che deve individuare le situazioni d'urgenza in cui chiedere l'autorizzazione giudiziale per la vendita immediata di taluni cespiti, che redige il programma di liquidazione e lo sottopone alla approvazione del comitato dei creditori, che infine conduce la liquidazione dell'attivo così come programmata e pianificata nel programma di liquidazione dopo aver ottenuto l'autorizzazione successiva giudice delegato per i singoli atti e che, da ultimo, decide, ove ne ricorrano le condizioni, di presentare le necessarie integrazioni al piano approvato, tramite supplementi (Pajardi-Paluchowski, op. loc. cit). La centralità del ruolo dell'organo gestorio nella programmazione della liquidazione fallimentare è in realtà enfatizzata dal diverso e minor ruolo assunto, nella prassi applicativa, dal comitato dei creditori, il cui intervento si limita, in realtà, ad una approvazione unitaria dell'indirizzo pianificatorio adottato dal curatore fallimentare, che si risolve in una sorta di «parere favorevole-approvazione onnicomprensiva» sul programma di liquidazione, travestito da formale approvazione, e ciò in ragione della ontologica incapacità del comitato dei creditori di comprendere le complesse strategie imprenditoriali e liquidatorie che compongono il programma stesso (Pajardi-Paluchowski, op. loc. cit.). Va aggiunto, per esigenze di completezza, che, nel nuovo regime normativo, è stato abbandonato opportunamente il richiamo procedurale esclusivo alle forme di liquidazione coattiva prevista dal codice di procedura civile, nel libro dell'esecuzione, per accedere, nella nuova versione programmatoria della liquidazione fallimentare, a soluzioni più elastiche, celeri ed informali, nelle quali il potere liquidatorio non è più rimesso al giudizio del giudice delegato, ma solo a quello del curatore, cui sono imposti solo vincoli generali ed astratti, come quelli derivanti dalla necessità di adottare procedure competitive e rendere trasparenti le vendite onde consentire la partecipazione ad esse del maggior numero possibile di interessati. Ciò in realtà ha fatto dubitare i primi interpreti circa la natura coattiva delle alienazioni fallimentari. Ma tale natura, invece, deve essere mantenuta ferma (sul punto, anche se con riferimento alla pregressa disciplina, Cordopatri, La vendita immobiliare fallimentare, 2005, passim ed ivi riferimenti), in ragione della insuperabile circostanza che si tratta di vendite contro ed in assenza della volontà del titolare del diritto sui beni nei cui confronti si esercita il potere liquidatorio, che le stesse vengono effettuate da un pubblico ufficiale, nell'esercizio delle sue funzioni nell'ambito di un processo di esecuzione speciale universale concorsuale, qual è il fallimento. Comunque, il decreto correttivo ha previsto come possibile, purché lo scelga nel programma di liquidazione il curatore, che i beni vengano liquidati anche con le forme del processo esecutivo ordinario, affidando in tal modo al giudice delegato, di nuovo, il ruolo di giudice dell'esecuzione speciale (Pajardi-Paluchowski, 573). Lo schema che caratterizza, pertanto, la riforma, sinteticamente rappresentato dalla fase della liquidazione, prevede il curatore come motore propulsivo e direzionale del processo fallimentare, affiancato dal comitato dei creditori, ed il giudice delegato in posizione di vigile controllore, che interviene nei casi previsti, sul piano della legittimità. La voluntas legis del decreto correttivo si concretizza nell'idea che l'efficienza si ottenga anche attraverso una positiva dialettica ed un reale confronto tra soggetti portatori di interessi diversificati, privati e pubblici. In conclusione, può dirsi che molteplici sono le funzioni per cui è stato introdotto l'obbligo di redazione del programma di liquidazione. La prima e più rilevante è quella, per l'appunto, di pianificazione del programma gestorio della liquidazione fallimentare, da effettuarsi da parte del curatore fallimentare nel rispetto delle attività analiticamente indicate dall'articolo 104-ter l.fall. Sul punto, va precisato che il citato articolo 104-ter propone, invero, un contenuto minimo alla predetta attività di pianificazione attraverso la indicazione di una sorta di canovaccio sulla cui necessità ogni curatore deve ora interrogarsi, prima di redigere il programma con la indicazione della strategia di gestione della crisi imprenditoriale sfociata nella dichiarazione di fallimento. Naturalmente il contenuto minimo del programma di liquidazione potrebbe essere carente anche in relazione ad alcuni degli aspetti specificatamente indicati dal menzionato articolo 104-ter, giacché ogni programma è in realtà redatto in relazione alla specifica realtà imprenditoriale nella quale lo stesso si cala (Pajardi-Paluchowski, 576). La programmazione deve interessare, in realtà, tutti gli aspetti della liquidazione che riguardano, ora, anche le azioni da intraprendere al fine di ricostruire il patrimonio depauperato, la scelta dei professionisti di cui avvalersi per le procedure di liquidazione, le spese da affrontare per la cessione rapporti pendenti, nonché le previsioni di riparto. La voluntas legis sembra ora privilegiare una programmazione mirata delle attività di liquidazione che consenta, in primo luogo, le vendite aggregate e salvifiche per la organizzazione di beni e servizi che abbiano ancora una loro appetibilità sul mercato, prendendo in considerazione, solo nell'ipotesi in cui tale primaria prospettazione non possa avere pratica attuazione, la possibilità delle vendite disaggregate. Sul punto, la dottrina ha precisato che «quella prevista è una pianificazione che, pur lasciando, per sua natura, degli spazi di concreta puntualizzazione delle modalità delle singole operazioni e risultando, nello stesso tempo, inevitabilmente soggetta a subire variazioni nel tempo, deve raggiungere un elevato livello di precisione, in modo che tutte le scelte significative della liquidazione siano già individuate e quelle successivamente demandata al curatore si presenti come attività essenzialmente esecutiva» (Fontana, ibidem). Altra rilevante funzione del programma di liquidazione è quella di consentire un controllo informato da parte degli organi della procedura concorsuale, e ciò in primo luogo, in favore del comitato dei creditori, e, in seconda battuta, in favore del giudice delegato, sull'attività gestoria svolta dal curatore fallimentare in relazione al patrimonio del fallito, in modo tale da garantire la massima trasparenza ad ogni attività della procedura e la massima tutela dei terzi e delle parti nel procedimento che rappresenta pur sempre un processo esecutivo speciale. Tale finalità conoscitiva richiede, per la sua concreta attuazione, che il programma di liquidazione debba essere accessibile come atto del fascicolo fallimentare da parte dei terzi a ciò interessati. Ebbene, giova ricordare che, in base alle disposizioni del nuovo articolo 90 l.fall., il limite alla sua conoscibilità e consultabilità è dato per i terzi dalla sussistenza di un interesse concreto ed attuale alla disamina che si deve esplicitare nel richiedere al giudice delegato la necessaria autorizzazione alla consultazione del fascicolo, e ciò sempre fatto salvo che il giudice non abbia disposto la segretazione di alcune sue parti, ragionevolmente le medesime di cui il giudice aveva disposto la segretazione nella relazione ex articolo 33 l.fall. Sul punto, va precisato che, sebbene la legge nulla preveda espressamente, deve ritenersi che, anche in questa sede sia possibile effettuare la segretazione giacché, diversamente ragionando, la identica attività svolta dal giudice delegato in ordine alla relazione di quell'articolo 33 resterebbe priva di efficacia effettiva. Problemi applicativi potrebbero sorgere nell'ipotesi in cui sorga la eventuale necessità di segretare una parte del programma di liquidazione nei confronti di un membro del comitato dei creditori che sia contemporaneamente chiamato ad approvare il piano contenuto nel programma stesso atteso che, per un verso, non sarebbe pensabile una segretazione preventiva parziale del programma e che, per altro verso, non sarebbe altrettanto pensabile la approvazione del programma da parte di un soggetto che abbia un potenziale conflitto di interessi con la liquidazione fallimentare della quale è opportuno che non conosca una parte del programma. L'unica soluzione sarebbe quella di imporre, in tali casi, la modifica del comitato dei creditori, sulla base di una motivata richiesta del curatore al giudice delegato, e ciò all'evidente scopo di evitare un conflitto insanabile ed evidente tra organi della procedura e per evitare un altrettanto evidente situazione di impasse procedurale non altrimenti risolvibile. La posizione del Giudice delegatoUlteriore importante funzione demandata al programma di liquidazione, cui si è accennato, in parte, anche sopra, consiste nel fornire al giudice delegato lo strumento principale di controllo dell'attività gestoria del curatore. Prima che la strategia si realizzi, il giudice — pur non dovendo più emettere un decreto di approvazione come avveniva nella vigenza della legge n. 5 del 2006 — può ed anzi deve esaminare il programma depositato con l'approvazione del comitato dei creditori, sul quale ora non può più incidere direttamente ma, qualora ritenga nella lettura del programma di liquidazione, di avanzare censure alla condotta del curatore ovvero all'esercizio del potere autorizzativo del comitato dei creditori (giacché esercitato in maniera incongrua su un programma di liquidazione inidoneo allo scopo per cui lo stesso è stato redatto ovvero perché troppo scarno o incompleto), allora può convocare i predetti organi in camera di consiglio, e ciò eventualmente anche in contraddittorio tra loro, per verificare, da un lato, eventuali irregolarità nell'esercizio del potere gestorio demandato il curatore fallimentare e dunque, in caso di esito positivo di tale accertamento, per la segnalazione al tribunale per la revoca dell'incarico al curatore stesso, e, dall'altro, eventuali inefficienze nell'operato del comitato dei creditori nell'ambito dell'esercizio delle sue prerogative al fine di determinare una sostituzione dei membri del comitato stesso. Sul punto, va precisato che se è vero che il comma ottavo della norma in commento posto dal decreto correttivo e che recita verbatim «il programma approvato è comunicato il giudice delegato che autorizza l'esecuzione degli atti ad esso conformi» consente di affermare che la funzione del giudice delegato, nell'ambito del potere autorizzatorio degli atti esecutivi, è diversa e minore da quella in precedenza vigente, nella quale invero l'autorizzazione giudiziale integrava la capacità di agire del curatore, e che pertanto la ora prevista potestà autorizzatoria è circoscritta alla sola finalità di controllare la conformità legale dell'atto di cui si chiede la attuazione esecutiva alle pattuizioni contenute nel programma di liquidazione, è altrettanto vero che, anche nel regime normativo attuale, possono essere rintracciati altri possibili piani di indagine e di controllo da esperire sull'atto esecutivo da parte del giudice delegato (Pajardi-Paluchowski, 578). Esistono invero alcuni atti per i quali, all'interno legge fallimentare, è rimasto inalterato il potere di conoscere e decidere anche nel merito da parte del giudice delegato. Si tratta del potere autorizzatorio del giudice delegato in ordine alle cause civili o penali ovvero in ordine all'esercizio provvisorio e alla conclusione dell'affitto d'azienda, fattispecie autorizzatorie per le quali si può configurare un potere di controllo giudiziale non meramente formale ma calibrato sulla possibilità da parte del giudice di scrutinare il merito della scelta e dunque di rifiutare la richiesta autorizzazione alla esecuzione, se non condivisa (Pajardi-Paluchowski, op. loc. cit.). Ma si potrebbe pensare anche alla possibilità di un ulteriore e più penetrante controllo giudiziale per l'esame dei singoli atti autorizzandi sotto il profilo della conformità sostanziale al programma, soprattutto in ragione di uno scrutinio di natura sostanzialistica in ordine alla coerenza dei predetti atti e alla sussistenza di un loro nesso di causalità con la complessiva strategia pianificata nel programma di liquidazione approvato (Esposito, Il programma di liquidazione del decreto correttivo, 2007, 1080, reputa che la modifica non debba intendersi come uno svilimento del ruolo del giudice, visto che questo continua ad esercitare un controllo di legittimità attraverso il merito degli atti che è chiamato ad autorizzare, in quanto non si può immaginare di attribuire al giudice delegato il compito di certificazione di quanto programmato dal curatore ed approvato dal comitato). Va detto che un controllo di tipo sostanziale da parte del giudice delegato, come quello qui propugnato finisce in qualche modo per toccare anche il merito della scelta del curatore. Tuttavia, va ricordato che il curatore fallimentare, benché depositario del potere di programmazione della liquidazione dell'attivo del fallito, è comunque sempre sottoposto al potere di controllo e di vigilanza da parte del giudice delegato e del tribunale, anche sensi dell'articolo 25, 1 comma, n. 3), l.fall., e dunque non può ritenersi legibus solutus, e come tale depositario di un potere non sindacabile da parte dell'organo della procedura deputato al controllo di legittimità degli atti posti in essere dagli organi gestori della procedura concorsuale. Ne discende che, dopo l'approvazione e il deposito del programma di liquidazione, il potere di sorveglianza e di controllo demandato ex lege al giudice delegato può compiutamente realizzarsi solo se vi sia un paradigma al quale, di volta in volta, la condotta del curatore possa essere positivamente comparata. Il giudice pertanto esercita un controllo di conformità degli atti di cui si chiede l'autorizzazione per la loro attuazione rispetto a quanto approvata nel programma, potere che può dare la stura, da un lato, al provvedimento autorizzatorio qualora il predetto controllo di conformità si risolva in senso favorevole alla istanza avanzata all'uopo dal curatore e, dall'altro, all'eventuale provvedimento del giudice delegato di convocazione del comitato dei creditori ovvero del curatore, anche al fine, per quest'ultimo organo, di promuoverne la revoca e sostituzione per colpa grave (Pajardi-Paluchowski, 580). Se quelle sino ad ora descritte costituiscono le funzioni del programma, lo scopo di quest'ultimo è, invece, evidentemente, quello di consentire la gestione della liquidazione in modo tale che quest'ultima raggiunga il suo obiettivo primario, e cioè la migliore collocazione sul mercato del patrimonio del fallito al fine di soddisfare nel migliore dei modi gli interessi del ceto creditorio. Il contenuto del programma di liquidazioneGeneralità La liquidazione dell'attivo rappresenta un momento centrale della procedura fallimentare, in quanto ricomprende ogni operazione volta alla realizzazione dei beni fallimentari, a sua volta finalizzata alla ripartizione del ricavato tra i creditori insinuati allo stato passivo (si vedano, tra gli altri, Ambrosini, 611; Guglielmucci, 2007, 237). Così, è stato affermato in dottrina che «Il concetto esprime un elemento fondamentale della funzione della procedura concorsuale finalizzata, per l'appunto, alla trasformazione in danaro del patrimonio dell'imprenditore, o meglio del soggetto dichiarato fallito, in guisa che ogni risorsa utile sia convertita, laddove possibile, in danaro» (Fimmanò-Esposito, 3). La fase della liquidazione, nella quale rientrano, tra l'altro, la riscossione dei crediti (tra cui, nel caso in cui l'impresa sia esercitata in forma societaria, le pretese risarcitorie derivanti da condotte contra legem di amministratori, sindaci e revisori dei conti) (cfr. anche Ambrosini, 611), la ricostituzione dell'integrità del patrimonio, attraverso l'esperimento delle azioni revocatorie, l'alienazione dei beni mobili ed immobili nella disponibilità del fallimento, le decisioni circa lo scioglimento dei contratti pendenti o il subentro negli stessi e l'opzione relativa alla prosecuzione dell'impresa in regime di esercizio provvisorio, si risolve in una serie articolata di operazioni con riferimento alle quali, tuttavia, la previgente legge fallimentare del 1942 dettava una regolamentazione assai scarna, incentrata quasi integralmente sulla liquidazione «in senso stretto» degli assets fallimentari in vista del successivo soddisfacimento dei creditori (così Benincasa, 1 ss). Più in particolare, l'art. 104 l.fall., prima della riforma attuata con il d.lgs. n.5/2006 e delle modifiche apportate con il d. lgs. n. 167/2007, disponeva solo la regola che la liquidazione dell'attivo non potesse avvenire prima della pronuncia del decreto di esecutività dello stato passivo, salva la facoltà che il giudice delegato autorizzasse il curatore, sentito il comitato dei creditori, a procedere alle vendite anche prima di tale momento. Peraltro, le vendite dovevano compiersi sulla base dello schema delle vendite fallimentari, largamente ricalcate sulle disposizioni dettate in materia di procedimento civile di esecuzione, cui l'art. 105 l.fall. rinviava – seppure nei limiti della compatibilità con la procedura concorsuale –, e nel rispetto delle formalità stabilite per le vendite di beni mobili dall'art. 106 l.fall. (Panzani, 2009, 1140 e Cordopatri, 2005) ed immobili dagli artt. 107 e 108 l.fall. (ove quest'ultima norma prevedeva, più in particolare, la vendita con incanto, salva la possibilità di far luogo alla vendita senza incanto, ma escludendo in ogni caso la vendita a trattative private), senza una espressa previsione di criteri specificamente preordinati alla liquidazione, specie con riferimento agli atti liquidatori che non si traducessero nella mera alienazione di cespiti (i.e., attività di recupero crediti, esperimento di azioni revocatorie, etc.) (Ambrosini, 612). Va anche aggiunto che era del tutto assente una disciplina che regolasse l'affitto di azienda, anche se era consolidata l'opinione che ne ammetteva la piena legittimità, ove tale affitto fosse stato autorizzato dal giudice delegato secondo le modalità previste per la vendita dei beni mobili. Il legislatore della riforma, con la introduzione dell'art. 104-ter l.fall., e più in particolare del programma di liquidazione, quale atto programmatico del curatore collocato nella fase iniziale di realizzazione dell'attivo fallimentare, ha inteso così superare le inefficienze di un sistema che, nella prassi, aveva rischiato, almeno in alcuni casi, di degenerare nell'improvvisazione (Quatraro, 1661. In senso analogo anche Panzani, 2009, 1140; e Fontana, 221),nonché di integrare una «concausa del sistematico ritardo della durata delle procedure fallimentari» (si legga la Relazione illustrativa al d.lgs. n. 5/2006). Va aggiunto che, nel contesto della riforma della procedura di liquidazione fallimentare, impostata ora secondo criteri di semplificazione operativa – attraverso l'eliminazione del richiamo automatico alle norme del processo esecutivo e ad una più spiccata procedimentalizzazione riferita alla liquidazione nel suo complesso – la disciplina del programma di liquidazione risulta essere l'espressione, come è stato osservato, del più volte ravvisato bisogno di managerialità nella gestione del fallimento (Panzani, 2009, 1140; Quatraro, 1661). Rileva tuttavia condivisibile dottrina «Come la possibilità, accordata dal decreto correttivo attraverso la riformulazione dell'art. 107, secondo comma, per il curatore, di prevedere nel programma di liquidazione che le vendite di beni mobili, immobili e mobili registrati siano effettuate dal giudice delegato secondo le disposizioni del codice di procedura civile in quanto compatibili, «segni un passo indietro rispetto alla libertà di forme della liquidazione concorsuale introdotta dalla riforma» (Panzani, 2009, 1153). Come già rilevato, il programma di liquidazione assume, in primo luogo, finalità strategiche di impostazione della successiva fase esecutiva della liquidazione (D'Aquino, 2007, 776), dovendo indicare «modalità e termini previsti per la realizzazione dell'attivo» (ex art. 1, comma 6, lett. a), n. 10 l. n. 80/2005 e art. 104-ter, comma 2, l.fall.). In tale assetto strategico si collocano più specificatamente la previsione di istituti prodromici della liquidazione e conservativi degli assets aziendali, quali l'esercizio provvisorio e l'affitto di azienda, contemplati dagli artt. 104 e 104-bis l.fall. Ebbene, va rilevato che, in tale contesto ordinamentale, risulta significativa la previsione della «possibilità di cessione unitaria dell'azienda, di singoli rami, di beni o di rapporti giuridici individuabili in blocco», in stretta connessione con la norma di cui all'art. 105 l.fall., che privilegia la cessione unitaria o in blocco dei cespiti. Più in generale, va detto che il programma riveste una funzione operativo-tattica, concretantesi in un contenuto autorizzatorio per i singoli atti di liquidazione, da parte del giudice delegato, che si aggiunge a quello programmatico, sottoposto all'approvazione del comitato dei creditori (Benincasa, 6) Così, sul punto, in dottrina stato affermato che «La pianificazione del programma, dunque, rappresenta non solo uno strumento di razionalizzazione dell'operato del curatore, finalità questa, comunque, di significativo momento, ma anche un mezzo di garanzia della corretta informazione ai creditori, al fallito e a qualunque interessato, così costituendo nel contempo sia un mezzo di pianificazione che di controllo di gestione (Bozza, 1057; Esposito, Il programma di liquidazione nel decreto correttivo, 2007, 1078 ss.; e anche Vitiello, 965, per il quale la funzione informativa consente inoltre il periodico controllo dello stato di attuazione tramite il rapporto riepilogativo semestrale previsto dall'art. 33, ult. comma, l.fall.). Ne discende che il programma di liquidazione deve necessariamente presupporre un grado di analiticità e completezza nel suo contenuto, nel senso che questo non dovrà essere «un «manifesto» di buone intenzioni, cioè una mera elencazione di atti che il curatore si propone di compiere, ma un articolato piano che consacra precisi ed analitici impegni operativi e scansioni temporali», che consenta al comitato dei creditori, al cui giudizio deve essere rassegnato, di avere a disposizione un quadro informativo adeguato alla funzione attribuitagli ed al giudice delegato, nel corso della sua esecuzione, il puntuale controllo di conformità (Quatraro, 1661). Ne discende ulteriormente che il giudizio del comitato dei creditori non sarebbe effettivo qualora il programma non contenesse una illustrazione precisa e puntuale degli elementi rilevanti per le decisioni in ordine alle diverse soluzioni liquidatorie possibili (Fontana, 14). Sul punto la dottrina si è espressa nel senso di ritenere « [il programma] oltre ad essere un «test» di valutazione delle capacità manageriali e della professionalità del curatore, costituisce un vero e proprio contratto con i creditori concorsuali, il cui inadempimento può essere per il curatore fonte di responsabilità per danni e di eventuale revoca dalla carica» (Quatraro, ibidem). Inoltre, un documento programmatico eccessivamente generico, in vista della successiva autorizzazione, da parte del giudice delegato, dei singoli atti di liquidazione conformi, non potrebbe fungere da paradigma per una valutazione di conformità. Ed invero, se il programma non coprisse tutte le attività di liquidazione – salvo quelle già compiute ai sensi dell'art. 104-ter, 6 comma, l.fall. (ai sensi dell'art. 104 ter, 6 comma, l.fall., «prima della approvazione del programma, il curatore può procedere alla liquidazione di beni, previa autorizzazione del giudice delegato, sentito il comitato dei creditori se già nominato, solo quando dal ritardo può derivare pregiudizio all'interesse dei creditori») —, senza indicare i rapporti pendenti e le relative determinazioni in ordine agli stessi, importanti aree della liquidazione rimarrebbero sottratte al concorso decisionale del comitato dei creditori ed al controllo del giudice delegato (Benincasa, 7; D'Orazio, 14; Esposito, Il programma di liquidazione: profili applicativi, 2007, 1670 ss.; Fontana, 14). Va anche aggiunto che i ristretti termini di redazione del programma di liquidazione e dell'anticipazione dell'avvio della liquidazione dell'attivo – per il quale, in passato, salvo in caso di attività diverse dalle vendite, si doveva attendere, invece, il deposito del decreto di esecutività dello stato passivo —, emerge evidente che la novella ha inteso imprimere alla fase liquidatoria una significativa accelerazione. Deve pertanto concludersi nel senso di ritenere che i principi cardine cui risulta conformato il programma di liquidazione sono rappresentati dalla «programmazione condivisa», dalla «omnicomprensività e ricerca dell'universalità», dalla «celerità», dalla «esecuzione controllata» e dalla «deformalizzazione» (Esposito, Il programma di liquidazione: profili applicativi, 2007, 1671 ss.). Il contenuto minimo obbligatorio e quello eventuale Il secondo comma dell'articolo 104-ter l.fall. specifica il contenuto minimo obbligatorio del programma di liquidazione, e ciò al fine di fissare e rendere esplicita la strategia liquidatoria che il curatore intende perseguire. Sul punto, è stato affermato che, sebbene sia contemplato un contenuto assai vasto e variegato, il vero nucleo ineliminabile del programma di liquidazione deve essere ravvisato nella lett. e), ossia nella specificazione delle condizioni di vendita dei singoli cespiti. L'effettiva rilevanza delle altre voci è subordinata all'esistenza, a seconda dei casi, di un'azienda funzionante, suscettibile di essere esercitata in via provvisoria o affittata (lett. a), o, ancora, venduta in blocco (lett. d), di un terzo che intenda proporre una soluzione concordata del dissesto (lett. b), ovvero di situazioni che abbiano danneggiato o distratto il patrimonio del fallito (lett. c) (così, Maffei-Alberti, 620). In questa prospettiva, il contenuto obbligatorio dovrebbe intendersi come esplicitazione dell'intento della riforma di incentivare, in prima battuta purché ne ricorrano le condizioni, la prosecuzione dell'attività e la conservazione dell'integrità dell'azienda e di prevedere, in via gradata, la vendita dell'attività in blocco o singolarmente (Paluchowski, 1662). Il programma di liquidazione, come è stato giustamente osservato, illustra, pertanto, «guardando prevalentemente al futuro» (in questo senso Quatraro, 1665, il quale individua in questa configurazione prospettica la principale differenza del programma di liquidazione dalla relazione ex art. 33 l.fall., che guarda prevalentemente al passato, essendo diretta «soprattutto all'individuazione ed all'accertamento di eventuali profili di responsabilità penale, tanto che il quarto comma ne prevede la trasmissione al pubblico ministero»), una serie di atti volti ad organizzare la più proficua liquidazione dell'attivo, ossia la «conversione in danaro del patrimonio attivo del fallito inteso come ogni entità suscettibile di essere reimmessa sul mercato, e questo sia in termini di individuazione fisica che di determinazione qualitativo-quantitativa» (così Esposito, Il programma di liquidazione: profili applicativi, 2007, 1679: l'A. evidenzia dunque che deve essere evitata una ricostruzione riduttiva di attivo fallimentare, il quale ricomprende, invece, non solo beni materiali o immateriali che possono formare oggetto di diritti, ma anche aspettative, potestà, situazioni di fatto che siano suscettibili di produrre, anche indirettamente, conseguenze di carattere patrimoniale. Si vedano, al riguardo, Provinciali, 1575; Guglielmucci, Effetti del fallimento per il fallito, 2007, 18. In giurisprudenza, v. Cass. n. 6506/1985; App. Roma, 17 febbraio 1988, in Giur. it., 1991, I, 2, 640). Oltre alla predetta funzione di pianificazione e di indirizzo, l'art. 104-ter, 2 comma, l.fall., prevede che il programma di liquidazione «deve specificare», testualmente: a) l'eventuale opportunità di disporre l'esercizio provvisorio dell'impresa, o di singoli rami di azienda, ai sensi dell'art. 104 l.fall., ovvero quella di autorizzare l'affitto dell'azienda, o di rami della stessa, a terzi, ai sensi dell'art. 104 bis, l.fall.; b) la sussistenza di proposte di concordato ed il loro contenuto; c) le azioni risarcitorie, recuperatorie o revocatorie da esercitare, ed il loro possibile esito; d) le possibilità di cessione unitaria dell'azienda, di singoli rami, di beni o rapporti giuridici individuabili in blocco; e) le condizioni della vendita dei singoli cespiti. f) il termine entro il quale sarà completata la liquidazione dell'attivo (lettera aggiunta dall'art. 6, comma 1, lett. b), d.l. 27 giugno 2015, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla l. 6 agosto 2015, n. 132; per l'applicazione di tale disposizione vedi l'art. 23, comma 3 del medesimo d.l. n. 83/2015). Dalla elencazione che precede si evince la complessità del contenuto del programma di liquidazione, oltre che dell'attività, che sta a monte, di valutazione e disamina della situazione complessiva dell'impresa, tanto ciò è vero che si è parlato, in questo contesto ordinamentale, di analisi manageriale svolta dal curatore fallimentare per la liquidazione dell'attivo (Quatraro, 1661). Per questa ragione e al fine di rendere più agevoli le dovute valutazioni del programma, è stata proposta una suddivisione in sezioni del documento programmatorio che ricalchi l'iter logico seguito dal curatore nell'adozione delle scelte ivi prospettate. Si premette una descrizione delle ragioni del dissesto nonché del patrimonio rinvenuto, indi si passa ad una prospettazione, anche alternativa, delle varie soluzioni liquidatorie, con l'indicazione della relativa tempistica attuativa (Paluchowski, 960; Ambrosini, 632; Quatraro, op. loc. cit.; Campochiaro-Vitiello, 78). Si parla in tale contesto, pertanto, di flessibilità del programma di liquidazione con riferimento alla prospettazione alternativa delle varie ipotesi liquidatorie, oltre che alla possibilità di presentazione di un supplemento di programma. La complessità del programma di liquidazione, così come sopra descritta, discende in realtà dai profili di analiticità e completezza che devono necessariamente caratterizzare il documento programmatorio. Ed invero, il requisito della analiticità si evince, per un verso, dal fatto che solo un programma predisposto in base a valutazioni e descrizioni approfondite consente al curatore di individuare, tra le varie possibili soluzioni, l'opzione più soddisfacente per i creditori e, per altro verso, dalla circostanza che il comitato dei creditori per potere approvare il programma deve necessariamente essere dotato di un quadro informativo che sia il più ampio e completo possibile, nonché, da ultimo, dalla ulteriore previsione secondo cui il giudice delegato autorizza l'esecuzione degli atti conformi al programma, con ciò presupponendo un programma che sia sufficientemente dettagliato e che possa fungere da parametro di riferimento e di controllo sulle operazioni della curatela. Ulteriore requisito richiesto è quello, come si è detto, della completezza, giacché nel programma devono essere contemplate tutte le attività di liquidazione, anche non sussumibili nell'elencazione di cui al predetto secondo comma dell'art. 104 ter, come la indicazione dei rapporti pendenti, giacché tale soluzione trova normativa giustificazione nella previsione di cui all'art. 107, 1 comma, l.fall., in base alla quale è espressamente previsto che tutti gli atti di liquidazione devono essere posti in essere in esecuzione del programma di liquidazione. In realtà, il programma di liquidazione, quanto al suo contenuto eventuale, può essere il più vario e diverso in rapporto alla specifica procedura ed è ammissibile l'adozione di qualsivoglia scelta liquidatoria purché coerente con i presupposti messi in evidenza nel programma stesso (Paluchowski, 581). Risulterà pertanto necessario, in diversi casi, impostare il programma di liquidazione sulla base di combinazioni di termini e condizioni, prevedendo, quindi che determinate soluzioni ritenute preferibili – quali, ad esempio, la vendita unitaria dell'azienda – vadano perseguite sino ad un termine specificamente indicato; se l'operazione prospetticamente ipotizzata non dovesse realizzarsi, si procederà automaticamente con una modalità alternativa (quale potrebbe essere, nell'esempio accennato, la vendita separata dei singoli beni, con indicazione delle forme di pubblicità e dei modi di svolgimento delle gare) (Fontana, 1154). Sul punto dottrina condivisibile afferma che «il programma può contenere previsioni condizionate, al fine di ovviare a situazioni di incertezza che potranno trovare chiarimento soltanto in un momento successivo alla sua predisposizione» (Panzani, 2009, 1154). Nel fare ciò, il curatore dovrà evidenziare, anche con l'ausilio di periti estimatori, le varie ricadute economiche dei diversi scenari astrattamente praticabili (così Ambrosini, 629). Sul punto, va anche aggiunto che, nella redazione del programma, il curatore potrebbe individuare una serie di beni (quali, ad esempio, cespiti di valore trascurabile od assets oggettivamente inalienabili), la cui realizzazione potrebbe comportare oneri superiori rispetto alle prospettive di realizzo. In tale ipotesi, il curatore può chiedere di essere autorizzato dal comitato dei creditori alla «derelizione» di tali beni. In tal caso, l'art. 104-ter, 7 comma, l.fall., prevede che i creditori, «in deroga a quanto previsto nell'art. 51, possono iniziare azioni esecutive o cautelari sui beni rimessi nella disponibilità del debitore». Le singole fattispecie. L'esercizio provvisorio. Passando ora in rassegna le singole fattispecie elencate nel secondo comma dell'articolo 104-ter in analisi, emerge subito con chiarezza l'ampiezza del contenuto del programma, non limitato, come detto, ad attività strettamente liquidatorie, ma comprendente anche atti di amministrazione patrimonio, quali l'esercizio provvisorio e l'affitto d'azienda, aventi finalità conservative. Ebbene, la lett. a) si riferisce all'opportunità di disporre l'esercizio provvisorio, nel caso in cui questo non sia già stato ordinato con la sentenza dichiarativa di fallimento ai sensi dell'articolo 104, comma 1, l.fall. né successivamente disposto dal giudice delegato su proposta della curatore ex articolo 104, 2 comma, nelle more della predisposizione del programma. La dottrina ha posto in luce l'improbabilità di quest'ipotesi, non essendo verisimile che possano ancora sussistere, a distanza di tempo dalla sentenza di fallimento, i presupposti per la continuazione dell'impresa (Mandrioli, 414; D'Aquino, op. loc. cit.). Segue. L'affitto d'azienda. Più concreta appare l'ipotesi della previsione nel programma dell'affitto d'azienda, essendo più plausibile che nel programma stesso venga semplicemente dato atto dell'esercizio provvisorio ovvero dell'affitto già esposto e della opportunità della loro prosecuzione (D'Aquino, op. loc. cit.). Sul punto, va aggiunto che comunque appare ragionevole che i nodi da sciogliere in ordine alla opportunità di concedere in affitto l'azienda del fallito, di suoi rami, e di esercitare in via provvisoria l'impresa da parte del curatore, debbano essere affrontati e risolti, per l'appunto, al momento della redazione del programma di liquidazione, che, con scadenza ravvicinata rispetto all'apertura del fallimento, è un atto che si caratterizza per la sua cadenza temporale di prossimità alla dichiarazione di fallimento e alla redazione dell'inventario. Tali strumenti di salvaguardia, infatti, per lo più, hanno lo scopo di intervenire tempestivamente al fine di prevenire un pregiudizio potenziale o reale, a secondo delle situazioni, sul valore del patrimonio attivo del fallito. Il programma di liquidazione, nella maggioranza dei casi, avrà lo scopo, come detto, di riportare l'attenzione degli altri organi fallimentari, quali il comitato dei creditori ed il giudice delegato, su decisioni già assunte. In realtà, il programma servirà invece a trovare una coerenza tra quanto già autorizzato ed il complesso delle operazioni di liquidazione. Potrà quindi accadere che nel programma di liquidazione sia inserita la previsione di un esercizio provvisorio o di un affitto di azienda già autorizzato dal giudice delegato ovvero dal comitato dei creditori, sicché l'approvazione omnicomprensiva del programma di liquidazione da parte del comitato anche di quelle parti già approvate extra-programma varrà come semplice presa d'atto della esistenza delle precedenti scelte gestorie del curatore già approvate e non rivestirà alcuna valenza di manifestazione negoziale di consenso alle scelte, come detto, in altra sede approvate. Sul punto, va precisato che, con riguardo alla scelta sull'affidare o meno la gestione dell'azienda, o di suoi rami, a terzi, la riflessione deve riguardare, in primo luogo il prevedibile, beneficio di una successiva vendita in blocco rispetto alla vendita dei singoli beni (Mastrogiacomo, 321). Va detto che nel programma verranno indicati soprattutto i dati economici e le utilità monetarie che si potranno ritrarre dal contratto di affitto, a beneficio della massa, confrontando il dato, se possibile, all'alternativa consistente in una gestione diretta del curatore attraverso l'esercizio provvisorio, e in ogni modo evidenziando anche i benefici in termini di minori costi, ad esempio per la custodia. Segue. Le ragioni di opportunità dell'esercizio provvisorio o dell'affitto dell'azienda. In caso di esercizio provvisorio, nel programma il curatore avrà cura di spiegare le motivazioni, in termini economici e pratici, della scelta rispetto ad alternative, se praticabili o meno, ad esempio evidenziando, se del caso, che la gestione diretta si sia resa necessaria per la mancanza di affidabili imprenditori disposti a mantenere temporaneamente in vita l'azienda (Fimmanò, 2007, 780). In tale schematizzazione è opportuno includere anche altre tipologie contrattuali che abbiano comunque una funzione negoziale similare, quali i contratti di locazione di beni immobili, finalizzati a custodire ed a produrre reddito, in attesa di realizzo. La loro inclusione nel programma di liquidazione dovrebbe essere il presupposto per l'ottenimento dell'autorizzazione da parte del giudice delegato, qualora non sia stata ottenuta in precedenza. Sotto questo profilo, ci si può domandare se, alla luce delle riforma e dei rinnovati ruoli degli organi fallimentari, in mancanza di specifica previsione, la stipula da parte del curatore di un contratto di locazione necessiti sempre l'autorizzazione del giudice delegato. Le autorizzazioniIn effetti, superato il principio che il giudice sia il gestore della procedura e che al curatore competa l'amministrazione dei beni sotto la sua direzione, il novellato art. 31 l.fall. nel disporre che il curatore compia tutte le operazioni sotto la vigilanza del giudice, sembrerebbe escludere la necessità di una preventiva autorizzazione per gli atti di ordinaria amministrazione, quali i contratti di locazione di immobili (Mastrogiacomo, 322). Tuttavia, la soluzione più aderente alla ratio della norma da ultimo menzionata, che abilita il giudice delegato ad un continuativo controllo sull'operato del curatore, e la considerazione delle locazioni infranovennali, come sembrerebbe preferibile, come atto di straordinaria amministrazione (così, per la dottrina, si v. Caselli, 154; Semiani Bignardi, 93; contra, tuttavia, in giurisprudenza Cass. n. 1110/1960; Cass. n. 682/1961) consiglierebbero la preventiva richiesta di autorizzazione al giudice delegato ovvero, anche aderendo alla tesi della ordinarietà di tali atti di amministrazione, la necessità di rivolgere un'informativa preventiva al giudice medesimo. Diverso discorso è da farsi invece per le ipotesi di affitto di azienda e di esercizio provvisorio, la cui autorizzazione preventiva e specifica del giudice delegato nasce dall'esigenza di tutela dei creditori viste le ricadute concrete che tali scelte rivestono dal punto di vista economico sulla tutela degli interessi della massa, in termini di oneri prededucibili ovvero di limitazione del principio competitivo nelle vendite fallimentari, e ciò con particolare riferimento alle ipotesi di concessione del diritto di prelazione, come previsto dall'art. 104-bis l.fall. Proposte di concordato fallimentareRiguardo alla lett. b), il curatore deve invece illustrare eventuali proposte di concordato fallimentare, che si pongano come alternativa alla liquidazione, e sono presentate da un terzo ovvero da un creditore, con precisazione del relativo contenuto. Anche qui va detto che appare inverosimile che, nei ristretti tempi previsti per la predisposizione del programma di liquidazione, possano pervenire proposte concordatarie, ad eccezione del particolare caso di operazioni già in essere al momento della dichiarazione di fallimento (D'Attorre-Sandulli, 622). In realtà, l'eventuale approvazione del programma di liquidazione, che contenga la descrizione di tale proposta concordataria non sostituisce in alcun modo l'autonomo procedimento di esame per l'approvazione e omologazione del concordato (D'Aquino, op. loc. cit.). Il programma dovrà contenere, in tal caso, la sospensione della liquidazione, per non compromettere la percorribilità della proposta concordataria. Se il concordato non viene omologato, si procede alla liquidazione secondo le modalità descritte nel programma ed alternative al concordato; se queste non sono state contemplate, come invece sarebbe auspicabile, è ipotizzabile un supplemento del programma da parte del curatore (ancora D'Aquino, 778). Alla stessa soluzione, peraltro, si perviene nell'ipotesi inversa in cui la presentazione della proposta concordataria sia avvenuta dopo la predisposizione del programma (D'Aquino, op. loc. cit.). Sul punto, va precisato che il curatore dovrà specificare se sia stata presentata richiesta di sospensione della liquidazione (Panzani, Programma di liquidazione, 2009, 1157) od eventualmente contemplarla egli stesso sotto forma di proposta che dovrà poi «essere assentita da c.d.c ed approvata dal giudice delegato»: al riguardo, D'Aquino, 777, ritiene che la sospensione della liquidazione in attesa dell'omologazione del concordato fallimentare proposto debba essere contenuto precettivo del programma, «posto che, diversamente, l'attività di liquidazione per il curatore costituirebbe aspetto doveroso», e che tale sospensione debba essere contemplata nel programma sotto forma di proposta del curatore, che dovrà poi essere assentita dal comitato dei creditori ed approvata dal giudice delegato; contra, Ferri, il quale ritiene difficilmente ipotizzabile «una sospensione del procedimento non solo perché il programma di liquidazione investe una serie di attività il cui adempimento può esigere una certa urgenza nell'interesse dell'amministrazione fallimentare, ma anche perché «gli adempimenti preliminari» del giudice delegato previsti dall'art. 125 l.fall. e che precedono la comunicazione della proposta di concordato ai creditori, vengono a collocarsi in un procedimento autonomo che non interferisce affatto sulla liquidazione e in particolare sulla relazione del programma». Tale sospensione, giova ricordare, non si determina con la sola presentazione della proposta concordataria, non essendo stato riprodotto, in sede di riforma, il disposto del previgente terzo comma dell'art. 125 l.fall., che consentiva al giudice delegato di sospendere la liquidazione: si leggano, al riguardo, Panzani2009, 1157; Paluchowski, 962; D'Orazio, 1370, il quale, affrontando la tematica della sospensione della liquidazione, richiama quale norma di carattere generale l'art. 108 l.fall. che, attribuendo al giudice la possibilità di sospendere le operazioni di vendita, subordina la stessa ad un'istanza del fallito, del comitato dei creditori o di altri interessati e al previo parere dello stesso comitato dei creditori. Più frequente, come sopra rilevato, sarà, peraltro, l'ipotesi in cui la proposta concordataria venga presentata successivamente alla approvazione del programma: Panzani, 2009, 1156, il quale rileva, peraltro, che «il programma di liquidazione (originario) non potrà tener conto di una proposta di concordato presentata dal fallito, perché al momento della scadenza del termine per la presentazione del progetto di programma, ancora non sarà decorso il termine che consente al fallito di proporla». Tale ultima circostanza presupporrà, da parte del curatore, la redazione di un supplemento al programma già predisposto. Va aggiunto, altresì, che l'analisi della disciplina sul nuovo concordato fallimentare pone un problema di coordinamento con l'iter formativo del programma di liquidazione, secondo quanto dispone il nuovo art. 104-ter. L'approvazione da parte del comitato dei creditori rischia di sovrapporsi rispetto alla disciplina del concordato fallimentare regolata dagli artt. 124 e ss. È comunque da ritenere che l'informativa contenuta nel programma di liquidazione, in ordine alla sussistenza di proposte di concordato ed al loro contenuto, non sia destinata ad ottenere il parere favorevole del comitato sulla proposta ai sensi dell'art. 125 l.fall. Invero, le finalità informative sottese ai due diversi istituti in esame sono varie e diverse: se, per un verso, la comunicazione da parte del curatore della proposta concordataria appare diretta, proprio ai sensi dell'art. 125, 2 comma, l.fall., all'acquisizione del necessario e vincolante parere del comitato dei creditori ai fini della procedibilità della domanda di concordato fallimentare (parere il cui eventuale contenuto negativo determina il definitivo arresto del procedimento di approvazione e di omologazione della proposta concordataria), per altro verso, la indicazione, sempre da parte del curatore nel programma di liquidazione, delle menzionate proposte concordatarie e del loro contenuto mira ad una finalità più latamente informativa di quelle che costituiscono le concrete modalità di liquidazione e di chiusura della procedura fallimentare in quella ottica programmatoria sopra già più volte illustrata. In realtà, il comitato dei creditori, approvando il programma di liquidazione, può dare un imput al curatore perché coltivi o meno una o diverse proposte; e può dare un segnale su quello che potrà essere il suo parere sulla proposta di concordato. Tuttavia, tale passaggio non potrà essere ritenuto equipollente al parere che dovrà essere dato dal comitato dopo la presentazione della proposta, ai sensi e per gli effetti dell'art. 125 l.fall. (Mastrogiacomo, 323). Va aggiunto che il comitato dei creditori dovrà, in ogni caso, esprimersi sul programma di liquidazione che il curatore intende seguire in caso di mancata omologa del concordato, anche perché, a tempo debito, può essere fatto un raffronto tra le prospettive del concordato e le prospettive della liquidazione fallimentare. In definitiva, si deve ritenere che il deposito di una proposta di concordato fallimentare non esima il curatore dall'obbligo di predisporre e di presentare il programma di liquidazione (Mastrogiacomo, op. loc. cit.). Le azioni recuperatorie, risarcitorie e revocatorieIl curatore deve, poi, dare conto delle informazioni concernenti le azioni recuperatorie, risarcitorie e revocatorie [v. lett. c)]. Vi è preliminarmente da considerare che queste ultime, tipiche azioni proposte all'interno e nel corso della procedura fallimentare, hanno oggi subito una riduzione alla loro sfera d'esperibilità, alla luce della dimidiazione del cd. periodo sospetto e della introduzione delle varie ipotesi di esenzioni (Panzani, Programma di liquidazione, 2009, 1155). In tema di revocatorie fallimentari, le problematiche da vagliare, utili per la predisposizione del piano programmatico della liquidazione, riguardano, in primo luogo, l'opportunità della loro proposizione, dipendente dalla concreta valutazione della circostanza che il terzo convenuto possegga beni su cui far valere il diritto recuperatorio o risarcitorio una volta accertato; dalla ulteriore valutazione del valore del bene della vita oggetto della domanda revocatoria, stante la mancanza, a volte, di un apprezzabile valore economico del predetto bene; ovvero, infine, dalla concreta e puntuale valutazione dei presupposti applicativi di cui, più in particolare, all'art. 67 l.fall., la cui allegazione e prova potrebbe presentare elevati indici di aleatorietà nel corso del giudizio. Ad esempio, potrebbe accadere che, sebbene il pagamento sia avvenuto nel periodo sospetto, il curatore non ritenga di avere sufficienti indizi che dimostrino la conoscenza dello stato di insolvenza da parte del terzo, oppure se l'anomalia dell'atto è desunta da fattispecie atipiche conosciute dalle giurisprudenza, il cui accertamento non offre pertanto sufficiente grado di probabilità circa l'esito positivo dello stesso. Non vi è dubbio che il curatore diligente, ove non ritenga di avere sufficiente elementi, cerchi un conforto anche dall'approvazione del piano alla sua decisione negativa, ma sembrerebbe corretto ritenere che tale principio di prudenza non vada estremizzato al punto di richiedere che il curatore espliciti in maniera dettagliata tutti gli atti conclusi nel periodo sospetto, ma per i quali non sussistono i presupposti per la revoca (Mastrogiacomo, op. loc. cit.). Va, tuttavia, precisato che sarebbe violata la ratio della funzione informativa del programma di liquidazione se l'esposizione delle prospettive omettesse un'analisi più o meno approfondita di quelle azioni potenziali che, tuttavia, per motivi di convenienza ed opportunità il curatore ritenesse di non voler intentare. Le azioni risarcitorie sono essenzialmente quelle consequenziali alle azioni di responsabilità proposte ai sensi e per gli effetti degli artt. 2392, 2393, 2393 bis, 2394, 2396, 2407e 2409 sexies c.c. nei confronti rispettivamente di amministratori, sindaci, direttori generali, liquidatori, revisori o società di revisione, ovvero dell'art. 2476 nei confronti di uno o più soci di società a responsabilità limitata, o ancora ai sensi e per gli effetti dell'art. 2497 nei confronti della società capogruppo nell'ambito della direzione o coordinamento: così, Mandrioli, 405. Per un excursus sulla determinazione del danno nella azione di responsabilità nei confronti degli amministratori e dei sindaci ex art. 146 l.fall., con riguardo alla disciplina ante riforma, v. Quatraro-D'Amora, 3527. Sono altresì esperibili anche le azioni recuperatorie di crediti ovvero di beni, nonché l'azione di nullità, annullamento, simulazione e revocatoria sensi dell'art. 2901 c.c. (Paluchowski, op. loc. cit.). Va precisato che il decreto correttivo ha previsto che nel programma di liquidazione vengano illustrate altresì le possibilità di un esito positivo, anche dal punto di vista quantitativo, delle azioni, sulla base di una prognosi che può e deve basarsi sui fatti costitutivi della domanda, gli elementi di prova, la fondatezza delle eccezioni avversarie, la solvibilità del debitore. Per contro, il rischio di una dettagliata e puntuale esposizione di tutti i profili inerenti alle azioni giudiziarie da intraprendere è quello di pregiudicare l'esito vittorioso delle iniziative giudiziarie, essendo il programma inserito nel fascicolo fallimentare e perciò accessibile a tutti i creditori (Maffei Alberti, 622). Segue. La segretazioneUn rimedio individuato dalla dottrina consiste nella segretazione ex art. 90, comma 1, l.fall. delle notizie di carattere riservato (D'Aquino, 776). Sul punto, va aggiunto che residuano alcuni dubbi in ordine alla circostanza per la quale un programma di liquidazione deve offrire ai suoi lettori una panoramica il più possibile completa delle azioni che il curatore intenda intraprendere per la ricostruzione del patrimonio fallimentare. È possibile, tuttavia, che la pratica applicazione della norma offra spunti per contemperare l'esigenza di trasparenza e quella di segretezza. Si pensi alla necessità di produrre nel giudizio l'autorizzazione del giudice delegato quale atto che attribuisca la legittimazione attiva del curatore. In questo caso, al di là del fatto che il giudice abbia espresso la sua autorizzazione nel contesto del documento programmatico, si rende necessario che, se non già autorizzata, l'azione intentata dal curatore ottenga, come atto dovuto, un'ulteriore autorizzazione scritta e separata da parte del giudice delegato. Segue. Le autorizzazioniSi può discutere sui limiti di coordinamento tra l'art. 104 ter, 2 comma, lett. c, l.fall. e l'art. 25 n. 6 medesima legge, perché si potrebbe pensare che il potere autorizzativo relativo alla presentazione delle azioni giudiziarie e a resistere alle stesse sia rimasto in capo al giudice delegato, nonostante il contenuto espresso della norma sopra richiamata contenuta nell'art. 104-ter. Tale opzione ermeneutica non è, invero, accettabile, almeno per quanto riguarda la potestà autorizzatoria riferibile all'opportunità di proporre azioni giudiziarie, atteso che è ora il legislatore a prevedere espressamente, con norma posteriore a quella contenuta nel richiamato art. 25 l.fall., che le «azioni risarcitorie, recuperatorie o revocatorie» da esercitarsi siano contenute nel programma di liquidazione, da sottoporre all'approvazione del comitato dei creditori. Diverso discorso riguarda le autorizzazioni a resistere ad azioni giudiziarie proposte nei confronti della curatela, atteso che tali autorizzazioni non sono (né potrebbero essere) contemplate nell'art. 104-ter l.fall. e che pertanto in tal caso il potere autorizzatorio continua a rimanere nelle mani del giudice delegato. Deve, tuttavia, precisarsi che, qualora sia necessario procedere all'attivazione dell'azione giudiziaria con urgenza, come avviene nelle ipotesi di azioni cautelari ante causam dirette alla conservazione delle garanzie patrimoniali del credito ovvero dei beni oggetto delle future azioni recuperatorie, allora non si potrà aspettare la redazione ed approvazione del programma di liquidazione rispettivamente da parte del curatore e del comitato dei creditori (peraltro, nella maggioranza dei casi non ancora costituito subito dopo la dichiarazione di fallimento), e dovrà farsi ricorso alla generale potestà autorizzatoria demandata ex art. 25, n. 6, l.fall. al giudice delegato. Naturalmente tale autorizzazione giudiziale potrà essere riportata, a fini informativi e ratificatori, nel programma di liquidazione da approvarsi successivamente da parte del comitato dei creditori. La vendita dei beniVenendo ora a precisare ulteriormente il contenuto necessario del programma di liquidazione, va ricordato che, laddove il curatore rinvenga un complesso aziendale o anche solo singoli rami d'azienda o, ancora, beni o rapporti giuridici in blocco deve includersi nel programma la possibilità di una cessione unitaria ovvero in blocco degli stessi [ lett. d)]. Questa disposizione appare correlata all'art. 105 l.fall., la cui ratio è quella di favorire la cessione unitaria dei cespiti rispetto alla liquidazione atomistica dei singoli beni, da disporsi solo quando sia prevedibile che la vendita dell'intero compendio fallimentare non consenta una maggiore «monetizzazione» e dunque una maggiore soddisfazione dei creditori (D'Aquino, 776). Sul punto, al dottrina ha chiarito che «Il concetto di “maggiore soddisfazione dei creditori” non deve essere circoscritto a valutazione legata a maggiori introiti, ma deve considerare anche aspetti ulteriori come i tempi di realizzo, il valore economico dato dalla continuazione dei rapporti aziendali, la composizione del passivo» (Esposito, 2007, 1688 ss). Ebbene, alcuni autori hanno sottolineato la difficoltà per il curatore di illustrare previsioni nel senso voluto dalla norma richiamata, stante la improbabilità che offerte di acquisto pervengano prima del deposito del programma di liquidazione, sicché è possibile, nella maggioranza dei casi, formulare previsioni condizionate all'esito delle procedure competitive promosse dal curatore (così, Paluchowscki, 961). Peraltro, va anche soggiunto che la scelta delle procedure competitive deve essere contenuta nel programma di liquidazione. In realtà, il tema della vendita di azienda o di beni in blocco costituisce una delle parti più rilevanti delle novità introdotte con la riforma, che tende a catalizzare l'attenzione del curatore nella ricerca di soluzioni della crisi che mantengano un'unità aziendale, ritenuta come bene di rilevanza strategica in una prospettiva di mercato. Va anche in questa sede ribadito che la scelta della vendita unitaria non è così liberamente lasciata alla discrezionalità del curatore, in quanto è sempre condizionata comunque all'interesse del maggior realizzo del bene: la prima stesura della bozza di decreto legislativo, nell'articolo scritto per disciplinare la vendita di azienda, utilizzava una formulazione che sarebbe risultata ambigua, poiché non stabiliva parametri correlati a specifici obiettivi per la selezione delle opzioni in tema di liquidazione, disponendo, invece, che le vendite atomistiche erano subordinate all'impossibilità della vendita in blocco, lasciando poi all'interprete definire l'area di tale giuridica possibilità. Il testo definitivo, anche coordinato con la norma in tema di affitto di azienda nel caso del fallimento, impone, invece agli organi fallimentari, ed in primis al curatore che redige il piano programmatico della liquidazione, di valutare sul lato economico il prevedibile risultato delle due ipotesi, quella aziendalistica e quella delle vendite parcellizzate, con una preferenza per le prima solo a parità di risultato, ipotesi quest'ultima solo teorica in quanto si tratterà di confrontare stime di valori, che, per la loro natura di pareri tecnici, hanno un'ineluttabile grado di incertezza (così, Mastrogiacomo, 330). Riguardo la specificazione delle condizioni di vendita dei singoli beni [lett. e)], deve ritenersi che, anche in relazione alla varietà di modalità di liquidazione di cui all'art. 107 l.fall. e alla possibilità di vendita unitaria o in blocco, deve ritenersi che il programma debba contenere una previsione di massima circa il prezzo di vendita. Al contrario, esso dovrà prevedere l'indicazione in modo specifico quantomeno dei criteri per la determinazione del prezzo e di quelli per la scelta dell'acquirente. Va pertanto precisato che — oltre alle scelte strategiche di portata generale — il programma non può eludere l'esigenza primaria di conoscere, in concreto, quali siano i criteri di cessione dei beni che il curatore intende adottare, dovendo rispondere i predetti criteri a quei requisiti di competitività e trasparenza richiesti ora dal novellato art. 107 l.fall. Così come formulata la richiesta informativa dell'art. 104-ter non deve essere interpretata nel senso che sulle modalità concrete di vendita ci si debba esprimere solo nella ipotesi in cui la vendita riguardi i singoli beni, e non anche quando si voglia procedere alla vendita di beni in blocco o d'azienda, giacché tale interpretazione sarebbe in realtà priva di logica. Non si comprenderebbe, invero, perché la richiesta di informazione riguardi solo una tipologia di vendita. Le modalità di venditaRiguardo ai possibili contenuti concreti del programma di liquidazione, va sottolineata un'altra novità, almeno apparente, del decreto correttivo n. 169/07, che legittima la scelta del curatore, da esplicitarsi nel programma, di affidare direttamente al giudice delegato, ed alle norme di rito, le soluzioni operative circa le modalità di vendita dei beni, tornando così al punto da cui è partita la riforma, ossia alle dinamiche processuali tipiche del codice di procedura civile (Mastrogiacomo, op. loc. cit.). In realtà, va detto che — già prima della correzione — non doveva escludersi che il curatore potesse scegliere di tornare al precedente regime delle vendite coatte, rimettendo al giudice delegato, con funzioni di giudice dell'esecuzione, la fase applicativa delle vendite fallimentari, dovendosi così applicare le norme del codice di rito (Fimmanò, 860. Sul precedente regime delle vendite, ancora Cordopatri, La vendita immobiliare fallimentare, loc. cit.). Pertanto, nel senso di un rinvio al modello delineato dall'art. 591-bis c.c. va letto, ora, il terzo comma dell'art. 104-ter l.fall. che recita: «Il curatore può essere autorizzato dal giudice delegato ad affidare ad altri professionisti alcune incombenze della procedura di liquidazione dell'attivo fallimentare». Resta aperto, tuttavia, il problema di quali siano le norme del codice di procedura civile che si possano applicare alla fase della liquidazione fallimentare. A tal proposito, la norma che introduce tale opzione nell'art. 107 l.fall., si limita a prevedere l'applicazione integrale delle norme del codice di procedura in quanto compatibili, lasciando all'interprete di stabilire tale limite di compatibilità. Non vi è dubbio che le procedura della vendita con incanto o senza incanto siano da considerare «competitive», perché si pongono l'obiettivo di mettere più soggetti, potenziali acquirenti, sullo stesso piano, e rispondano certamente ai requisiti imposti dall'art. 107, comma 1, l.fall., considerato che con la riforma del 2006 è stata ampliata anche la possibilità dell'utilizzo di forme di pubblicità, che mirano alla massimizzazione della partecipazione degli interessati (Mastrogiocamo, op. loc. cit). Ci si può eventualmente domandare se l'attività del giudice chiamato ad eseguire la vendita sia limitata all'indizione dell'incanto, ovvero coinvolga anche la fase precedente, compreso l'affidamento dell'incarico delle stime, che invece, secondo la linea intrapresa dalla riforma, spetterebbe al curatore, quale responsabile diretto delle vicende dalla procedura, a partire dalla scelta dei collaboratori. Appare ragionevole ritenere che, una volta investito il giudice, questi emetta l'ordinanza di vendita in conformità alle norme di rito, in cui vengano stabilite le modalità di vendita, i termini per la partecipazione alle aste, e che il procedimento si concluda con un atto proprio del giudice, e cioè con il decreto di trasferimento (Fimmanò, 862). In realtà, deve ritenersi che, in questa ottica, oltre ai vantaggi di natura schiettamente pratica (quali, a titolo esemplificativo, quello di risparmiare le spese notarili, che graverebbero comunque sempre sull'acquirente), si otterrebbe un ulteriore beneficio in termini di esecutività dell'atto per il rilascio del bene acquistato, ipotesi dubbia nel caso di vendita eseguita nelle forme privatistiche. Va poi esaminato il problema relativo al coordinamento tra le norme fallimentari che prevedono la sospensione delle vendita con quella che stabilisce la provvisorietà dell'aggiudicazione per la possibilità di aumenti del quinto, come stabilito dall'art. 584 c.c. Ebbene, la riforma ha attribuito al curatore un potere di sospensione della vendita fallimentare, azionabile in presenza di una nuova offerta successiva alla procedura di selezione dell'acquirente che abbia i requisiti di affidabilità e sia irrevocabile, potere che sembrerebbe sostituire la fase di aggiudicazione provvisoria, e quindi il procedimento che consente ad ogni interessato di proporre l'aumento del quinto (cioè in ragione del 20%) entro dieci giorni dall'aggiudicazione. La norma introdotta dalla riforma fallimentare, non ponendo limiti temporali, ed avendo una soglia inferiore, e cioè quella del 10%, risponde ad un criterio di maggiore trasparenza, favorendo la massima partecipazione ed il raggiungimento del miglior risultato economico. Ne consegue che non dovrebbe escludersi che, nei casi di affidamento delle vendite al giudice delegato, permanga in capo al curatore la possibilità di sospensione nei termini previsti dall'art. 107, comma 3. Va pure soggiunto che, poiché il programma di liquidazione è uno strumento di pianificazione, la riforma richiede che in esso vengano altresì indicate oltre alle modalità di liquidazione, anche i termini di quest'ultima, e ciò nel senso di aspettative plausibili di realizzazione dell'attivo. Ne discende che deve essere specificato l'arco temporale entro cui si ritiene di portare a termine la procedura, avendo particolare riguardo alle singole attività esecutive, agli eventuali riparti parziali e alla loro tempistica (Paluchowschi, 965). I rapporti pendentiDa ultimo, deve essere precisato che, sebbene l'art. 104-ter l.fall. non ne faccia esplicita menzione, si rivela altresì necessario inserire nel programma la indicazione dei rapporti pendenti (Panzani, 2009, 1158). Sul punto, va precisato che, invero, in relazione ai contratti per i quali è richiesta una decisione tempestiva da parte del curatore – come nella ipotesi di quelli di cui agli artt. 72-bis e 72-ter l.fall. – il curatore non può attendere il deposito del programma di liquidazione per assumere le relative decisioni, ma si limiterà a dare atto nel documento delle ragioni che hanno sostenuto le sue determinazioni in proposito. In realtà, per gli altri contratti, la cui esecuzione rimane sospesa per effetto della dichiarazione di fallimento, l'art. 72 prevede un termine di sessanta giorni affinché il curatore, messo in mora dal terzo contraente, possa optare per lo scioglimento o il subentro nel rapporto contrattuale, consentendo per tale via al curatore di ponderare la scelta in ordine alla propria futura posizione contrattuale e di renderne successivamente conto nel programma (Panzani, 2009, 1158). La riforma della legge fallimentare ha in realtà toccato anche quella parte della disciplina che regola gli effetti della dichiarazione di fallimento sui rapporti pendenti (artt. 72 ss. l.fall.). Non si trascurino gli effetti giuridici che l'apertura della procedura determina nella sfera dei terzi contraenti, che si vedono modificare le condizioni del contratto e distorcere la fase esecutiva del rapporto negoziale: soprattutto nei casi in cui il legislatore ha considerato prevalenti gli interessi della procedura, favorendo, in tal modo, gli effetti sulla massa patrimoniale del fallito rispetto alle legittime aspettative di esecuzione accordate dalle regole civilistiche, che garantivano il terzo contraente prima del fallimento. In una prospettiva di maggiore efficienza ed attenzione verso il terzo, sul presupposto che la precedente disciplina si era mostrata troppo sbilanciata a favore degli interessi dei creditori del fallito, e con l'intento di dare uniformità alle soluzioni che riguardavano tipologie di contratti non disciplinati in via specifica, la riforma ha introdotto alcune novità sui contratti pendenti a partire dall'enunciazione di un criterio di portata generale, in precedenza ricavabile solo in via interpretativa, secondo il quale, per qualsivoglia tipologia di contratto ancora non completamente eseguito da entrambe le parti, ossia le cui prestazioni in esso previste non hanno avuto completa esecuzione – vuoi per disposizioni negoziali, vuoi perché trattasi di contratti di durata – con il fallimento si avrà la sospensione del rapporto a tutti gli effetti, fino a quando il curatore, con l'autorizzazione del comitato dei creditori, non decida il subentro o lo scioglimento (si v. per tutti Provinciali, 148; per una ricostruzione dell'istituto qui da ultimo in esame in dottrina e giurisprudenza vedi Censoni, 1033). Il tratto di novità della riforma risiede pertanto nell'escludere il giudice delegato da qualsiasi intromissione nell'attività gestoria riguardante le scelte sul merito degli atti di amministrazione del patrimonio. Si tratta di prerogative del curatore e del comitato dei creditori, il cui ruolo spicca per l'ambigua veste di organo di controllo con potestà autorizzativa, quindi investito a tutti gli effetti di poteri di co-gestione (Panzani, 2006, 487-492). Il giudice delegato, invece, laddove non sia chiamato a sostituire il comitato dei creditori perché inattivo o che non è in grado di formarsi, o, ancora, di assumere decisioni, si limita a fungere da giudice terzo, chiamato ad intimare al curatore l'assunzione di decisioni rapide, in seguito alla messa in mora dell'altro contraente. Di particolare rilievo sul tema dei rapporti pendenti è la soluzione data dalla riforma al destino dei contratti di leasing in corso al momento del fallimento, ai quali si applica, in ogni modo, la regola generale della sospensione, salvo l'automatica prosecuzione in caso di esercizio provvisorio. In caso di scioglimento, rispettando la reale funzione finanziaria che assolve nelle generalità dei casi questo tipo di contratto, il legislatore ha adottato una soluzione nella sistemazione dei rapporti economici per assicurare una sorta di indifferenza nella scelta del curatore con riguardo agli interessi sia del terzo locatore, sia del curatore: questi invero dovrà restituire il bene di proprietà alla società finanziaria locatrice, la quale sarà tenuta a restituire la parte dei canoni incassati, i quali, come è noto, contengono una parte del prezzo di vendita, che eccede il valore del bene definito al momento della restituzione: il tema era particolarmente dibattuto, sotto la precedente disciplina, tra l'assimilazione al contratto di riservato dominio ed il contratto di scambio In questo senso si era espressa, da ultimo, Cass. n. 5532/2004, in Fall., 2004, 511, con nota critica di Lamanna, 514. Va aggiunto che l'elemento rilevante da considerare, in questa sede, riguarda la circostanza che le scelta del curatore di proseguire o meno il contratto avrà inevitabilmente conseguenze economiche sulla gestione delle attività fallimentari, nel senso che da questa scelta scaturirà prevedibilmente un vantaggio in termini finanziari, vuoi per effetto dell'esecuzione della prestazione della controparte, vuoi per il minor onere potenzialmente gravante sulla massa per effetto del venir meno della prestazione che altrimenti il curatore dovrebbe eseguire. Sul punto, si è pertanto giustamente osservato che l'inclusione delle opzioni sui contratti in corso nel programma di liquidazione, nonostante non sia citato dalla norma, sia una incombenza per il curatore necessaria e scontata, sebbene a tale soluzione consegua una naturale sovrapposizione di due discipline, imponendo, in tal modo, all'interprete di scioglierne i conseguenti nodi ermeneutici (Patti, 882, il quale rileva che la pubblicazione attraverso il programma della determinazione del curatore in ordine alla prosecuzione del contratto in corso è consonante con il principio di conoscibilità delle scelte del medesimo). Invero, ci si potrà domandare, in tale ambito, se la scelta del subentro o meno nei contratti possa ottenere l'autorizzazione del comitato dei creditori con la semplice approvazione dell'intero programma ovvero richieda una autonoma approvazione. La prima soluzione non sembra possa comportare controindicazioni sul piano strettamente giuridico, né si intravedono ostacoli su quello pratico, con riferimento al ruolo che ora è assegnato ex lege al comitato dei creditori, la cui approvazione potrà pertanto assumersi come autorizzazione al subentro o allo scioglimento, a seconda di quello che preveda il programma di liquidazione. Ciò richiede pertanto che il programma di liquidazione sia sufficientemente dettagliato al riguardo. Si potrebbe ipotizzare che il comitato dei creditori non sia favorevole su specifici punti ed in particolare sul subentro dei contratti in corso. In tal caso, può soccorrere il potere di richiesta di modifica del piano, previsto dell'art. 104-ter, 4 comma, ovvero si potrebbe ritenere che, se il dissenso non dovesse essere superato con la modifica del programma, sul punto verrebbe a mancare l'autorizzazione dell'organo di cogestione alla scelta formulata dal curatore (Mastrogiacomo, 862). Vi è tuttavia da segnalare un problema di compatibilità fra i tempi richiesti per la predisposizione del programma e quelli relativi alla scelta sulle vicende dei rapporti pendenti. Invero, se da un lato, la redazione del programma deve essere completata entro sessanta giorni del termine delle operazioni di inventario, dall'altro lato, le scelte del curatore relativamente ai rapporti pendenti, in presenza di una messa in mora e ai sensi del citato art. 72, 2 comma, l.fall., dovranno essere rese conoscibili entro sessanta giorni, che, però, decorreranno dal provvedimento intimatorio del giudice È ragionevole ritenere, come già sopra segnalato, che il curatore, valutandone l'opportunità, possa assumere le sue determinazioni prima della stesura del programma e legittimamente subentrare o sciogliersi dal contratto non integralmente eseguito. Altrimenti l'opzione del curatore dovrà essere compresa nel corpo programmatico del documento disciplinato dall'art. 104-ter l.fall. con una valutazione delle relative determinazioni da rimettersi alle scelte operative complessive dell'organo di cogestione. Una situazione analoga può essere rintracciata anche in altre tipologie di atti aventi rilevanza economica e, come tali, rimessi alle valutazioni del curatore, ossia di tutti quegli atti la cui adozione si potrebbe tradurre in un realizzo monetario, quindi liquidativo, ovvero in una riduzione di costi o di oneri sulla massa. È la ipotesi degli atti di cui alla previsione dell'art. 35 l.fall., ossia delle transazioni, riduzioni di crediti, rinuncia alle liti, compromessi ed in generale di tutti gli atti gestori di straordinaria amministrazione, che sono compiuti dal curatore previa l'autorizzazione del comitato dei creditori, salvo ad ogni buon conto il dovere di preventiva informazione al giudice delegato se di valore superiore a cinquantamila euro, ed in ogni caso se trattasi di transazioni. In relazione al programma di liquidazione, le questioni relative agli atti in discorso non sono dissimili da quelle esaminate in merito ai contratti in corso: si tratta a ben vedere di coordinare, sul piano dei tempi e della combinazione dei poteri distribuiti ex lege tra i vari organi fallimentari, le previsioni normative, privilegiando il criterio della massima informazione e trasparenza del piano gestionale. Segue. Le partecipazioni societarieVa anche aggiunto, sempre in tema di obblighi contenutistici del programma di liquidazione, che non vi è dubbio che quest'ultimo debba dare conto anche dell'esistenza nel patrimonio del fallito di partecipazioni in società di persone e, per effetto dello scioglimento del vincolo sociale limitatamente alla propria quota (scioglimento intervenuto, come a tutti noto, con la dichiarazione di fallimento del socio stesso) del valore del credito vantato verso la società per la liquidazione della stessa quota. Ovviamente nel programma dovrà essere indicato lo stato del procedimento di liquidazione della quota, se sono stati superati i sei mesi dal fallimento, la parte eventualmente riscossa ovvero in fase di riscossione o di accertamento giudiziario del credito restitutorio. Su tale evento l'approvazione del comitato dei creditori non può avere funzione legittimante, essendo lo scioglimento del rapporto societario una conseguenza giuridica del fallimento. Del pari, non richiesta dovrebbe ritenersi una specifica autorizzazione del giudice delegato. Eventualmente si potrà opinare sul metodo di valutazione della quota, se fosse frutto di elaborazioni tecniche unilaterali del curatore (Mastrogiacomo, 336). Sul punto, va ricordato che l'art. 2288, comma 1 c.c. dispone che «è escluso di diritto (dalla società di persone) il socio che sia dichiarato fallito». L'esclusione dà diritto alla liquidazione della quota, il cui valore va liquidato in denaro «in base alla situazione patrimoniale della società nel giorno in cui si è verificato lo scioglimento» (così l'art. 2289, 1 e 2 comma, c.c.) Se vi sono, poi, operazioni in corso, come noto, il socio (e nel caso di fallimento, il curatore) o i suoi eredi partecipano agli utili ed alle perdite inerenti alle operazioni medesime (art. 2289, comma 3, c.c.). Il pagamento del corrispettivo del valore della quota va eseguito entro sei mesi dal giorno in sui si verifica lo scioglimento del rapporto (e, quindi, in caso di fallimento, dalla data della relativa sentenza). Il debito della società è di valuta e non di valore ed il relativo importo va prelevato dal patrimonio sociale. Nella determinazione del valore della quota si deve tenere conto del valore di realizzo dei beni sociali e dell'avviamento. Tuttavia, il contratto sociale ben può prevedere criteri di liquidazione diversi da quelli legali. È di tutta evidenza che, in questo caso, il valore della quota andrà determinato in base ai criteri convenzionali stabili nel contratto stesso (Mastrogiacomo, op. loc. cit.). Va tuttavia precisato che il meccanismo operativo descritto dal richiamato art. 2289 presuppone, naturalmente, una situazione di eccedenza dell'attivo sociale sul passivo. Se, al contrario, come pure può accadere, il passivo supera l'attivo, il socio uscente non vanterà alcun credito nei confronti della società. Si deve pure soggiungere che il contratto sociale può prevedere una clausola compromissoria che attribuisca ad arbitri la determinazione del valore delle quote, le modalità di pagamento, nonché la risoluzione delle controversie che dovessero insorgere in merito alla liquidazione. La scelta circa l'acquisizione dei beni alla massaSempre in tema di obblighi contenutistici del piano programmatico di liquidazione, va detto che il legislatore della riforma ha introdotto un principio generale la cui ratio è quella di indurre il curatore a valutare caso per caso l'effettiva convenienza per la massa di procedere alla liquidazione di alcuni beni. In questa prospettiva interpretativa, va letto il comma 7 dell'art. 104 ter, secondo cui il curatore, previa l'autorizzazione del comitato dei creditori, può decidere di non acquisire all'attivo, già in sede di redazione dell'inventario, ovvero di rinunciare alla liquidazione di beni appartenenti al patrimonio fallimentare, se l'attività di monetizzazione appaia manifestatamene più onerosa. Va aggiunto che, anche in altri punti della riforma, si individuano norme che indirizzano il curatore verso una rapida chiusura della procedura inefficiente, come è altresì previsto dall'art. 102 l.fall., secondo cui si dispone non farsi luogo alla verifica dello stato passivo, se il curatore dimostri al tribunale l'inutilità di tale fase, non essendovi sufficienti beni per una qualsiasi distribuzione dell'attivo, fatta salva la soddisfazione dei crediti prededucibili e delle spese della procedura. Ritornando ora al primo argomento solo sopra accennato, è da precisare che la scelta della mancata liquidazione dei beni – il cui valore di realizzo e liquidazione risulti non conveniente – non deve essere interpretata in senso restrittivo, come se fosse riferita, cioè, alle vendite in senso stretto, ma si dovrebbe ritenere che essa include anche altre attività potenziali di liquidazione, quale, ad esempio, la riscossione dei crediti. Il curatore, invero, potrebbe convincersi di non intentare azioni giudiziarie per recuperare crediti esigui, ovvero nei confronti di creditori di dubbia solvibilità, essendo in tali casi rilevante il rischio di mancato adempimento da parte dei debitori ovvero di inutile escussione forzata del credito, con conseguente aggravio delle spese di giustizia a carico della curatela. In realtà, le fattispecie concrete ipotizzabili di derelictio, oltre alle ipotesi di beni mobili senza più mercato, perché extra commercium sia da un punto di vista economico che giuridico (si pensi, per quest'ultima ipotesi, ad un bene immobile abusivo non condonabile, o a beni immobili collocati in zone prive di qualsiasi interesse, ovvero a quote minime di comproprietà immobiliare di beni di scarso valore e comunque senza un mercato di sbocco, o ancora a immobili colpiti da problemi di inquinamento ambientale, la cui rimozione si presenta più costosa)(la relazione illustrativa recita, sul punto in esame, verbatim «Infine, risponde sempre ad esigenze di speditezza e di economicità la previsione, essa pur innovativa, di una possibile c.d. derelizione di beni che, per qualsivoglia ragione vuoi per il loro modesto valore venale vuoi per il carattere di oggettiva invendibilità come nel caso di impianti fuori norma e, dunque incommerciabili, o di terreni inquinati etc. Mastrogiacomo, op. loc. cit.). In realtà, la cd. derelictio comporta una deroga significativa alla regola dettata dall'art. 51 l.fall., nel senso che induce la esclusione dei beni indicati dall'ambito coperto dal provvedimento autorizzatorio del comitato dei creditori, dall'effetto dello spossessamento determinato dalla sentenza dichiarativa di fallimento e determina il conseguente rientro dei detti beni nella disponibilità del debitore fallito, e il gradato assoggettamento alla responsabilità patrimoniale dettata dall'art. 2740 cod. civ. Ed invero, la regola prevista dall'art. 104-ter, comma 7, l.fall., prevede che, sempre in deroga all'art. 51 l.fall., i creditori potranno iniziare – ovviamente in seguito alla prevista comunicazione del curatore della derelictio a ciascuno di loro – azioni esecutive individuali sui detti beni, ai sensi delle norme del codice di rito. Si potrebbe profilare pertanto una eventuale parallela procedura esecutiva individuale che affianca la procedura di liquidazione concorsuale fallimentare, sulla falsariga dell'azione individuale esercitabile dal creditore fondiario, ai sensi dell'art. 40 del Testo unico bancario, approvato con d. lgs. n. 383/1993, e successive modifiche. È da escludersi, invece, che il curatore, dopo che abbia optato per la derelizione del bene, nei limiti e nei termini in cui egli sia stato autorizzato, possa promuovere un intervento nella procedura individuale, nemmeno nella fase eventuale della distribuzione del prezzo (secondo D'Attorre-Sandulli, 625, l'opzione dell'abbandono sarebbe sempre modificabile con un supplemento di programma e ciò potrebbe avvenire in ogni caso fino alla vendita, poiché con il trasferimento coattivo nell'esecuzione individuale viene raggiunto l'effetto purgativo, che rende definitiva l'acquisizione da parte dell'aggiudicatario). Le modifiche ed i supplementi al programma di liquidazioneIl comma 4 dell'art. 104-ter, anche nella sua versione novellata dal decreto correttivo, prevede che il «comitato dei creditori può proporre al curatore modifiche al programma presentato». Il dettato della norma chiarisce, per tale via, che solo i soggetti chiamati dalla legge a partecipare alla liquidazione fallimentare possono promuovere le modifiche e le integrazioni del piano. La stessa legge delega al punto 10.5 dell'art. 1, comma 6, lett. a), l. n. 80/05, aveva previsto espressamente che «il comitato dei creditori potesse proporre al curatore modifiche al programma presentato, prima di procedere alla sua votazione». Deve concordarsi con quella parte della dottrina (Pajardi-Paluchowscki, 589) che ritiene il predetto potere esercitabile da parte del comitato dei creditori solo prima della approvazione del programma di liquidazione, giacché, diversamente opinando, sarebbe illogica una richiesta di modifica del documento programmatico da parte del comitato dei creditori dopo la sua approvazione, e cioè da parte dello stesso organo che aveva trovato rispondente alle proprie esigenze della liquidazione le proposte programmatiche contenute nel programma precedentemente approvato. Si dovrebbe, invece, ritenere condivisibile l'affermazione di un potere di modifica postumo in capo al comitato dei creditori solo nella ipotesi in cui le dette modifiche sia siano rese indispensabili per il sopravvenire di presupposti e condizioni diverse da quelle esistenti al momento dell'approvazione del programma. Va anche aggiunto che il programma, in considerazione della brevità del termine concesso per la sua stesura, può essere basato su previsioni che potrebbero rivelarsi inesatte od essere redatto in assenza di tutte le informazioni indispensabili per il curatore. L'art. 104 ter, comma 5, l.fall., autorizza quest'ultimo a presentare, laddove sopravvenga l'esigenza, un supplemento al piano di liquidazione, da sottoporre all'approvazione del comitato dei creditori ed alla successiva autorizzazione del giudice delegato: Sul punto, peraltro, Esposito, Il programma di liquidazione nel decreto correttivo, 2007, 1728, rileva che è necessario effettuare una distinzione a seconda che il supplemento implichi una modifica contenutistica di quello precedentemente predisposto, o che la novità in esso contemplata non incida su una scelta già operata, come nell'ipotesi di «beni o azioni sopravvenute». In quest'ultimo caso non si dovrà necessariamente dar vita al supplemento e, quindi, «nel caso di vendite (a seguito di sopravvenienze di beni), dovrebbe trovare applicazione l'art. 35 l. f.», mentre nel caso di azioni giudiziali nuove «deve ritenersi sufficiente l'autorizzazione del giudice delegato a norma dell'art. 25, n. 6)» e contraddistinto, nei limiti dell'oggetto dell'integrazione, dai requisiti contenutistici di quello iniziale (Ambrosini, 633). Si veda anche Fontana, 16, secondo cui «il supplemento di programma rappresenta poi lo strumento normale per l'adeguamento del piano approvato in relazione al mutamento delle condizioni presenti o comunque previste nel momento in cui è stato predisposto». Sul punto, come rilevato da autorevole dottrina (il riferimento è a Ambrosini, 633; e Fontana, op. loc. cit., secondo cui «il supplemento di programma rappresenta poi lo strumento normale per l'adeguamento del piano approvato in relazione al mutamento delle condizioni presenti o comunque previste nel momento in cui è stato predisposto»), con la locuzione «per sopravvenute esigenze» non debbano intendersi esclusivamente i fatti nuovi, ma anche le esigenze del tipo più svariato che dipendono, ad esempio, «dal sopraggiungere di nuovi beni, dalla opportunità di nuove azioni, dalla modifica di scelte precedentemente determinate, dalla adozione di diverse strategie quali l'opportunità di dare vita, dopo l'approvazione del programma, all'esercizio provvisorio dell'attività di impresa prima scartato» (Esposito, Il programma di liquidazione nel decreto correttivo, 2007, 1728). Del resto, il requisito della flessibilità – che deve caratterizzare il programma, avendo questo ad oggetto una realtà mutevole, quale è l'attività di liquidazione – può pertanto realizzarsi o attraverso la prospettazione in via alternativa e condizionata delle varie ipotesi liquidatorie ovvero attraverso, per l'appunto, un supplemento, nell'eventualità di (e sempre che ricorrano) sopravvenute esigenze, imprevedibili al momento della predisposizione del programma originario. Tale ultima evidenziata locuzione deve essere intesa (Mandrioli, 412), pertanto, in senso ampio, e può riguardare il sopraggiungere di nuove circostanze fattuali, un mutamento del quadro normativo, valutazioni in precedenza non compiute (Fontana, 228), precisa quantificazione del passivo. Va tuttavia soggiunto che, al fine di evitare il moltiplicarsi di supplementi nel corso della procedura, è preferibile, in realtà, redigere un programma con più soluzioni condizionate ed alternative, ove ciò sia possibile. Ciò che deve essere evitato, tuttavia, è la indeterminatezza del piano programmatico di liquidazione, e cioè un piano che non determini le condizioni e le circostanze in base alle quali occorre determinare la scelta tra le diverse soluzioni prospettate come alternative tra loro. Si ricordi, a tal fine, ciò che è stato specificato in premessa sulle caratteristiche ontologiche e strutturali del programma di liquidazione il cui contenuto deve obbedire a necessari e ineludibili caratteri di specificità e determinatezza onde consentire una corretta informazione al comitato dei creditori per l'approvazione del programma e mettere pertanto in condizione, allo stesso tempo, il giudice delegato di esercitare quel controllo di legalità sostanziale sul contenuto del programma da esplicitarsi nel momento di autorizzare i singoli atti esecutivi di cui si compone il programma stesso. Così può risultare proceduralmente corretta la opzione del curatore di prevedere la cessione immediata dell'azienda solo subordinatamente e condizionatamente alla mancata realizzazione, mediante la scelta del contraente tramite procedure competitive, di un affitto di azienda che meglio garantisca, nelle more della alienazione definitiva, la conservazione dei beni aziendali. Non sarebbe invece corretta la scelta del curatore di prevedere nel programma di liquidazione le due soluzioni sopra prospettate non condizionandole alternativamente, giacché in tale ipotesi non si avrebbe un piano programmatico sufficientemente determinato da sottoporre all'approvazione del comitato dei creditori. Segue. I termini di predisposizioneIl curatore deve provvedere alla predisposizione del programma entro sessanta giorni dalla redazione dell'inventario di cui all'art. 87 «e in ogni caso non oltre centottanta giorni dalla sentenza dichiarativa di fallimento» (espressione, quest'ultima, definitivamente aggiunta con l'art. 6, lett. a, della l. n. 132/2015, con la quale è stato convertito con modifiche il d.l. n.83/2015). Peraltro, secondo quest'ultima novella «il mancato rispetto del termine di centottanta giorni di cui al primo periodo senza giustificato motivo è giusta causa di revoca del curatore». Diverse opinioni dottrinali hanno evidenziato la brevità del termine, anche alla luce della necessità di predisporre un programma esauriente. Così, invero, è stato affermato che «L'alternativa alla ipotesi – di difficile realizzazione – di redazione di un programma completo nei termini di legge è quella della predisposizione nei sessanta giorni di un programma generico, suscettibile di successivi supplementi» (Panzani, 2009, 1146 e ss.; anche la Relazione illustrativa qualifica il termine come «relativamente breve»). Sono sorti dubbi interpretativi in ordine alla natura di tale termine. L'orientamento di gran lunga prevalente è nel senso che il termine sia meramente ordinatorio (Panzani, 2009, 1147; Mandrioli, 413; Campochiaro-Vitiello, 75; contra, per la perentorietà del termine si v. Esposito, Il programma di liquidazione: profili applicativi, 2007, 1673). Ne discende che, come vuole la tesi maggioritaria che sembra preferibile, nella ipotesi di inosservanza del termine non sarebbe prevista né ipotizzabile nessuna sanzione diretta, anche se tale mancanza potrebbe rappresentare, anche secondo la recente modifica legislativa, motivo di revoca del curatore ai sensi dell'art. 37 l.fall. ovvero di una sua sostituzione ai sensi del successivo art. 37 bis. Deve anche ritenersi che il predetto termine sia prorogabile nei limiti di cui all'art. 154 c.c. (Caiafa, 571). Diversa ed inversa è invece la ipotesi della possibilità di predisporre un programma supplementare ex art. 104, comma 5, l.fall. Va aggiunto che il dies a quo deve ritenersi mobile in quanto ricollegato ad un'attività, e cioè quella di redazione dell'inventario, di durata variabile a seconda della tipologia e caratteristiche della singola procedura, per la quale la legge fallimentare non prescrive invero alcun termine, dovendosi predisporre l'inventario «nel più breve tempo possibile» una volta rimossi i sigilli (D'Aquino, 779). Non risulta neanche predefinito neppure il dies ad quem, considerato che la lettera della legge si riferisce alla «predisposizione» e non già al deposito in cancelleria (per quanto concerne il termine di sessanta giorni dall'inventario). Peraltro, va anche aggiunto che, avendo il decreto correttivo sottratto al giudice delegato il compito dell'approvazione del programma di liquidazione con la riserva al solo comitato dei creditori di questa funzione approvativa, la verifica della tempestività del curatore e dell'effettivo rispetto del termine di sessanta (ovvero centottanta) giorni potrà avvenire solo nel momento successivo in cui il curatore, una volta ottenuta l'approvazione del comitato, provveda a depositare in cancelleria il programma. Si discute in dottrina in ordine all'ammissibilità di un programma parziale al fine di consentire il rispetto del suddetto termine, con la riserva di successive integrazioni attraverso la procedura del supplemento ai sensi del 5 comma dell'art. 104 ter. La dottrina maggioritaria sembra propendere per la soluzione negativa, giacché il ricorso a questo strumento di integrazione del contenuto del programma di liquidazione deve ritenersi limitato alle sole ipotesi in cui sopravvengano elementi nuovi, in precedenza non conosciuti né conoscibili (D'Aquino, 780; Paluchowscki, 957). Altri autori ritengono invece che la possibilità di integrare il programma di liquidazione anche successivamente tramite lo strumento del supplemento corrisponda alla necessità di completare l'illustrazione di alcune attività già individuate, seppure non in modo dettagliato, nel programma di liquidazione, stante la brevità del termine che non consente, soprattutto nelle ipotesi di azioni di responsabilità e revocatorie, di svolgere un'adeguata istruttoria. Sembra preferibile, comunque, la prima soluzione sopra prospettata, e ciò anche in ragione della non perentorietà del termine entro il quale deve essere depositato il programma di liquidazione. Detto altrimenti, risulta essere opzione più congeniale al sistema quella che preveda la possibilità per il curatore di richiedere al giudice delegato una proroga del predetto termine onde consentire la predisposizione di un programma di liquidazione quanto più possibile organico e completo entro il successivo termine così accordato, piuttosto che quella che imponga allo stesso curatore l'obbligo di depositare un documento programmatico incompleto e non sufficientemente determinato nelle sue componenti essenziali, con la possibilità di una successiva integrazione del predetto documento attraverso lo strumento del supplemento di programma, la cui redazione e presentazione dovrebbe, invece, essere limitata, a rigore, solo a quelle ipotesi in cui sopravvengano circostanze non conosciute ovvero non esistenti nel momento della prima redazione del programma di liquidazione da parte del curatore. Il procedimento di approvazione: il programma di liquidazione ante correttivoIl decreto legislativo n. 5/2006 aveva inizialmente previsto l'approvazione del programma di liquidazione da parte del g.d., una volta acquisito il parere favorevole del comitato dei creditori, venendo così a realizzare una condivisione gestionale dei tre organi della procedura (v. Campochiaro-Vitiello, 85). In questo quadro normativo, si riteneva che il parere positivo espresso dal comitato dei creditori non fosse vincolante, giacché il giudice delegato conservava un autonomo potere di valutazione. Al contrario, il parere negativo avrebbe precluso al giudice delegato l'approvazione, paralizzando così la fase della liquidazione (Guglielmucci, 2006, 260). In tale ipotesi, il curatore avrebbe dovuto immediatamente procedere nel rispetto delle indicazioni espresse dal comitato dei creditori, alla redazione di un programma correttivo. In ogni caso, il parere doveva essere accompagnato da adeguata motivazione ai sensi dell'art. 41, comma 1, l.fall. Sul punto, è stato affermato in dottrina che, nel silenzio della legge, il voto potesse essere espresso anche attraverso manifestazioni individuali, pur ritenendo tuttavia opportuno che le valutazioni del comitato dei creditori venissero espresse collegialmente (così, Fontana, 239, il quale auspicava che partecipazione del curatore alla riunione del comitato dei creditori, quantomeno nella fase di esame del documento programmatico, al fine di fornire immediati chiarimenti ove richiesti). In relazione alla natura del provvedimento autorizzativo emesso dal g.d., da rendersi, secondo la normativa precedente, nel termine di quindici giorni, si è molto discusso in dottrina, in relazione alla natura del predetto provvedimento e ai limiti di sindacato dell'organo giurisdizionale. Sul punto, la dottrina era concorde nell'escludere che si trattasse di atto dovuto, giacché diversamente opinando si sarebbero svilite le funzioni di controllo della procedura concorsuale affidate ex lege al giudice delegato (Panzani, Le linee principali dello schema di decreto delegato: gli organi e i poteri del giudice delegato, 2006, 488; Mandrioli, 416). Variegate erano invece le opinioni in dottrina in ordine all'ampiezza dei poteri spettanti al g.d. Vi era chi sosteneva l'ammissibilità di un sindacato limitato alla legittimità formale e sostanziale del programma (così Proto, 450; Mandrioli, 417). Altra parte della dottrina riteneva che le valutazioni del g.d. dovessero estendersi anche al merito e ricomprendere, dunque, i giudizi di opportunità e di convenienza in ordine alle scelte adottate dal curatore, atteso che il concetto stesso di approvazione vorrebbe implicita l'adozione di giudizi di tale natura e la piena condivisione del programma da parte del g.d. e si sarebbe risolto in un potere ulteriore rispetto al mero controllo di legittimità di cui all'art. 25 (Quatraro, 1664). Secondo il 4 comma dell'art. 104-ter, così come formulato dal d.lgs. n. 5/2006, il provvedimento di approvazione del programma di liquidazione teneva «luogo delle singole autorizzazioni eventualmente necessarie per l'adozione di atti o per l'effettuazione di operazioni incluse nel programma» (era il cd. effetto trasfert) (Mandrioli, 411). In realtà, la dottrina aveva rilevato un contrasto tra la disposizione in commento, da un lato, e gli artt. 25, 1 comma, n. 6) e 146, dall'altro, l.fall. Sul punto, va precisato che la prima disposizione normativa sopra esaminata si riferiva ad atti e operazioni contemplate nel programma, mentre gli altri due articoli richiedevano specifiche autorizzazioni del g.d. per le iniziative giudiziarie promosse dalla curatela. Si era così dubitato che l'approvazione del programma comportasse l'autorizzazione anche all'esperimento di azioni giudiziarie (D'Aquino, 783). Tuttavia, si reputava preferibile optare per una generalizzata estensione dell'effetto transfert a tutte le attività liquidatorie, comprese le azioni giudiziarie, e ciò anche alla luce del loro espresso inserimento nel programma ai sensi dell'art. 104-ter, comma 3, lett. c) (D'Aquino, op. loc. cit.). L'unica eccezione sarebbe stata rinvenibile nella ipotesi di cui all'art. 146, comma 2, l.fall. che prevede un peculiare procedimento autorizzativo. Peraltro, va aggiunto che gli atti di liquidazione che non erano ricompresi nel programma di liquidazione, essendo correttamente qualificabili come atti di straordinaria amministrazione, richiedevano comunque la specifica autorizzazione del comitato dei creditori e la preventiva informazione del g.d., se il loro valore avesse superato euro cinquantamila (come previsto dall'art. 35 l.fall.), mentre le azioni recuperatorie del pari non indicate nel sopra descritto documento programmatorio necessitavano comunque dell'autorizzazione del g.d.ai sensi dell'art. 25, comma 1, n. 6. Il sistema così delineato dalla precedente normativa fallimentare non era tuttavia esente da difficoltà operative ed applicative. Come detto, nella formulazione dell'art. 104-ter seguita al d.lgs. n. 5/2006, il curatore, una volta predisposto il programma, doveva provvedere ad acquisire il parere favorevole del comitato dei creditori, che così assumeva il valore di una condizione ostativa alla possibilità di approvazione del programma da parte del giudice delegato. Si poteva pertanto ragionevolmente sostenere che i creditori fossero portatori di una sorta di diritto di veto nei confronti di un programma di liquidazione il cui contenuto non era condiviso dal comitato dei creditori. In realtà, va precisato, sul punto qui in discussione, che, qualora il parere del comitato dei creditori fosse stato sfavorevole, il curatore avrebbe dovuto necessariamente confrontarsi con i membri del detto comitato e, dopo tale confronto, avrebbe dovuto, nella ipotesi in cui il comitato avesse mantenuto fermo il suo apprezzamento negativo, modificare il documento programmatorio per recepire le indicazioni fornite dal comitato e dunque per ricevere finalmente il parere favorevole del comitato. Nella diversa ipotesi in cui il curatore avesse ritenuta corretta la sua originaria impostazione e pretestuose e non accoglibili i rilievi operati dal comitato dei creditori, si sarebbe in realtà registrato un disaccordo insanabile tra i due organi gestori, superabile da parte dei creditori attraverso lo strumento previsto dall'art. 37-bis l.fall. per la rimozione del curatore, motivando da parte di quest'ultimo nel senso di giustificare tale scelta operativa proprio nel disaccordo insanabile registratosi in ordine all'approvazione del programma di liquidazione. Al di fuori di tale estrema soluzione, l'unico sistema alternativo per superare l'impasse doveva ritenersi un intervento del giudice delegato che tramite l'esercizio del suo potere di moral suasion avrebbe potuto suggerire agli altri due organi della procedura la soluzione della divergenza attraverso la indicazione di eventuali punti di convergenza in ordine alle valutazioni conclusive sulle modalità concrete di liquidazione del patrimonio fallimentare (Pajardi-Paluchowski, 587). Il programma di liquidazione dopo le modifiche del correttivo. Il procedimento di approvazioneNel testo riformato della norma in esame, è stata ribadita la centralità del comitato dei creditori, che, non solo ha mantenuto, attraverso l'approvazione, il potere di veto che aveva in precedenza, quando si richiedeva un suo preventivo parere favorevole perché il programma fosse sottoposto all'approvazione del giudice, ma è divenuto, ora, il vero ed unico dominus di questa fase della procedura, posto che, in seguito all'intervento del legislatore del correttivo, il programma deve essere approvato soltanto dal comitato dei creditori e il giudice delegato non interviene più su di esso, né per approvarlo né per autorizzarlo, essendo il suo compito limitato ad autorizzare l'esecuzione degli atti contenuti nel programma stesso, che gli viene comunicato dopo l'approvazione da parte del comitato. Pertanto, il destinatario principale del programma di liquidazione è il comitato dei creditori, al quale spetta un controllo sul merito delle scelte gestionali, ossia sulla convenienza, sulla opportunità e sulla congruità delle scelte liquidatorie e recuperatorie della curatela (cfr., fra i tanti, Vitiello, 967). Invero, con il «decreto correttivo», le cui modifiche più rilevanti all'art. 104-ter riguardano l'autorizzazione del giudice delegato ed il venir meno della sua approvazione preventiva, l'espressione «parere favorevole del comitato dei creditori» è stata sostituita dalla locuzione «da sottoporre all'approvazione del comitato dei creditori», la quale deve ritenersi maggiormente conforme alla previsione della l. delega n. 80/2005 (la quale prevedeva, appunto, la «approvazione» da parte del comitato dei creditori), «sancendone la centralità assoluta nel nuovo assetto degli organi» (così Fontana, 18). In sintesi, può dirsi che, nell'originaria formulazione dell'art. 104-ter, l'approvazione del programma era demandata al giudice delegato, previa acquisizione del parere favorevole del comitato dei creditori: in questo schema, il parere favorevole del comitato dei creditori si poneva come condizione necessaria per l'approvazione da parte del giudice, mentre rimanevano seri dubbi sui limiti del sindacato da parte dell'organo giudiziario. Aggiungeva, poi, il quarto comma dell'art. 104-ter che l'approvazione del programma di liquidazione «tiene luogo delle singole autorizzazioni eventualmente necessarie ai sensi della legge per l'adozione di atti o l'effettuazione di operazioni incluse nel programma», per cui la esecuzione dello stesso era sottratta a qualsiasi controllo. Il decreto correttivo ha sostituito l'approvazione del giudice delegato con quella del comitato dei creditori, senza più richiedere alcuna partecipazione del giudice nel procedimento formativo dello stesso. Come precisa il nuovo ultimo comma, il programma approvato va soltanto comunicato al giudice, il quale autorizza l'esecuzione degli atti ad esso conformi. Il programma, cioè, una volta approvato dal comitato dei creditori, non tiene più luogo delle singole autorizzazioni eventualmente necessarie per l'attuazione, essendo stata abrogata la seconda parte del quarto comma che conteneva questa disposizione, sostituita con il nuovo ultimo comma, che introduce un controllo successivo del giudice nella fase attuativa, avendo attribuito a questo organo il potere di autorizzare l'esecuzione degli atti ad esso conformi (Bozza, 1057 ss.). Con questo intervento è stata eliminata la semplificazione che il legislatore della riforma del 2006 aveva introdotto con la eliminazione di controlli sulla fase di attuazione del programma, che trovava il suo contrappeso nella partecipazione alla fase di formazione e approvazione dello stesso da parte del comitato dei creditori e del giudice delegato. Ed invero, essendo l'approvazione del programma frutto della partecipazione di tali organi, diventava superflua qualsiasi successiva ulteriore verifica che la legge prevedeva attraverso formule autorizzative articolate in vario modo, dato che l'approvazione del programma assumeva un effetto vincolante, nel senso che il curatore aveva l'obbligo, sancito espressamente dall'art. 38, di adempiere «ai doveri del proprio ufficio, imposti dalla legge o derivanti dal piano di liquidazione approvato... ». In realtà, deve aggiungersi che era proprio la mancanza di qualsiasi controllo sulla fase di attuazione del piano che spiegava il motivo per cui il legislatore delegato, modificando sul punto la dizione della legge delega n. 80/2005 (che, all'art. 1, comma 6, faceva menzione dell'autorizzazione da parte del giudice delegato) aveva sostituito nel d. lgs. n. 5/2006 il termine «autorizzazione» con quello di «approvazione» da parte di questi, attribuendo, così, al giudice «un forte potere di condivisione, ulteriore rispetto a quello generale di controllo sulla regolarità della procedura, che importava una valutazione di opportunità e di convenienza, non solo di mera legittimità formale e sostanziale». Ebbene, l'approvazione del piano — esautorato il giudice dalla gestione, dalla successiva liquidazione e dal riparto — diventava in tal modo il momento principale ed unico in cui egli poteva estrinsecare in modo concreto e penetrante i suoi poteri di vigilanza sull'operato del curatore. Peraltro, va segnalato, nel precedente regime normativo, anche un rilevate tasso di contraddizione nella costruzione operativa del sistema di controllo e di approvazione del programma, atteso che, da una parte, si chiedeva l'autorizzazione del giudice per determinati atti, che dovevano comunque essere inclusi nel programma e che, dall'altra, si diceva che, approvato il programma, non era necessaria altra ulteriore autorizzazione, con la conseguenza che quelle autonomamente richieste erano necessarie soltanto nella ipotesi in cui l'atto da autorizzare fosse compiuto prima dell'approvazione del programma (Vd. Bozza, op. loc. cit.). Segue. Il controlloSul punto, il legislatore del «correttivo» (v. D'Attorre-Sandulli, 622) — probabilmente preoccupato della prevalenza che l'indirizzo favorevole alla espansione dei poteri del giudice stava prendendo piede in contrasto (Bozza, op. loc. cit) con la previsione contenuta nella Relazione accompagnatoria — in cui si parlava di vincolatività del parere favorevole del comitato dei creditori, per cui l'approvazione del giudice delegato diventava un atto dovuto — (tesi che, peraltro, trovava suffragio anche nel fatto che soltanto l'organo rappresentativo dei creditori poteva «proporre al curatore modifiche al programma presentato» ex art. 104-ter, comma 4, prima parte), ha cercato di ridimensionare tali poteri nella fase centrale dell'approvazione del programma. Tuttavia, operando in tal modo, il legislatore ha dovuto necessariamente reintrodurre un controllo sulla esecuzione del programma, non essendo plausibile che l'organo giudiziario, al quale è comunque rimasto un potere di vigilanza sulla regolarità della procedura, fosse completamente esautorato da ogni verifica sull'operato del curatore. Sul punto, va ricordato che – nonostante la nuova formulazione della norma – è stato affermato (Fontana, 246) che il giudice non ha perduto il potere posseduto nel precedente regime normativo o, comunque, che ha mantenuto, quanto meno, un controllo di legalità sul programma. In un'ottica interpretativa-sistematica delle norme applicabili all'istituto in esame, e a fronte del potere di vigilanza che gli artt. 25 e 31 gli attribuiscono, il giudice – già nel momento in cui riceve il programma approvato dal comitato dei creditori – può (ma sarebbe meglio, a questo punto, dire deve) effettuare un controllo per stabilire se il programma sia stato redatto secondo i criteri di legge (se, cioè, sia stato presentato nel termine, se preveda le procedure di competitività, ecc.), e soddisfi quei requisiti di analiticità e completezza che la legge impone. Tuttavia autorevole dottrina ha precisato, verbatim, che «Il fatto che il legislatore abbia eliminato la disposizione che attribuiva il potere di approvazione del programma al giudice delegato, trasferendolo al comitato dei creditori e sostituendo il precedente potere dell'organo giudiziario con altro di autorizzazione dei singoli atti conformi al programma, ed abbia disposto che il programma va comunicato al giudice delegato soltanto dopo l'approvazione del comitato dei creditori, sono, a mio parere, sintomi inequivoci dell'intento di rimettere esclusivamente ai creditori le scelte operative di indirizzo della liquidazione (nel nuovo testo dell'art. 104-ter è precisato che «il programma costituisce l'atto di pianificazione e di indirizzo in ordine alle modalità e ai termini previsti per la realizzazione dell'attivo») demandando al loro organo rappresentativo l'approvazione del programma e di togliere al giudice ogni forma di controllo sullo stesso» (Bozza, 1060). Effettivamente, non sembra reggere la tesi secondo cui il legislatore del correttivo abbia voluto abrogare soltanto la possibilità di una valutazione nel merito, cui si richiamava l'approvazione, ma senza escludere un controllo di legalità, implicito nel potere di vigilanza consentita in via generale, perché qualsiasi forma di controllo sul programma è incompatibile con la previsione dell'art. 104-ter, ultimo comma, per il quale il programma va «comunicato» al giudice, non prima, ma dopo l'approvazione e questa comunicazione deve essere posta in stretta relazione con la possibilità di autorizzare gli atti ad esso conformi (Bozza, op. loc. cit.). Ne discende che, quand'anche al giudice delegato fosse attribuito tale vaglio di legalità al momento della comunicazione, le eventuali carenze riscontrate dal g.d.non potrebbero incidere sulla operatività del programma, dal momento che questo è stato già approvato dall'organo cui questo compito è demandato. Detto altrimenti, il giudice delegato non potrebbe in nessun modo intervenire sul programma comunicatogli dopo essere stato approvato dal comitato dei creditori per «disapprovarlo», ma potrebbe soltanto — e in questo si estrinseca il potere di vigilanza in mancanza di specifiche disposizioni che consentano al giudice una decisione che si rifletta oggettivamente sull'atto, come ad esempio disapplicare o non autorizzare — dare inizio al procedimento di revoca del curatore, così come nell'altra diversa ipotesi già sopra esaminata di ritardo nella presentazione del programma Appare tuttavia arduo, in subiecta materia, tracciare la linea di demarcazione tra controlli di legittimità (ammissibili) e controlli di merito (non ammissibili). Basti pensare alla congruità della previsione sulle procedure competitive, alla adeguatezza della motivazione per preferire una vendita particellizzata a quella unitaria dell'azienda o di un ramo di essa; alla ragionevolezza dei tempi e modi della liquidazione, e così via (Bozza, op. loc. cit.). Va aggiunto che — anche a voler richiamare, in tale ambito operativo, il potere di convocazione del curatore di cui all'art. 25, comma 1, n. 3), l.fall., la cui applicazione viene invocata da taluni come elemento di conferma della possibilità per i1 giudice di intervenire in qualsiasi momento sulla regolarità della procedura – nella fattispecie in esame tale potere risulta un'arma spuntata, giacché, come detto, il programma di liquidazione perviene al giudice solo dopo la sua approvazione, per cui questi neanche indirettamente – attraverso la prospettazione delle proprie critiche e della possibilità di revoca – potrebbe interferire sul contenuto del programma e sulla sua concreta approvazione. È indubitabile che il legislatore del correttivo abbia voluto precludere al giudice qualsiasi potere di interferenza nel procedimento di approvazione del programma, sicché il potere di generale vigilanza che la legge gli attribuisce si può estrinsecare soltanto sulla permanenza o revoca del curatore, ma non può incidere in ordine all'atto programmatico, tanto ciò è vero che nessuna conseguenza ha previsto, sotto il profilo oggettivo, per l'eventuale riscontro di mancanza di legalità dell'atto in questione, dovendosi ritenere che l'unica sanzione che il giudice può comminare è non autorizzare un atto in esecuzione del programma già approvato (Bozza, op. loc. cit.). Anche tale previsione conferma, se ancora dovesse essere necessario, la tesi qui perorata, atteso che il successivo e mero controllo di legalità previsto dall'ultimo comma dell'art. 104-ter l.fall. esclude, per definizione, il mantenimento in capo al g.d.di un potere di verifica preventivo e di merito sul contenuto del documento programmatico. L'unica possibilità normativamente prevista in cui il giudice può recuperare un potere di partecipazione alla formazione del programma risiede nella fattispecie di cui al quarto comma dell'art. 41 che, nella attuale formulazione, prevede che, in caso di inerzia del comitato dei creditori, di impossibilità di costituzione per insufficienza di numero o indisponibilità dei creditori, o di funzionamento del comitato o di urgenza, provvede il giudice delegato, dovendosi ritenere che la predetta norma trovi applicazione anche nella fattispecie in esame, con la conseguenza che, solo in tale limitato caso il giudice potrà, in mancanza di operatività del comitato dei creditori, provvedere all'approvazione del programma. Va anche aggiunto che tuttavia l'art. 41 l.fall. esplicitamente prevede, al primo comma, che le deliberazioni adottate dal comitato dei creditori debbano essere succintamente motivate, requisito strutturale indispensabile ai fini della loro eventuale impugnazione ai sensi dell'art. 36 l.fall.. Invero, la motivazione del parere ovvero della deliberazione consente il controllo sul corretto esercizio della scelta e la scelta impedisce di ritenere validamente formata la deliberazione adottata dal comitato(così Trib. Milano, 13 ottobre 2008). Ne consegue che il potere surrogatorio del g.d. dovrebbe attivarsi anche nella ipotesi in cui la deliberazione di approvazione del documento programmatorio da parte del comitato dei creditori sia strutturalmente inidonea a tale funzione per assoluta carenza di motivazione. In tal caso, la deliberazione, in mancanza del necessario elemento strutturale motivatorio, è tamquam non esset e dunque dovrebbe ritenersi necessario l'intervento del g.d. per l'approvazione del programma. Va precisato che il potere surrogatorio del giudice sopra indicato si estrinseca in un provvedimento che — anche se emesso in sostituzione di un organo amministrativo e avente natura non giurisdizionale — rimane un atto del giudice, come tale impugnabile ai sensi dell'art. 26 (e ciò anche sotto il profilo del merito del provvedimento impugnato) e non dell'art. 36, come nel caso in cui il rifiuto provenga da un comitato dei creditori perfettamente operante (Bozza, op. loc. cit.). È innegabile come, al di fuori di questi poteri surrogatori, il giudice delegato abbia subito una ulteriore emarginazione e che questa si ponga effettivamente in contrasto con la legge delega, che richiedeva che il curatore predisponesse «un programma di liquidazione da sottoporre, previa approvazione del comitato dei creditori, all'autorizzazione del giudice delegato». Ebbene, va detto che, al di là delle differenze concettuali tra approvazione e autorizzazione, è chiaro che il legislatore delegante voleva che il programma, approvato dal comitato dei creditori (ossia, ottenuto il parere favorevole di tale organo) fosse sottoposto al controllo del giudice delegato che avrebbe, da ultimo, dovuto esercitare, quanto meno, un controllo di legalità teso a rimuovere il limite all'esercizio del diritto e del dovere del curatore di procedere alla liquidazione, che è il meccanismo in cui si sostanzia, in realtà, l'autorizzazione. Ma stante la chiara lettera della norma in esame non è possibile consentire una interpretazione, anche costituzionalmente orientata, che consenta al giudice di esercitare un controllo di merito sul programma, atteso che il nuovo dettato normativo non presenta margini di dubbio tali da permettere una tale interpretazione che giustifichi il recupero del testo della legge delega. Segue. Il comitato dei creditori, il curatore ed il giudice delegatoVenendo ora all'esame della normativa positiva e alla sua concreta applicazione pratica, va detto che, alla presentazione (rectius: sottoposizione) del programma al comitato dei creditori, può seguire tanto la piena approvazione da parte di quest'ultimo, quanto la proposta al curatore di modifiche allo stesso. In questa dialettica che viene ad instaurarsi tra il curatore ed il comitato dei creditori, nel caso in cui il primo non intenda conformarsi, non condividendole, alle richieste del comitato dei creditori, è stato anche detto che l'unica possibilità per far prevalere la propria linea rimane quella di proporre reclamo ex art. 36 l.fall., il quale, ad ogni modo, presuppone una violazione di legge ed è, pertanto, destinato a rivelarsi strumento di applicazione limitata (in questo senso, Ambrosini, 634; e Fontana, 18). Un simile vizio, nondimeno, potrebbe ravvisarsi laddove il comitato dei creditori adducesse, per il diniego dell'approvazione, motivazioni contrarie alla legge, come nel caso in cui, contrariamente a quanto indicato dal programma, fosse preteso il compimento di un atto di liquidazione senza ricorrere a procedure competitive o, comunque, senza adeguata pubblicità, o anche laddove l'opposizione all'esercizio di determinate azioni fosse finalizzata a proteggere i soggetti da convenire in giudizio, in contrasto con l'obiettivo del perseguimento del massimo soddisfacimento dei creditori: così, Ambrosini, 635; Fontana, 240 ss. Con riferimento alla situazione di potenziale conflitto di interessi in cui potrebbero trovarsi alcuni membri del comitato dei creditori, e che potrebbe sussistere, ad esempio, nell'ultima delle ipotesi configurate, D'Aquino, 195, rileva che «il giudice delegato potrebbe procedere alla sostituzione del membro potenzialmente in conflitto di interessi, allo scopo di non invalidare la deliberazione relativa all'approvazione del programma di liquidazione, laddove si tratti di voto determinante all'esito della prova di resistenza». Va aggiunto che se, al contrario, il parere negativo del comitato dei creditori non si dovesse tradurre in una violazione di legge, non sembra potersi configurare per il curatore la possibilità di opporsi alla volontà del comitato dei creditori, in modo tale che il primo dovrà adeguarsi alle volontà di quest'ultimo. Al riguardo, peraltro, autorevole dottrina ha affermato che l'eventuale insanabilità di contrasto nel merito tra i suddetti organi «non potrà essere risolta che con la sostituzione del curatore, eventualmente su proposta dell'adunanza dei creditori in sede di verifica» (Panzani, 2009, , 1159). Di diversa natura rispetto a quella or ora esposta sarebbe la situazione di impasse che dovesse crearsi in caso di inerzia del comitato dei creditori e di sua mancanza di collaborazione con la curatela. Sul punto, è stato ritenuto, come già sopra rilevato, che al procedimento di approvazione del programma sia applicabile l'art. 41, comma 3, l.fall., con la conseguenza che il comitato dei creditori dovrà esprimersi nel termine di quindici giorni e che, nonostante il carattere ordinatorio di quest'ultimo, l'approvazione del programma, in caso di persistente ed ingiustificata inerzia del comitato, debba essere demandata al giudice delegato (cfr. Stanghellini, 387; Fontana, 18; e Ambrosini, 634). Trattandosi, peraltro, di un atto giudiziale, l'approvazione del giudice delegato è soggetta al reclamo ex art. 26 l.fall.. In conclusione, può dirsi che, secondo una prima ricostruzione, la cui preoccupazione è quella di porre in risalto, da parte del legislatore del correttivo, la questione «della prevalenza che l'indirizzo favorevole alla espansione dei poteri del giudice stava prendendo – in contrasto alla previsione contenuta nella Relazione accompagnatoria, in cui si parlava di vincolatività del parere favorevole del comitato dei creditori» (Bozza, 1057), il giudice delegato dovrebbe limitarsi ad emettere una mera autorizzazione amministrativa, una volta verificate le condizioni di rispondenza astratta dell'attività liquidativa a quella prevista nel programma: in questo senso Abete, 1006, il quale osserva comunque che tale soluzione rende lo strumento prescelto dal legislatore una complicazione burocratica nella gestione del fallimento e dei rapporti tra gli organi. Sul tema si veda anche Bozza, 1059 ss., secondo cui quanto ritenuto dalla dottrina maggioritaria, ossia che il controllo di conformità si estrinsechi in un controllo di legittimità, non può essere condiviso per un duplice ordine di motivi. Infatti, il potere di vigilanza sulla regolarità della procedura deve essere circoscritto nei limiti che di volta in volta la legge attribuisce a tale organo, sia perché la linea seguita dal legislatore in altre fattispecie depone in tal senso (l'A. richiama, a sostegno di questa tesi, la nuova disciplina del procedimento per la ripartizione dell'attivo, di cui all'art. 110 l.fall., come rinnovellato a seguito del decreto correttivo, e che non consentirebbe al giudice delegato di apportare alcuna forma di correzione al progetto, neanche di diritto, al fine di correggere eventuali errori giuridici), sia perché ciò rappresenta l'unico modo per armonizzare questo nuovo intervento del giudice con la restante normativa fallimentare (basti pensare, al riguardo, al disposto di cui all'art. 35 l.fall. — il quale sottrae a qualsiasi previa autorizzazione del giudice gli atti di «straordinaria amministrazione», salvo quelli di determinata natura e valore, per i quali è necessaria la informazione preventiva al giudice delegato e salvo che gli stessi siano già stati autorizzati ai sensi dell'art. 104-ter, comma 8, l.fall. – e all'inconciliabilità di tale disposizione con quella dell'art. 104-ter laddove si ritenesse che quest'ultima intenda consentire al giudice delegato un controllo di legalità su un atto di straordinaria amministrazione). Secondo l'A., dunque, «deficienze del programma possono sì determinare la non autorizzazione dei singoli atti, ma ciò non è frutto di un controllo di legalità sull'atto o sul programma, bensì della impossibilità per il giudice di potere verificare che l'atto di cui viene chiesta l'autorizzazione sia previsto ne programma. È chiaro, infatti, che, poiché la valutazione di conformità al programma ne richiede uno che consenta di effettuare tale verifica, il giudice può rifiutare l'autorizzazione, non solo nel caso in cui l'atto da autorizzare non sia incluso nel piano, ma anche se questo non consenta, per la sua genericità o incompletezza, di esercitare il raffronto da cui dovrebbe scaturire l'autorizzazione». Secondo una tesi diametralmente opposta, al giudice delegato sarebbe rimesso, in forte continuità con quanto previsto dalla disciplina del 1942, un giudizio di merito sui singoli atti liquidativi, potendo egli sindacarne sempre l'opportunità e la convenienza, e gli sarebbe attribuito, così, lo stesso ruolo che gli è attribuito dagli artt. 104 e 104-bis, l.fall. nell'ambito dell'esercizio provvisorio e dell'affitto di azienda: in argomento, si v. Esposito, Il programma di liquidazione nel decreto correttivo, 2007, 1078 ss., il quale definisce «controllo di legalità (del giudice delegato) attraverso l'esame del merito degli atti che autorizza». Tale ultima conclusione trova, però, scarso seguito in dottrina, atteso che, per un verso, la teorica in esame si evidenzia per la sostanziale incoerenza con la nuova sistematica ordinamentale che esclude l'attribuzione di un sindacato di merito al giudice delegato e, per altro verso, l'argomento utilizzato dalla tesi qui criticata si fonda sul disposto di cui art. 108, comma 1, l.fall. (norma secondo cui l'organo giurisdizionale può sospendere le operazioni di vendita, oltre che per gravi e giustificati motivi, anche quando il prezzo risulti notevolmente inferiore a quello giusto), dalla cui applicazione si vorrebbe far discendere la sussistenza del potere del giudice delegato di estendere il giudizio nel merito delle scelte liquidatorie formulate dal curatore. Tale ultima opinione non sembra tenere in adeguata considerazione il fatto che proprio la valutazione cui l'art. 108 l.fall. fa riferimento non può essere effettuata d'ufficio, postulando l'istanza del fallito, del comitato dei creditori o di altri interessati, di guisa che «se il giudice delegato non ha la possibilità di effettuare un controllo di merito sulle scelte gestorie del curatore (salva la sede contenziosa), non è coerente attribuirgli in via preventiva un controllo di merito e d'ufficio» (così, anche D'Aquino, 201, il quale osserva altresì che tale ingerenza potrebbe produrre anche conflitti insanabili tra gli organi per ciascun atto liquidatorio, con conseguenze paralizzanti per la procedura). Vi è anche una tesi intermedia, sostenuta dalla dottrina prevalente e sicuramente più apprezzabile, secondo cui il controllo del giudice delegato si sostanzia in una valutazione di legittimità che si manifesta, in primo luogo, nella verifica della conformità dell'atto esecutivo alle previsioni del programma, senza arrestarsi ad una mera comparazione tra piano approvato ed atto del curatore o ad una certificazione che l'atto liquidatorio sia stato contemplato nel programma ovvero al diniego dell'autorizzazione in caso di mancata previsione (così ancora D'Aquino, 197; Fontana, 244; Vitiello, 970 ss.; Ambrosini, 620 ss.), bensì volta a verificare la conformità alla legge del programma che il curatore provvede di volta in volta ad attuare, nonché «la congruenza del procedimento che ha condotto il curatore ad assumere determinate scelte liquidatorie piuttosto che altre» (Ambrosini, 620), di guisa che, «anche la palese violazione della regola di buona amministrazione», nel caso in cui l'atto appaia ab origine contrario all'interesse al quale dovrebbe essere finalizzato, può assumere rilievo sotto il profilo dell'illegittimità (Fontana, 245 ss., che si riferisce in primo luogo all'interesse dei creditori. Si veda anche D'Aquino, 199 ss., il quale parla di un controllo di «legittimità sostanziale»; Esposito, Il programma di liquidazione nel decreto correttivo, 108, il quale richiama il principio della business judgement rule quale parametro sul quale debba essere basato il sindacato del giudice delegato). Da ultimo, va segnalato che «riguardo alle modalità di redazione e all'iter di formazione del programma di liquidazione nelle procedure fallimentari aperte dopo il 1° gennaio 2008», viene espresso un orientamento diverso, rispetto a quello da ultimo prospettato, per quanto concerne i poteri del giudice delegato (la circolare del Trib. Milano, sez. fallimentare, del 21 ottobre 2008 – richiamata da Panzani, Programma di liquidazione, 2009, 1145; da Baessato, 628 ss.; e da Vitiello, 969). Più in particolare, va precisato che, partendo dalla individuazione di tre diversi livelli in base ai quali debba essere espletato il controllo di legittimità sul programma di liquidazione da parte del giudice delegato, si afferma, in buona sostanza, l'opportunità che tale controllo venga effettuato prima della sua trasmissione al comitato dei creditori per l'approvazione, con la facoltà, quindi, per il giudice delegato, di rivolgere al curatore una espressa richiesta in tal senso (Il giudice delegato, in particolare, dovrà verificare: che il piano di liquidazione sia un piano programmatico completo ed analitico, e preferibilmente flessibile; che lo stesso non contenga clausole illegittime; che per gli atti per i quali specifiche norme di legge prevedono l'autorizzazione del giudice delegato venga mantenuto un potere direttivo residuale in capo al giudice delegato, implicante un apprezzamento anche in termini di convenienza e di opportunità). Sul punto, va tuttavia osservato che le scelte operative perorate, pur risultando apprezzabili in quanto indirizzate ad evitare situazioni di impasse ove il programma, una volta approvato dal comitato, si areni definitivamente al momento della richiesta dell'autorizzazione dei singoli atti di esecuzione, suscitano più di una perplessità in ordine alla delimitazione della circoscrizione di esercizio del potere di controllo di legittimità demandato al giudice delegato, e postulano una riappropriazione, da parte del giudice delegato, di spazi di controllo ad esso orami sottratti (Panzani, 2009, 1146). ll decreto con il quale il giudice delegato abbia respinto il reclamo diretto ad ottenere la revoca dell’autorizzazione all’esecuzione degli atti conformi al programma di liquidazione approvato dal comitato dei creditori è privo dei caratteri di decisorietà e definitività e pertanto non può essere impugnato mediante il ricorso straordinario ex art. 111, comma 7, Cost. (Cass. I , ord. n. 1902/2018). Il giudice delegato e il controlloEsclusa, pertanto, ogni partecipazione del giudice delegato, nel senso sopra chiarito, all'approvazione del programma, il decreto correttivo consente, oggi, allo stesso di autorizzare gli atti conformi al programma, spostando così il controllo giudiziario, eliminato dal procedimento di formazione del programma, al momento successivo della esecuzione ed assoggettando il compimento delle singole attività inserite nel documento programmatorio all'autorizzazione del giudice tramite il controllo di conformità. Si è così riaperto, sotto altri aspetti, il dibattito già sorto nella precedente formulazione normativa, circa i limiti del potere autorizzativo del giudice. Sul punto, va precisato che la dottrina – che si è occupata dell'argomento dopo le modifiche apportate dal decreto correttivo all'art. 104-ter – ritiene in modo unanime, seppur con significative sfumature, che il controllo di conformità si estrinsechi in un controllo di legittimità, che non si esaurisce, tuttavia, nella verifica della rispondenza del singolo atto liquidatorio alle previsioni del documento programmatico, ma che investe anche la conformità dell'atto alla legge. È stato, pertanto, detto che il giudice esercita un «controllo di legalità attraverso l'esame del merito degli atti che autorizza» (l'espressione è di Esposito, Il programma di liquidazione nel decreto correttivo, 2007, 1078), nel senso non che egli può sindacare nel merito le scelte del curatore e non ha neanche il mero compito di certificazione che il singolo atto sottoposto alla sua autorizzazione sia conforme a quanto programmato dal curatore e approvato dal comitato dei creditori. Attraverso questo controllo di conformità dell'atto al programma, il giudice può effettuare una valutazione di conformità dell'atto e dello stesso programma alla legge, rifiutando la sua autorizzazione nella ipotesi in cui l'atto, pur previsto nel programma approvato, non sia conforme alla legge ovvero non sia conforme a quest'ultima il programma stesso. In realtà, le modifiche introdotte dal decreto correttivo sull'iter di approva zione del programma hanno ridisegnato il ruolo ed i poteri spettanti agli organi della procedura, oltre che gli effetti conseguenti. È evidente che l'esclusione del g.d. dal procedimento approvativo è coerente con l'abrogazione della seconda parte del quarto comma che prevedeva la sostituzione dell'approvazione giurisdizionale del programma alle ulteriori autorizzazioni necessarie ai singoli atti e la conseguente introduzione della disposizione di cui al nuovo comma 8, che sancisce il controllo del giudice nella fase attuativa attraverso l'autorizzazione all'esecuzione degli atti conformi al programma di liquidazione. Al riguardo, va detto che una prima forma di controllo da effettuarsi, una volta depositato il programma approvato dal comitato dei creditori presso la cancelleria fallimentare, riguarda la verifica di legittimità formale circa la sussistenza nel programma dei requisiti base dettati dalla legge, come il rispetto del termine per la sua predisposizione, il rispetto del principio di analiticità e completezza, la conformità dell'attività liquidativa programmata alle procedure competitive e alla pubblicità di cui all'art. 107 l.fall. (Campochiaro-Vitiello, 87; Fontana, op. loc. cit.). Si tratta in realtà di una esplicazione della funzione di vigilanza attribuita al g.d. in via generale dagli artt. 25 e 31 l.fall. Orbene, vi è chi ritiene che questo tipo di controllo finisca per investire, come sopra detto, anche il merito delle scelte compiute dal curatore (Esposito, Il programma di liquidazione: profili applicativi, 2007, 1080; contra, Trib. Roma (decr.) 28 aprile 2009, in cui viene escluso ogni giudizio da parte del g.d. relativo al merito, essendo ammessi solo la verifica di legittimità formale ed il controllo di conformità dei singoli atti da attuarsi a quelli previsti nel programma di liquidazione). Secondo altri, invece, pur esercitandosi un controllo attraverso l'esame del merito, la valutazione complessiva non riguarderebbe «il merito in quanto tale». Sempre in questo ultimo filone interpretativo si colloca quella dottrina che afferma l'ammissibilità di un controllo esteso al merito solo per quegli atti che necessitano di una autorizzazione del g.d., come nelle ipotesi di azioni giurisdizionali, esercizio provvisorio ed affitto di azienda (Fontana, 246). Un secondo tipo di verifica consiste nel controllo di conformità esplicitamente previsto dall'articolo 104-ter, inteso nel duplice profilo di controllo circa l'astratta previsione dell'atto nel programma (è il cd. controllo di denotazione) e la specifica rispondenza di tutti gli elementi dell'atto liquidatorio a quelli illustrati nel programma (è il cd controllo di dettaglio) (Paluchowski, 969). È stata poi individuata anche un'ulteriore verifica incentrata in particolare sulla compatibilità con i mezzi prescelti e gli scopi prefissati (è il cd controllo di correlazione) (Ferri, 412). Va perciò sottolineato come, secondo il prevalente filone dottrinale, l'autorizzazione del g.d.all'esecuzione degli atti sancita dall'art. 104-ter implicherebbe, in buona sostanza, anche un controllo di legittimità dei singoli atti e del programma nel suo complesso. Tuttavia, autorevole dottrina ha espressamente affermato, in ordine a quest'ultimo orientamento, che «Seppur è da ammettere che questo sforzo ricostruttivo recupera, quand'anche in parte, la conformità della norma alla legge delega, in quanto l'esplicazione del controllo giudiziale sui singoli atti esecutivi consentirebbe in qualche modo un controllo anche sui contenuti strategici e programmatici del programma stesso, tuttavia, a mio parere, la disciplina normativa attuale non sembra orientare verso tale lettura» (Bozza, op. loc. cit.). È pertanto da rifuggire l'orientamento dottrinale di cui sopra, in primo luogo, per ragioni interpretative di carattere letterale: sebbene il concetto di autorizzazione implichi un controllo di legalità al fine di rimuovere un limite all'esercizio di un diritto o di un potere già attribuito dalla legge ad un soggetto, nell'ultimo comma dell'art. 104-ter l.fall. l'oggetto dell'autorizzazione non è il programma, bensì sono i singoli atti esecutivi programmati e la verifica dei parametri cui l'autorizzante deve nella specie ispirarsi per rimuovere l'ostacolo è chiaramente indicata nella conformità del singolo atto al programma di liquidazione approvato dal comitato dei creditori. Se il legislatore avesse inteso estendere il controllo del giudice alla legalità del programma, avrebbe potuto dirlo espressamente o, quanto meno, richiedere soltanto l'autorizzazione per i singoli atti esecutivi, senza altra precisazione, così legittimando una diversa interpretazione comprensiva anche del vaglio di legittimità esteso fino alla conformità alla legge del programma approvato. Come dire che il legislatore avrebbe dovuto specificare che la conformità deve essere esaminata con riferimento proprio al programma, escludendo evidentemente altri parametri di valutazione. È stato pertanto affermato che nel sesto comma dell'art. 104-ter l.fall. il legislatore, nel prevedere la possibilità di procedere alla liquidazione di beni prima dell'approvazione del programma — allorquando dal ritardo possa derivare pregiudizio all'interesse dei creditori — richiede l'autorizzazione del giudice, senza altra specificazione, perché qui, mancando ogni preventiva valutazione del comitato dei creditori che non ha ancora approvato il piano, è attribuita all'organo giudiziario la possibilità di verificare se l'atto sia altresì conforme alla legge, verifica che al contrario presuppone già esistente quando l'approvazione da parte del comitato dei creditori sia già intervenuta (Bozza, op. loc. cit.). Segue. Il giudice delegato e il controlloPeraltro, è stato anche osservato che, in realtà, nella stesura originaria dell'art. 104-ter era previsto che il piano fosse approvato dal giudice delegato e che ora, invece, tale potere è passato al comitato dei creditori, attribuendo solo un residuo potere di autorizzazione giudiziale dei singoli atti, previo controllo di conformità degli stessi al programma. Ne discendono la scissione in due fasi, quella programmatica e quella esecutiva, e la divisione dei compiti tra i vari organi: il comitato dei creditori approva il programma facendo le sue valutazioni discrezionali di merito, nonché quelle di legalità conseguenti e stabilendo, al contempo, il giudice delegato controlla il curatore perché non ponga in esecuzione atti non previsti nel programma approvato (Bozza, op. loc. cit.). Attribuire al giudice il potere di non autorizzare un atto se esso, pur previsto nel programma, non sia conforme alla legge significa consentirgli quel controllo sulla regolarità della formazione del programma, se non addirittura sulle scelte in esso contenute, che il legislatore del correttivo ha, come già sopra detto, chiaramente escluso. In realtà, è stato altresì puntualizzato che le deficienze del programma possono sì determinare la non autorizzazione dei singoli atti, ma ciò non è la risultante di un controllo di legalità sull'atto o sul programma, bensì della impossibilità per il giudice di potere verificare che l'atto di cui viene chiesta l'autorizzazione sia previsto effettivamente nel programma (Bozza, op. loc. cit.). Si conclude, pertanto, nel senso che, poiché la valutazione di conformità al programma ne richiede uno che consenta di effettuare tale verifica, il giudice può rifiutare l'autorizzazione, non solo nel caso in cui l'atto da autorizzare non sia incluso nel piano, ma anche se questo non consenta, per la sua genericità o incompletezza, di esercitare quel raffronto da cui dovrebbe scaturire l'autorizzazione. È, tuttavia, da ritenere più appagante la conclusione cui è giunta la tesi maggioritaria, atteso che appare difficilmente discutibile che, essendo stato attribuito dagli artt. 25 e 31 al giudice delegato un potere di vigilanza e di controllo sulla regolarità della procedura, tale potere non possa esplicarsi anche al momento dell'autorizzazione, quando l'atto sia ritenuto illegittimo ovvero il programma approvato non conforme alla legge. Sul punto, va precisato che il potere di vigilanza del giudice delegato, oltre ad essere dal primo comma dell'art. 25 l.fall. attribuito in linea generale, con riguardo all'intera procedura, in vista della esigenza di accertare costantemente il regolare svolgersi, anche, come detto sopra, dall'art. 31, comma 1, in confronto con specifico riguardo all'attività di amministrazione del patrimonio. Invero, l'esercizio in via generale della funzione di vigilanza importa la verifica e la valutazione dell'attività gestoria, e dunque anche dell'attività gestoria per eccellenza che si concretizza nella programmazione delle attività liquidative del patrimonio fallimentare latamente inteso, e ciò tramite le relazioni del curatore, nonché attraverso la convocazione dello stesso curatore, oltre che del comitato dei creditori. Deve pertanto concludersi per il mantenimento, anche nel nuovo regime normativo nato dalla riforma dettata dal decreto correttivo, in capo al giudice delegato di un ampio e generalizzato potere di controllo sull'attività del curatore, sebbene limitato al solo profilo di legittimità degli atti gestori posti in essere dal curatore sul patrimonio del fallito (mentre il controllo di merito spetta, invero, al comitato dei creditori). Tale generalizzato potere genera un attento scrutinio giudiziale officioso, e non dunque attivabile attraverso lo strumento impugnatorio previsto dall'art. 36 l.fall., anche sul programma di liquidazione già approvato, e ciò al momento dell'autorizzazione dei singoli atti esecutivi del programma stesso attraverso la verifica di legalità dell'atto da eseguirsi ovvero del programma stesso, non potendosi ipotizzare che il giudice delegato conceda il suo imprimatur ad un atto palesemente illegittimo tramite l'autorizzazione alla sua attuazione, benché conforme ad un programma di liquidazione le cui clausole potrebbero essere, anche se approvate dal comitato dei creditori, anch'esse palesemente illegittime perché contrarie a norme imperative o comunque non conformi, più in particolare, alle norme dettate dagli artt. 104, 104-bis e 107 in materia di modalità di gestione e di liquidazione del patrimonio fallimentare. Né può ritenersi che tale potestà di verifica e controllo demandata al giudice delegato sia limitata alle ipotesi specifiche regolate dalla legge fallimentare e non abbia quei caratteri di generalità ed officiosità sopra descritti. Se così fosse, non sarebbe spiegabile il chiaro contenuto letterale dell'art. 25, comma 1, ove si enuncia una generalizzata funzione di vigilanza e di controllo sulla regolarità della procedura (e dunque anche sulla procedura di formazione ed approvazione del programma di liquidazione che costituisce momento centrale della procedura fallimentare di liquidazione del patrimonio del fallito), senza alcuna limitazione normativamente indicata a quelle singole ipotesi tipizzate dal legislatore per la descrizione operativa dell'attività di vigilanza concretamente demandata al giudice delegato. Non può, pertanto, ritenersi che il controllo ora demandato al comitato dei creditori in sede di approvazione del programma di liquidazione dall'art. 104-ter l.fall., approvazione quest'ultima avente la funzione di far esercitare al comitato quel potere di verifica nel merito delle scelte gestionali demandata al curatore, esaurisca ed assorba, meglio precluda, ogni ulteriore possibile verifica di legalità, la cui attuazione è invece demandata, in termini generali, al giudice delegato nella sua riacquisita posizione di terzietà con la quale continua ad esercitare, unitamente al tribunale, un'attività continuativa e costante di monitoraggio e di controllo della regolarità formale della procedura ad esso affidata. Sarebbe, peraltro, contrario al principio di economicità delle procedure imporre, da un lato, al giudice delegato l'autorizzazione di un atto non conforme a legge ovvero conforme al programma di liquidazione affetto da un vizio di illegalità per contrarietà a norme imperative ovvero alle norme fallimentari dettate per la liquidazione del patrimonio (si pensi ad una clausola del programma che autorizzi la vendita di un cespite immobiliare senza far ricorso a procedure competitive che garantiscano la massima pubblicità, informazione e partecipazione alla gara di aggiudicazione del bene), e, poi, affidarsi allo strumento impugnatorio di cui agli artt. 26 e 36 l.fall., attivabile su istanza di parte, per la eliminazione di un atto, già approvato dal comitato dei creditori e necessariamente autorizzato dal g.d., senza consentire a quest'ultimo la eliminazione di quel profilo di illegalità della procedura attraverso l'attivazione del suo officioso potere di controllo e verifica ai sensi dei sopra richiamati artt. 25 e 31 l.fall. Peraltro, la sede ove tale controllo – si ripete, non di merito, ma di regolarità formale della procedura di approvazione del programma di liquidazione – deve esplicarsi è quella delineata dall'art. 104-ter, ul. comma, l.fall., ove la mera delimitazione letterale della norma dell'oggetto del controllo alla conformità degli atti da autorizzare alle previsioni del programma di liquidazione non può ritenersi argomentazione dirimente per circoscrivere il potere di controllo giudiziale al solo controllo di conformità sopra descritto. L'accoglimento di tale opzione ermeneutica così limitativa sarebbe irrispettosa di una interpretazione sistematica delle norme dettate complessivamente dalla legge fallimentare per delineare i poteri di intervento dei singoli organi della procedura all'interno del procedimento di gestione e di liquidazione del patrimonio fallimentare. Peraltro, tra gli stessi atti integranti il contenuto del programma di liquidazione possono rintracciarsi diverse ipotesi in cui la legge prevede l'autorizzazione da parte del giudice delegato, attraverso una valutazione sia di merito che di legalità. È questo il caso dell'autorizzazione al curatore per stare in giudizio, riservata al giudice delegato dall'art. 25, comma 1, n. 6; dell'autorizzazione richiesta dall'art. 146 ad esercitare l'azione di responsabilità nei confronti degli organi societari o dei soci di società a responsabilità limitata nei casi di cui all'art. 2476 c.c.; dell'autorizzazione all'esercizio provvisorio, qualora non sia stato disposto dal tribunale con la sentenza di fallimento, o dell'affitto di azienda, che gli artt. 104 e 104 bis attribuiscono al giudice, previo parere favorevole del comitato dei creditori. Già per tutti questi atti, come peraltro per altri, le norme su richiamate consentono al giudice di valutare non solo la conformità alla legge, ma anche l'opportunità delle proposte del curatore, essendo indubbio che i1 giudice possa negare l'autorizzazione a promuovere un'azione che ritenga infondata o ad un affitto di azienda che reputi non conveniente. Ne discende che deve condividersi la tesi secondo cui le autorizzazioni di cui parlano gli artt. 104 e 104-bis si riferiscono alle sole ipotesi di disposizione dell'esercizio provvisorio e di affitto di azienda attuati prima della formazione del programma, di talché, quando dette operazioni, non precedentemente autorizzate, siano incluse nella previsione programmatica, il controllo richiesto al giudice al momento della loro concreta attuazione non potrebbe essere diverso da quello che lo stesso giudice avrebbe potuto effettuare se l'autorizzazione fosse stata domandata prima della formazione del programma (D'Aquino, 192 ss.). Dovendosi pertanto ritenere che l'autorizzazione del g.d. all'esecuzione dei singoli atti previsti nel programma implica necessariamente anche un controllo di legittimità dei singoli atti e del programma nel suo complesso, occorre ammettere anche che, nella ipotesi in cui il g.d. riscontri una omissione ovvero una insuperabile genericità del programma al momento dell'autorizzazione dell'atto singolo esecutivo la soluzione potrebbe essere quella della sollecitazione del curatore alla presentazione di un supplemento del programma (Fontana, 248). Del pari, il g.d. dovrebbe, per quanto sopra detto, negare l'autorizzazione, allorquando, pur riscontrando la previsione dell'atto nel programma, ne rilevi tuttavia la illegittimità (Fontana, 250, con le relative esemplificazioni). Le ipotesi che in concreto possono verificarsi sono innumerevoli. Così: «Se l'atto di liquidazione per cui si chiede l'autorizzazione riguarda una attività che non è stato oggetto di esame e di determinazione nel programma di liquidazione (o perché pervenuta o comunque emersa successivamente o perché all'epoca il curatore non disponeva degli elementi sufficienti per una scelta in ordine alle modalità liquidatorie) il giudice delegato non può concedere l'autorizzazione, ma deve esigere la predisposizione di un supplemento di programma perché, come si è già evidenziato, il comitato dei creditori rimarrebbe altrimenti escluso dal percorso decisionale. Questa ipotesi si verifica ad esempio quando viene acquisito un bene non inventariato oppure quando si profila un'azione giudiziale, come un'azione revocatoria o un'azione risarcitoria, che al momento della redazione del programma il curatore non si era neppure rappresentato o comunque non era stato in grado di realizzare e valutare compiutamente» (Fontana, op. loc. cit.). Analogamente dovrebbe regolarsi il giudice delegato allorquando riceva una richiesta di autorizzazione per la quale, in riferimento all'oggetto della richiesta, la clausola contenuta nel programma di liquidazione già approvato si dimostri del tutto generica e non circostanziata, priva delle specificazioni idonee a delineare la sostanza della scelta liquidatoria. In tal caso, l'avvenuta approvazione di un programma di liquidazione con quelle caratteristiche deve ritenersi ininfluente ed il giudice, prima dell'esame della richiesta di autorizzazione, deve richiedere la integrazione del programma stesso. Così, se viene richiesta l'autorizzazione a compiere un atto di vendita di un bene di consistente valore senza ricorso ad una procedura competitiva, benché l'atto sia conforme a quanto previsto nel programma di liquidazione approvato, il giudice deve rigettare la richiesta, perché l'atto risulterebbe, a rigore, illegittimo, e nel contempo deve convocare gli organi della procedura per prospettare loro la necessità di una correzione del piano. Negli stessi termini deve regolarsi il giudice se le modalità della procedura competitiva, per quanto attiene alle forme pubblicitarie o al tempo tra l'effettuazione delle stesse ed il termine per la presentazione delle offerte, risultano manifestamente incongrue o se la durata dell'affitto dell'azienda, per cui si chiede l'autorizzazione, è manifestamente eccessiva rispetto all'esigenza di celere svolgimento della procedura oppure risulta mancante un'adeguata motivazione in ordine alla utilità della scelta dell'affitto rispetto al fine della più proficua vendita dell'azienda (Fontana, op. loc. cit.). Sul punto, va precisato che i profili di illegittimità rilevabili dal giudice delegato al momento dell'esame della richiesta di autorizzazione dei singoli atti esecutivi del programma di liquidazione possono risultare riferibili sia alle specifiche modalità individuate nell'atto da autorizzare per l'attuazione del programma sia alle scelte già compiute nel programma di liquidazione. Pertanto, nella verifica di legittimità dei singoli atti liquidatori è intrinsecamente connessa anche la verifica di legittimità del programma di liquidazione. La diversa soluzione individuata dalla dottrina minoritaria secondo cui il giudice delegato, in presenza di un atto da autorizzare di cui riscontri la manifesta illegittimità, dovrebbe comunque autorizzare l'atto, salvo poi, nell'esercizio del suo dovere di vigilanza sulla regolarità della procedura, avviare il procedimento di revoca del curatore, risulterebbe, oltre che contraria al principio di coerenza del sistema, lesiva del dell'altrettanto fondamentale principio di efficienza della procedura. Peraltro, va anche detto che l'una soluzione non esclude l'altra, atteso che, in presenza di un documento programmatico già approvato dal comitato dei creditori il cui contenuto preveda clausole attuative della liquidazione del patrimonio fallimentare contrarie alla legge ed in particolare alle disposizioni dettate dalla legge fallimentare in materia, il giudice delegato potrebbe, dopo aver riscontrato la illegittimità dell'atto di cui gli si chiede l'autorizzazione alla attuazione, oltre che rigettare la relativa richiesta avanzata da parte del curatore, attivare, comunque, nella ipotesi di gravità nei comportamenti adottati da quest'ultimo, la procedura ex art. 37 l.fall. per la revoca del curatore stesso. Deve invece escludersi che il g.d. possa negare l'autorizzazione di un atto dettagliatamente previsto nel programma solo per ragioni attinenti al merito dell'atto da autorizzare, merito la cui valutazione in termini di convenienza ed opportunità è ora rimessa al giudizio dei creditori attraverso il suo organo rappresentativo (Mandrioli, 423). Nel caso di compimento di un atto non autorizzato, salva la ratifica successiva, occorre distinguere tra effetti endo ed extra fallimentari. Sotto il primo profilo, l'atto è reclamabile ex art. 36 l.fall. Per quanto concerne il secondo profilo, la fattispecie è invece assimilabile al caso di cui all'art. 1398 cod. civ., per cui l'atto sarebbe inefficace nei confronti dei creditori, ad eccezione delle vendite fallimentari per le quali opererebbe il disposto normativo di cui all'art. 2929 cod. civ., il cui effetto dovrebbe essere esteso anche alle ipotesi di inefficacia (Maffei-Alberti, 627). Il comitato dei creditoriVenendo ora ai poteri demandati al comitato dei creditori nella genesi del programma di liquidazione, è solo il caso di ricordare, ancora una volta, che, a seguito delle modifiche apportate all'art. 104-ter l.fall. con il d.lgs. n. 169/2007, è ora attribuito all'organo in discorso il potere di approvare il programma predisposto dal curatore. Attraverso l'esercizio di questo potere esso concorre a determinare nel merito le scelte fondamentali operate dal curatore per lo svolgimento della liquidazione. L'approvazione del programma da parte del comitato dei creditori costituisce, pertanto, l'atto centrale e più importante del procedimento di formazione del documento programmatico. Lo stesso ruolo svolto dal comitato incide, invero, sulla individuazione del contenuto del programma, dovendo il documento in esame comprendere tutti gli atti di liquidazione con la dovuta specificazione dei profili più significativi in modo tale da porre l'organo collegiale predetto nella condizione di poter esercitare quel potere di controllo del merito della proposta programmatica redatta dal curatore. In ordine alle modalità concrete di svolgimento di questa fase della procedura, deve ritenersi che, in mancanza di una specifica disposizione normativa dettata nel contesto dell'art. 104-ter, occorra applicare l'art. 41, comma 3, l.fall., la cui previsione dispone un termine generale di 15 giorni per la espressione delle deliberazioni del comitato dei creditori. Sul punto, va precisato che si tratta di un termine meramente ordinatorio, tuttavia, in caso di inerzia, deve ritenersi necessaria l'applicazione del quarto comma del predetto art. 41 con l'intervento del potere surrogatorio del g.d. Nonostante la previsione contenuta nel terzo comma dell'art. 41, norma a tenore della quale l'esercizio del diritto di voto da parte dei componenti del comitato dei creditori può essere attuato anche mediante telefax o altro mezzo elettronico o telematico di manifestazione delle deliberazioni (con il solo limite della garanzia della conservazione della prova della manifestazione del voto), sarebbe auspicabile, stante la importanza della deliberazione di approvazione del programma, che la stessa avvenga da parte del comitato — dopo la formale convocazione da parte del presidente del comitato stesso – all'esito di una riunione collegiale con la partecipazione dello stesso curatore, al fine di rendere soddisfatto nel modo migliore quell'obbligo informativo in ordine al contenuto del programma di liquidazione che rappresenta il presupposto operativo indispensabile per una manifestazione di voto consapevolmente formata sul contenuto del documento da parte dei componenti il comitato stesso. Va aggiunto che, oltre all'importante ruolo svolto dal comitato nell'iter di approvazione del programma liquidatorio, il decreto correttivo ha mantenuto immutata la possibilità di «proporre al curatore modifiche al programma presentato» (art. 104 ter, comma 4). Pur non essendo stato riproposto l'inciso della legge delega (pt. 10.5, art. 1, comma 6, lett. a, l. n. 80/2005), che avrebbe consentito di proporre modifiche solo prima dell'approvazione del programma, è stato affermato che questo potere possa essere esercitato solo prima dell'approvazione, salvo la possibilità di correlare le modifiche a sopraggiunti mutamenti delle condizioni e dei presupposti in presenza dei quali era stata concessa l'approvazione. Sul punto, autorevole e condivisibile dottrina rileva, tuttavia, che «La configurazione legislativa del comitato dei creditori sia quella di un organo tecnicamente esperto in grado di incidere in modo attivo sull'operatività del programma, circostanza che spesso non corrisponde alla realtà» (Paluchowski, 966). Segue. Il conflitto di interessi tra curatore e comitato dei creditoriNell'ipotesi in cui il comitato dei creditori richieda delle modifiche non condivise dal curatore, si può creare, a seguito del conseguente diniego dell'approvazione, una situazione di conflitto tra i detti organi della procedura. In questo caso, il curatore può proporre al giudice delegato reclamo ex articolo 36 l.fall. per violazione di legge, vizio che può ravvisarsi nelle motivazioni addotte dal comitato al rifiuto dell'approvazione (cfr. Fontana, 241). Il giudice delegato, in tale ipotesi, esaminato il reclamo così proposto, può accoglierlo e approvare il programma di liquidazione predisposto dal curatore ovvero respingerlo, indicando nel contempo i principi redazionali cui il curatore deve attenersi per poter nuovamente sottoporre il programma modificato al comitato dei creditori (così, Pajardi-Paluchowski, 588). Un'alternativa alla possibilità di proporre reclamo può consistere nella richiesta di sostituzione del curatore avanzata dal comitato dei creditori ai sensi dell'articolo 37 bis ovvero di convocazione da parte del giudice delegato degli organi, nel tentativo di individuare una soluzione condivisa. È questa ultima la soluzione preferibile, atteso che, al di là delle situazioni estreme rimesse ai rimedi impugnatori ex art. 36 l.fall. ovvero sostitutori dell'organo gestorio ex art. 37-bis l.fall., il ricorso al potere di «moral suasion» del giudice delegato potrebbe disinnescare quelle ragioni di conflitto che avevano determinato la mancata approvazione del programma di liquidazione ovvero la mancata ricezione da parte del curatore delle indicazioni di modifica del documento programmatorio avanzate dal comitato dei creditori, e ciò attraverso quelle opportune indicazioni suggerite dal giudice delegato il continuo ed inalterato potere di vigilanza e di controllo degli organi della procedura e della correttezza e legalità di quest'ultima consente anche questo «intervento conciliativo preventivo» il cui esercizio non pregiudica neanche la sua posizione di terzietà di giudizio in una eventuale e successiva impugnativa ex art. 36 l.fall. nella denegata ipotesi di fallimento di quel intervento conciliativo cui sopra si accennava. Del resto, non va dimenticato che, innanzi ad un irragionevole irrigidimento del curatore per le legittime richieste di modifica e integrazione del documento programmatorio avanzate dal comitato dei creditori, il giudice delegato ben potrà valutare la possibilità del venir meno del rapporto fiduciario che lega il professionista al tribunale da cui il primo era stato incaricato, con conseguente possibilità per il giudice delegato di portare il professionista innanzi al Collegio ai sensi dell'art. 37 l.fall., qualora il curatore non dovesse aderire ai suggerimenti conciliativi proposti dallo stesso giudice delegato per dirimere la controversia tra gli organi della procedura. Diversamente, potrebbe anche ipotizzarsi un intervento di sostituzione di uno o più membri del comitato dei creditori ai sensi dell'art. 40 l.fall. da parte del giudice delegato, dovendosi rintracciare quel «giustificato motivo» – cui la norma da ultimo menzionata subordina l'esercizio del potere di sostituzione in discorso – anche in atteggiamenti palesemente ed irragionevolmente ostruzionistici di alcuni componenti del comitato dei creditori ovvero di conflitto di interessi con le prevalenti ragioni liquidatorie rappresentate dalla curatela. L'approvazione parzialeÈ stato affermato in giurisprudenza che un consenso del comitato dei creditori limitato a singoli atti o attività rende questi «disconnessi dal più vasto disegno che attribuisce loro ragione estrinseca» (così, con motivazioni che subito illustreremo, Fimmanò, 73; e Fontana, 241). Sul punto, si è precisato che «Qualora il comitato dei creditori esprima riserve su alcuni punti del programma di liquidazione (in specie, sulle attività recuperatorie), il consenso sul resto del piano determina comunque la non approvazione dell'intero programma. Al giudice delegato compete solo la verifica della legalità della fattispecie e della conformità al piano dei singoli atti esecutivi. Occorre quindi che la curatela modifichi il progetto come indicato dal comitato ovvero che quest'organo, chiarite le perplessità iniziali, proceda ad una nuova deliberazione sul programma completo»: Trib. Roma, 28 aprile 2009, cit. Nel caso esaminato dal Tribunale, le riserve sollevate dal comitato dei creditori investivano punti decisivi e qualificanti del piano, e cioè le azioni volte al recupero di attivo ed i legali designati. Ed invero, per quanto concerne, in generale, le azioni – risarcitorie, recuperatorie o revocatorie da indicare nel programma ex art. 104 ter, comma 2, lett. c) –, occorre ricordare come il decreto correttivo del 2007 abbia preteso la prognosi del «loro prevedibile esito», con ciò intendendo non già la possibile vittoria ma la quantificazione almeno approssimativa delle reali aspettative di recupero in base, da un lato, alla capienza patrimoniale dei convenuti e, dall'altro, alle prove disponibili, da documentare ex ante e all'ipotizzata durata minima del giudizio e da ultimo ad un prospetto delle spese legali e di imposta di registro. Va aggiunto che in dottrina vi è chi ammette la possibilità di un'approvazione parziale. Recte, v'è chi ritiene che – nonostante il comitato abbia approvato solo una parte del programma – il curatore sia legittimato a porre in esecuzione almeno quegli atti condivisi (Fontana, 241). Certo, ragioni di ordine pratico consiglierebbero tale conclusione. Occorre ricordare che, in realtà, nel diritto privato l'approvazione è un negozio unilaterale mediante il quale un soggetto, esprimendo il proprio consenso in ordine a un negozio giuridico altrui, influisce sull'efficacia di esso: così Carraro, 852. L'A. esemplifica il concetto menzionando la cessione del credito, in cui è richiesto il consenso del debitore ceduto, così come nella cessione del contratto, ma anche l'accollo, ove l'adesione del creditore rende irrevocabile la stipulazione in suo favore, al pari di quanto avviene con la dichiarazione del terzo nel contratto a favore del medesimo. Possiamo oggi aggiungere l'approvazione dei concordati da parte della maggioranza dei creditori, dato il carattere negoziale (unilaterale) della proposta di concordato preventivo e fallimentare in considerazione degli effetti che produce anche prima dell'approvazione. L'approvazione concorre, pertanto, a formare, insieme all'atto approvato, una fattispecie complessa, configurandosi come una condicio iuris dell'atto approvato. Va anche aggiunto che, si è pure statuito espressamente che «mentre l'ordinamento giuridico consente un'approvazione condizionata dei contratti degli enti pubblici da parte dell'autorità di controllo, la quale dispiega tutti gli effetti dell'approvazione pura e semplice quando la a. accoglie le modificazioni suggerite dall'organo di controllo e le trasfonde nei propri atti nel termine eventualmente all'uopo previsto, ed equivale al rifiuto di approvazione ove la pubblica amministrazione non ritenga di adeguarsi alle anzidette modifiche, deve ritenersi inammissibile un'approvazione soltanto parziale: simile atto equivale a rifiuto di approvazione dell'intero contratto per il carattere inscindibile ed unitario del regolamento di interessi»: così testualmente Cass., I, n. 5912/1980. In dottrina, sulla formazione della volontà contrattuale della P.A. ed il relativo procedimento, «è stata ritenuta inammissibile un'approvazione soltanto parziale. È stato giustamente ritenuto che «simile atto equivale a rifiuto di approvazione»; cfr. da ultimo Buscema, 548. L'analogia con la natura dell'atto di approvazione del programma di liquidazione fallimentare – anch'esso atto complesso (o, per alcuni, plurisoggettivo) a formazione progressiva – sembrerebbe stretta. È dunque l'inscindibilità o unitarietà del piano di regolazione dell'insolvenza che determina l'oggetto su cui deve pronunciarsi il comitato dei creditori (Bottai, 4). Peraltro, sta proprio in questa unitarietà la differenza con il previgente sistema, nel quale la liquidazione era rimessa alle iniziative estemporanee e frammentarie del curatore. Di contro, è stato ancora affermato che «i principi della conservazione e della celerità impongono di ritenere che il programma si reputi approvato e vada eseguito, salvo che per la parte censurata e sempre che la mancata approvazione di una parte, per la sua rilevanza, non infici l'intero piano» (Fimmanò, il quale afferma che il dissenso sulla vendita di un bene non strategico impedisce la «massimizzazione del realizzo senza vantaggi compensativi»). È stato, però, osservato che il criterio da ultimo menzionato sarebbe labile e di difficile comprensione, e ciò sia in ragione dell'assenza di appigli normativi, indispensabili in quanto si deve rendere efficace un «atto» non perfezionato nella sua interezza, sia per la complessità di stabilire quando e in virtù di quale canone oggettivo una parte non approvata del programma possa inficiare l'intero progetto. Oltre alla materiale difficoltà per i terzi di ricostruire quali parti del piano siano state approvate e possano considerarsi immediatamente efficaci, dovendosi confrontare l'atto del curatore, il parere del comitato (solo parzialmente positivo) e il provvedimento autorizzativo del giudice delegato (Bottai, 5). Né si potrebbe invocare, secondo l'avviso sopra richiamato, in senso contrario, il «principio generale della ragionevole durata del processo» (Fontana, 242), giacché giammai una scelta discrezionale dell'organo esponenziale dei creditori potrebbe far soggiacere la procedura alla l. n. 89/01 e perché il comitato dei creditori è legittimato a «proporre al curatore modifiche al programma presentato» (art. 104-ter, comma 4). In realtà, neanche nei casi estremi di sostituzione del curatore che non intendesse aderire alle indicazioni del comitato si produrrebbero comunque le conseguenze previste dalla legge sull'eccessiva durata dei procedimenti, attesa la rapidità dell'avvicendamento. D'altro canto, è stato anche affermato che, per il diniego immotivato od ostruzionistico del comitato (e cioè per conflitto d'interessi), è espressamente previsto il reclamo ex art. 36 l.fall., sussistendo una chiara violazione di legge (Fabiani, 811, il quale conclude che «le scelte di opportunità restano sindacabili sul fronte della responsabilità»), mentre per la mancata espressione del giudizio (inerzia) si configura la surroga del g.d.ai sensi del 4 comma dell'art. 41, previa opportuna diffida (Bonfatti-Censoni, 333; Bozza, 1059). Proprio lo stallo della procedura, che si verrebbe a creare ove il curatore non modificasse il piano nel senso indicato dal comitato, con motivazione esaustiva, dovrebbe indurre il curatore a prenderne atto e a modificare il piano. In conclusione, è stato affermato dalla dottrina sopra richiamata che la ratio normativa dell'approvazione del programma è nel senso che essa condizioni l'efficacia giuridica degli atti emanati dalla curatela, né si ravvisano appigli per ritenere ammissibile ed efficace un'approvazione soltanto parziale. Sul punto, va aggiunto che per approvazione parziale del programma deve intendersi atecnicamente tanto l'ipotesi in cui il comitato dei creditori non approvi parte del programma, tanto quella in cui il giudice delegato non autorizzi l'esecuzione di taluni atti conformi al programma approvato. È stato tuttavia evidenziato che «non pare possibile escludere tout court ed a priori l'ammissibilità di una approvazione parziale del piano di liquidazione. L'affermazione testé formulata pare possa essere fondata sulla stessa natura e funzione assunta dal programma di liquidazione quale atto di pianificazione e di indirizzo in ordine alle modalità e ai termini previsti per la realizzazione dell'attivo. Sicché, volendo utilizzare le espressioni dello stesso decreto, per rispondere, non bisogna trascurare la ragione fondante dell'istituto, rinvenibile nella soddisfazione dell'esigenza di pianificazione colta dal legislatore» (Esposito, Riflessioni in tema di approvazione parziale del programma di liquidazione, 364). Sul punto, si era pure affermato che «la soluzione più elastica sembra preferibile perché rispondente al principio generale di conservazione degli atti giuridici e perché maggiormente rispondente alle esigenze di celerità che caratterizzano la procedura. difatti, fermo restando che la paternità della programmazione appartiene al curatore, è chiaro che una mancata approvazione da parte del giudice con la indicazione dei motivi, ex art. 25, ul. comma, l.fall., consente al curatore di potere rimodellare il programma – laddove intenda percorrere tale via – consapevole del fatto che è necessario intervenire solo su di una parte dello stesso, laddove le restanti scelte sono condivise e approvabili. È tanto meglio, laddove – nell'ambito di un rapporto dialettico volto alla efficienza della liquidazione – il giudice indichi anche le direttive necessarie, a suo avviso, affinché l'atto possa dirsi degno di valutazione positiva. Ancora, il principio di conservazione e della celerità, impone di ritenere che il programma si reputi approvato e da eseguire salvo che per la parte censurata e sempre che la mancata approvazione di una parte, per la sua rilevanza, non infici l'intero piano. Si pensi, ad esempio che nel caso in cui il programma sia stato oggetto di un giudizio positivo, salvo che per le modalità di gestione di un credito che non assume rilevanza sistematica, non consentire l'esecuzione della restante parte del programma significherebbe contravvenire all'esigenza di celerità e conseguente massimizzazione del realizzo senza che, a fronte di ciò, possa individuarsi qualche vantaggio compensativo o ragione plausibile» (Esposito, Il programma di liquidazione: profili applicativi, 2007, 1726). Il tema qui in discussione è stato efficacemente affrontato, prendendo le mosse proprio dalla funzione economica sociale svolta dal programma di liquidazione, e cioè dalla causa dello stesso, mutuando categorie dalla disciplina civilistica del contratto (così, Esposito, 2010, 364). La causa ovvero funzione economico-giuridica di un atto è invero l'elemento che consente all'interprete di operare la qualificazione attraverso quel processo di sussunzione che congiunge fattispecie astratta e concreta in termini di compatibilità, quale confronto del dato concreto con il modello astratto elaborato dal legislatore. Pertanto, può dirsi che un atto è qualificabile come programma di liquidazione laddove possa affermarsi che lo stesso assume la funzione economico-giuridica progettata dal legislatore, rientri, cioè, in quello che è comunemente definito come schema legale paradigmatico corrispondente agli elementi che ne caratterizzano l'esistenza giuridica (Cass. n. 5387/1997, in Contr., 1998, 4, 337, con nota di Piazza). Funzione che, nel caso di specie, è costituita dalla capacità di essere atto di pianificazione strategica della liquidazione dell'attivo. Ne discende che l'atto potrebbe, allora, non perdere la propria natura e funzione ove di incida su talune sue parti che non ne minano e pregiudicano la capacità pianificatoria stessa (così, Esposito, 2010, 364). Pertanto, se l'atto continua a svolgere, nonostante ciò, la propria funzione, continua ad essere programma di liquidazione e dunque deve essere eseguito ex art. 38 l.fall., non essendovi ragioni per sospendere l'attività di liquidazione. In questa ottica, sembra che non si tradisca la funzione del programma se si ritiene possibile prefigurarne la assoggettabilità astratta alla approvazione parziale purché ciò che non ha superato il vaglio di merito svolto dal comitato dei creditori ovvero di legittimità svolto dal giudice delegato non sia di tale rilevanza da compromettere la funzione di pianificazione dell'attivo cui è votato il programma stesso. Peraltro, è stato anche efficacemente affermato in dottrina che «a sostegno dell'approvazione parziale pare possano essere utilizzati anche taluni principi su cui il piano stesso si fonda, ossia la celerità, l'analiticità e l'omnicomprensività» (Esposito, 2010, 365). La celerità attiene alla volontà legislativa che si faccia in modo che la liquidazione dell'attivo sia realizzata nel più breve tempo possibile sì da soddisfare, al più presto, i creditori onde lenire il danno da questi patito (Esposito, Il programma di liquidazione nel decreto correttivo, 2007, 1078). In questa ottica, deve ritenersi che il programma di liquidazione si reputa approvato e da eseguire salvo che per la parte censurata e sempre che la mancata approvazione di una parte, per la sua rilevanza, non infici l'intero assetto. Così, laddove l'elemento non approvato non comprometta la pianificazione sembra possibile affermare che le esigenze di soddisfazione dei creditori, a cui è asservita la liquidazione celere, impongano di dare esecuzione al programma salvo che per la parte non approvata, la quale potrà essere successivamente autorizzata quale atto autonomo ovvero come supplemento del programma di liquidazione. Nello stesso senso, qualora la parte ovvero la sezione del programma sia dotata di caratteri di centralità tali da pregiudicare, in se stessa o per la sua valenza di raccordo sistematico con le altre parti, l'intero piano, è chiaro che lo stesso non potrà dirsi approvato. Al tempo stesso, tuttavia, le esigenze di celerità – che eventualmente emergano rispetto ad altri atti inclusi nel programma ormai inefficace – non vengono in realtà mortificate potendosi ricorrere alla soluzione consentita dall'art. 104-ter, comma 6, l.fall., che permette di disinnescare la pianificazione ove questa possa ritorcersi contro i creditori stessi (Così Esposito, 2010, loc. cit.). Al contrario, ove il dato non approvato o non autorizzato non incida sulla valenza pianificatoria del programma, non pare possibile pregiudicare la celerità in guisa a non ritenere approvato il piano stesso. Non consentire, cioè, l'esecuzione della restante parte del programma significherebbe contravvenire alle esigenze di celerità e conseguentemente massimizzazione del realizzo senza che, a fronte di ciò, possa individuarsi qualche vantaggio compensativo. L'ammissibilità di una proposta parziale sembra giustificata anche alla luce ed in coerenza con gli ulteriori principi che sovraintendono la redazione del piano, principi costituiti dalla analiticità e onnicomprensività. Sono questi i principi che attengono alla necessità – affinché la programmazione non resti fine a se stessa – di dettare analiticamente la pianificazione della liquidazione rispetto a tutto l'attivo inventariato sì da dotare il programma del carattere della onnicomprensività ( così, Esposito, 2010, 366). Così si impone al curatore di introdurre, nell'ambito del programma di liquidazione, tutta la «materia attiva del fallimento conosciuta» a prescindere dalla valenza sistematica della stessa non essendovi ragioni per escludere alcunché dal «manifesto della liquidazione» (Panzani, Le linee principali dello schema di decreto: gli organi e i poteri del giudice delegato, 2006, 1065). Pertanto, il fatto che la liquidazione debba riferirsi (con analiticità) a tutto il patrimonio attivo porta con sé la conseguenza inevitabile che il piano possa contenere anche elementi eterogenei tra loro, dei quali è necessario occuparsi, non per il rilievo di sistematicità che essi assumono, ma in ragione dell'esigenza di porre sul mercato, al più presto, l'intera massa attiva fallimentare. Il programma potrà pertanto essere approvato parzialmente, a patto che il numero degli atti, delle parti o delle sezioni non autorizzate sia di valenza tale che non residui neanche una parvenza di pianificazione. Ma in tal caso, il piano non si qualificherebbe neppure come programma di liquidazione e gli atti astrattamente realizzabili potrebbero essere posti in essere, al limite, attraverso il meccanismo di cui all'art. 104-ter, comma 6, l.fall. ove si riscontrassero i presupposti di applicazione. Peraltro, la configurabilità astratta dell'approvazione parziale sembra trovare conforto anche in un principio generale del nostro ordinamento costituito dal principio di conservazione che permea di sé tutte le vicende che attengono agli atti giuridici in generale dei quali, per quanto possibile, è necessario preservare gli effetti (Esposito, 2010, 366). Sul punto, è stato affermato, in termini generali, che «Si parla di un principio di conservazione del contratto o, più largamente del negozio giuridico, di un principio di conservazione della sentenza e degli atti processuali e infine di un principio di conservazione della norma giuridica: a ben vedere si tratta di aspetti particolari del lato principio di conservazione dell'atto giuridico» (Grassetti, op. loc. cit.). Principio, pertanto, immanente all'efficacia degli atti che attiene all'essenza stessa dell'ordinamento quale esigenza di «tutti i tempi e di tutti i luoghi» (Grassetti, op. loc. cit.). È coerente invero con la funzione ultima del nostro ordinamento preservare, per quanto possibile, gli effetti di un atto giuridico laddove vi siano i margini che consentano di eliminare gli aspetti patologici unicamente con riferimento alla parte colpita sì da evitare che gli stessi si propaghino a tutta la struttura dell'atto (Cass. n. 6609/1982). Deve pertanto concludersi nel senso che la possibilità di una approvazione parziale del programma di liquidazione non possa escludersi a priori essendo invece rimessa ad analisi caso per caso volta a stabilire se il programma — senza l'atto, la parte ovvero la sezione non approvata o autorizzata — rimanga o meno l'atto di pianificazione ed indirizzo in ordine alle modalità o i termini per la realizzazione dell'attivo, secondo il ditterio utile per inutile non vitiatur. Attività di liquidazione al di fuori del programma ed eccezioni al programma di liquidazioneIl programma di liquidazione rappresenta nella volontà del legislatore della riforma lo strumento principale, sebbene non esclusivo, per pianificare l'attività di gestione della liquidazione fallimentare. Tuttavia, la riforma consente ora al curatore di procedere alla vendita dei singoli beni, anche prima della approvazione del programma con la autorizzazione del giudice delegato, sentito sempre il comitato dei creditori. Presupposto per l'applicazione di questo istituto è che la predisposizione del programma possa arrecare pregiudizio all'interesse dei creditori, determinato dalla diminuzione ovvero dalla perdita del valore di realizzo dei beni (Esposito, Il programma di liquidazione: profili applicativi, 2007, 1729). Si tratta in questo caso di vendita atomistica, da effettuarsi sempre nel rispetto delle procedure di quell'articolo 107, e della quale deve darsi atto nel programma di liquidazione successivamente redatto. In questo contesto va inquadrato l'istituto della derelictio dei beni. Il settimo comma dell'art. 104-ter prevede due ipotesi di abbandono dei beni da parte del curatore, e cioè, la non acquisizione del bene all'attivo, non verificandosi in tal caso lo spossessamento derivante dall'apertura del fallimento, e la non liquidazione del bene acquisito invece all'attivo, rientrando, in questa seconda ipotesi, il bene nel patrimonio fallimentare, ma senza essere tuttavia liquidato. Le due ipotesi ora accennate sono, tuttavia, accumunate dal presupposto della non convenienza manifesta dell'attività di liquidazione e dall'effetto cui sono sottoposti i beni oggetto di derilictio, e cioè l'assoggettamento del bene all'esecuzione forzata ordinaria in deroga al disposto divieto di cui all'art. 51 l.fall. In realtà, il curatore, per poter procedere all'abbandono dei beni, deve essere autorizzato dal comitato dei creditori. I rapporti tra programma di liquidazione e relazione ex art. 33 l.fall.Il programma di liquidazione deve essere predisposto entro il termine di 60 giorni dalla redazione dell'inventario, termine che pertanto è variabile in ragione di una serie di fattori intrinseci alla procedura – come la entità dei beni, il luogo di collocazione degli stessi e la natura dei medesimi – ed estrinseci alla stessa – come la disponibilità del cancelliere, il tempo necessario al perito e la disponibilità di tempo del curatore per presenziare direttamente o tramite delegati alle relative operazioni. In realtà, la legge, ancora oggi, richiede che l'inventario sia redatto nel più breve tempo possibile dalla apposizione dei sigilli, ovvero dal primo accesso se non vi sia stata l'apposizione di questi ultimi, rendendo così possibile la redazione dell'inventario in un tempo indeterminato ovvero difficilmente determinabile a priori e rendendo, del pari, indeterminato il termine per la redazione e il deposito del programma di liquidazione. Si può dire in termini generali che il legislatore ha voluto che la liquidazione iniziasse prima della verifica dei crediti o, quantomeno, della esecutività dello stato passivo, che difficilmente può aversi materialmente prima di quattro mesi dalla sentenza dichiarativa di fallimento. La relazione ex art. 33 l.fall. deve essere depositata entro 60 giorni dal deposito della sentenza dichiarativa di fallimento. Va tuttavia precisato che i due documenti, ancorché abbiano taluni elementi che devono essere indicati in entrambi, si differenziano profondamente sotto diversi profili. In primo luogo, diverse sono le finalità perseguite con i documenti in esame, giacché la relazione ex art. 33 persegue uno scopo prettamente illustrativo informativo, e ciò con particolare riferimento agli obblighi di comunicazione nei confronti del giudice delegato e del pubblico ministero in merito ad iniziative da adottare relativamente alla conservazione del patrimonio e alle responsabilità, civile e penale, del dissesto (D'Attorre- Sandulli, 621). Il programma di liquidazione, invece, ha carattere programmatico ed operativo. Ma diverso è anche il contenuto del documento programmatorio rispetto a quello della relazione ex art. 33, dovendo quest'ultima ricostruire le cause del dissesto, i profili di responsabilità di amministratori, degli organi di controllo, dei soci ed eventualmente di soggetti terzi, mentre il programma liquidatorio ha un vasto contenuto di carattere liquidatorio e conservativo. In realtà, sovrapposizioni contenutistiche si possono registrare, tra i due documenti, in ordine alle azioni risarcitorie, recuperatore e revocatorie previste nel programma di liquidazione e gli atti già impugnati dei creditori e quelli che il curatore intende impugnare, ossia azioni revocatorie, restitutorie e di simulazione, da indicarsi in modo approfondito anche nella relazione ex art. 33 l.fall. Obbligo di redigere il programma e rapporti con l'art. 102 l.fall.Ebbene, dall'affermata efficacia endofallimentare dell'accertamento del passivo consegue la inutilità dell'accertamento medesimo nelle ipotesi in cui quella efficacia è insuscettibile di esplicarsi. Ciò si verifica non soltanto nelle ipotesi in cui manchi qualsiasi attivo da liquidare, come già previsto dall'art. 118, n. 4, l.fall., ma anche nelle ipotesi in cui l'attivo realizzabile non copra le spese della procedura e i crediti che hanno precedenza in sede di riparto, cioè quelli prededucibili ex art. 111, comma 1, n. 1, l.fall. In questa ipotesi non vi è alcuna necessità endoprocedurale di dispiegare un procedimento contenzioso per accertare i crediti destinati a rimanere comunque insoddisfatti. Di ciò ha preso atto il legislatore delegato, che ha conferito con l'art. 102 al curatore il potere di richiedere e al tribunale il potere di disporre «non farsi luogo al procedimento di accertamento del passivo relativamente ai crediti concorsuali» allorquando, pur non ricorrendo la fattispecie di chiusura per insussistenza dell'attivo (istituto che, pertanto, conserva una rilevanza autonoma rispetto a quello qui in esame), risulti che non può essere acquisito attivo da distribuire ad alcuno dei creditori che abbiano chiesto l'ammissione al passivo, salva la soddisfazione dei crediti prededucibili e delle spese di procedura. Pertanto, i presupposti del provvedimento in questione sono costituiti non dalla mancanza di attivo, ma da una prognosi di insufficienza dello stesso in rapporto alle ragioni dei creditori. Tralasciando qui gli aspetti più strettamente procedurali dell'istituto o per i quali si rimanda alla lettura dell'art. 102 l.fall., va detto che continua, invece, a non trovare considerazione normativa l'ipotesi della emersione, successiva all'adozione del provvedimento, di attivo sufficiente per una anche minima soddisfazione dei crediti concorsuali, nella quale il procedimento di accertamento anche di tali crediti dovrebbe, a rigore, essere riattivato, probabilmente con un provvedimento dello stesso tribunale che fissi nuovamente l'udienza e dia le disposizioni necessarie. La disciplina normativa ora descritta se è pienamente coerente con l'affermata endoconcorsualità degli effetti dell'accertamento, presenta, tuttavia, aspetti di problematicità. In relazione ai crediti per i quali l'ammissione al passivo fallimentare produce effetti che vanno al di là della partecipazione al riparto e che possano essere anche definiti extraconcorsuali, tra i quali spiccano quelli di lavoratori subordinati per crediti che possono accedere alla provvidenza del fondo di garanzia istituito presso l'Inps dalla l. n. 297/1982, fondo che si sostituisce al datore di lavoro insolvente nel pagamento del T.f.r. e, ai sensi degli artt. 1 e 2 del d. lgs. n. 297/1982, delle ultime tre retribuzioni. Si può affermare che non è pensabile che una norma come l'art. 102 l.fall. trovi un limite di applicabilità nella presenza di insinuazioni di siffatti crediti, ipotesi, peraltro, di grande frequenza pratica. Peraltro, va anche ricordato che non mancano opinioni dottrinali e giurisprudenziali tendenti a svincolare l'accesso al fondo di garanzia dalla previa ammissione al passivo fallimentare del lavoratore (così, App. Roma, (decr.) 7 maggio 2003). È da soggiungere che una diversa interpretazione rispetto a quella qui predicata esporrebbe le norme in esame, oltre che a dubbi di illegittimità costituzionale per violazione degli artt. 3 e 24 Cost., anche ad una possibile violazione diretta della direttiva comunitaria n. 80/987/CEE del 20 ottobre 1980, che non richiede in alcun modo l'accertamento concorsuale del credito garantito. Sulla istanza ex art. 102 è in realtà il tribunale a decidere con decreto motivato. Ove lo ritenga, disporrà di non farsi luogo al procedimento di accertamento del passivo relativamente ai crediti concorsuali. Trattasi, in realtà, di un giudizio di fatto sulle potenzialità sattisfattive dell'esecuzione collettiva e sull'opportunità ed utilità di procedere a verifiche dei crediti concorsuali, giudizio che è rimesso all'apprezzamento discrezionale del tribunale. Il provvedimento implica, limitatamente ai creditori concorsuali insinuati, gli stessi effetti del decreto di chiusura del fallimento ex art. 109 l.fall. Il decreto invece non elimina la fase di verifica dei crediti in presenza di crediti prededucibili soggetti a verificazione né quella di verifica dei diritti reali e personali. Tuttavia, in difetto di domanda di restituzione o rivendicazione ed in presenza di ricavi sufficienti per il pagamento dei crediti prededucibili non contestati, non sarà necessario dar corso all'accertamento del passivo, in quanto, in tal caso, detti crediti possono essere liquidati de plano. Del decreto del tribunale deve essere data comunicazione, ad opera del curatore, ai creditori che hanno presentato domanda di ammissione al passivo a norma degli artt. 93 e 101 l.fall., essendo tali comunicazioni correlate funzionalmente al diritto di impugnativa riconosciuto a questi soggetti. In tal caso, non sarà sufficiente informare gli stessi della avvenuta adozione del provvedimento, ma occorrerà che il decreto venga integralmente trascritto nella comunicazione del curatore o allegato in copia alla medesima. La prevalente opinione ritiene che il decreto che ha respinto il reclamo, confermando la decisione impugnata, sia assoggettabile a ricorso straordinario per cassazione ai sensi dell'art. 111, comma 7, Cost. La norma, in realtà, non attribuisce al curatore il diritto di impugnare la decisione con cui il tribunale ha respinto la sua istanza di non farsi luogo al procedimento di accertamento del passivo. Si tratta di una soluzione coerente con la disciplina del gravame che ad esso curatore sarebbe spettato, vale a dire con il reclamo ex articolo 26, che ai sensi del quinto comma di tale disposizione, non ha effetto sospensivo dell'esecuzione del provvedimento impugnato e che pertanto, nella fattispecie, avrebbe avuto altissime probabilità, quand'anche accolto, di dar luogo ad una decisione inutiliter data, poiché sopravvenuta all'udienza di accertamento dello stato passivo e al conseguente esaurimento delle operazioni di verifica. Novellando l'art. 102, la riforma ha previsto, pertanto, la possibilità di «non farsi luogo al procedimento di accertamento del passivo relativamente ai crediti concorsuali se risulta che non può essere acquisito attivo da distribuire ai creditori che abbiano chiesto l'ammissione al passivo, salva la soddisfazione dei crediti prededucibili e delle spese della procedura». A tal fine, il Tribunale decide con decreto da adottarsi prima dell'udienza per l'esame dello stato passivo, su istanza del curatore, depositata almeno venti giorni prima dell'udienza stessa, corredata da una relazione sulle prospettive della liquidazione, e sentiti il comitato dei creditori ed il fallito. Pertanto, se il curatore — una volta effettuate le operazioni inventariali — giunge alla conclusione che non vi sia attivo acquisibile, redige una relazione illustrando le ragioni che rendono inutile la verifica dei crediti, chiedendo contestualmente al tribunale, con istanza depositata almeno venti giorni prima dell'udienza di verifica, di non farsi luogo all'accertamento dei crediti. Dato il contenuto che deve avere la «relazione sulle prospettive della liquidazione», si può agevolmente sostenere che altro non sia che un programma di liquidazione nel quale il curatore espone agli altri organi della procedura la mancanza di beni da liquidare, nonché l'impossibilità di instaurare quelle azioni risarcitorie, recuperatorie o revocatorie che consentirebbero di realizzare l'attivo. In tal caso, il Tribunale «dispone in conformità» e contro tale decreto i creditori che abbiano presentato domanda di ammissione al passivo tempestiva o tardiva possono presentare reclamo alla Corte d'Appello, che decide in camera di consiglio sentito il reclamante, il curatore, il comitato dei creditori ed il fallito. Allo stesso modo si può concludere se l'attività di liquidazione appaia manifestamente non conveniente e i beni risultino tutti assoggettabili alla derelictio: in tal caso, previa autorizzazione del comitato dei creditori, il curatore potrà rinunciare alla liquidazione, dandone contestuale comunicazione ai creditori, secondo quanto dispone l'art. 104-ter, settimo comma. Secondo l'art. 118 l.fall. è anche possibile che si giunga direttamente alla chiusura del fallimento senza sia stato approntato il programma di liquidazione se si accerta, al di là di quanto previsto dal citato art. 102 l.fall., in qualsiasi fase del processo, che la sua prosecuzione non consenta di soddisfare, neppure in parte, i creditori concorsuali, né i crediti prededucibili e le spese di procedura. Questa ipotesi formulata in tema di chiusura del fallimento è in realtà identica a quanto previsto dall'art. 102 citato. La differenza sta quindi esclusivamente nel diverso obiettivo delle due disposizioni, l'una finalizzata ad evitare un inutile accertamento del passivo e l'altra per mettere fine ad una procedura infruttuosa. Nella pratica quindi accadrà che alla relazione negativa sulle prospettive di liquidazione presentata per evitare l'udienza di accertamento del passivo, seguirà, una volta esaurito l'iter previsto dall'art. 102 l.fall., la richiesta di chiusura del fallimento. Da segnalare che l'art. 118, in una prospettiva di celerità ed efficienza, sottolinea che le circostanze che consentono la chiusura della procedura per infruttuosità, possono accertarsi all'interno del contenuto della relazione del curatore al giudice delegato ex art. 33 o nei successivi rapporti riepilogativi, stando a significare che se il curatore dovesse rilevarle, sarà anche tenuto a comportamenti conseguenti, ossia all'inoltro di una istanza per la chiusura. Il richiamo ai rapporti riepilogativi, in cui si prefiguri la chiusura del fallimento risponde anche all'obiettivo di informare tutti i creditori delle intenzioni del curatore, poiché dette relazioni, ai sensi dell'art. 33, comma 3, andranno depositati nel registro delle imprese, con finalità di pubblicità dichiarativa, onde essere ostensibili al pubblico. Ciò consentirà ai creditori in primis ma anche a chiunque abbia interesse, di conoscere in anticipo le mosse del curatore, al fine di contestarle con gli strumenti endofallimentari. Ad ogni modo la chiusura del fallimento per infruttuosità, stante il disposto dell'art. 119, comma 2, l.fall., se richiesta prima dall'approvazione del programma, necessita del parere del comitato dei creditori, che dovrà fornirlo direttamente al Tribunale. Tale parere non sembra sia vincolante, stante anche la formulazione della norma che richiede solo che sia «sentito», e ciò perché non può essere negato al giudice, posto al vertice della procedura, un sindacato sull'opportunità di mantenere in vita una procedura infruttuosa, poiché l'obiettivo dell'efficienza, chiesto dalla legge delega n. 80/2005, non potrebbe subire restringimenti per opportunistici interessi di parte. BibliografiaAmatore, Il programma di liquidazione nel fallimento, Milano, 2012; AA.VV., Commentario breve alla legge fallimentare, Maffei Alberti (a cura di), Padova, 2009; Ambrosini, Il concordato preventivo e gli accordi di ristrutturazione dei debiti, in AA.VV., Trattato di diritto commerciale, Cottino (diretto da), XI, 2, Padova, 2008; Azzolina, Il fallimento e le altre procedure concorsuali, Torino, 1961; Bonsignori, Il fallimento, in AA. 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