Regio decreto - 16/03/1942 - n. 267 art. 146 - Amministratori, direttori generali, componenti degli organi di controllo, liquidatori e soci di società a responsabilità limitata 1 .Amministratori, direttori generali, componenti degli organi di controllo, liquidatori e soci di società a responsabilità limitata1.
Gli amministratori e i liquidatori della società sono tenuti agli obblighi imposti al fallito dall'articolo 49. Essi devono essere sentiti in tutti i casi in cui la legge richiede che sia sentito il fallito. Sono esercitate dal curatore previa autorizzazione del giudice delegato, sentito il comitato dei creditori: a) le azioni di responsabilità contro gli amministratori, i componenti degli organi di controllo, i direttori generali e i liquidatori; b) l'azione di responsabilità contro i soci della società a responsabilità limitata, nei casi previsti dall'articolo 2476, comma settimo, del codice civile. [1] Articolo sostituito dall'articolo 130 del D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5. InquadramentoL'art. 146, al primo comma, stabilisce, sia pur per relationem, gli obblighi cui sono tenuti, in conseguenza della dichiarazione di fallimento, gli amministratori e i liquidatori della società fallita nonché i casi in cui gli stessi hanno il diritto di essere sentiti nel corso della procedura ed, al secondo comma, le azioni di responsabilità che il curatore è legittimato a proporre nei confronti degli amministratori, dei direttori generali, dei liquidatori, dei componenti degli organi di controllo della società (di capitali) fallita e dei soci della società a responsabilità limitata. L'evoluzione normativaL'art. 146, comma 2, l.fall., nella sua originaria formulazione, attribuiva al curatore del fallimento di una società di capitali (società per azioni, società a responsabilità limitata ex art. 2487, comma 2, vecchio testo, c.c., società in accomandita per azioni ex art. 2464, vecchio testo, c.c.) o di una società cooperativa (art. 2516, vecchio testo, c.c.) il potere di promuovere «contro gli amministratori, i sindaci, i direttori generali e i liquidatori... l'azione di responsabilità... a norma degli artt. 2393 e 2394 del codice civile». La riforma del diritto societario, entrata in vigore il 1° gennaio 2004, ha introdotto nel codice civile (estrapolandone una parte dall'art. 2394, comma 3, vecchio testo, che, in relazione all'azione dei creditori sociali, prevedeva, appunto, che «in caso di fallimento... della società, l'azione spetta al curatore del fallimento»), l'art. 2394-bis c.c. dove – per le società per azioni (e, quindi, per le cooperative ad esse, come è tipico, ispirate ex art. 2519, comma 1, c.c., che sono regolate, nei limiti della compatibilità, dalle stesse norme previste per le società per azioni, anche per ciò che riguarda l'amministrazione, e per le società in accomandita per azioni ex art. 2454 c.c.) assoggettate al sistema di gestione ordinario (artt. 2380-bis – 2409-septies c.c.) — è stabilito che, «in caso di fallimento», il curatore esercita contro gli amministratori della società fallita «le azioni di responsabilità previste dai precedenti articoli», cioè l'azione sociale (artt. 2392-2393 c.c.), ivi compresa quella che spetta alla minoranza (art. 2393-bis c.c.), e l'azione spettante ai creditori sociali (art. 2394 c.c.). La norma non è stata espressamente estesa al caso del fallimento di società a responsabilità limitata (e di società cooperativa ad essa ispirata ex art. 2519, comma 2, c.c.). Trova, invece, diretta applicazione per: i componenti del consiglio di gestione nel c.d. sistema dualistico (artt. 2409-decies, comma 1, e 2409-undecies, ult. comma, c.c., che rinviano anche agli artt. 2392, 2393, 2393-bis, 2394 e 2394-bis c.c.); i componenti del consiglio di amministrazione (e, quindi, anche del comitato per il controllo sulla gestione) nel sistema monistico (artt. 2409-noviesdecies, comma 1, c.c., che rinvia, tra l'altro, nei limiti della compatibilità, alle norme previste dagli artt. 2392, 2393, 2393-bis, 2394 e 2394-bis c.c.); i sindaci (art. 2407, ultimo comma, c.c.: «all'azione di responsabilità contro i sindaci si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni degli articoli 2393, 2393-bis, 2394, 2394-bis»), pur se si tratti di società a responsabilità limitata (art. 2477, ultimo comma, c.c.) e pur se nominati, in tale tipo sociale, senza che ve ne fosse l'obbligo (art. 2477, commi 2 e 3, c.c.); i componenti del consiglio di sorveglianza nel sistema di amministrazione e controllo dualistico (arg. ex art. 2409-terdecies, comma 3, ult. p., c.c., in relazione agli artt. 2409-decies, comma 1, e 2409-undecies c.c., che, come detto, rinviano anche agli artt. 2392, 2393, 2393-bis, 2394 e 2394-bis c.c.); i direttori generali (art. 2396 c.c.: «le disposizioni che regolano la responsabilità degli amministratori si applicano anche ai direttori generali», che fa salve le azioni derivanti dal «rapporto di lavoro» – in genere subordinato – che li lega alla società e che, in caso di fallimento, sono esperibili dal curatore secondo le regole ordinarie, sostanziali e processuali); i liquidatori (art. 2489, comma 2, c.c.: «la loro responsabilità per i danni... è disciplinata secondo le norme in tema di responsabilità degli amministratori»), pur se si tratti di società a responsabilità limitata, cui la disciplina in tema di liquidazione (artt. 2484 ss. c.c.) trova diretta applicazione. La riforma della legge fallimentare, attuata con il d.lgs. n. 5 del 2006, ha modificato, a far data dal 16 luglio 2006 (o meglio: a norma dell'art. 150 del d.lgs. n. 5 cit., relativamente alle procedure fallimentari aperte dopo la sua entrata in vigore), la norma dell'art. 146 l.fall. prevedendo, al secondo comma, che, in caso di fallimento di società (sia essa una società per azioni, una società a responsabilità limitata, una società in accomandita per azioni ovvero una società cooperativa) «sono esercitate dal curatore... [tutte:] a) le azioni di responsabilità contro gli amministratori, i componenti degli organi di controllo, i direttori generali e i liquidatori; b) l'azione di responsabilità contro i soci della società a responsabilità limitata, nei casi previsti dall'art. 2476, comma settimo, del codice civile». La norma non è stata modificata dal d.lgs. n. 169 del 2007 (cd. decreto correttivo), entrato in vigore il 1° gennaio 2008, né dalle riforme successive. I soggetti passiviL'art. 146, comma 2, lett. a), l.fall. prevede, come detto, che il curatore esercita «le azioni di responsabilità» previste (dalle norme sostanziali contenute nel codice civile e nelle leggi speciali) contro: «gli amministratori», e cioè: l'amministratore unico o i componenti del consiglio di amministrazione nel sistema ordinario di gestione (artt. 2381 e ss. c.c.), i componenti del consiglio di gestione nel sistema dualistico (artt. 2409-decies e ss. c.c.) ed i componenti del consiglio di amministrazione nel sistema monistico (artt. 2409-septiesdecies e ss c.c.), ivi compresi, quindi, i membri del comitato per il controllo sulla gestione (art. 2409-octiesdecies c.c.), per l'inadempimento ai doveri specifici previsti a loro carico dalla legge o dallo statuto nonché del dovere generico di gestire la società con la dovuta diligenza; «i direttori generali nominati dall'assemblea o per disposizione dello statuto» (art. 2396 c.c.), rimanendo, invece, discusso se trova applicazione anche per i direttori generali che non soddisfino i requisiti formali previsti dalla norma.: cfr., al riguardo, Cass. n. 28819/2008, in motiv.; «i liquidatori» (cfr. gli artt. 2487 ss. c.c. e, segnatamente, l'art. 2489 c.c., per cui al liquidatori si applicano le norme dettate in materia di responsabilità degli amministratori, oltre all'art. 2491 c.c., che configura una particolare responsabilità dei liquidatori nei confronti dei creditori sociali per inadempimento al dovere di conservazione del patrimonio da liquidare); «i componenti degli organi di controllo», cioè: i componenti del collegio sindacale ovvero il sindaco unico (artt. 2397 ss. c.c.) ed i componenti del consiglio di sorveglianza del sistema dualistico. I sindaci (ed i componenti del consiglio di sorveglianza) rispondono, peraltro, non solo del danno che le violazioni commesse hanno direttamente arrecato (al patrimonio della società ed, in misura della sua conseguente insufficienza, ai suoi creditori: art. 2407, comma 1, c.c.), ma anche del danno cagionato alla società ed ai creditori sociali da un atto illecito commesso dagli amministratori, in solido con questi ultimi, «quando il danno non si sarebbe prodotto se essi avessero vigilato in conformità degli obblighi della loro carica» (artt. 2407, comma 2, 2409-terdecies, comma 3, anche in relazione a quanto previsto dall'art. 2409-undecies, c.c.). La norma, a seguito dell'abrogazione dell'art. 2409-sexies c.c., che rinviava, in tema di responsabilità del revisore contabile, all'art. 2407, non si applica, invece, ai soggetti incaricati, nei diversi sistemi di amministrazione e controllo (artt. 2409-bis, 2409-quinquiesdecies e 2409-noviesdecies, c.c.), del controllo contabile, che, ai sensi dell'art. 15 del d.lgs. n. 39 del 2010, entrato in vigore il 7 aprile 2010, sono responsabili, in solido con gli amministratori, solo nei confronti della società che ha conferito l'incarico («1. I revisori legali e le società di revisione legale rispondono in solido tra loro e con gli amministratori nei confronti della società che ha conferito l'incarico di revisione legale, dei suoi soci e dei terzi per i danni derivanti dall'inadempimento ai loro doveri. Nei rapporti interni tra i debitori solidali, essi sono responsabili nei limiti del contributo effettivo al danno cagionato. 2. Il responsabile della revisione ed i dipendenti che hanno collaborato all'attività di revisione contabile sono responsabili, in solido tra loro, e con la società di revisione legale, per i danni conseguenti da propri inadempimenti o da fatti illeciti nei confronti della società che ha conferito l'incarico e nei confronti dei terzi danneggiati. Essi sono responsabili entro i limiti del proprio contributo effettivo al danno cagionato. 3. L'azione di risarcimento nei confronti dei responsabili ai sensi del presente articolo si prescrive nel termine di cinque anni dalla data della relazione di revisione sul bilancio d'esercizio o consolidato emessa al termine dell'attività di revisione cui si riferisce l'azione di risarcimento») ma non anche nei confronti dei creditori sociali, quanto meno alle condizioni e con la disciplina prevista dall'art. 2394 c.c. In caso di fallimento, quindi, il curatore può esercitare l'azione sociale ma non quella dei creditori sociali prevista da quest'ultima norma. La responsabilità si estende, invece, all'amministratore di fatto, vale a dire colui che, senza aver ricevuto dall'assemblea alcuna investitura, neppure irregolare o implicita, si è ingerito nella gestione della società impartendo istruzioni agli amministratori formali, condizionandone le scelte e trattando direttamente con i terzi, purché le funzioni gestorie effettivamente svolte abbiano carattere sistematico e non si esauriscano, quindi, nel compimento di singoli atti di natura eterogenea ed occasionale (Cass. n. 1925/1999; Cass. n. 9616/2009) nonché, in base ai principi generali, al terzo che, con dolo o colpa, abbia concorso con gli amministratori (i liquidatori, i sindaci, ecc.) nella causazione del danno: «in tema di responsabilità contrattuale che responsabilità extracontrattuale, se un unico evento dannoso è imputabile a più persone, al fine di ritenere la responsabilità di tutte nell'obbligo risarcitorio, è sufficiente, in base ai principi che regolano il nesso di causalità e il concorso di più cause efficienti nella produzione dell'evento, che le azioni od omissioni di ciascuno abbiano concorso in modo efficiente a produrlo, configurandosi a carico dei responsabili del danno, un'obbligazione solidale, il cui adempimento può essere richiesto, per la sua totalità, ad uno solo dei coobbligati con azione separata» (Cass. n. 13413/2010). La responsabilità tra i componenti del consiglio di amministrazione è, di regola, solidale. In tal senso, infatti, dispone la norma dell'art. 2392, comma 1, c.c., dettata per l'azione sociale di responsabilità ma senz'altro applicabile anche all'azione proposta dai creditori sociali a norma dell'art. 2394 c.c. (alla quale, in ogni caso, attesa la sua natura extracontrattuale, si applica l'art. 2055 c.c.). Se vi sono più amministratori, questi, salvo il dissenso espresso, sono tutti solidalmente responsabili, e tenuti, pertanto, a risarcire la società (ed i creditori sociali) dell'intero danno subìto, indipendentemente dal fatto che, in concreto, gli atti e le omissioni, che hanno concorso a cagionarlo, siano state compiute soltanto da uno o da alcuni degli amministratori. La norma fa salvo il (solo) caso che l'atto (commissivo od omissivo) dannoso rientri nelle «attribuzioni proprie» del comitato esecutivo ovvero nelle funzioni formalmente (ovvero anche solo di fatto: ha aggiunto la riforma del diritto societario) attribuite ad uno o più amministratori delegati. In quest'ultima ipotesi, e cioè di amministrazione esercitata mediante delega, gli altri amministratori sono esonerati dalla responsabilità per i comportamenti illeciti dei delegati, a condizione, però, che abbiano vigilato (nei modi previsti dall'art. 2381, commi 6 e 7, c.c. e con la diligenza imposta dalla natura dell'incarico e dalle proprie specifiche competenze) sul generale andamento della gestione e sui suoi atti più significativi, oltre che sull'adeguatezza degli assetti amministrativi, organizzativi e contabili della società, ovvero abbiano fatto, essendo a conoscenza di atti pregiudizievoli, quanto potevano per impedirne il compimento o eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose. Degli atti illeciti compiuti dagli amministratori delegati, quindi, indipendentemente dall'estensione della delega (e, dunque, anche nel caso in cui la delega sia così ampia da rendere il consiglio di amministrazione pressoché privo di competenze gestorie), rispondono anche gli amministratori deleganti, in solido, tra loro e con l'amministratore o gli amministratori delegati che hanno direttamente deliberato il compimento dell'atto illecito, ma non direttamente, per effetto, cioè, del regime di responsabilità solidale prevista dall'art. 2392, comma 1, c.c., ma solo indirettamente, vale a dire in conseguenza della violazione (dolosa o colposa) del dovere di informarsi sulla gestione e le sue operazioni più significative (art. 2381, comma 6, c.c.) e/o del dovere di intervenire per impedirne il compimento o per eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose previsti dalla norma dell'art. 2392, comma 2, c.c. In caso di amministrazione plurisoggettiva congiuntiva (ovvero di amministrazione con deleghe, relativamente alle materie non delegabili o non delegate ovvero a quelle materie che, seppur delegate, il comitato esecutivo o l'amministratore delegato abbiano portato alla decisione collegiale del consiglio o che il consiglio abbia avocato a sé), invece, l'art. 2392, comma 3, c.c. (anche nel nuovo testo) dispone, per l'azione sociale di responsabilità ma anche per l'azione dei creditori sociali, che la responsabilità per gli atti o le omissioni degli amministratori rispondono – come detto — tutti gli amministratori. La responsabilità, però, non si estende a quello (e, si noti, solo a quello) tra essi che: 1) abbia fatto annotare «senza ritardo» il proprio dissenso sul libro delle adunanze e delle deliberazioni del consiglio (o del comitato esecutivo); 2) abbia dato immediata notizia del suo dissenso al presidente del collegio sindacale; 3) sia immune da colpa, e tale certamente non è l'amministratore che, avendo determinato o concorso a determinare la deliberazione consiliare, se ne sia poi dissociato al momento della votazione per mero calcolo di convenienza personale, ovvero che non abbia partecipato ingiustificatamente alla riunione che ha preso la delibera dannosa senza poi attivarsi per impedirne l'esecuzione ovvero attenuarne o eliminarne le conseguenze dannose, ovvero che, per quanto assente o dissenziente, non abbia impugnato la deliberazione consiliare dannosa, ecc. In caso di responsabilità solidale tra gli amministratori (tra loro e con i sindaci, ecc.), l'entità del contributo causale da ciascuno fornito e la graduazione delle rispettive colpe assumono rilievo esclusivamente ai fini dell'azione di regresso (Cass. n. 9384/2011, in motiv.). Non rileva, invece, nei confronti della società e dei suoi creditori (e, quindi, dopo il fallimento, nei confronti del curatore), il diverso contributo causale di quanti abbiano concorso alla causazione del pregiudizio al patrimonio sociale (Cass. n. 16050/2009). Sotto questo profilo, non rileva, ad es., la breve durata della carica ricoperta: Cass. n. 9384/2011. La responsabilità solidale sussiste, oltre che tra gli amministratori in carica, anche nei confronti di amministratori che si sono succeduti nella carica, relativamente ai danni che costoro, in concorso tra loro, hanno cagionato (Cass. n. 9616/2009). La responsabilità solidale è prevista anche nel caso dei sindaci, tra loro e/o con gli amministratori (art. 2407 c.c.), come nel caso deciso da Cass. n. 16050/2008, in motiv., per cui la responsabilità solidale «sia essa contrattuale e/o extracontrattuale, come nel caso in cui venga invocata nell'esercizio dell'azione prevista dalla l.fall., art. 146, sussiste anche se l'evento danno sia collegato da nesso eziologico a più condotte, seppur distinte, di più soggetti ciascuna delle quali abbia concorso a determinarlo restando irrilevante nel rapporto col danneggiato la diseguale efficienza causale delle singole condotte». L'art. 146, comma 2, lett. b), l.fall. prevede, infine, che il curatore eserciti «l'azione di responsabilità contro i soci della società a responsabilità limitata, nei casi previsti dall'art. 2476, comma settimo, del codice civile», vale a dire l'azione nei confronti dei soci che hanno intenzionalmente deciso o autorizzato l'atto dannoso compiuto dagli amministratori. Le azioni di responsabilità esperibili dal curatore a norma dell'art. 146, comma 2, lett. a), l.fall.: profili generaliL'art. 146, comma 2, lett. a), l.fall., nel testo in vigore, è norma di mera ricognizione della legittimazione all'esercizio delle azioni di responsabilità attribuita al curatore da altre norme, contenute nel codice civile o nelle leggi speciali, cui occorre, in definitiva, fare riferimento per stabilire le azioni che il curatore può proporre e la relativa disciplina. Al riguardo, viene in rilievo, in particolare, l'art. 2394-bis c.c. – applicabile, però, solo in caso di fallimento di società per azioni (e, quindi, come s'è detto, di società cooperative ad esse ispirate e di società in accomandita per azioni) – il quale chiarisce che il curatore propone «le azioni di responsabilità previste dai precedenti articoli», vale a dire: 1. l'azione sociale di responsabilità, regolata dagli artt. 2392 e 2393 c.c., volta al risarcimento dei danni cagionati alla società dall'inadempimento commesso con dolo o colpa dagli amministratori (o dal direttore generale, dai liquidatori, dai componenti degli organi di controllo) ai doveri loro imposti (artt. 2392, comma 1, 2407, comma 1, e 2489, comma 2, c.c.), come, nel caso degli amministratori, il generale dovere di gestire la società e dirigere la sua impresa con diligenza (art. 2392, comma 1, c.c.), di vigilare sul generale andamento della gestione sociale ed i suoi atti più significativi (art. 2381, commi 3, 5 e 6, c.c.) e/o di fare tutto il possibile per evitare o attenuare le conseguenze dannose di un fatto pregiudizievole (art. 2392, comma 2, c.c.) — con la connessa regola della responsabilità solidale tra tutti i membri del consiglio (art. 2392, comma 1, c.c., richiamato, con le relative eccezioni, dagli artt. 2409-undecies e 2409-noviesdecies c.c.), a meno che non si tratti di attribuzioni proprie del comitato esecutivo o di funzioni attribuite in concreto ad uno o più amministratori (art. 2392, comma 1, in fine, c.c.) e salvo in ogni caso il dissenso espresso (art. 2392, comma 3, c.c.) — oltre a tutti i doveri specificamente previsti dalla legge o dall'atto costitutivo, ovvero, per i sindaci o i consiglieri di sorveglianza, il dovere di vigilare sull'osservanza della legge e dello statuto (art. 2403 c.c.) con diligenza e professionalità (art. 2407, comma 1, c.c.) ed, infine, per il liquidatore, il dovere di compiere (nel rispetto delle prescrizione contenute nell'atto di nomina) tutti gli atti utili per la liquidazione con diligenza e professionalità (art. 2489, commi 1 e 2, c.c.); 2. l'azione dei creditori sociali, prevista dall'art. 2394 c.c., volta al risarcimento dei danni ad essi cagionati (in termini di mancato conseguimento della prestazione dovuta, neppure nel suo equivalente pecuniario a titolo risarcitorio) dall'inosservanza (con dolo o colpa) da parte degli amministratori (o del direttore generale, dei liquidatori, dei componenti degli organi di controllo) agli obblighi inerenti alla conservazione dell'integrità del patrimonio sociale (art. 2394, comma 1, c.c.) e dalla sua conseguente (Cass. n. 20637/2004) insufficienza al completo soddisfacimento dei loro crediti (art. 2394, comma 2, c.c.). Il curatore, quindi, può far valere la responsabilità degli amministratori (nonché del direttore generale, dei liquidatori, ecc.) della società fallita tanto a mezzo dell'azione sociale, in quanto ve ne siano i presupposti, e cioè il danno prodotto al patrimonio sociale da un atto, colposo o doloso, commesso in violazione ai doveri imposti a loro carico dalla legge o dall'atto costitutivo, quanto a mezzo dell'azione dei creditori sociali, in quanto ve ne siano i presupposti, vale a dire il pregiudizio arrecato al patrimonio sociale, nella misura in cui sia stato reso insufficiente alla integrale soddisfazione dei creditori della società, da un atto commesso con dolo o colpa in violazione degli obblighi funzionali alla conservazione della sua integrità (in dottrina: Bonelli, 455, 456; Quatraro-D'Amora, 3488; Bartalini, 460 ss.; Sambucci, 709. In giurisprudenza, Cass. n. 15955/2012). Si tratta, peraltro, di una legittimazione che riveste carattere di esclusività: durante la procedura fallimentare (e fatta salva la possibilità di una formale rinuncia al relativo esercizio), infatti, tali azioni non possono essere esercitate né, come ovvio, dalla società (fallita) – neppure ad opera della minoranza dei soci a tal fine legittimata dalla norma dell'art. 2393-bis c.c. (ed in ciò sta il rilievo del riferimento, contenuto nell'art. 2394-bis c.c., alle «... azioni di responsabilità previste dai precedenti articoli», e cioè non solo gli artt. 2393 (azione sociale) e 2394 (azione dei creditori sociali), ma anche l'art. 2393-bis c.c.) - né dai creditori sociali, pur nell'inerzia del curatore (Cass. n. 12855/2005), neppure sotto forma di intervento adesivo dipendente ex art. 105 c.p.c. o di azione surrogatoria. Le ragioni della scelta legislativa La legittimazione (esclusiva) del curatore ad esercitare, in pendenza della procedura fallimentare, oltre all'azione sociale, anche l'azione dei creditori sociali costituisce l'effetto di una precisa scelta del legislatore che (seppur incongrua rispetto ai principi generali in materia fallimentare: il curatore, infatti, non ha, di regola, il potere di esercitare e rappresentare in giudizio i diritti – verso la società fallita e verso i terzi, quali sono gli amministratori della stessa – che spettano ai creditori della società fallita, i quali, pertanto, ne rimangono gli esclusivi titolari, anche ai fini processuali ex art. 81 c.p.c., a meno che non vi sia una norma che, in deroga rispetto a tale regola generale, espressamente lo preveda: Pagni, 1037 ss.; Rascio, 146 ss, 149, 150). In giurisprudenza, in tal senso, Cass. n. 13465/2010, in motiv., dove rileva come «... le azioni di spettanza del curatore sono tutte quelle — ma solamente quelle — o che fanno capo alla stessa società fallita, onde la legittimazione del medesimo curatore ad esercitarle si ricollega alla sua stessa funzione di gestore del patrimonio del fallito, o che sono qualificabili come azioni di massa, perché così il legislatore le ha espressamente considerate in quanto destinate ad incrementare la massa dei beni sui quali i creditori ammessi al passivo possono soddisfare le proprie ragioni secondo le regole del concorso. Ma l'azione esperibile dal creditore danneggiato nei confronti dell'amministratore del consorzio, in termini generali, non può che essere configurata come un'azione risarcitoria individuale, spettante a ciascun singolo creditore nei confronti di un soggetto — l'amministratore del consorzio — diverso dal fallito e che non è egli stesso fallito. In difetto di una norma speciale che lo preveda (come, nel caso del fallimento della società per azioni, lo prevede il citato art. 2394-bis c.c.) nulla perciò consente di attrarre detta azione nel novero delle azioni di massa, esercitabili dal curatore»), è volta a soddisfare un'esigenza essenzialmente pratica, e cioè, in definitiva, assicurare alla massa dei creditori una tutela rafforzata rispetto a quella che avrebbe potuto ricevere con l'esercizio della sola azione sociale. Cass. I, ord. n. 14592/2022 ha ricordato un presupposto che in genere si dà per scontato. La natura contrattuale della responsabilità, ha affermato, richiede l'accertamento dell'accettazione da parte dell'amministratore dell'atto di nomina, la quale non richiede specifiche formalità, potendo risultare anche in modo tacito dal compimento di atti positivi incompatibili con una contraria volontà. Innanzitutto, l'attribuzione al curatore della legittimazione ad esercitare l'azione dei creditori sociali, accanto a quella sociale, consente al titolare della procedura l'esercizio di un'azione volta alla ricostruzione del patrimonio sociale (ed al corrispondente incremento della massa attiva ripartibile) che, proprio in quanto non appartenente, prima della sentenza dichiarativa, alla società poi fallita, è sganciata dalle determinazioni (transattive e dismissive: salva, per le prime, la necessità dell'impugnazione: art. 2394, ult. comma, c.c.) assunte dalla stessa (o meglio, dalla maggioranza dei suoi soci, che sono per lo più quelli che hanno designato i responsabili) prima del suo fallimento. L'azione dei creditori sociali, inoltre, anche se e quando sia esercitata dal curatore, è assoggettata ad un termine di prescrizione la cui decorrenza dipende in via esclusiva dal fatto oggettivo dell'emersione dell'insufficienza del patrimonio sociale a soddisfare i creditori sociali (e cioè, in concreto, salvo emergenze diverse, dalla sentenza di fallimento) ed è, come tale, sottratto alla verificazione di vicende tipicamente endosocietarie cui è, invece, connessa la decorrenza del termine di prescrizione previsto per l'azione sociale, che, per espressa disposizione di legge (art. 2393, comma 4, c.c., applicabile in via diretta sia all'azione di responsabilità contro gli amministratori, sia, in virtù di espliciti richiami, alle azioni di responsabilità proponibili contro i componenti degli organi di controllo o di liquidazione: v., in particolare, gli artt. 2407, ult. comma, e 2489, comma 2, c.c.), inizia con la cessazione (che può essere, se del caso dolosamente, molto anteriore al fallimento) del responsabile dalla carica ricoperta, quanto meno se in quel momento il danno si è già verificato. La legittimazione esclusiva del curatore, infine, ha l'importante effetto di escludere che i singoli creditori danneggiati, quanto meno a seguito di isolate azioni esperite durante la procedura ovvero pendenti al momento della sentenza dichiarativa, possano aggredire il patrimonio dei soggetti responsabili, tant'è che i creditori non possono agire neppure nel caso in cui il curatore non proponga, in concreto, l'azione (Trib. Milano 28 giugno 1993, Fall. 1994, 102), né intervenendo in via adesiva nel giudizio dallo stesso proposto (Trib. Genova 4 dicembre 1997, Fall. 1998, 318). Il legislatore, evitando il concorso dei singoli creditori sociali (e costringendo, in definitiva, questi ultimi a soggiacere alle regole del concorso attraverso l'insinuazione al passivo del credito vantato verso la società fallita e la conseguente partecipazione ai riparti fallimentari), ha inteso evidentemente assicurare al curatore la possibilità di aggredire in via pressoché esclusiva il patrimonio degli amministratori (e/o dei componenti degli organi di controllo e liquidazione) condannati al risarcimento dei danni provocati alla società ed ai creditori sociali, in funzione del riparto dell'attivo così conseguito tra tutti i creditori ammessi al passivo (assicurandone, così, la paritaria soddisfazione in nome della par condicio) e non soltanto tra quelli che, potendolo (e volendolo) fare, abbiano in concreto agito (o avrebbero potuto agire) in giudizio ex art. 2394 c.c. Sotto questo profilo l'attribuzione al curatore della legittimazione esclusiva a proporre l'azione dei creditori sociali svolge una funzione di carattere redistributivo dell'insolvenza tra tutti i creditori, non diversamente da quanto accade con la legittimazione a proporre l'azione revocatoria ordinaria ex art. 66 l.fall. Ed infatti, in mancanza di norme sostanziali che ne riservino l'attribuzione ai soli creditori sociali effettivamente danneggiati, le somme ricavate con il vittorioso esperimento dell'azione da parte del curatore sono destinate a soddisfare, al pari del bene recuperato con l'azione revocatoria ordinaria, non solo le ragioni dei creditori le cui pretese erano sorte in data anteriore al manifestarsi dell'insufficienza patrimoniale cagionata dall'inadempimento (rilevante) degli amministratori e che, come tali, sarebbero stati personalmente legittimati a proporre la domanda risarcitoria (ovvero del compimento dell'atto revocabile), ma, per il tramite dell'acquisizione all'attivo fallimentare di quanto è stato sottratto al patrimonio sociale per fatti degli amministratori (o del compimento dell'atto revocabile), anche di quei creditori della società (ammessi al passivo sociale ma) privi di tale legittimazione in quanto divenuti tali quando già il patrimonio sociale era divenuto incapiente alla loro integrale soddisfazione ed il cui diritto, quindi, giammai avrebbe potuto essere leso dall'atto di mala gestio compiuto dagli amministratori (ovvero dopo il compimento dell'atto revocabile, salva la dolosa preordinazione). Le ragioni della scelta del legislatore di attribuire al curatore del fallimento la legittimazione ad esperire sia l'azione sociale che l'azione dei creditori sociali sono chiaramente esposte da Cass. n. 10488/1998, secondo cui «l'art. 146 del r.d. 16 marzo 1942 n. 267 determina la sorte delle azioni di responsabilità contro gli amministratori, i sindaci, i direttori generali, i liquidatori, nella procedura di fallimento della società, con previsione della avocazione all'ufficio fallimentare dell'esercizio delle azioni previste dagli art. 2392- 2393 e 2394 c.c., e della rimessione alla libera iniziativa del socio come del terzo dell'azione che a loro compete a norma dell'art. 2395 c.c.. La sostituzione del curatore alla società fallita in persona dei suoi legali rappresentanti nell'esercizio dell'azione sociale di responsabilità rappresenta solo una particolare manifestazione specifica del generale effetto, previsto nel primo comma dell'art. 43 della legge fallimentare, per cui nelle controversie relative a rapporti di diritto patrimoniale compresi nel fallimento sta in giudizio il curatore, mentre, come ha rilevato la dottrina, la sostituzione della legittimazione del curatore a quella dei titolari dell'azione di cui all'art. 2394 c.c. non è, in se stessa, ricollegabile alla struttura del processo fallimentare, e rappresenta frutto di una scelta del legislatore volta ad assicurare alla curatela un maggior livello di tutela... la domanda risarcitoria contro gli amministratori può essere formulata così con riferimento ai presupposti della responsabilità verso la società come sulla base dei presupposti della responsabilità verso i creditori sociali. Tale possibilità, che si risolve in un risultato pratico di evidente vantaggio per il curatore, il quale potrà impostare la domanda in funzione di profili di opportunità per avvalersi a seconda dei casi della disciplina applicabile alla responsabilità contrattuale o di quella applicabile alla responsabilità extracontrattuale, non significa peraltro che la curatela la quale si avvalga consapevolmente e dichiaratamente dello strumento risarcitorio di cui agli art. 2393 e 2394 c.c. sostituendosi alla società, debba soggiacere a quanto di meno favorevole possa comportare astrattamente il ricorso all'azione di danni di cui all'art. 2394 c.c. in tema di delimitazione del danno risarcibile e dell'interesse ad agire nel senso sopra precisato». Sui profili di specialità dell'azione dei creditori sociali, quanto alle condizioni di esperibilità, al regime della rinuncia e della transazione e, soprattutto, alla legittimazione del curatore in caso di fallimento, cfr. Cass. n. 13465/2010, in motiv. La natura della legittimazione del curatore. L'art. 146, comma 2, lett. a), l.fall. e l'art. 2394-bis c.c., nella parte in cui prevedono che il curatore del fallimento possa proporre contro gli amministratori (e/o i componenti degli organi di controllo e liquidazione) l'azione sociale di responsabilità e l'azione di responsabilità spettante ai creditori sociali, non introducono un'azione nuova ed autonoma, unitaria e diversa, e cioè, rispettivamente, un'azione che sorga a titolo originario in capo al curatore del fallimento per effetto della sentenza dichiarativa (come, ad es., la revocatoria fallimentare) e che in modo inscindibile cumuli, mescolandoli tra loro, i presupposti di fatto e gli effetti giuridici (in materia, ad es., di ripartizione dell'onere della prova, di termine di prescrizione, di determinazione dei danni risarcibili, ecc.) dell'una e dell'altra azione. La norma, piuttosto, (specie nel nuovo testo, che non contiene neppure il rinvio, tipico della formulazione precedente, alle norme previste dagli artt. 2393 e 2394 c.c., ma un generico riferimento alle azioni di responsabilità esperibili, sulla base di una norma o principio sostanziale collocato aliunde, da parte del curatore del fallimento) stabilisce (rectius: riconosce) soltanto che il curatore acquista, in via derivata, la legittimazione ad esercitare le stesse azioni che, prima del fallimento, spettavano, separatamente, alla società (artt. 2392-2393 c.c.) ed ai creditori sociali (art. 2394 c.c.). A sostegno di tale ricostruzione depongono un dato letterale ed un dato sistematico. La lettera della norma prevista dall'art. 146, comma 2, l.fall., tanto nella sua originaria formulazione («l'azione di responsabilità... a norma degli artt. 2393 e 2394 del codice civile è esercitata dal curatore...»), quanto (ed a maggior ragione) nel suo testo attuale («sono esercitate dal curatore... le azioni di responsabilità...»), si limita ad un mero rinvio alle azioni proponibili fuori del fallimento senza fornire alcuna indicazione specializzante in ordine al contenuto ed ai presupposti delle stesse azioni se e quando proposte dal curatore del fallimento sociale. Ed, in effetti, così dispone l'art. 2394-bis c.c., introdotto dalla riforma del diritto societario, a norma del quale, in caso di fallimento, il curatore esercita le (stesse) azioni di responsabilità previste, in favore della società, dagli artt. 2392-2393 c.c., ed, in favore dei creditori sociali, dall'art. 2394 c.c. Sul piano della disciplina sostanziale, poi, le azioni di responsabilità della società e dei creditori sociali, pur quando proposte dal curatore, non sono, in concreto e per nessun aspetto, regolate in modo diverso rispetto al caso in cui le stesse azioni siano proposte, fuori del fallimento e separatamente, dalla società o dai creditori sociali a norma, rispettivamente, degli artt. 2392-2393 c.c. e dell'art. 2394 c.c. (per tale ricostruzione, v. Bonelli, 455 ss.; Franzoni, 398. Per la conferma di tale impostazione alla luce della riforma del diritto societario e della riforma del diritto fallimentare: Zamperetti, 828; Amatucci, 162, 163). In giurisprudenza, tale ricostruzione è stata espressa da: Cass. S.U., n. 5241/1981, Giur.comm. 1988, II, 768 ss. 770; Cass. n. 10488/1998; Cass. n. 13765/2007; Cass. n. 10378/2012; Cass. n. 15955/2012. Nella giurisprudenza di merito, Trib. Lecce 9 dicembre 2011, Fall. 2012, 705 ss.; Trib. Santa Maria C.V. ord. 23 maggio 2000, Riv.Not. 2003, 458 ss.; Trib. Milano 14 novembre 2006, Soc. 2007, 864 ss.. Trib. Napoli 31 maggio 2006, Soc. 2007, 1125 ss. Trib. Napoli 11 gennaio 2011, Soc. 2011, 510 ss; per la differente configurazione dell'azione del curatore ex art. 146, comma 2, l.fall. come un'azione nuova e diversa rispetto a quelle originariamente e separatamente attribuite alla società ed ai creditori sociali, delle quali cumula presupposti di fatto e disciplina giuridica, cfr. Di Nanni 6 ss. e, dopo la riforma del diritto societario e fallimentare, Audino, 850, 851, e nt. 9; Caridi, 884, in giurisprudenza, la ricostruzione secondo cui l'azione del curatore è, quanto meno sul piano degli effetti giuridici, se non nel nomen iuris, un'azione unica, autonoma, nuova e diversa rispetto a quella già spettanti alla società ed ai creditori sociali, di cui cumula, oltre agli scopi, i presupposti di fatto e la disciplina corrispondente come, ad es., la decorrenza della prescrizione dalla manifestazione dell'insufficienza del patrimonio sociale, l'onere della prova secondo le regole della responsabilità contrattuale, l'inopponibilità al curatore della rinuncia all'azione o dell'approvazione dell'operato degli amministratori da parte dei soci, ecc., v. Cass. n. 319/2013, in motiv.; Cass. n. 25977/2008. Cass. 17033/2008, Fall. 2008, p. 1145; Cass. n. 10937/1997, Fall. 1998, 697, secondo cui si tratta di un'unica azione e, «conseguentemente», la sua prescrizione decorre dal verificarsi dell'insufficienza patrimoniale). È dubbio, peraltro, se il curatore, acquisendo la legittimazione a proporre le stesse azioni che spettavano alla società ed ai creditori, debba, poi, esercitarle in modo necessariamente cumulativo, senza cioè poter scegliere il loro esercizio separato o successivo (così Cass. n. 10378/2012, in motiv.; in dottrina, cfr. Galgano, 1997, 89, per cui «il curatore non deve né può scegliere se esercitare l'una o l'altra azione: egli le esercita, necessariamente, entrambe...»), o se, al contrario, come sembra preferibile, possa scegliere di esercitare l'una o l'altra delle due azioni ovvero prima l'una e poi l'altra azione, potendosi al più presumere che, se il curatore non abbia specificato il titolo dell'azione proposta, le abbia proposte entrambe (così Cass. n. 13765/2007, per cui l'affermazione che «... le due azioni di responsabilità, rispettivamente previste dagli artt. 2393 e 2394 c.c., quando sopravvenga il fallimento della società e siano congiuntamente esercitate dal curatore a norma della L.fall., art. 146 costituiscono un'azione unica ed inscindibile, sta solo a significare che il medesimo curatore (al pari del commissario liquidatore nella procedura di liquidazione coatta amministrativa) non potrebbe pretendere di esercitare separatamente tali azioni al fine di conseguire due volte il ripristino del patrimonio della società fallita, cui dette azioni concorrono; e significa che l'eventuale mancata specificazione del titolo per il quale il curatore agisce fa presumere che egli abbia inteso esercitare congiuntamente entrambi tali azioni...»; Cass. n. 24715/2015, per cui «l'azione di responsabilità, esercitata dal curatore ai sensi dell'art. 146, comma 2, l.fall., cumula in sé le diverse azioni previste dagli artt. 2392-2393 c.c. e dall'art. 2394 c.c. a favore, rispettivamente, della società e dei creditori sociali, tant'è che il curatore può, anche separatamente, formulare domande risarcitorie tanto con riferimento ai presupposti dell'azione sociale, che ha natura contrattuale, quanto con riguardo a quelli della responsabilità verso i creditori, che ha natura extracontrattuale. Tali azioni, peraltro, non perdono la loro originaria identità giuridica, rimanendo tra loro distinte sia nei presupposti di fatto, che nella disciplina applicabile, differenti essendo la distribuzione dell'onere della prova, i criteri di determinazione dei danni risarcibili ed il regime di decorrenza del termine di prescrizione»; in dottrina, cfr. Sambucci, 711 e 712;, 583, dove rileva come «il curatore promuove entrambe le azioni normalmente ma non necessariamente»). In effetti, ferma restando l'impossibilità sostanziale di ottenere sulla base dei medesimi fatti un doppio risarcimento (in quanto pur sempre lesivi in via diretta dell'integrità del patrimonio sociale e solo di riflesso dei creditori della società, nella misura in cui lo stesso sia eventualmente diventato insufficiente alla loro completa soddisfazione), non si vede per la quale ragione il curatore debba necessariamente agire in giudizio con tutte e due le azioni. Al contrario, il curatore può scegliere di agire con una soltanto delle due azioni e, addirittura, agire prima con l'una e poi con l'altra (senza che, tra l'altro, vi sia alcun vincolo di giudicato derivante dal fatto che, in ipotesi, avrebbe comunque agito con entrambe le azioni), tanto più se si considera che, in concreto, potrebbero essersi verificati i presupposti dell'azione sociale (l'inadempimento degli amministratori e il danno al patrimonio della società) e non anche quelli dell'azione dei creditori sociali (che, richiedendo l'insufficienza del patrimonio sociale e non – come detto – la sua insolvenza, può manifestarsi prima ma anche dopo la dichiarazione di fallimento): in tale ipotesi, il curatore, pur potendo (e dovendo, per dovere di diligenza ex art. 38 l.fall.) proporre l'azione sociale (artt. 31 e 41, comma 1, l.fall.) — che peraltro si prescrive in cinque anni dalla cessazione del responsabile dalla carica ma con decorrenza in ogni caso dalla sentenza di fallimento — non può essere costretto a proporre l'azione dei creditori pur se priva di uno dei suoi presupposti essenziali, e cioè l'insufficienza del patrimonio della società (così come acquisto alla massa attiva ex artt. 87 e ss. l.fall.) al completo soddisfacimento dei creditori ammessi al passivo (artt. 93 e ss. l.fall.): solo al suo eventuale verificarsi (ad es., a seguito della stima dei cespiti e/o delle progressive risultanze del giudizio di verifica del passivo), il curatore può (e, probabilmente, deve) proporre l'azione dei creditori della società ex artt. 2394, 2394-bis c.c. e 146, comma 2, lett. a), l.fall.. Ciò comporta, quindi, la necessità di stabilire di volta in volta, alla luce degli ordinari criteri di interpretazione della domanda giudiziale (e cioè sulla base dei fatti contestati, piuttosto che delle norme invocate: Cass. n. 17121/2010), se il curatore ha esercitato entrambe le azioni, deducendone in giudizio i relativi (e rispettivi) fatti costitutivi ovvero soltanto l'una o l'altra delle due azioni: da tale verifica, infatti, dipende la corretta individuazione del regime giuridico applicabile alla domanda o alle domande effettivamente proposte, e, quindi, per la loro diversa natura e disciplina giuridica, i criteri di distribuzione dell'onere della prova ed il regime delle eccezioni proponibili (come quella di prescrizione (Cass. n. 15955/2012; Cass. n. 19051/2011) nonché — specie nel caso in cui le azioni devolute alla legittimazione del curatore, siano proposte ex novo, dopo la chiusura del fallimento, dalla società ovvero dai creditori rimasti in tutto o in parte insoddisfatti — l'ambito oggettivo del relativo giudicato e, come si vedrà in seguito, la determinazione dei danni effettivamente risarcibili. Il curatore, poiché esercita le stesse azioni che spettavano alla società ed ai creditori, può subentrare nell'azione già proposta, prima del fallimento, dalla società poi fallita e/o da uno o più creditori sociali, nei limiti, naturalmente, della causa petendi ritualmente dedotta in giudizio e del relativo petitum Se, infatti, la procedura concorsuale sopraggiunge in pendenza di un giudizio di responsabilità già intrapreso dalla società ai sensi dell'art. 2393 c.c., il curatore non può proporre nel medesimo giudizio una nuova domanda volta a far valere anche la responsabilità degli amministratori nei confronti dei creditori sociali: la comune titolarità delle due azioni in pendenza di procedura concorsuale non toglie che l'esercizio di quella ex art. 2394 c.c. introduca temi nuovi, rispetto a quanto aveva formato oggetto della domanda originaria (Cass. n. 13765/2007). Né tale domanda può essere intesa in termini di mera emendatio libelli proprio per la indicata diversità dei presupposti e quindi della causa petendi (costituita, nell'un caso, dal danno al patrimonio sociale e, nell'altro caso, anche dall'insufficienza di detto patrimonio a soddisfare i creditori della società), da cui discende anche la (eventualmente) diversa decorrenza dei termini di prescrizione e delle regole sull'onere della prova: il che, appunto, non consente di introdurre tale ulteriore domanda in una causa già in corso, derivandone altrimenti una inammissibile compressione del diritto di difesa di chi si è preparato a fronteggiare solo la prima domanda ma non anche l'altra (Cass. n. 13765/2007). Lo stesso è a dirsi per il caso in cui, al momento del fallimento, sia pendente l'azione proposta da un creditore sociale: il curatore, in tal caso, subentrando nel giudizio, non può proporre l'azione sociale (e, probabilmente, neppure l'azione ex art. 2394 c.c. nei limiti in cui sia maturata esclusivamente in capo ad un diverso ovvero a diversi creditori). Il curatore, inoltre, proponendo le stesse azioni che spettano alla società ed ai creditori sociali, subisce gli effetti preclusivi derivanti dall'eventuale giudicato formatosi sulle predette azioni ove proposte, per gli stessi fatti, prima del fallimento nonché del tempo di prescrizione decorso prima del fallimento (Cass. n. 14961/2007). Nello stesso modo, infine, dopo la chiusura del fallimento, la società ed i singoli creditori possono proseguire le azioni, a ciascuno di essi rispettivamente spettanti, intraprese dal curatore, nei limiti, ovviamente, dei danni subiti (Cass. n. 9904/2000; Cass. n. 6029/2014, per cui «la sopravvenuta chiusura del fallimento non determina l'improseguibilità delle azioni esercitate dal curatore che, come quelle di responsabilità spettanti alla società ed ai creditori sociali, sussistono anche al di fuori della procedura e non la presuppongono)». In tale prospettiva, le azioni che il curatore esercita ai sensi dell'art. 2393 c.c. e dell'art. 2394 c.c., pur se ormai accomunate dalla comune legittimazione, continuano ad avere presupposti diversi (il danno prodotto alla società da ogni illecito doloso o colposo degli amministratori per violazione di doveri imposti dalla legge e dall'atto costitutivo, nell'un caso, l'insufficienza patrimoniale cagionata dall'inosservanza di obblighi di conservazione del patrimonio sociale, nell'altro) e ad essere soggette ad un diverso regime giuridico, non solo per quel che riguarda l'onere della prova, ove si tenga fermo che l'azione di responsabilità dei creditori sociali non ha carattere surrogatorio, bensì diretto ed aquiliano ma anche con riferimento ai termini di prescrizione ed alla loro decorrenza (Cass. n. 13765/2007; conf. Cass. n. 10378/2012; Cass. n. 15955/2012). Resta ferma, quindi, l'autonomia giuridica delle due azioni che, conservando la loro originaria natura e disciplina, rimangono distinte tra loro sia sotto l'aspetto sostanziale che sotto il profilo processuale. Il regime giuridico delle azioni esercitate dal curatore Il fatto che il curatore sia legittimato a promuovere unitariamente le azioni previste dagli artt. 2393 e 2394 c.c. non significa, quindi, che, in giudizio, non debbano comunque essere esaminati i diversi profili di responsabilità. L'azione del curatore, infatti, non è, come detto, una nuova ed autonoma azione di responsabilità che cumuli, mescolandoli tra loro, i presupposti ed il regime giuridico dell'una e dell'altra azione, consentendo, in tal modo, al curatore di avvantaggiarsi della disciplina di volta in volta più favorevole: ad es., il termine di prescrizione previsto per l'azione dei creditori, l'articolazione dell'onere della prova previsto per l'azione sociale, ecc. Si tratta, piuttosto, di un'azione o, più precisamente, di una legittimazione cumulativa, nel senso che il curatore, per effetto del fallimento, ha la facoltà di proporre contemporaneamente, in sostituzione dei rispettivi titolari originari, sia l'azione della società fallita, sia l'azione dei suoi creditori. Le domande che il curatore propone ai sensi dell'art. 2393 c.c. o dell'art. 2394 c.c. restano, tuttavia, distinte: ed infatti, pur se accomunate (a seguito del fallimento) dalla comune legittimazione in capo al curatore, esse continuano ad avere presupposti diversi, e cioè, nell'azione sociale, il danno prodotto alla società da ogni illecito doloso o colposo degli amministratori per violazione di doveri imposti dalla legge e dall'atto costitutivo e, nell'azione dei creditori sociali, l'insufficienza patrimoniale cagionata dall'inosservanza degli obblighi di conservazione del patrimonio sociale, nonché, e per l'effetto, ad essere soggette ad un diverso regime giuridico, non solo per quel che riguarda l'onere della prova (Cass. n. 13765/2007; Trib. Santa Maria C.V., 23 maggio 2000, Riv. not., 2003, 458) – sempre che si ritenga che l'azione di responsabilità dei creditori sociali, a differenza di quella sociale, abbia carattere diretto (in tal senso, in dottrina, Bonelli, 192 ss.; Frè-Sbisà, 860, ed, in giurisprudenza, Cass. n. 13765/2007; Cass. n. 1812/2005; per la tesi della natura surrogatoria dell'azione dei creditori sociali, v., in dottrina, Minervini, 229 ss e 329-348, ed, in giurisprudenza, Cass. n. 15487/2000; Cass. n. 2251/1998; Cass. n. 2251/1998) ed aquiliano (in tal senso, Franzoni, 80; Weigmann, 218; in giurisprudenza, Cass. n. 13465/2010; Cass n. 13765/2007; per la natura contrattuale, invece, v. Sambucci, 703; Iannaccone, 101 ss, 104, 105; in giurisprudenza, la natura contrattuale dell'azione ex art. 2394 c.c. è stata sostenuta da Cass. n. 2772/1999) – ma anche con riferimento ai termini di prescrizione ed alla loro decorrenza (Cass. n. 13765/2007; Cass., n. 14961/2007; Cass., n. 10488/1998). L'azione sociale e l'azione dei creditori sociali, quindi, pur se e quando sono proposte dal curatore del fallimento, e cioè da un soggetto diverso da quelli (e cioè, rispettivamente, la società ed i creditori sociali) che, in via ordinaria, fuori del fallimento, sarebbero legittimati al rispettivo esperimento, non perdono la loro originaria identità giuridica e la relativa disciplina. Intanto, le pretese che ne sono il rispettivo oggetto non sono pienamente sovrapponibili: né sotto il profilo della composizione dell'illecito che ne è il fondamento né per quanto riguarda la determinazione quantitativa dei danni conseguentemente risarcibili né, infine, per ciò che concerne la disciplina dei termini per il relativo esercizio. Sul piano della struttura dell'illecito, occorre, infatti, ricordare che: L'art. 2392 c.c. attribuisce alla società il diritto a che gli amministratori (ed i componenti degli organi di controllo e di liquidazione) adempiano con la dovuta diligenza (e, se del caso, professionalità) a tutti i doveri previsti a loro carico dalla legge o dall'atto costitutivo sicché, in caso di inadempimento (o del suo mancato impedimento), può pretendere da essi il risarcimento dell'intero pregiudizio conseguentemente subito dal patrimonio sociale, in termini di danno emergente e di lucro cessante; i creditori sociali, invece, in forza dell'art. 2394 c.c., hanno il diritto di essere soddisfatti dagli amministratori (e/o dai componenti degli organi di controllo e di liquidazione) della società debitrice solo se e nella misura in cui i loro crediti non possano essere soddisfatti dalla società perché gli stessi, violando (o non impedendo la violazione de) i (soli) doveri inerenti alla conservazione dell'integrità del patrimonio sociale, lo hanno menomato (in termini, quindi, soltanto di danno emergente) in modo da renderlo insufficiente al loro pagamento integrale. L'azione sociale, quindi, almeno in astratto, ha un contenuto che, a fronte dei predetti dati normativi, risulta senz'altro più ampio rispetto a quello attribuito all'azione dei creditori sociali (Bartalini, 414 e 417 e 427; De Nicola, 655; Mozzarelli, 38, 39, e nt. 91, 40, e nt. 93). L'azione della società ha, per causa petendi, tutte le possibili violazioni commesse dagli amministratori (e dai componenti degli organi di controllo e di liquidazione) ai doveri giuridici previsti a loro carico dalla legge o dall'atto costitutivo — indipendentemente dal fatto che, in conseguenza, il patrimonio sociale sia (ancora) sufficiente o, al contrario, sia diventato insufficiente all'integrale soddisfazione dei creditori della società — e, per petitum, il risarcimento di tutti i danni conseguentemente risentiti dal patrimonio della società, in termini di danno emergente (con la riduzione dell'attivo e/o l'aumento del passivo sociale) ma anche di mancato guadagno (Cass. n. 10488/1998, per cui, nell'azione sociale, il danno risarcibile è il pregiudizio causalmente riconducibile, in via diretta ed immediata, alla condotta dolosa o colposa, dell'amministratore, sotto il profilo del danno emergente e del lucro cessante; Cass. n. 10378/2012), ivi compresi, quindi, i danni arrecati al patrimonio della società che non lo abbiano reso insufficiente al completo soddisfacimento dei creditori sociali, tant'è che non può essere eccepito al curatore «che il quantum preteso a titolo di risarcimento ecceda l'importo necessario per pagare i creditori, posto che egli agisce anche per la tutela dei diritti della società» (Jorio, 582 e nt. 15). L'azione dei creditori sociali, invece, ha per oggetto esclusivamente (e più limitatamente) l'inosservanza da parte degli amministratori (o dei sindaci, liquidatori, ecc.) agli obblighi inerenti, e cioè funzionali, alla conservazione dell'integrità del patrimonio sociale (Bartalini, 414, 417, 427; Mozzarelli, 38-39, e nt. 91, 40, e nt. 93 e 57. Cass. n. 10378/2012, in motiv.) ed, a differenza dell'azione sociale, richiede che tale inadempimento abbia provocato al patrimonio sociale, già capiente in tutto o in parte (Rordorf, 617), un danno (emergente) – e non semplicemente un mancato guadagno – tale da provocarne, mediante il decremento dell'attivo e/o l'incremento del passivo (fermo restando, però, che l'assunzione di nuove obbligazioni a fronte di un attivo inesistente, sebbene sia un danno per la società, non costituisce un pregiudizio risarcibile per i creditori: Rordorf, 617), l'insufficienza all'integrale pagamento dei creditori sociali e, quindi, l'inadempimento o l'impossibilità di adempimento da parte della società (Franzoni, 80; Frè-Sbisà, 861, per cui «il diritto che la legge riconosce ai creditori sociali» sorge quando «... per colpa degli amministratori stessi la società non è più in grado di adempiere»), ed è volta, infine, ad un risarcimento (non esteso all'intero pregiudizio cagionato al patrimonio della società, come nell'azione sociale, che riguarda sia il danno emergente che il lucro cessante, ma) contenuto, nella misura, all'ammontare delle pretese vantate verso la società dai (soli) creditori danneggiati (Cass. n. 10488/1998; Cass. n. 20637/2004; Trib. Milano 2 ottobre 2006, Giur. it., 2007, 382; Franzoni, 80), nei limiti, però, del danno (emergente) arrecato al patrimonio sociale (Cass. n. 15487/2000, dove, con riferimento ad un caso in cui gli amministratori avevano provveduto alla indebita erogazione di compensi per sé o per altri senza idonei atti deliberativi e prestazioni giustificative, con la conseguente sottrazione delle relative risorse alla società, ha osservato che «... il danno si commisura alla corrispondente riduzione della massa attiva disponibile») e/o della sua (conseguente) insufficienza alla completa soddisfazione del creditore (Cass. n. 3483/1998, in motiv., dove rileva come l'azione ex art. 2394 c.c. è volta a riparare «il danno indiretto da lesione del patrimonio sociale oltre i limiti della capienza rispetto ai debiti cui deve far fronte»). Ne consegue che, pur se e quando sia esercitata dal curatore del fallimento della società, l'azione sociale richiede che siano dedotti e dimostrati in giudizio gli stessi fatti che, fuori del fallimento, la società ha l'onere di allegare e provare per l'accoglimento della domanda, e cioè che gli amministratori (e/o i componenti degli organi di controllo e di liquidazione) non hanno adempiuto ad un (qualsiasi) dovere giuridico previsto a loro carico dalla legge o dall'atto costitutivo (ivi compresi, quindi, i doveri giuridici diversi da quelli inerenti alla conservazione dell'integrità del patrimonio sociale ovvero i doveri giuridici che, se osservati, avrebbero incrementato il patrimonio sociale), e che tale inadempimento ha cagionato un danno al patrimonio della società, in termini sia di danno emergente che di mancato guadagno, indipendentemente dal fatto che, in conseguenza, il patrimonio sociale sia (ancora) sufficiente o, al contrario, sia diventato insufficiente all'integrale soddisfazione dei creditori della società: ivi compresi, quindi, i danni arrecati al patrimonio della società che non lo abbiano reso insufficiente al completo soddisfacimento dei creditori sociali (Cass. n. 14088/1998; Cass. n. 4415/1979, per cui «l'interesse della società fallita, la cui tutela è parimenti e contemporaneamente affidata al curatore, richiede che venga acquisito all'attivo tutto ciò di cui il patrimonio della società stessa è stato depauperato (anche se i creditori non ne hanno subito danno) per fatti commessi dagli amministratori in violazione dei doveri ad essi imposti dalla legge e dall'atto costitutivo»). Nello stesso modo, l'azione dei creditori sociali, pur se proposta dal curatore, richiede che siano dedotti e provati in giudizio gli stessi fatti che, fuori del fallimento, i (singoli) creditori della società debitrice hanno l'onere di allegare e dimostrare per l'accoglimento della domanda, e cioè che gli amministratori (e/o i componenti degli organi di controllo e di liquidazione) non hanno adempiuto (non ad un qualsiasi dovere ma) ad un obbligo inerente alla conservazione dell'integrità del patrimonio sociale, e che tale inadempimento ha provocato, in termini di danno emergente (e non, quindi, di semplice mancato guadagno), un pregiudizio al patrimonio della società tale da provocarne l'insufficienza all'integrale pagamento dei creditori sociali che, per l'effetto, sono rimasti insoddisfatti in tutto o in parte. Al riguardo, va ricordato che l'insufficienza patrimoniale consiste nella «eccedenza delle passività sulle attività» e si verifica «quando l'attivo sociale, raffrontato ai debiti della società, sia insufficiente al loro soddisfacimento» (Bonelli, 443), distinguendosi «... dall'insolvenza, che costituisce il presupposto della dichiarazione di fallimento ed è determinata dall'impossibilità per il debitore di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni (art. 5 l.fall.) e, come tale, non implica necessariamente un'eccedenza delle passività sulle attività» (Cass. n. 5287/1998; Cass. n. 941/2005; in precedenza, Cass. S.U., n. 5241/1981). L'insolvenza, infatti, si verifica quando il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni (art. 5 l.fall.) e non presuppone necessariamente l'insufficienza del patrimonio sociale (attivo inferiore al passivo) poiché può dipendere anche da uno stato di illiquidità e cioè di irrealizzabilità dell'attivo (uguale o superiore al passivo) al momento della scadenza delle obbligazioni: in tale ipotesi la società è insolvente nonostante che il suo patrimonio sia integro (cfr. Cass. n. 9619/2009). L'insufficienza non coincide neppure con la perdita del capitale sociale, dal momento che quest'ultima evenienza può verificarsi anche quando vi è un pareggio tra attivo e passivo e, quindi, tutti i creditori potrebbero trovare di che soddisfarsi nel patrimonio della società (Cass. n. 9616/2009). L'insufficienza del patrimonio sociale, distinguendosi dallo stato di insolvenza, può, in concreto, verificarsi e, soprattutto, manifestarsi — cioè «risultare», in termini di oggettiva e generalizzata possibilità per tutti i creditori sociali di conoscere l'insufficienza del patrimonio sociale alla integrale soddisfazione dei loro crediti — tanto prima quanto dopo la dichiarazione di fallimento (Cass. n. 941/2005; Cass. n. 5287/1998), come accade, rispettivamente, nel caso di un concordato preventivo non completamente satisfattivo ovvero a conclusione della procedura di liquidazione dell'attivo, in sede di bilancio finale di liquidazione, o durante tale procedura, quando il divario tra il valore dei beni e l'importo globale dei debiti appare sicuramente incolmabile, e nel caso di fallimento dichiarato per illiquidità ma a fronte di un'eccedenza dell'attivo rispetto al passivo venuta meno in pendenza della procedura poiché, rispetto alle emergenze dell'(ultimo) bilancio (se del caso anche quello depositato a norma dell'art. 16, n. 3, l.fall. ovvero dell'art. 15, comma 5, l.fall.) della società fallita, l'entità dei debiti accertati in sede di decreto di esecutività dello stato passivo è maggiore rispetto al valore ricavato o, ancor prima, rispetto al valore di stima o di presumibile realizzo dell'attivo acquisito alla procedura. Lo stato di insolvenza delle società che non siano in liquidazione va desunto non già dal rapporto tra attività e passività, bensì dall'impossibilità dell'impresa di continuare ad operare proficuamente sul mercato, che si traduca in una situazione d'impotenza strutturale (e non soltanto transitoria) a soddisfare regolarmente e con mezzi normali le proprie obbligazioni, per il venir meno delle condizioni di liquidità e di credito necessarie allo svolgimento dell'attività (così Cass. I, ord. n. 7087/2022). Peraltro, in difetto di (prova circa la) risultanza prefallimentare o postfallimentare dell'insufficienza patrimoniale a soddisfare tutti i creditori sociali, può ragionevolmente presumersi che, come è normale, tale situazione sia risultata, e cioè si sia manifestata in modo oggettivo, proprio con e per effetto della sentenza che dichiari il fallimento (artt. 5 e 16 l.fall.) ovvero che dichiari lo stato di insolvenza della società (artt. 195 e 202 l.fall.). La sentenza che dichiara il fallimento o lo stato di insolvenza della società (e non, quindi, il decreto di apertura della liquidazione coatta amministrativa: artt. 197 ss l.fall.) — come tale (con la connessa presunzione assoluta di conoscenza) ovvero, a seguito della riforma, con la sua iscrizione nel registro delle imprese (artt. 16, ult. comma, e 195, comma 4, l.fall.) — segna il momento a partire dal quale, almeno di regola e salva la prova contraria, lo stato di squilibrio patrimoniale è oggettivamente percepibile dalla generalità dei creditori sociali (Cass. n. 11472/2008). La prova dell'emergenza oggettiva e generalizzata dell'insufficienza patrimoniale prima o dopo il fallimento spetta, naturalmente, a chi di volta in volta ne sia interessato (Cass. n. 13907/2014, in motiv.), come nel caso dell'eccezione di prescrizione. Il curatore, inoltre, subentrando nelle stesse azioni spettanti, prima del fallimento alla società ed ai (singoli) creditori sociali, non può ottenere un risarcimento diverso (minore o maggiore) rispetto a quello che, prima del fallimento, avrebbero potuto ottenere, nell'esercizio delle azioni di loro rispettiva pertinenza, la società ed i creditori sociali. E, precisamente: esercitando l'azione sociale di responsabilità, il curatore può pretendere un risarcimento comprensivo di tutti i danni che gli amministratori (ed i componenti degli organi di controllo e di liquidazione) hanno illecitamente cagionato al patrimonio della società, ivi compresa la mancata realizzazione di un lucro, anche se i creditori sociali non ne abbiano risentito alcun danno (ad es. perché l'attivo liquidato è sufficiente al loro pagamento integrale e sia conseguentemente possibile l'immediata chiusura del fallimento per integrale soddisfazione dei creditori insinuati al passivo) ed, in ogni caso, pur quando l'entità del risarcimento conseguibile fosse superiore alla differenza tra attivo distribuibile e passivo concorsuale (Bonelli, 455, nt. 107). Viceversa, esercitando l'azione dei creditori sociali, il curatore non può pretendere un risarcimento superiore, nel quantum, alle pretese (così come insinuate nel fallimento) effettivamente danneggiate e, quindi, nella misura massima, alla differenza tra l'attivo realizzato (o realizzabile) ed il passivo accertato, nei limiti, però, in cui il patrimonio sociale (già almeno in parte capiente) è diventato insufficiente a soddisfare integralmente i creditori sociali ammessi (Perugino, 1157, 1158) ed, ovviamente, del minor danno provocato al patrimonio in termini di danno emergente (Cass. n. 15487/2000, per cui il danno, nell'azione di responsabilità proposta dal curatore a norma degli artt. 2394 c.c. e 146, comma 2, l.fall., corrisponde alla riduzione, provocata dall'inadempimento degli amministratori, della massa attiva disponibile), sicché, in definitiva, nell'azione dei creditori sociali esercitata dal curatore, il danno liquidabile corrisponde alla minor somma tra il pregiudizio arrecato al patrimonio della società ed il valore dei crediti rimasti, per l'effetto, in tutto o in parte insoddisfatti. Così, ad es.: se il patrimonio sociale è pari a 1.000 mentre i debiti sociali ammontano a 1.500, l'amministratore che distrae beni per 100 riducendo il patrimonio a 900 risponde verso i creditori sociali solo nei limiti del danno arrecato, pari a 100, pur se i debiti rimasti insoddisfatti ammontano a 600; se il patrimonio è pari a 2.000 e i debiti sociali sono pari a 1.500, l'amministratore che sottrae beni per 700 riducendo il patrimonio a 1.300 risponde nei limiti dei creditori rimasti insoddisfatti, e dell'insufficienza conseguentemente arrecata, pari 200, pur se il danno alla società è pari a 700. L'unica particolarità è che, in mancanza di norme che riservino il risarcimento così conseguito ai soli creditori (precedenti e, come tali) effettivamente danneggiati dall'inadempimento contestato dal curatore, la somma che quest'ultimo riceve dall'esercizio dell'azione dei creditori sociali è devoluta (ove mai distinguibile da quella imputabile, in forza dei medesimi fatti, al vittorioso esperimento dell'azione sociale) all'intera massa passiva, ivi compresi, quindi, i creditori che non sono risultati danneggiati dall'inadempimento (quali, appunto, i creditori sociali successivi alla violazione commessa dagli amministratori), nello stesso modo in cui, in mancanza di norme che depongono in modo diverso, il risultato utile dell'esercizio dell'azione revocatoria ordinaria proposta dal curatore a norma dell'art. 66 l.fall. non è riservata ai creditori anteriori all'atto ma anche a quelli successivi: l'azione in esame, infatti, è, (solo) sotto il profilo in esame, un'azione di massa e, come tale, devoluta alla soddisfazione indifferenziata di tutti i crediti ammessi al passivo. In tal senso, Cass.S.U. n. 7030/2006, secondo cui «l'azione di massa è caratterizzata dal carattere indistinto quanto ai possibili beneficiari del suo esito positivo» e «perviene... all'effetto di aumentare la massa attiva». Sotto questo solo profilo, quindi, l'azione dei creditori sociali, pur configurandosi come un'azione autonoma rispetto all'azione sociale di responsabilità, finisce per assumere, se e quando esercitata dal curatore del fallimento, i caratteri tipici di un'azione surrogatoria, nella misura in cui determina, in funzione del concorso, (non già l'immediata soddisfazione dei creditori danneggiati, ma, in modo non dissimile rispetto all'azione sociale) l'incremento della massa attiva (mobiliare) ripartita tra tutti i creditori ammessi. Naturalmente — quanto meno per i danni conseguenti ai medesimi fatti illeciti (dedotti in giudizio sia ai fini previsti dagli artt. 2392-2393 c.c., quale inadempimento ai doveri previsti nell'interesse della società, sia ai fini indicati a norma dell'art. 2394 c.c., quale violazione ai doveri di conservazione del patrimonio sociale nell'interesse dei suoi creditori) — il curatore del fallimento non può pretendere di cumulare il risarcimento dovuto alla società con il risarcimento dovuto, nei limiti indicati, ai creditori sociali (Cass. n. 13765/2007): il curatore, per difetto di interesse in relazione al danno già risarcito, può solo chiedere il risarcimento più elevato che, in termini pecuniari, l'una o l'altra azione sono in grado di procurargli. Il fatto che il curatore, agendo in giudizio a norma dell'art. 146, comma 2, l.fall., proponga non un'azione autonoma, che sorga in suo favore a titolo originario a causa della sentenza dichiarativa, ma le stesse ed identiche azioni che, prima del fallimento, spettavano, separatamente, alla società ed ai creditori sociali, comporta, poi, che, in linea di principio, l'azione sociale e l'azione dei creditori sociali, pur se e quando sono esercitate dal curatore, restano assoggettate alle stesse regole, più o meno favorevoli per il curatore, che, per ciascuna di esse (e per ciascuna questione in cui esse si articolino), valgono fuori del fallimento, a partire dalla distribuzione dell'onere probatorio che consegue alla loro differente natura giuridica: mentre l'azione sociale di responsabilità ha natura contrattuale (Cass. n. 2324/2014), l'azione di responsabilità verso i creditori sociali ha (con ogni probabilità) natura extracontrattuale, pur se fatta valere nell'ambito del fallimento. Di conseguenza, nell'esercizio dell'azione sociale, il curatore (sia pur con le peculiarità conseguenti alla natura generica o specifica del dovere violato: Cass. n. 5718/2004) ha l'onere di dimostrare l'inadempimento ai doveri previsti dalla legge o dall'atto costitutivo, il danno arrecato al patrimonio sociale (in termini di danno emergente e/o di lucro cessante) ed il nesso causale, mentre la colpa è presunta ex art. 1218 c.c., spettando, quindi, al convenuto la prova contraria, e cioè che l'inadempimento è stato, in concreto, determinato da causa non evitabile o superabile con la dovuta diligenza (Cass. n. 6037/2010; Trib. Roma 7 marzo 1991, NGCC 1992, I, 283). PerCass. I, ord. n. 4347/2022 nell'azione di responsabilità promossa dal curatore fallimentare ex art. 146 l.fall. nei confronti dell'amministratore, ed ai fini della liquidazione del danno cagionato da quest'ultimo per aver proseguito l'attività dopo l'avvenuta riduzione per perdite del capitale sociale al di sotto del minimo legale (così come previsto dall'art. 2449 c.c. nel testo anteriore all'entrata in vigore del d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, ratione temporis applicabile al caso di specie), il giudice può avvalersi in via equitativa, nel caso di impossibilità di una ricostruzione analitica dovuta all'incompletezza dei dati contabili, del criterio presuntivo della differenza dei netti patrimoniali, indicandone le ragioni ed a condizione che sia stato allegato un inadempimento dell'amministratore almeno astrattamente idoneo a porsi come causa del danno lamentato e siano state specificate le ragioni impeditive di un rigoroso distinto accertamento degli effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell'amministratore. Viceversa, nell'esercizio dell'azione dei creditori, che ha natura extracontrattuale, il curatore deve provare l'inosservanza agli obblighi inerenti la conservazione del patrimonio sociale (e cioè l'inadempimento), che tale inosservanza è dovuta a dolo o colpa (e la violazione di specifiche prescrizioni poste dalla legge a carico degli stessi integra, quali norme precauzionalmente preposte a garantire l'integrità del patrimonio sociale, di per sé sola gli estremi della colpa cd. specifica: Galgano, 2004, 290, 291) e che la stessa ha provocato — in termini di danno emergente e/o di incremento del passivo — un pregiudizio al patrimonio sociale tale da renderlo (a fronte della sua iniziale capienza, che va provata: Sambucci, 704) insufficiente al soddisfacimento, anche solo parziale, (di volta in volta, di uno, di più o di tutti) i crediti verso la società, che la stessa, quindi, non ha, in conseguenza, adempiuto o potuto adempiere. Per le stesse ragioni, l'esercizio di un'azione può subire eccezioni, in tutto o in parte, diverse da quelle che possono essere sollevate nei confronti dell'altra. Infatti, a fronte dell'azione sociale, gli amministratori (e/o i componenti degli organi di controllo e di liquidazione) possono eccepire che la società ha validamente ed efficacemente rinunciato o transatto sull'azione sociale di responsabilità (Bonelli, 455, 456) – sempre che il curatore non possa impugnare tali atti (ad es., a norma degli artt. 64 e ss. l.fall.) ovvero non possa contestare le delibere assembleari che li hanno approvati (art. 2393, ult. comma, c.c.) – nonché la compensazione con loro crediti (ad es., al compenso dovuto) vantati verso la società (Bartalini, 465, nt. 371). A fronte dell'azione dei creditori sociali, invece, gli amministratori (ed i componenti degli organi di controllo e di liquidazione) non possono eccepire al curatore del fallimento che la società ha rinunciato all'azione sociale di responsabilità (art. 2394, comma 3, c.c.), trattandosi di atti inopponibili ai creditori sociali ed, a fortiori, al curatore del fallimento. Se, invece, la società ha validamente transatto l'azione sociale, il curatore, a norma dell'art. 2394, ult. comma, c.c., può esercitare l'azione dei creditori sociali solo dopo avere efficacemente esperito l'azione revocatoria (ordinaria e/o fallimentare) contro la transazione stipulata dalla società. Le azioni in esame, poi, sono assoggettate ai termini di esercizio che valgono, per ciascuna di essere, fuori del fallimento (Bonelli, 455, 456; in giurisprudenza, Cass. n. 13765/2007). L'azione sociale, infatti, pur se e quando esercitata dal curatore, è assoggettata al termine di prescrizione quinquennale previsto, in generale, dall'art. 2949, comma 1, c.c., trattandosi di un diritto che, in capo alla società (e quindi, dopo il fallimento, al suo curatore ex art. 31 l.fall.), deriva da un «rapporto sociale», e cioè dal rapporto giuridico che lega la società ai soggetti preposti ai suoi diversi organi. L'azione di responsabilità nei confronti degli amministratori ex art. 2394 c.c., esercitata dal curatore fallimentare a norma dell'art. 146 l. fall., è soggetta a prescrizione quinquennale che decorre dal momento dell'oggettiva percepibilità, da parte dei creditori, dell'insufficienza dell'attivo a soddisfare i debiti; pertanto, in ragione dell'onerosità della prova gravante sul curatore, sussiste una presunzione "iuris tantum" di coincidenza tra il "dies a quo" di decorrenza della prescrizione e la dichiarazione di fallimento, ricadendo sull'amministratore la prova contraria della diversa data, anteriore, di insorgenza e percepibilità dello stato di incapienza patrimoniale, con la deduzione di fatti sintomatici di assoluta evidenza, la cui valutazione spetta al giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità, se non nei limiti di cui all'art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c. (Cass. I, ord. n. 3552/2023). In particolare, anche nei confronti del curatore il termine di prescrizione dell'azione sociale decorre dal compimento dell'atto illecito o, più precisamente, dal momento in cui il fatto illecito ha provocato un danno (risarcibile) al patrimonio della società fallita. Il suo decorso, però, è sospeso (la sospensione deve essere eccepita dal curatore e non è rilevabile di ufficio: Cass. n. 10378/2012, in motiv.) durante il periodo in cui l'amministratore (o il liquidatore) responsabile — ma non il componente dell'organo di controllo (Cass. n. 19051/2011; Cass. n. 13765/2007) o il direttore generale (sul punto v. Cass. n. 13765/2007) — è rimasto in carica (art. 2941, n. 7, c.c.), indipendentemente dal fatto che il danno fosse già conosciuto o conoscibile. La sospensione opera, però, fino e non oltre la dichiarazione di fallimento. Si applica all'azione sociale esercitata dal curatore anche la norma introdotta dalla riforma del diritto societario (e che non ha effetto retroattivo: Cass. n. 10378/2012, in motiv.), che, modificando l'art. 2393, comma 4, c.c., ha stabilito che tale azione può essere esercitata entro cinque anni dalla cessazione dalla carica del responsabile. Anche l'azione dei creditori sociali, pur se esercitata dal curatore del fallimento, è assoggettata al termine di prescrizione che per tale azione opera fuori del fallimento, e cioè cinque anni (art. 2949, comma 2, c.c.), con decorrenza, però, non dalla commissione dei fatti integrativi della responsabilità né dalla concreta verificazione dell'insufficienza e neppure dal momento in cui si è la società non ha adempiuto, ma dal momento in cui, in conseguenza dell'inadempimento commesso dagli amministratori al dovere di conservazione dell'integrità del patrimonio sociale, sia risultata, in qualunque modo, purché oggettivo e generalizzato a tutti i creditori (o, quanto meno, a quei creditori sociali danneggiati dalla violazione contestata poi dal curatore: in senso contrario, Cass. n. 8426/2013, in motiv.), l'insufficienza del patrimonio sociale alla relativa soddisfazione (Bonelli, 443. In giurisprudenza, Cass. n. 24715/2015; Cass. S.U., n. 5241/1981; Cass. n. 13907/2014, in motiv. Cass. n. 8426/2013; Cass. n. 20476/2008; Cass. n. 941/2005; Cass. n. 17121/2010, in motiv.; Cass. n. 19051/2011, in motiv.; Cass. n. 11472/2008; Cass. n. 8516/2009; Cass. n. 9619/2009, Trib. Milano 18 gennaio 2011, Fall. 2011, 588 ss, 590; Trib. Napoli 11 gennaio 2011, Soc. 2011, 510 ss.). Nel caso dell'azione ex art. 2394 c.c., pur quando esercitata dal curatore, non opera, come al di fuori del fallimento, la causa di sospensione prevista dall'artt. 2941 n. 7 c.c.. Tanto nell'una, quanto nell'altra, infine, trova applicazione la norma prevista dall'art. 2947, comma 3, c.c., per il caso in cui il fatto commesso è, in tutti i suoi elementi costitutivi (soggettivi ed oggettivi) – purché dedotti e provati in giudizio — previsto dalla legge come un reato (Cass. n. 8426/2013, in motiv.). Il fatto che, a sostegno dell'una o dell'altra azione, possa essere dedotto il medesimo comportamento (quale inadempimento tanto ai doveri previsti nei confronti della società, quanto ai doveri di conservazione dell'integrità del patrimonio sociale previsti verso i creditori sociali) non rileva solo ai fini della determinazione del risarcimento conseguentemente dovuto (rispettivamente, alla società o ai creditori e, quindi, dopo il fallimento, al suo curatore). Mentre, infatti, l'azione della società non è proponibile se la società ha validamente consentito e/o approvato l'atto dannoso oppure ha rinunciato o transatto, l'azione dei creditori sociali, invece, è proponibile pur se, in relazione ai medesimi fatti, la società ha validamente consentito e/o approvato l'illegittimo operato degli organi sociali ovvero ha validamente rinunciato all'azione sociale ovvero, infine, abbia transatto l'azione di responsabilità con il solo onere del curatore, in quest'ultimo caso, di impugnare previamente la transazione con l'azione revocatoria (ordinaria e/o fallimentare) ex art. 2394 c.c.. Ne deriva che, come è stato autorevolmente affermato in dottrina (Bonelli, 436), la legittimazione ad esercitare tanto l'azione sociale di responsabilità quanto l'azione di responsabilità dei creditori sociali offre al curatore del fallimento il vantaggio pratico di poter agire in giudizio contro gli amministratori (o i liquidatori, i sindaci, ecc.) che abbiano commesso (o tollerato) un atto di mala gestio (quale inadempimento tanto ai doveri previsti nei confronti della società, quanto ai doveri di conservazione dell'integrità del patrimonio sociale previsti verso i creditori sociali) che abbia danneggiato il patrimonio della società (e, di riflesso, i suoi creditori), pur quando: 1) l'azione sociale si è prescritta, per il decorso del termine di cinque anni dalla cessazione del responsabile dalla carica (art. 2393, comma 4, c.c.; prima della riforma, artt. 2949 e 2941, n. 6, c.c.), mentre non lo è quella dei creditori sociali, la cui prescrizione decorre soltanto dal momento in cui risulta l'insufficienza del patrimonio della società a soddisfare i creditori sociali (artt. 2949, comma 2, e 2935 c.c.); 2) l'azione sociale è stata rinunciata (o, ma il punto è controverso, l'assemblea ha approvato l'atto dannoso), con conseguente liberazione verso la società — salva la possibilità di impugnare l'atto, ove opponibile, nelle forme previste dagli artt. 64 e ss. l.fall. — ma, come dispone l'art. 2394, ult. comma, c.c., non verso i creditori sociali; 3) l'azione sociale è stata transatta dalla società, salvo l'onere di impugnare quest'ultima con l'azione revocatoria ordinaria e/o fallimentare (art. 2394, ult. comma, c.c.). La legittimazione del curatore nel fallimento della società a responsabilità limitataTale conclusione, però, è in dubbio nel caso di fallimento di società a responsabilità limitata. A seguito della riforma del diritto societario, infatti, si è venuto a delineare un sistema normativo nel quale la nuova disciplina sostanziale in materia di società a responsabilità limitata ha previsto e regolato solo l'azione sociale di responsabilità contro gli amministratori (art. 2476, commi 1, 2 e 3, c.c.), per l'inadempimento ai doveri giuridici ad essi imposti dalla legge (ivi compreso – sebbene non previsto – il dovere di diligenza: Trib. Santa Maria C.V. 15 novembre 2004, Soc. 2005, 477), ma non si è, almeno direttamente, occupata dell'azione di responsabilità spettante ai creditori sociali per il caso di inadempimento degli amministratori al dovere di conservare l'integrità del patrimonio sociale tale da provocarne l'insufficienza a soddisfare tutti i debiti della società. D'altra parte, in caso di fallimento (anche) di tale società (di capitali), l'art. 146, comma 2, vecchio testo, l.fall., ha continuato a stabilire che il curatore ha la legittimazione esclusiva ad esercitare nei confronti degli organi di gestione e di controllo «l'azione di responsabilità» prevista dagli «artt. 2393 e 2394 del codice civile». Né la questione è stata risolta dalla riforma della legge fallimentare, che, nel riformulare l'art. 146, comma 2, si è limitata a prevedere, alla lett. a), che, in caso di fallimento della società (di capitali, e quindi anche della società a responsabilità limitata), si è limitato a stabilire che il curatore esercita (evidentemente tutte) «... le azioni di responsabilità (previste dalla legge sostanziale) contro gli amministratori...» ed, alla lett. b), che il curatore esercita l'azione di responsabilità contro i soci della società a responsabilità limitata che abbiano intenzionalmente autorizzato o deciso l'atto danno compiuto dagli amministratori, così come stabilito dall'art. 2476, comma 7, c.c. La norma, come si vede, non fa alcun riferimento, per il caso del fallimento della società a responsabilità limitata, all'azione dei creditori sociali ed al suo esercizio da parte del curatore. La relazione illustrativa alla riforma delle procedure concorsuali ha chiarito, al riguardo, di aver adottato, in tema di responsabilità degli amministratori della società a responsabilità limitata verso i creditori sociali, una soluzione «aperta», «che lascia cioè agli interpreti il compito di stabilire se il curatore possa esercitare nei confronti degli amministratori di società a responsabilità limitata solo l'azione di responsabilità sociale o anche quella verso i creditori sociali». In ordine all'azione sociale di responsabilità, l'art. 2476, comma 1, c.c., ha stabilito, in particolare, che — con esclusione di quelli che siano «esenti da colpa» e abbiano fatto «constare il loro dissenso» rispetto all'atto che si stava per compiere e di cui erano a conoscenza — sono responsabili solidalmente verso la società gli amministratori che abbiano provocato danni al patrimonio sociale per non avere adempiuto ai doveri derivanti dalla legge o dall'atto costitutivo «per l'amministrazione della società». L'art. 2476 c.c., al comma 3, prevede che l'azione sociale di responsabilità contro gli amministratori è (può essere) promossa, in nome proprio, da «ciascun socio» (quale che sia la sua partecipazione al capitale sociale), ma, evidentemente, per conto, e cioè nell'interesse esclusivo, della società (Cass. n. 10936/2016). In effetti, i risultati positivi che dovesse eventualmente produrre l'azione di responsabilità sociale proposta dal singolo socio contro gli amministratori, si riverberano esclusivamente sul patrimonio della società (creditrice), che, in caso di accoglimento della domanda deve rimborsare al socio che ha agito le spese legali sostenute, per poi rivalersi nei confronti dell'amministratore soccombente (art. 2476, comma 4, c.c.). Del resto, la norma non prevede che il socio possa rinunciare o transigere l'azione e tale silenzio si giustifica proprio per il fatto che a questi non può essere riconosciuto il potere di disporre dei diritti della società: il socio che ha agito può solo rinunciare agli atti del giudizio intrapreso. L'azione può essere, invece, rinunciata o transatta (salvo diversa disposizione dell'atto costitutivo, che può derogare non solo alla rinunciabilità o alla transigibilità, ma anche alle relative condizioni) soltanto dalla «società», purché vi consenta una percentuale di soci che rappresenti almeno i due terzi del capitale e non vi si opponga tanti soci che rappresentino il decimo del capitale sociale (art. 2476, comma 5, c.c.). In effetti, la nuova norma dell'art. 146, comma 2, lett. a), per come è formulata, comprende senz'altro l'azione sociale prevista dall'art. 2476 c.c. (Trib. Milano 18 gennaio 2011 Soc. 2011, 1145 ss; Trib. Napoli 11 gennaio 2011, Soc. 2011, 510 ss.): del resto, pur in mancanza di una norma che, in materia di società a responsabilità limitata, riproducesse il testo dell'art. 2394-bis c.c., dettato per la società per azioni, nessun dubbio può ragionevolmente esistere in ordine alla legittimazione (esclusiva) del curatore — al pari di qualunque altra azione recuperatoria o risarcitoria già presente nel patrimonio della società fallita (artt. 42, 43, comma 1, 31 e 104-ter, comma 2, lett. c), nel testo vigente, l.fall.) – ad esercitare l'azione di responsabilità che spetta alla società (a responsabilità limitata) fallita per effetto degli inadempimenti commessi dai suoi amministratori e che abbiano danneggiato il suo patrimonio. In caso di fallimento, la legittimazione a proporre l'azione sociale di responsabilità spetta, quindi, in via esclusiva, al curatore (Trib. Napoli 11 gennaio 2011, Soc. 2011, 510 ss). Cass. I, ord. n. 20180/2022 ha affermato che ai sensi dell'art. 146, comma 2, lett. a), il curatore è l'unico soggetto legittimato a proseguire l'azione di responsabilità sociale già promossa dal socio nella qualità di sostituto processuale della società ex art. 2476, comma 3, c.c., con conseguente improcedibilità dell'azione del socio per difetto di sua legittimazione. Conforme Cass. I, ord. n. 11264/2016. Maggiori problemi si sono posti, invece, per l'azione dei creditori sociali. A fronte di una disciplina sostanziale che non fa più riferimento, nella società a responsabilità limitata, all'azione dei creditori sociali per il caso in cui gli amministratori (e/o i sindaci) della società abbiano violato i doveri di conservazione del suo patrimonio rendendolo insufficiente alla loro completa soddisfazione, la dottrina e la giurisprudenza hanno dibattuto sui seguenti problemi: se i creditori della società a responsabilità limitata possono proporre l'azione di responsabilità (già) prevista dall'art. 2394 c.c.; se, in caso di fallimento, tale azione può essere proposta dal curatore. Sulla prima questione, gli orientamenti espressi sono stati due. Il primo ha ritenuto che i creditori della società a responsabilità limitata hanno conservato l'azione già prevista dall'art. 2394 c.c.Ambrosini, 1604 ss.; Bianca, 808 ss.; Cagnasso, 266; Spiotta, 2010, 849 ss; Spiotta, 2011, 595 ss.). Il secondo, invece, ha negato che i creditori della società a responsabilità limitata abbiano conservato l'azione, quanto meno nei modi e nei termini previsti dall'art. 2394 c.c.(Di Amato, 299 ss.; Ferri, 1033; Angelillis-Sandrelli, 778; in giurisprudenza, Trib. Napoli 11 novembre 2004, Soc. 2005, 1271 ss.). L'opinione che appare preferibile ritiene, tuttavia, che, seppur non espressamente prevista, l'azione dei creditori sociali prevista dall'art. 2394 c.c. può essere proposta anche nei confronti degli amministratori di una società a responsabilità limitata, invocando, a tal fine, la sua applicazione analogica a tale tipo sociale (Teti, 660 ss.; Mozzarelli, 272, 273; Trib. Milano 18 gennaio 2011, Soc. 2011, 1145 ss., Trib. Roma 23 febbraio 2009, ord., Soc. 2010, 97 ss., Trib. Napoli 11 gennaio 2011, Soc. 2011, 510 ss). Tale ricostruzione si fonda, essenzialmente, sul rilievo che: La nuova disciplina dettata in tema di responsabilità degli amministratori di società a responsabilità limitata, limitandosi a disciplinare l'azione sociale e l'azione del socio o terzo direttamente danneggiati, contiene, in tema di responsabilità verso i creditori (ma anche su altri punti), una evidente lacuna normativa (tanto più se si considera che, se non disciplinata, l'azione dei creditori sociali neppure è stata espressamente o inequivocamente esclusa dalla legge); la sussistenza della eadem legis ratio: tanto nelle società per azioni, quanto nelle società a responsabilità limitata, infatti, la responsabilità degli amministratori verso i creditori sociali costituisce un principio generale che funge da contrappeso alla responsabilità limitata dei soci. In effetti, tanto nella società per azioni, quanto nella società a responsabilità limitata, la responsabilità degli amministratori (e dei sindaci, liquidatori, ecc.) nei confronti dei creditori sociali costituisce il contrappeso alla responsabilità limitata dei soci. Né, del resto, emerge che il legislatore, in sede di legge delega e di riforma, abbia inequivocamente inteso escludere la responsabilità degli amministratori nei confronti dei creditori. Le norme in vigore, ivi comprese quelle introdotte dalla riforma, depongono, anzi, in tutt'altra direzione. l'art. 2485, comma 1, c.c. prevede che gli amministratori che hanno ritardato od omesso di procedere all'accertamento «senza indugio» ed alla pubblicità della verificazione di una causa di scioglimento della società sono responsabili per i danni cagionati ai creditori della società; l'art. 2486 c.c. prevede che gli amministratori che abbiano compiuto, dopo lo scioglimento della società, atti non finalizzati alla conservazione dell'integrità e del valore del patrimonio sociale sono responsabili per i danni cagionati ai creditori della società; la norma dell'art. 2477, comma 4, c.c. prevede che, ove il collegio sindacale sia obbligatorio per legge, trovano applicazione per la società a responsabilità limitata (anche in ipotesi di responsabilità esclusiva dei sindaci) le norme dettate per le società per azioni, ivi compreso, quindi, in relazione al richiamo operato dall'art. 2407, l'art. 2394 c.c.; la norma dell'art. 2489 c.c. consente di proporre contro i liquidatori della società a responsabilità limitata sia l'azione sociale, sia l'azione dei creditori sociali; l'art. 2497 c.c. prevede che i creditori sociali di una società assoggettata all'altrui potere di direzione e coordinamento possono agire, in caso di abuso, contro la società controllante e di chiunque abbia preso parte al fatto dannoso, ivi compresa la società eterodiretta (che può ben assumere le forme della società a responsabilità limitata) e dei suoi amministratori, per i danni subiti a seguito della lesione arrecata all'integrità del patrimonio della società debitrice (per tali argomenti, Trib. Milano 18 gennaio 2011, Soc. 2011, 1145 ss; Trib. Napoli 11 gennaio 2011, Soc. 2011, 510 ss; Trib. Milano 22 dicembre 2010, Soc. 2011, 348; Trib. Padova 24 giugno 2009, Fall. 2010, 97; Trib. Roma 17 dicembre 2008, Giur. mer. 2009, 6, 1585; Trib. Pescara 15 novembre 2006, Foro it. 2007, I, 2262). D'altra parte, a ragionare diversamente, si rischierebbe un'ingiustificata disparità di trattamento dei creditori della società per azioni rispetto ai creditori della società a responsabilità limitata (Conte, 205 ss.) e, tra questi ultimi, tra i creditori della società a responsabilità limitata dotata di collegio sindacale ed i creditori della società a responsabilità limitata che ne sia priva. L'estensione analogica della norma prevista dall'art. 2394 c.c. alla società a responsabilità limitata ed al relativo fallimento costituisce, quindi, l'unica interpretazione costituzionalmente orientata, tale, cioè, da impedire l'illegittimità della normativa nella parte in cui, appunto, non la prevede, per irragionevole disparità di trattamento rispetto a fattispecie sostanzialmente uguali, vale a dire tra la società per azioni e la società a responsabilità limitata e, nell'ambito di queste ultime, tra società munite di collegio sindacale e società che ne sono prive, tra società autodirette e quelle eterodirette ed, infine, tra società in normale funzionamento e società in liquidazione. Né, del resto, può affermarsi che la norma dell'art. 2394 c.c. non è suscettibile di applicazione analogica in quanto eccezionale. Si tratta, al contrario, di una norma che fissa un principio, quello appunto della responsabilità diretta degli amministratori nei confronti dei creditori della società, che, sia pure in forme diverse, è presente in tutte le altre società, di capitali e di persone, la cui disciplina, in effetti, prevede: una responsabilità degli amministratori della società verso i creditori sociali: o in via diretta, come nelle società in nome collettivo (art. 2304 c.c.), in accomandita semplice (art. 2318 c.c.) ed in accomandita per azioni (art. 2452 c.c.) — in tali società essendo amministratori solo i soci illimitatamente responsabili: artt. 2257,2258,2293,2295, n. 3, 2315,2318,2320 e 2455 c.c.) — o in via risarcitoria, come nella società per azioni e nelle società cooperative ad esse ispirate (artt. 2394 e 2519 c.c.); una responsabilità degli amministratori verso il curatore del fallimento della società: o in via diretta, con l'estensione del fallimento al socio illimitatamente responsabile (che, come detto, è o può sempre essere amministratore) delle società in nome collettivo, in accomandita semplice ed in accomandita per azioni (art. 147, comma 1, l.fall.), ovvero in via risarcitoria, come nella società per azioni e nelle società cooperative ad esse ispirate (artt. 2394-bis c.c., 2519 c.c. e 146, comma 2, lett. a, l.fall.). Se, dunque, anche nella disciplina riformata della società a responsabilità limitata, i creditori sociali possono esercitare l'azione prevista dall'art. 2394 c.c., e con i relativi presupposti, si pone l'ulteriore problema se, in caso di fallimento della società, tale azione possa essere esercitata (ed in via esclusiva) dal curatore. Anche in tal caso, peraltro, la legittimazione del curatore, in caso di fallimento della società a responsabilità limitata, è stata affermata sul presupposto dell'applicazione analogica a tale tipo sociale delle norme dettate in tema di società per azioni dall'art. 2394 c.c. e, per il caso di fallimento della società, dall'art. 2394-bis c.c. (in tal senso, dopo la riforma della legge fallimentare, Mozzarelli, 272, 273). In definitiva, alla luce della norma dell'art. 146, comma 2, lett. a) l.fall., in caso di fallimento della società (di capitali, senza alcuna distinzione tra società per azioni e società a responsabilità limitata), il curatore esercita (tutte) «... le azioni di responsabilità (previste dalla legge) contro gli amministratori...», e cioè non solo l'azione (espressamente disciplinata) di responsabilità che spetta alla società (art. 2476, comma 2, c.c.), ma anche l'azione di responsabilità che spetta ai creditori sociali a norma dell'art. 2394 c.c., applicato a tale tipo sociale in via analogica (Cass. n. 17121/2010; più di recente, Cass.S.U. n. 1641/2017). Tale conclusione trova, del resto, conferma in altre disposizioni della legge fallimentare (anche) nel testo risultante dalle riforme introdotte con il d.lgs. n. 5/2006 e con il d.lgs. n. 169/2007. Innanzitutto, la norma dell'art. 206, comma 1, l.fall., secondo cui, in caso di liquidazione coatta amministrativa (sia che riguardi in via diretta società a responsabilità limitata, sia che riguardi società, come le cooperative, che siano regolate sul modello della società a responsabilità limitata ex art. 2519, comma 2, c.c.), il commissario liquidatore può proporre nei confronti degli amministratori (e dei sindaci) le azioni di responsabilità previste dagli artt. 2392,2393 e 2394 c.c.: e non è concepibile che, a parità di tipo sociale, ciò che è consentito al commissario liquidatore non è consentito al curatore del fallimento. In secondo luogo, l'art. 240 l.fall., a norma del quale il curatore ha la legittimazione esclusiva a costituirsi parte civile nel procedimento penale pendente contro gli amministratori della società fallita (e, quindi, anche di una società a responsabilità limitata), a meno che non si tratti di fatti che abbiano danneggiato in via diretta solo i creditori. In caso di fallimento di una società a responsabilità limitata, il curatore ha, quindi, la legittimazione all'esercizio contro gli amministratori (ed i sindaci ed il revisore contabile previsti dall'art. 2477 c.c.) sia dell'azione sociale, così come disciplinata dall'art. 2476, comma 1, c.c., sia dell'azione dei creditori sociali, così come prevista e disciplinata dall'art. 2394 c.c. E si tratta, come nel fallimento della società per azioni, di una legittimazione esclusiva (Trib. Milano 18 gennaio 2011, Soc. 2011, 1145 ss, in motiv.). I principi tipici del diritto concorsuale, infatti, escludono che, quando un'azione sia attribuita al curatore, i creditori (ammessi o meno al passivo) abbiano durante la procedura una legittimazione concorrente al suo esperimento: in pendenza della procedura fallimentare, quindi, i creditori sociali non possono proporre contro gli amministratori (ed i sindaci) della società fallita l'azione prevista dall'art. 2394 c.c.: salva soltanto la facoltà di subentrarvi a chiusura del fallimento. Il danno: determinazione e provaL'inadempimento degli amministratori, seppur essenziale, però, non basta: solo il danno, in termini di evento pregiudizievole, perfeziona la fattispecie dell'illecito commesso dagli amministratori. Il soggetto convenuto con azione di responsabilità dalla società già da lui amministrata, per inadempimento agli obblighi di conservazione del patrimonio sociale, è, quindi, legittimato ad eccepire l'insussistenza del presupposto dei danni, dei quali sia stato chiamato a rispondere (in giurisprudenza, cfr. Cass. n. 14351/2012). L'azione di responsabilità, in effetti, non ha la natura di mero accertamento della violazione di regole legali o statutarie, implicando altresì, come tutte le azioni risarcitorie, la produzione di un danno etiologicamente imputabile all'inadempimento degli amministratori (Cass. n. 23804/2008). Non sempre, del resto, la violazione commessa, con dolo o colpa, dagli amministratori determina un pregiudizio per il patrimonio sociale. Si pensi agli inadempimenti di carattere puramente formale o pubblicitario ovvero quelli concernenti la regolarità della redazione del bilancio e/o della tenuta delle scritture contabili, che di per sé non provocano alcun danno: Cass. n. 3483/1998. Cass. n. 5287/1998. Cass. n. 3652/1997. App. Milano 11 luglio 2007, Soc. 2008, 590 ss. In tal senso, Bonelli, 327 e 343, nt. 40; Rordorf, 619 ss.; Patti, 81 ss.; Franzoni, 402. Dopo la riforma del diritto societario: Vassalli, 678, nt. 11. Le violazioni formali o contabili possono, tuttavia, rilevare ai fini risarcitori se funzionali alla commissione di altri atti illeciti direttamente pregiudizievoli per il patrimonio sociale, come: l'appropriazione di fondi sociali (Cass. n. 3652/1997, in motiv.; Rordorf, 617 ss.); la creazione di fondi neri, destinati cioè a fornire la provvista per l'indebita attribuzione a terzi di somme sottratte al patrimonio della società (Rordorf, 617 ss.; Cass. n. 6278/1990); la dispersione dei beni o diritti, come l'impossibilità di riscuotere crediti ovvero di pagare tributi e contributi, con conseguenti sanzioni (Panzani, 973 ss.); l'occultamento della perdita del capitale sociale per la prosecuzione della gestione ordinaria (Bonelli, 339 ss., con riferimento, in particolare, alla sopravvalutazione del patrimonio sociale, come, ad es., l'illecita rivalutazione di immobili, l'appostazione di crediti non esigibili; Patti, 172 ss. In giurisprudenza, in tal senso, App. Milano 11 luglio 2007, Soc. 2008, 590 ss). Talvolta, l'inadempimento degli amministratori determina addirittura un vantaggio al patrimonio sociale, come nel caso di operazioni imprudenti, che abbiano fortunosamente arrecato vantaggi patrimoniali, ovvero delle violazioni fiscali e previdenziali, salvo, naturalmente, che per le maggiori somme che la società abbia poi dovuto pagare a titolo di sanzioni o pene pecuniarie. Il danno al patrimonio della società rileva, ai fini predetti, solo se, direttamente o indirettamente, è suscettibile valutazione economica (Cass. n. 6278/1990). Non è necessario, però, che il diritto sociale leso sia di natura patrimoniale: il danno può, infatti, investire anche un diritto non patrimoniale, come il diritto alla reputazione o all'immagine commerciale subito dalla società. Il danno risarcibile, infatti, pur se conseguente ad un inadempimento contrattuale, può comprendere anche il danno non patrimoniale (Cass. S.U., n. 26972/2008; Cass. S.U., n. 1641/2017). Il danno, infine, per rilevare a fini risarcitori, deve essere effettivo: non basta, quindi, il mero pericolo di danno, che può rilevare ad altri fini (quali, ad es., la revoca cautelare ex art. 2476, comma 3, c.c., l'impugnabilità della delibera consiliare assunta in conflitto di interessi ex art. 2391 e 2475 c.c.). La prova del danno-evento, come degli altri elementi costitutivi delle fattispecie, come sopra descritte, attributive del diritto al relativo risarcimento, spetta, secondo le regole generali, a chi agisce in giudizio (società, creditore sociale e, dopo il fallimento, il curatore: Cass. n. 3774/2005), il quale, pertanto, a norma dell'art. 2697 c.c., ha l'onere di dimostrarne la effettiva verificazione nonché la reale consistenza e portata, e può essere fornita con ogni mezzo, comprese le presunzioni, purché precise, gravi e concordanti. Il danno, tuttavia, come in precedenza illustrato, si atteggia in modo diverso a seconda dell'azione (sociale e/o dei creditori sociali) che, in concreto, avendo riguardo ai rispettivi fatti costitutivi, il curatore propone in giudizio. Ed infatti, nell'azione sociale rileva qualsivoglia pregiudizio arrecato, in termini di danno emergente o di lucro cessante, al patrimonio della società, che, pertanto, è sufficiente per attribuire al curatore, così come alla società prima del fallimento, il diritto a conseguire il corrispondente risarcimento. Viceversa, nell'azione dei creditori sociali, rileva unicamente il pregiudizio arrecato al patrimonio sociale (in termini di mero riduzione del valore dei beni esistenti) che ne abbia provocato l'insufficienza al completo soddisfacimento dei creditori sociali, nella misura in cui, peraltro, questi ultimi non abbiano, per l'effetto, ricevuto, a causa dell'inadempimento o dell'impossibilità di adempimento della società, la prestazione dovuta: ed è solo entro tali limiti (concorrenti), quindi, che il curatore, al pari dei singoli creditori prima del fallimento, è legittimato ad agire per il relativo risarcimento. Entro tali limiti (e cioè nei limiti del danno-evento così come stabilito, rispettivamente, dagli artt. 2392, 2393, 2476 c.c. per l'azione sociale e dall'art. 2394 c.c. per l'azione dei creditori sociali, ed accertato in giudizio), poi, il risarcimento (del danno-conseguenza) spettante al danneggiato — che ha l'onere di provarne la misura precisa — è determinato, come vedremo, in base alle norme che, in generale, tanto per la responsabilità contrattuale (artt. 1223 ss. c.c.) quanto per quella extracontrattuale (art. 2056 c.c.), regolano la materia, vale a dire gli artt. 1223, 1225, 1226 e 1227 c.c., volti ad assicurare al creditore il risarcimento (dell'intero ma solo) del danno effettivamente subito. Il nesso causaleIl danno-evento al patrimonio della società (e, per l'effetto, nella misura in cui lo stesso è diventato insufficiente alla loro completa soddisfazione, ai creditori sociali che non abbiano ricevuto la prestazione dovuta), però, rileva solo in quanto sia conseguenza dell'inadempimento (ai doveri giuridici assunti verso la società) e/o dell'atto illecito (per violazione ai doveri funzionali alla conservazione del patrimonio sociale) commesso dagli amministratori. Il nesso causale tra mala gestio e pregiudizio cagionato alla società si configura, quindi, non diversamente da quanto accade nelle altre ipotesi di responsabilità civile, come un elemento costitutivo della fattispecie attributiva del diritto al risarcimento (o fatto illecito), che si compone, in definitiva, di un elemento oggettivo, rappresentato dalla condotta inadempiente dell'amministratore (o del liquidatore, del sindaco, ecc.) danneggiante, dal danno (conseguentemente) ingiusto (arrecato al patrimonio sociale) e dall'esistenza di un rapporto di causalità materiale tra il primo e il secondo, e da un elemento soggettivo (la cd. colpevolezza), ossia la sussistenza del dolo o della colpa in capo all'amministratore (o al liquidatore, al sindaco, ecc.) danneggiante. In tal senso, v. Cass. n. 10488/1998. Trovano applicazione le regole che, in generale, disciplinano la causalità in materia civile (Weigmann, 200; Rordorf, 617 ss.; Patti, 82). Al riguardo, l'orientamento attualmente prevalente in dottrina e in giurisprudenza scinde — in corrispondenza alla esposta distinzione tra danno-evento e danno-conseguenza — il giudizio di accertamento del nesso causale in tema di responsabilità civile (sia essa contrattuale o extracontrattuale), in due momenti: il primo è volto all'accertamento della cd. «causalità materiale» (o naturale, o di fatto), ovvero del rapporto che intercorre tra il fatto (e, in caso di responsabilità extracontrattuale, il soggetto che si assume averlo) commesso (Cass. n. 21619/2007) e l'evento lesivo; il secondo (che presuppone già accertato il rapporto di causalità materiale tra fatto ed evento) è volto ad accertare la cd. «causalità giuridica», individuando, tra le conseguenze pregiudizievoli così selezionate, quelle che integrano il danno concretamente risarcibile (Cass. n. 4043/2013). L'accertamento del primo profilo (che attiene all'an del risarcimento e deve essere, quindi, compiuto anche se è chiesta soltanto la condanna generica al risarcimento del danno) è regolato dagli artt. 40 e 41 del codice penale (in giurisprudenza, sull'applicabilità degli artt. 40 e 41 c.p. in riferimento al nesso di causalità materiale nella responsabilità civile, cfr. Cass. n. 26042/2010). L'art. 40 c.p., rubricato «rapporto di causalità», prevede che «nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se l'evento dannoso o pericoloso, da cui dipende l'esistenza del reato, non è conseguenza della sua azione o omissione». L'art. 41 c.p., rubricato «concorso di cause» prevede al comma 1 che «il concorso di cause preesistenti o simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall'azione del colpevole non esclude il rapporto di causalità tra l'azione od omissione e l'evento»: la norma, quindi, allarga il rapporto causale tra l'evento e tutte le varie altre componenti casuali, precisando che il loro verificarsi di per sé non interrompe il nesso causale. L'art. 41, comma 2, c.p., infine, delimita l'operatività delle due precedenti norme e prevede che «le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità quando sono state da sole sufficienti a determinare l'evento». Secondo la prevalente dottrina e giurisprudenza civilistiche, per quanto concerne il nesso di causalità materiale, il legislatore avrebbe recepito la teoria della condicio sine qua non (o teoria dell'equivalenza causale o della condizione necessaria), enunciata in massime del seguente tenore: «in presenza di un evento dannoso, tutti gli antecedenti senza i quali l'evento non si sarebbe verificato, devono essere considerati causa di esso» (Cass. n. 23915/2013). Tuttavia, poiché dal punto di vista naturalistico un evento è causato da tutti gli antecedenti in mancanza dei quali non si sarebbe verificato, l'applicazione secca del principio sopra enunciato senza temperamenti potrebbe portare, dal punto di vista giuridico, ad affermare che ogni antecedente possa costituire causa del danno e, quindi, ad ampliare eccessivamente il numero degli antecedenti causali: di qui la necessità di rinvenire un correttivo ai risultati ai quali si perverrebbe con una automatica e rigida applicazione della teoria della condicio sine qua non. I criteri di temperamento alla teoria della condicio sine qua non elaborati dalla dottrina e fatti propri dalla giurisprudenza sono diversi. Il primo è quello cd. regolarità causale, in base al quale si deve rispondere solo delle conseguenze che si pongono in rapporto di regolarità causale con un dato fatto, cioè che ne costituiscono le conseguenze normali secondo l'id quod plerumque accidit dovendosi, invece, escludere il risarcimento di tutte le conseguenze dannose che non risultino normale conseguenza della causa posta in essere dal danneggiante (Cass. n. 21619/2007). Il secondo è quello della cd. causalità adeguata sulla scorta del quale, all'interno della serie causale, occorre dare rilievo solo a quegli eventi che non appaiono — ad una valutazione ex ante — del tutto inverosimili (Cass. n. 15895/2009). La giurisprudenza prevalente segue i principi esposti dalla teoria della regolarità causale, nel senso che il danno è concretamente risarcibile solo se e nella misura in cui esso possa considerarsi un effetto normale dell'inadempimento o del fatto illecito (Cass. n. 26042/2010), ancorché mediato o indiretto (Cass. n. 15895/2009), nel senso che la condotta illecita, pur non cagionandolo direttamente, ha tuttavia determinato uno stato di cose senza il quale quel danno non si sarebbe prodotto. L'accertamento della causalità giuridica è volto, invece, a stabilire (tra i danni-evento che l'atto illecito ha materialmente determinato, così come accertati in sede di verifica della causalità di fatto) i pregiudizi effettivamente risarcibili (e quindi, in definitiva, il quantum debeatur). Si ritiene generalmente che quest'ultimo accertamento sia regolato dall'art. 1223 c.c. (applicabile anche nel settore dell'illecito extracontrattuale in virtù dell'espresso richiamo contenuto nell'art. 2056, comma 1, c.c.), secondo cui, come è noto, «il risarcimento del danno... deve comprendere così la perdita subita dal creditore come il mancato guadagno, in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta» (Bianca, 1994, 128. Cass. n. 12124/2003, Foro it. 2004, I, 434; Cass. n. 21619/2007). La norma viene interpretata dalla prevalente giurisprudenza secondo i principi della teoria della regolarità causale, nel senso che il danno è concretamente risarcibile solo se e nella misura in cui esso possa considerarsi un effetto normale dell'inadempimento o del fatto illecito, ancorché mediato o indiretto (Cass. n. 15895/2009). L'accertamento del nesso di causalità tra condotta e danno-evento, quale elemento costitutivo del fatto illecito, precede quello relativo al profilo soggettivo: «- il nesso di causalità è elemento strutturale dell'illecito, che corre — su di un piano strettamente oggettivo, e secondo una ricostruzione di tipo sillogistico — tra un comportamento (dell'autore del fatto) astrattamente considerato (e non ancora qualificabile come damnum iniuria datum), e l'evento dannoso; — nell'individuazione di tale relazione primaria tra condotta ed evento si prescinde in prima istanza da ogni valutazione di prevedibilità, tanto soggettiva quanto «oggettivata», da parte dell'autore del fatto, essendo il concetto di previsione insito nella fattispecie della colpa (elemento qualificativo del momento soggettivo dell'illecito, motivo di analisi collocato in un momento successivo della ricostruzione della fattispecie); —...; — il positivo accertamento del nesso di causalità, che deve formare oggetto di prova da parte del danneggiato, consente il passaggio, logicamente e cronologicamente conseguente, alla valutazione dell'elemento soggettivo dell'illecito, e cioè della sussistenza o meno della colpa dell'agente (a tacere, ovviamente, del dolo), che, pur in presenza di un nesso causale accertato, ben potrebbe essere esclusa secondi i criteri (storicamente «elastici») di prevedibilità ed evitabilità del danno: criteri si ripete, che sono tutti iscritti entro l'orbita dell'elemento soggettivo dell'illecito, e che postulano il positivo, oggettivo accertamento del preesistente nesso causale, elemento dell'illecito al quale non è, pertanto, consentito collegare alcuna inferenza di colpevolezza/incolpevolezza, attenendo tale aspetto al successivo momento di valutazione dell'elemento soggettivo» (Cass. n. 7997/2005, in motiv.). La prova del nesso di causalità, al pari degli altri fatti costitutivi della pretesa azionata, spetta, a norma dell'art. 2697 c.c., al danneggiato o al creditore che agisce in giudizio (Cass. n. 21140/2007, per cui sia nell'ipotesi di responsabilità extracontrattuale, sia in quella di responsabilità contrattuale, spetta al danneggiato fornire la prova dell'esistenza del danno lamentato, e della sua riconducibilità al fatto del debitore): ne consegue che se, all'esito del giudizio, permanga incertezza sull'esistenza del nesso causale tra condotta e danno, tale incertezza ricade sull'attore. Si tratta, peraltro, di un onere che, in alcuni casi, può essere particolarmente arduo. Si pensi alle ipotesi in cui la prova del danno e della sua riconducibilità al fatto commesso dal debitore dipende, in concreto, da informazioni che solo quest'ultimo è o sarebbe stato in grado di fornire o, addirittura, dall'adempimento da parte del convenuto all'obbligo giuridico (generico o specifico) di predisporne la relativa documentazione e, quindi, di fornirla o metterla a disposizione della controparte. In tali situazioni, la giurisprudenza, sul presupposto di non poter addossare sulla vittima l'onere di fornire prove che solo il convenuto è in grado di fornire (cd. «vicinanza alla prova») (Cass. n. 20484/2008, in motiv.; in senso conf., Cass. n. 10060/2010) né, a maggior ragione, di consentire al danneggiante di avvantaggiarsi di un suo inadempimento, ha finito per affermare, in ordine alla prova del nesso causale tra fatto ed evento, la possibilità di ricorrere alle presunzioni ponendo, di fatto, a carico del dominus delle informazioni l'onere di dimostrare il contrario, come nel caso di difettosa tenuta della cartella clinica (Cass. S.U., n. 577/2008). Nella materia della responsabilità degli amministratori, quindi, il nesso di causalità materiale tra l'inadempimento o l'illecito commesso dagli amministratori (o i liquidatori, i sindaci, ecc.) ed il danno-evento al patrimonio sociale (Cass. n. 2538/2005; Cass. n. 3032/2005; Cass. n. 3774/2005) sussiste tutte le volte in cui: la violazione accertata costituisce un antecedente necessario del pregiudizio arrecato, pur se e quando vi abbiano concorso altre concause, umane o naturali, a meno che non si tratti di un fatto sopravvenuto di per sé idoneo a cagionarlo; l'evento lesivo deve, però, configurarsi come l'effetto normale e prevedibile della condotta lesiva; il nesso eziologico, a tale condizione, sussiste anche rispetto ai danni mediati e indiretti. La prova del nesso causale tra il fatto commesso dagli amministratori ed il pregiudizio al patrimonio sociale spetta al curatore (Cass. n. 11155/2012; Trib. Milano 28 novembre 2005, Soc. 2007, 67 ss.; Weigmann, 195) e non richiede, in taluni casi, sforzi particolari, come quando l'amministratore abbia venduto un cespite sociale senza riversare il prezzo alla società ovvero non abbia pagato un tributo pur avendone la disponibilità con la conseguente irrogazione di una sanzione pecuniaria altrimenti evitata. In tema di azione di responsabilità esercitata dal curatore ex art. 146 l.fall., la mancanza di scritture contabili, ovvero la loro sommarietà o inintelligibilità, non è di per sé sufficiente a giustificare la condanna dell'amministratore in conseguenza dell'impedimento frapposto alla prova occorrente ai fini del nesso eziologico rispetto ai fatti causativi del dissesto, in quanto la stessa presuppone che sia comunque previamente assolto l'onere della prova circa l'esistenza di condotte per lo meno astrattamente causative di un danno patrimoniale, restando perciò applicabile il criterio del deficit fallimentare soltanto come criterio equitativo, per l'ipotesi di impossibilità di quantificare esattamente il danno Cass. I, ord. n. 15245/2022; Cass. I, n. 1322/2021). In altre ipotesi, invece, la prova del collegamento eziologico tra condotta e danno è particolarmente difficile: o perché le conseguenze dannose riconducibili alla mala gestio si verificano dopo molto tempo, come quando l'amministratore, a mezzo di violazioni contabili o di bilancio, abbia occultato la perdita del capitale e, quindi, continuato la gestione ordinaria della società pur a fronte dello scioglimento della società o perché lo stesso inadempimento dell'amministratore è diluito nel tempo e frammentato in innumerevoli atti (non sono tutti illeciti e/o dannosi) dei quali la stessa società danneggiata (e, dopo il suo fallimento, il curatore) non ha(nno), spesso, piena consapevolezza, come, ad es., quando l'amministratore non abbia predisposto e compilato la documentazione amministrativa e contabile della soceità ovvero non l'abbia, al momento della cessazione dall'incarico, consegnata ai nuovi amministratori (o al liquidatore: art. 2487-bis c.c.) oppure al curatore del fallimento (art. 16 l.fall.) ovvero ancora perché il danno che gli amministratori hanno arrecato al patrimonio della società dipende, nella sua concreta misura, «... non tanto dal compimento di uno o più atti illegittimi, quanto dalla gestione nel suo complesso e dalle scelte discrezionali in cui questa si traduce: ossia da attività per natura loro sottratte al vaglio di legittimità del giudice, che non può mai investire anche il merito delle decisioni imprenditoriali cui un rischio economico è connaturato» (Cass. n. 3032/2005). Anche in tali casi, peraltro, il rapporto di causalità, quale elemento costitutivo della fattispecie attributiva del diritto al risarcimento dei danni, deve essere, in base ai principi generali, come sopra esposti, specificamente dimostrato in giudizio da chi agisce: al più, la prova della sua esistenza può essere fornita attraverso presunzioni, purché, come è ovvio, siano gravi, precise e concordanti, come nel caso in cui gli amministratori della società fallita non abbiano depositato le scritture contabili oppure quando le scritture che abbiano depositato siano sostanzialmente inattendibili e/o incomplete, con la conseguente impossibilità di fornirne la prova, ammettendosi, in siffatta ipotesi, un'inversione del relativo onere (Cass. n. 11155/2012) e spettando, quindi, all'amministratore della società, per andare esente dalla responsabilità, dimostrare la mancanza del nesso causale tra il suo inadempimento (primo fra tutti, la prosecuzione dell'attività sociale dopo la perdita del capitale) e il danno al patrimonio sociale (quale si esprime nel deficit accertato in sede fallimentare), se del caso a mezzo del deposito in giudizio di scritture contabili attendibili o, comunque, dei documenti societari ad esse sottostanti. La quantificazione del risarcimento dovutoIl danno-conseguenza è determinato, come detto, in base alle norme che, in generale, tanto per la responsabilità contrattuale (artt. 1223 ss. c.c.) quanto per quella extracontrattuale (art. 2056 c.c.), regolano la materia, vale a dire gli artt. 1223, 1225, 1226 e 1227 c.c. Il principio ispiratore di tali disposizioni è, come detto, quello per il quale «l'obbligo del risarcimento deve adeguarsi al danno effettivamente subito dal creditore, il quale non deve riconoscere né più né meno di quanto necessario a rimuovere gli effetti economici negativi dell'inadempimento o dell'illecito. Non sono pertanto ammessi i c.d. danni punitivi, essendo estranea al nostro ordinamento l'idea che il risarcimento del danno possa avere una funzione afflittiva per il danneggiante» (Bianca, 127). Ciò, peraltro, non esclude che, in particolari ipotesi, il risarcimento possa essere fissato in una misura superiore al danno effettivo subito dal danneggiato, ovvero prescindere da quello concretamente cagionato, per assumere così profili sanzionatori: ma queste ipotesi devono essere espressamente previste dalla legge. Si applicano, in particolare, i seguenti principi: il danno è risarcibile solo se costituisce conseguenza diretta ed immediata dall'inadempimento o dell'atto illecito commesso (art. 1223, seconda parte, c.c.); il danno risarcibile comprende sia il danno emergente, e cioè la perdita patrimoniale subita dal creditore per effetto dell'inadempimento, che il lucro cessante, vale a dire il guadagno patrimoniale netto che viene meno per effetto dell'inadempimento (art. 1223, seconda parte, c.c.); il danno è risarcibile, in caso di colpa, solo se prevedibile al tempo del sorgere dell'obbligazione mentre, se si tratta di responsabilità contrattuale, in caso di inadempimento con dolo (che non si presume e deve essere provato), è risarcibile anche il danno non prevedibile (art. 1225 c.c.); il danno deve essere ridotto per la parte che il creditore ha colposamente concorso a procurare mentre non è risarcibile se il creditore poteva diligentemente evitarlo (art. 1227, commi 1 e 2, c.c.); se il danno non può essere provato nel suo preciso ammontare, può essere liquidato dal giudice con valutazione equitativa (art. 1226 c.c.). Il danno, infine, è determinato avendo riguardo agli effetti vantaggiosi che il danneggiato abbia ricevuto in conseguenza diretta (e non in occasione o per riflesso) del fatto illecito o dell'inadempimento (cd. compensazio lucri cum damno). In difetto di norme specifiche, anche la quantificazione del credito risarcitorio azionato dal curatore è regolata dalle norme che, in generale, in materia di responsabilità contrattuale (artt. 1218 ss. c.c.) e di responsabilità extracontrattuale (artt. 2043 ss. c.c.), disciplinano la selezione, tra i danni materialmente cagionati dall'inadempimento accertato, dei pregiudizi concretamente suscettibili di riarcimento. Si applicheranno, quindi, gli artt. 1223 (Cass. n. 3774/2005), 1225 (Cass. n. 6037/2010, in motiv.), 1227 (Weigmann, 206, e nt. 11) e 1226 c.c. (Franzoni, 102; Borgioli, 256; Weigmann, 198 e 205, 206). a. Si discute, infine, se, nella concreta determinazione del danno da risarcire, sia, o meno, possibile applicare il principio della cd. compensatio lucri cum damno. Si tratta del caso in cui, con il compimento del fatto illecito, gli amministratori abbiano causato un danno alla società ma abbiano anche arrecato alla stessa un vantaggio che ne ha arricchito il patrimonio in modo da compensare, in tutto o in parte, il danno prodotto. In senso favorevole all'utilizzazione di tale criterio per la determinazione del danno risarcibile si è pronunciata parte della dottrina, come FRÈ-SBISÀ, 846, per i quali, però, non si può aver riguardo al risultato finale dell'esercizio, escludendo cioè la responsabilità degli amministratori per i danni che hanno cagionato alla società tutte le volte in cui essi abbiano trovato compensazione nei vantaggi che, nello stesso periodo, i medesimi amministratori abbiano assicurato alla società con la loro azione: «l'esercizio può infatti chiudersi con un utile anche se le colpe degli amministratori hanno causato nel corso di esso notevoli perdite alla società e non sarebbe giusto che una serie di operazioni fortunate potesse esonerare gli amministratori colpevoli dall'obbligo di risarcire i danno che essi hanno procurato alla società solo perché questo in sede di bilancio annuale si traduce in un minor utili dell'esercizio». Così anche la giurisprudenza, secondo la quale il predetto principio può valere unicamente per quantificare in concreto i danni ed eventualmente escludere l'esistenza dei danni nell'ambito dello stesso comportamento illecito. Non è possibile, invece, utilizzare i profitti procurati con la passata gestione per neutralizzare i danni provocati da comportamenti del tutto autonomi dalla prima: così, ad es., nell'ipotesi di prosecuzione indebita dell'attività sociale, se sono derivati danni, in corrispondenza dell'aggravamento del dissesto, dalla valutazione del danno devono essere dedotti gli eventuali profitti che il prolungamento dell'attività ha prodotto. Se, invece, l'attenuazione delle conseguenze dannose deriva non dal fatto che ha provocato il danno ma da una circostanza allo stesso del tutto indipendente, della stessa non si deve tener conto nella liquidazione del danno (Cass. n. 26362/2011, che ha escluso ogni rilevanza, al fine di ridurre l'entità dei danni dovuti dall'amministratore, al fatto di aver rinunciato alla riscossione del compenso dovutogli, e ciò proprio sul rilievo che «vantaggio compensativo è... quello causalmente legato, al pari del danno, al medesimo specifico atto di gestione compiuto dall'amministratore, e non quello costituente l'effetto di una distinta serie causale... trattandosi di determinare il danno derivante appunto da ciascun atto di gestione... e non già di tracciare un generico bilancio dei vantaggi e svantaggi della complessiva gestione di un amministratore...». Cass. n. 6278/1990, Soc. 1991, 29, secondo cui la «compensatio lucri cum damno non integra ragione di diniego in tutto od in parte della responsabilità risarcitoria, ma assume rilievo al momento della liquidazione, assicurando l'effettivo ripristino del patrimonio della vittima dell'illecito, al netto di quei profitti che siano causalmente ricollegabili all'illecito stesso. Pertanto, la problematica inerente a tale compensazione, alle modalità ed ai limiti in cui deve operare, è affidata alla sentenza sul quantum. App. Milano 20 gennaio 1998, G.it. 1998, 1431; Trib. Milano 24 agosto 2011, Soc. 2012, 493 ss. Il problema si è posto, in particolare, nei gruppi di società, affermandosi, in particolare, che la concreta determinazione dell'an e/o del quantum del danno alla società deve tener conto dei vantaggi dei quali la società ha goduto in conseguenza della sua appartenenza ad un più ampio gruppo e che, in quanto tali, potrebbero neutralizzare, in tutto o in parte, l'apparente pregiudizio ad essa arrecato da un'operazione vantaggiosa per il gruppo (teoria cd dei vantaggi compensativi). Se è vero, infatti, che «... l'autonomia soggettiva e patrimoniale che pur sempre contraddistingue ogni singola società appartenente ad un gruppo impone all'amministratore di perseguire prioritariamente l'interesse della specifica società cui egli è preposto... e... non gli consente di sacrificarne l'interesse in nome di un diverso interesse che, se pure riconducibile a quello di chi è collocato al vertice del gruppo, non assumerebbe alcun rilievo per i soci di minoranza e per i terzi creditori della società controllata», è anche vero, però, che «ciò... non esclude affatto la possibilità di tener conto di valutazioni afferenti alla conduzione del gruppo nel suo insieme, purché non vengano in tal modo pregiudicati ingiustificatamente gli interessi delle singole società...». In effetti, «... nel valutare se un siffatto pregiudizio in concreto sussista, è doveroso tener conto che la conduzione di un'impresa di regola non si estrinseca nel compimento di singole operazioni, ciascuna distaccata dalla precedente, bensì nella realizzazione di strategie economiche destinate spesso a prender forma e ad assumere significato nel tempo attraverso una molteplicità di atti e di comportamenti». È, quindi, «... perfettamente logico che anche la valutazione di quel che potenzialmente giova, o invece pregiudica, l'interesse della società non possa prescindere da una visione generale: visione in cui si abbia riguardo non soltanto all'effetto patrimoniale immediatamente negativo di un determinato atto di gestione, ma altresì agli eventuali riflessi positivi che ne siano eventualmente derivati in conseguenza della partecipazione della singola società ai vantaggi che quell'atto abbia arrecato al gruppo di appartenenza...»: così Cass. n. 16707/2004, Giur.comm. 2005, II, 246 ss., in un caso nel quale l'amministratore di una società — poi fallita — aveva ceduto un ingente complesso immobiliare ad una società controllata, poi ceduta ad una società esterna al gruppo per un prezzo notevolmente inferiore rispetto al valore degli immobili ad essa precedentemente ceduti. La riforma del diritto societario — come la stessa sentenza ha riconosciuto («... una siffatta eventualità (oggi espressamente considerata in una disposizione del novellato art. 2497 c.c., non però direttamente applicabile a fattispecie realizzatesi in epoca anteriore all'entrata in vigore del d.lgs. n. 6 del 2003) è da ritenersi sicuramente ammissibile...») — ha espressamente previsto il vantaggio compensativo come criterio di determinazione del danno in caso di operazioni infragruppo. In tal senso, infatti, depone l'art. 2497 c.c., che, dopo aver previsto che la società o l'ente che esercita attività di direzione e coordinamento di società, che, agendo nell'interesse imprenditoriale proprio o altrui ed in violazione dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale delle società medesime, abbia provocato un danno al patrimonio della società eterodiretta, è responsabile, unitamente a chi abbia concorso (con dolo o colpa) al fatto lesivo (a partire, quindi, dagli amministratori), oltre che verso la società danneggiata, anche verso i creditori sociali, per la lesione cagionata all'integrità del patrimonio sociale, ha stabilito che il danno deve essere determinato alla luce del risultato complessivo dell'attività di direzione e coordinamento ovvero delle operazioni volte alla sua rimozione: «... non vi è responsabilità quando il danno risulti mancante alla luce del risultato complessivo dell'attività di direzione e coordinamento...». In tal senso depone anche l'art. 2634, comma 3, c.c., in tema di delitto di infedeltà patrimoniale, prevede che «in ogni caso non è ingiusto il profitto della società collegata o del gruppo, se compensato da vantaggi, conseguiti o fondatamente prevedibili, derivanti dal collegamento o dall'appartenenza al gruppo». Si tratta, come è evidente, di un'applicazione tipica della teoria dei vantaggi compensativi: la concreta determinazione dell'an e/o del quantum del danno alla società deve tener conto dei vantaggi dei quali la società ha goduto in conseguenza della sua appartenenza ad un più ampio gruppo di imprese e che, in quanto tali, potrebbero neutralizzare, in tutto o in parte, l'apparente pregiudizio ad essa arrecato da un'operazione vantaggiosa per il gruppo. La riforma, però, sembra indicare che, da un lato, il vantaggio compensativo non deve essere rapportato agli effetti prodotti dalla singola operazione pregiudizievole ma al risultato complessivo dell'attività di direzione e coordinamento (e cioè dell'appartenenza al gruppo, avendo, quindi, riguardo all'attività complessiva del gruppo e alle operazioni, diverse e distinte da quella considerata, riconducibili all'attività del gruppo) e, dall'altro lato, che il vantaggio compensativo deve essere accertato non ex post ma ex ante, avendo cioè riguardo non ai vantaggi che l'operazione pregiudizievole ha in seguito concretamente apportato alla società, ma ai vantaggi che la stessa operazione, poi rivelatasi dannosa, avrebbe potuto ragionevolmente ad essa arrecare. La deduzione del vantaggio compensativo deve essere scolta non in termini meramente ipotetici e la relativa prova compete all'amministratore convenuto in giudizio e non alla società. Se si accerta che l'atto compiuto non risponde all'interesse diretto della società il cui amministratore lo ha compiuto e che ha cagionato nell'immediato un danno al patrimonio sociale, spetta al medesimo amministratore la deduzione e la dimostrazione dell'esistenza di un gruppo per effetto del quale il pregiudizio prodotto è stato, in seguito, in tutto o in parte rimosso. Non può, quindi, sostenersi «... che la mera appartenenza della società ad un gruppo renda plausibile l'esistenza dei suddetti «benefici compensativi» e che, pertanto, competa alla società la quale abbia agito contro il proprio amministratore l'onere di dimostrarne l'inesistenza. Viceversa, la società attrice esaurisce il proprio onere probatorio dimostrando l'esistenza di comportamenti dell'amministratore che ledono il patrimonio dell'ente e perciò appaiono contrari al suo obbligo di perseguire lo specifico interesse sociale. È il medesimo amministratore, se del caso, che deve farsi carico di allagare e provare gli ipotizzati benefici indiretti, connessi al vantaggio complessivo del gruppo, e la loro idoneità a compensare efficacemente gli effetti immediatamente negativi dell'operazione compiuta» (Cass. n. 16707/2004 cit.). b. In linea di principio, il curatore ha il diritto di ricevere una somma corrispondente all'equivalente pecuniario dell'effettivo pregiudizio arrecato (al patrimonio della società e, di riflesso, ai suoi creditori) dal comportamento illegittimo degli amministratori, come nel caso della distrazione di somme o di singoli beni sociali (Cass. S.U., n. 9100/2015) o dell'assunzione indebita di un'obbligazione Franzoni, 101). Deve escludersi, pertanto, almeno in linea di principio, che, nelle azioni di responsabilità esercitate dal curatore, il danno possa essere determinato e liquidato in corrispondenza alla differenza tra passivo accertato e attivo liquidato in sede concorsuale (così come, e prima ancora, deve escludersi che il curatore possa limitarsi a dedurre e provare la misura dell'attivo liquidato e quella del passivo accertato). Nel passato, come è noto, l'orientamento favorevole a tale criterio di liquidazione del danno (Cass. n. 1281/1977; Cass. n. 2671/1977, che ha ritenuto, però, necessario tener conto degli incrementi dell'attivo nel corso della procedura fallimentare, Cass. n. 6493/1985) si è fondato sull'idea che, in caso di inadempimento che abbia danneggiato il patrimonio della società (e, di riflesso, i suoi creditori), agli amministratori che l'hanno commesso (ed ai sindaci che non l'hanno impedito) sia imputabile, in caso di successivo fallimento, l'intero dissesto sociale (corrispondente, in concreto, alla differenza tra il passivo accertato e l'attivo liquidato): e ciò, evidentemente, sia allo scopo di preservare le ragioni dei creditori in presenza della crisi dell'impresa societaria, sia per limitare il risarcimento dei danni dovuti dagli amministratori responsabili quando la responsabilità del dissesto non fosse da addebitarsi in via esclusiva al loro operato o alle loro omissioni ma anche all'imprevedibile verificarsi di eventi negativi concorrenti a creare circostanze svantaggiose per la redditività dell'impresa e, conseguentemente, alla irreversibilità della sua crisi. Si tratta, peraltro, di un orientamento che, fin dall'inizio, ha incontrato le aspre critiche della dottrina pressoché unanime (fra le voci più autorevoli, Bonsignori, 121 ss.; Panzani, 973 ss.; Rordorf, 617 ss.; Jaeger, 548 ss.; Gabrielli, 7 ss.; Franzoni, 405 ss), la quale ha insistentemente evidenziato il vistoso contrasto delle soluzioni adottate in giurisprudenza con i principi generali, come in precdenza illustrati, che, nel nostro ordinamento, regolano la responsabilità civile in materia di nesso di causalità materiale tra condotta illecita ed evento pregiudizievole e di liquidazione dei danni solo se sono conseguenza diretta ed immediata dell'inadempimento (o dell'atto illecito). Il criterio del deficit, inoltre, è di per sé inattendibile (Panzani, 973 ss.; Patti, 94, 95. In giurisprudenza, Trib. Napoli 31 maggio 2006, Soc. 2007, 1125 ss): sia per eccesso, poiché, per un verso, l'attivo risente della svalutazione dei beni soggetti alla liquidazione fallimentare ed è, spesso, incrementato dal ricavato di azioni precluse alla stessa società fallita (ed ai suoi organi), come le azioni revocatorie, mentre, per altro verso, il passivo tende ad incrementarsi per effetto degli interessi sui debiti (privilegiati) ammessi, che non possono essere soddisfatti se non via via che le attività vengono liquidate; sia per difetto, perché il differenziale negativo tra attivo e passivo può risultare inferiore al danno arrecato nella misura in cui alcuni creditori rinunzino a proporre domanda di ammissione al passivo fallimentare Il suddetto criterio, poi, rischia di porsi in conflitto con i postulati della c.d. Business judgement rule, che, come detto, sancisce l'insindacabilità delle scelte discrezionali di gestione compiute dagli amministratori: l'applicazione di una tecnica di determinazione automatica e approssimativa del danno risarcibile, come quella che considera complessivamente il deficit fallimentare, finisce, in effetti, per chiamare a rispondere i gestori anche per le conseguenze negative derivanti da decisioni rientranti nella loro sfera di discrezionalità, le quali, invece, non possono essere reputate fonte di responsabilità, né, tanto meno, di danno risarcibile (Rordorf, 617 ss., dove evidenzia la difficoltà di discernere le conseguenze degli atti illegittimi compiuti dagli amministratori rispetto al risultato complessivo di un'attività gestoria altrimenti insindacabile). Il curatore, inoltre, finisce per trovarsi in una posizione processuale decisamente più vantaggiosa, benché priva di validi agganci normativi, rispetto a quella degli amministratori (e dei sindaci) convenuti in giudizio, attraverso un'inversione dell'onere della prova, che, il più delle volte, diventava per i convenuti una vera e propria probatio diabolica in quanto gravati, in modo anomalo rispetto alle regole in tema di ripartizione dell'onere della prova, della dimostrazione della mancanza del nesso di causalità tra la loro condotta ed il deficit lamentato dal curatore fallimentare (Jaeger, 550). In termini più generali, si è affermato che non è giuridicamente corretto accomunare indistintamente e ricomprendere in un'unica voce di danno tutte le conseguenze (negative) dell'intera gestione sociale, che possono, invece, scaturire anche da fattori del tutto estranei alla condotta commissiva od omissiva di gestori e controllori, come quelli riconducibili al rischio di impresa (Franzoni, 101). La Corte di cassazione — preceduta dalla giurisprudenza di merito (Trib. Roma 7 marzo 1991, NGCC, 1992, I, 283; Trib. Napoli 27 novembre 1993, Fall. 1994, 861) — ha, infine, superato l'orientamento tradizionale, ritenendo che il danno risarcibile debba essere determinato, a norma dell'art. 1223 c.c., in relazione alle conseguenze dirette ed immediate delle singole violazioni riscontrate, avendo riguardo, quindi, al concreto ed effettivo pregiudizio che l'atto illecito ha cagionato al patrimonio della società. Possono considerarsi espressione di tale mutato indirizzo, ex aliis: Cass. n. 9252/1997, a tenore della quale «in tema di azione di responsabilità nei confronti degli organi sociali, quando il fondamentale addebito loro imputabile si individua nel dovere di intraprendere nuove operazioni, in caso di fallimento della società, il danno, in linea di principio, non può automaticamente identificarsi nella differenza tra attivo e passivo nel fallimento, dovendo applicarsi le regole sul nesso di causalità materiale. Tuttavia, il danno può essere identificato nella differenza tra attivo e passivo, in mancanza di prova di maggior pregiudizio, se per fatto imputabile agli organi sociali si sia venuto a verificare il dissesto economico della società e il conseguente assoggettamento a fallimento»; Cass. n. 3483/1998 nella cui motivazione (cfr. infra), disattendendosi il motivo di ricorso secondo cui la sentenza impugnata aveva affermato, in modo incongruo ed irrazionale, che l'impossibilità di accertare la misura del danno concretamente attribuibile in modo diretto ad ogni singola violazione dei doveri degli amministratori, comportava che il danno non poteva che essere liquidato in modo generico e, in concreto, nella differenza tra passivo ed attivo fallimentare, si è ritenuto che «...una volta accertato che gli amministratori di una società riuniti in collegio abbiano consumato violazioni del loro doveri di diversa natura e riconducibili, distintamente, alle ipotesi di cui agli artt. 2449, 2393 e 2394 c.c., e che da queste violazioni sia derivato un danno alla società, l'impossibilità di determinare in modo specifico il nesso esistente tra le singole violazioni e l'ammontare del danno globalmente accertato (ossia la concreta misura del danno conseguente ad ogni singola violazione) in conseguenza della circostanza che le scritture contabili sono state tenute in modo da impedire la ricostruzione a posteriori delle vicende societarie, lungi dal ridondare a vantaggio degli amministratori nel senso della loro assoluzione dall'azione di responsabilità... aggrava la loro responsabilità e si traduce in un pregiudizio per la loro posizione processuale, legittimando l'ascrivibilità dell'intero danno...»; Cass. n. 10488/1998, nella cui motivazione si è chiarito, tra l'altro, che «..la tesi che individua l'ammontare del danno in entità corrispondente alla differenza di segno negativo tra l'attivo e il passivo...peraltro, fondatamente criticata dalla dottrina e sempre più spesso sottoposta a revisione nell'esperienza giudiziaria, non appare rispondente all'esigenza di una rigorosa verifica della sussistenza di un rapporto di consequenzialità causale tra la condotta illecita e il danno. Il rispetto di tale esigenza si risolve nella riaffermazione del principio che agli amministratori deve essere accollato il risarcimento dei danni che si pongano quale conseguenza immediata e diretta dalle commesse violazioni e nella misura equivalente al detrimento patrimoniale che non si sarebbe verificato se la condotta illecita degli amministratori non fosse stata attuata: da ciò derivano, nella maggior parte dei casi, conseguenze concretamente meno gravose per i responsabili, grazie alla esenzione dal risarcimento di quei danni che possano essere stati provocati da fatti a loro non imputabili: ma non è da escludere che ne consegua, come nel caso in esame, il riconoscimento di un più pesante onere risarcitorio rispetto a quello che si vorrebbe delimitare in funzione del solo deficit fallimentare...». L'inversione di rotta della giurisprudenza ha raggiunto il suo culmine con due note sentenze della Corte di cassazione del 2005 le quali hanno fermamente riaffermato, anche in sede fallimentare, i principi civilistici in materia di responsabilità, specie per quanto concerne colpevolezza e nesso di causalità, ed hanno stabilito che il criterio della differenza tra attivo e passivo fallimentare rimane utilizzabile, quale criterio presuntivo e salva la prova contraria del minor danno, solo nel caso in cui il curatore si trovi nell'assoluta impossibilità di procedere alla ricostruzione delle vicende societarie per la sostanziale mancanza delle scritture contabili, sempre che sia logicamente plausibile che il comportamento illegittimo degli amministratori, in relazione alle circostanze del singolo caso, abbia potuto provocare un danno corrispondente all'intero sbilancio patrimoniale della società, quale accertato in sede concorsuale (Cass. n. 3032/2005; Cass. n. 2538/2005. Si riporta, in particolare, l'intero passaggio motivazionale di quest'ultima qui ritenuto di specifico interesse: «...In caso di comportamenti illegittimi di amministratori o sindaci di società fallite, o sottoposte ad altre analoghe procedure concorsuali...l'identificazione automatica del danno imputabile all'illegittima condotta di amministratori e sindaci con la differenza tra attività e passività accertate in sede concorsuale sia concettualmente insostenibile. Lo sbilancio patrimoniale di una società insolvente, infatti, può avere (e per lo più ha) cause molteplici, non necessariamente tutte riconducibili al comportamento illegittimo dei gestori e dei controllori della società. La sua concreta misura dipende spesso non tanto dal compimento di uno o più atti illegittimi, quanto dalla gestione nel suo complesso e dalle scelte discrezionali in cui questa si traduce; ossia da attività per natura loro sottratte al vaglio di legittimità del giudice, che non può mai investire anche il merito delle decisioni imprenditoriali cui un rischio economico è connaturato. I principi da cui è retto il risarcimento del danno civile impongono, del resto, l'individuazione di un preciso nesso di causalità tra il comportamento illegittimo di cui taluno è chiamato a rispondere e le conseguenze che ne siano derivate nell'altrui sfera giuridica, e richiedono che di tale nesso sia fornita la prova da parte di chi il risarcimento invoca. Un automatismo del genera di quello sopra prospettato, quindi, non solo conduce a risultati che empiricamente paiono per lo più poco rispondenti all'effettiva realtà dei fatti, ma soprattutto si pone in insanabile contraddizione con i principi dianzi richiamati...»). In buona sostanza, l'importanza di queste due pronunce non è tanto nell'avere segnato l'inversione di rotta della giurisprudenza, già avvenuta, come si è visto, precedentemente, quanto piuttosto nell'aver messo ordine, da un punto di vista concettuale, tra il vecchio orientamento e le nuove posizioni dei giudici, inquadrando il metodo del deficit fallimentare come regola meramente residuale, operante soltanto in ipotesi ben determinate, nelle quali sia impossibile quantificare altrimenti il danno il risarcibile. A queste sentenze si è successivamente uniformata, almeno in linea di principio, la gran parte delle decisioni dei giudici di merito (cfr. in tal senso Trib. Catania 25 ottobre 2000, Giur.comm. 2001, II, 729 ss. App. Milano 11 luglio 2007, Soc. 2008, 590 ss.; Trib. Napoli 27 novembre 2003, Fall. 1994, 861; Trib. Napoli 31 maggio 2006, Soc. 2007, 1125; Trib. Torino 15 aprile 2005, G.it. 2005, 1859; Trib. Torino 6 maggio 2005, G.it. 2005, 1858; Trib. Torino 12 gennaio 2009, Fall. 2010, 35; Trib. Milano 10 marzo 2010, Soc. 2010, 774) e della stessa Suprema Corte. In tal senso, in particolare, si sono, di recente, espresse le Sezioni Unite che, nella sentenza n. 9100/2015, hanno osservato come «la pretesa d'individuare il danno risarcibile nella differenza tra passivo ed attivo patrimoniale, accertati in sede fallimentare, risulta fatalmente priva di ogni base logica non foss'altro perché l'attività d'impresa è intrinsecamente connotata dal rischio di possibili perdite, il cui verificarsi non può mai esser considerato per sé solo un sintomo significativo della violazione dei doveri gravanti sull'amministratore, neppure quando a costui venga addebitato di esser venuto meno al suo dovere di diligenza nella gestione, appunto in quanto non basta la gestione diligente dell'impresa a garantirne i risultati positivi», e ciò vale anche nel caso della mancata o irregolare tenuta delle scritture contabili: ed infatti, l'omessa tenuta delle scritture contabili costituisce la violazione di uno specifico obbligo di legge in capo agli amministratori, (almeno potenzialmente) idonea a tradursi in un pregiudizio per il patrimonio sociale, «non può tuttavia farsene in alcun modo derivare la conseguenza che quel pregiudizio si identifichi nella differenza tra il passivo e l'attivo accertati in sede fallimentare». «Una simile conseguenza non può esser fatta discendere nemmeno dalla considerazione che la mancanza (o l'irregolarità) delle scritture contabili impedirebbe al curatore che agisce in responsabilità contro l'amministratore della società fallita di ricostruire, e perciò di provare con sufficiente precisione, il danno sofferto dal patrimonio della medesima società (e dai suoi creditori), onde si giustificherebbe che l'onere della prova del danno e del nesso di causalità venga spostato a carico dell'amministratore convenuto, giacché è proprio l'illegittimo comportamento di costui ad impedire all'attore di assolvere quell'onere. Tale argomentazione... in qualche modo si riallaccia al principio... della cosiddetta prossimità o vicinanza (o anche disponibilità o riferibilità) della prova... principio secondo il quale l'onere della prova di circostanze ricadenti nella sfera d'azione di una sola delle parti in causa dev'essere assolto da quella medesima parte, riaschiando altrimenti di rimanere irragionevolmente menomato il diritto costituzionale di azione e di difesa in giudizio dell'altra... Ma la mancanza o l'irregolarità della contabilità sociale... non sono legate da alcun potenziale nesso eziologico con il danno costituito dal deficit patrimoniale accertato in sede fallimentare. Ed allora il fatto che l'amministratore sia venuto meno ai suoi doveri di corretta redazione e di conservazione della contabilità non giustifica che venga posto a suo carico l'onere di provare la non dipendenza di quel deficit patrimoniale dall'inadempimento, da parte sua, di ulteriori ma non meglio specificati obblihi. Né varrebbe ad obiettare che il mancato rinvenimento della contabilità potrebbe impedire al curatore la stessa individuazione di altri eventuali inadempimenti ascrivibili all'amministratore, potenzialmente idonei – quelli sì – a porsi come causa del deficit patrimoniale fatto registrare dalla società fallita ... appare evidente che l'eventuale impossibilità di stabilire ciò di cui gli organi della società fallita potrebbero essersi resi responsabili non giustificherebbe comunque la proposizione alla cieca di un'azione di responsabilità, e tanto meno il conseguente addebito agli amministratori di un deficit patrimoniale che nulla in tal caso consentirebbe di porre in rapporto di causa ad effetto con comportamenti dell'amministratore impossibili persino da individuare...», concludendo con l'affermazione del principio per cui «nell'azione di responsabilità promossa dal curatore del fallimento di una società di capitali nei confronti dell'amministratore della stessa l'individuazione e la liquidazione del danno risarcibile dev'essere operata avendo riguardo agli specifici inadempimenti dell'amministratore, che l'attore ha l'onere di allegare, onde possa essere verificata l'esistenza di un rapporto di causalità tra tali inadempimenti ed il danno di cui si pretende il risarcimento» e che «...la mancanza di scritture contabili della società, pur se addebitabile all'amministratore convenuto, di per sé sola non giustifica che il danno da risarcire sia individuato e liquidato in misura corrispondente alla differenza tra il passivo e l'attivo accertati in ambito fallimentare». (Conf. Cass. n. 26197/2016; in precedenza, Cass. n. 16050/2009; Cass. n. 9619/2009; Cass. n. 17198/2013, Cass. n. 16211/2007; di recente, in tal senso Cass. n. 38/2017). Il criterio della differenza tra attivo e passivo fallimentare rimane, tuttavia, utilizzabile — ma solo in via residuale e quale mero parametro di liquidazione del danno in via equitativa ex art. 1226 c.c. (nella sua misura massiva: ferma restando, naturalmente, la possibilità, in relazione alle circostanze di singolo caso, di una condanna al pagamento di un importo minore) — nel solo caso in cui il curatore, in conseguenza dell'accertata mancanza, originaria o procurata, di scritture contabili attendibili (Cass. n. 17198/2013; Cass. n. 11155/2012) o, più in generale, per effetto della mancata cura (da parte degli amministratori delegati) e vigilanza (da parte del consiglio di amministrazione e dei sindaci) di un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato, in violazione dei doveri specifici a tal fine previsti dall'art. 2381 c.c., si trovi, oggettivamente (e, quindi, non per sua responsabilità), nell'impossibilità (o nell'estrema difficoltà) di procedere alla ricostruzione (anche incompleta e non puntuale, purché almeno sufficientemente approssimativa) delle vicende societarie e, quindi, nella «effettiva impossibilità di addivenire ad una ricostruzione (magari non completa e del tutto puntuale, ma almeno sufficientemente approssimativa) degli specifici effetti pregiudizievoli procurati al patrimonio sociale dall'illegittimo comportamento degli organi della società, ciascuno, ove occorra, distintamente valutato» (Cass. n. 11155/2012). A tal fine, tuttavia, è pur sempre necessario, da un lato, che il danno al patrimonio sociale (che, di per sé, dev'essere allegato dall'attore e, comunque, provato nell'an) sia causalmente ascritto dal curatore ad un fatto illecito (astrattamente idoneo ad essere la causa di un danno pari al deficit patrimoniale accertato in sede fallimentare) — che ha, pertanto, l'onere di dedurre specificamente (Cass. S.U., n. 9100/2015) (ovvero, in ipotesi di responsabilità extracontrattuale, anche provare) in giudizio, purché diverso (Jorio, 650 ss, 667, 668) da quello consistito nella mera omissione o nella tenuta irregolare della contabilità (che di per sé, come detto, non provoca danni: Cass. S.U., n. 9100/2015), ed, in ogni caso, tale da rendere logicamente plausibile, in relazione alle circostanze del singolo caso, l'imputazione causale a detto comportamento dell'intero sbilancio patrimoniale della società, quale poi accertato in sede concorsuale (Cass. S.U., n. 9100/2015), e, dall'altro lato, che il curatore, prima, ed il giudice, poi, indichino le ragioni, sia stata impossibile (o estremamente difficile) l'individuazione e la prova degli specifici effetti negativi che quel comportamento ha avuto sul patrimonio sociale (Cass. S.U., n. 9100/2015). Resta, tuttavia, salva la prova (da chi ne abbia l'interesse) del maggiore o minore danno arrecato (Cass. n. 10488/1998) ed, in ogni caso, la necessità di adottare i correttivi necessari ad adeguare il quantum al deficit effettivo (cfr. Cass. n. 9616/2009, la quale ha rilevato la necessità che, in sede di liquidazione equitativa, la determinazione dell'attivo e della conseguente differenza rispetto al passivo tenga conto delle azioni di recupero pendenti. Cass. n. 17235/2014, in motiv., per cui «la corte territoriale, una volta accertata la responsabilità degli amministratori e dei sindaci per la vendita sottocosto dell'immobile per verificare se tale operazione sia derivato un danno effettivo alla società ed ai suoi creditori sarà tenuta a valutare in via incidentale la fondatezza della domanda revocatoria»). La responsabilità per il compimento di nuove operazioni dopo lo scioglimento della societàNella disciplina in vigore prima della riforma del diritto societario, vivamente dibattuta era la questione relativa alla esperibilità da parte del curatore dell'azione prevista dall'art. 2449, comma 1, c.c. per violazione da parte degli amministratori del divieto di porre in essere nuove operazioni dopo lo scioglimento della società, come nel caso della riduzione del capitale sociale al di sotto del limite legale per effetto di perdite a norma degli artt. 2447 e 2448, n. 4, vecchio testo, c.c. Come è noto, infatti, nel momento in cui il capitale sociale si riduce al di sotto del minimo legale in conseguenza di perdite superiori ad un terzo, la società (salva la reintegrazione del capitale sociale o la trasformazione) si scioglie automaticamente: gli amministratori (che ne abbiano avuto conoscenza o avrebbero dovuto averne conoscenza con l'ordinaria diligenza, ad es. in sede di redazione del progetto di bilancio, trattandosi pur sempre di una responsabilità per colpa, o per dolo, come nel caso in cui abbiano occultato le perdite rilevanti) avevano, di conseguenza, l'obbligo, al pari che nelle altre ipotesi di scioglimento della società, di astenersi dal compiere «nuove operazioni» (art. 2449, comma 1, c.c.). Se gli amministratori — che abbiano conosciuto (ad es., che il capitale sociale si era ridotto al di sotto del limite legale per effetto di perdite superiori ad un terzo) ovvero dovuto diligentemente conoscere (ad es., in sede di redazione del progetto di bilancio) ovvero colpevolmente ignorato (ad es.: quando l'ignoranza delle perdite rilevanti è derivata dal disinteresse per la gestione sociale o dal disordine contabile o amministrativo ovvero dalla mancata o ritardata redazione del bilancio nei termini di legge o dalle illecite valutazioni delle sue poste quali, ad es., la sopravvalutazione di poste attive, come crediti o rimanenze, o la sottovalutazione di poste passive, come la mancata esposizione di debiti che, sia pur contestati, devono considerarsi probabili e non semplicemente possibili) ovvero ancora dolosamente occultato (ad es., nascondendo, attraverso un bilancio falso nei termini sopra riferiti, le perdite a tal fine rilevanti), la verificazione di una causa di scioglimento della società (trattandosi pur sempre di una responsabilità per colpa o per dolo) — compivano (in violazione dolosa o colposa del relativo divieto) nuove operazioni, nei termini sopra riferiti, erano considerati personalmente e solidalmente responsabili — oltre che nei confronti del terzo contraente (art. 2449, commi 1 e 2, c.c.) – anche: 1) verso la società (art. 2392, 2393 c.c.), in via contrattuale, costituendo un'ipotesi di inosservanza ad un dovere (art. 2449, comma 1, c.c.) imposto dalla legge agli amministratore (anche) nell'interesse della società per i danni che le nuove operazioni abbiano arrecato al patrimonio sociale e consistiti nell'indebito incremento del passivo attraverso l'assunzione di un nuovo debito ovvero, ed a maggior ragione, nell'indebita riduzione dell'attivo attraverso il suo adempimento; 2) verso i creditori sociali, in via extracontrattuale, trattandosi della violazione di un dovere (art. 2449, comma 1, c.c.) degli amministratori volto (anche) alla conservazione del patrimonio sociale quale garanzia per i creditori della società, sempre che, a seguito dell'assunzione da parte della società di un nuovo obbligo (ed il connesso incremento del passivo) o, a maggior ragione, del suo adempimento (e la connessa riduzione dell'attivo), la «nuova operazione» vietata abbia determinato, a fronte della sua originaria capienza, la sua insufficienza al loro integrale pagamento (art. 2394 c.c.), indipendentemente dal fatto che i creditori (conseguentemente insoddisfatti) siano diventati tali prima ovvero dopo la verificazione della causa di scioglimento della società (Cass. n. 9887/1995). In caso di fallimento, l'azione spettante al terzo contraente a norma dell'art. 2449 c.c., in quanto personale e non di massa, non si trasferisce al curatore (Cass. n. 8368/2000). Il compimento di nuove operazioni dopo lo scioglimento della società da parte dei suoi amministratori, in violazione dolosa o colposa dell'obbligo di astensione posto dall'art. 2449, comma 1, c.c., oltre a fondare l'azione risarcitoria del terzo contraente, poteva, però, come detto, integrare i presupposti dell'azione sociale di responsabilità (per violazione dei doveri imposti dalla legge), se ha cagionato un danno al patrimonio sociale, ovvero dell'azione dei creditori sociali (per inosservanza degli obblighi inerenti alla conservazione dell'integrità del patrimonio sociale), se l'abbia reso insufficiente alla soddisfazione dei creditori sociali. In tal caso, il curatore del fallimento — in aggiunta, se del caso, all'azione del terzo contraente ex art. 2449, comma 1, c.c., liberamente esperibile, per la diversità di causa petendi e di petitum, anche durante il fallimento — è (stato ritenuto) senz'altro legittimato ad agire contro gli amministratori della società fallita ma, a ben vedere, non nell'esercizio dell'azione prevista dall'art. 2449 c.c., quanto piuttosto in base alle norme generali degli artt. 2392-2394 c.c., sul presupposto che il comportamento vietato, configurandosi quale inadempimento (doloso o colposo) ad un obbligo imposto dalla legge (anche) verso la società (art. 2392 c.c.) ovvero quale violazione dolosa o colposa dell'obbligo generale (v. anche l'art. 2449, comma 3, c.c.) di conservarne l'integrità, abbia determinato un danno al patrimonio sociale, quanto meno nel senso di renderlo insufficiente alla soddisfazione dei creditori (Cass. n. 8368/2000, per cui «la violazione del divieto di compiere nuove operazioni, oltre a dar luogo a responsabilità diretta degli amministratori verso il terzo, può integrare il presupposto dell'azione sociale di responsabilità (per violazione dei doveri imposti dalla legge) e dell'azione di responsabilità dei creditori sociali (per inosservanza degli obblighi inerenti alla conservazione dell'integrità del patrimonio sociale)»; così anche Cass. n. 6719/2008; Cass. n. 9619/2009; Cass. n. 6037/2010). Con la riforma del diritto societario, lo scioglimento della società è giuridicamente efficace, a norma dell'art. 2484, comma 3, c.c., solo a seguito ed a far data dall'iscrizione nel registro delle imprese della dichiarazione con la quale gli amministratori hanno accertato la verificazione della relativa causa. Gli amministratori hanno, peraltro, il dovere di accertare «senza indugio» — a mezzo di un assetto amministrativo, organizzativo e contabile adeguato alla natura ed alle dimensioni dell'impresa, che, a norma dell'art. 2381 c.c., hanno l'obbligo di istituire e valutare (ed i sindaci di controllare: art. 2403 c.c.) — il verificarsi di una causa di scioglimento e procedere agli adempimenti anche pubblicitari conseguenti: in caso di omissione o ritardo, gli amministratori sono personalmente e solidalmente responsabili per i danni subiti dalla società, dai soci, dai creditori sociali e dai terzi (art. 2485 c.c.). Inoltre, al «verificarsi» di una causa di scioglimento (e con salvezza degli effetti conseguenti all'applicazione, in caso di domanda di ammissione al concordato preventivo, dell'art. 182-sexies l.fall., così come introdotto dalla legge n. 134/2012), gli amministratori, fino alle consegne ai liquidatori, conservano il potere-dovere di gestire la società, ma ai soli fini di conservare l'integrità ed il valore del patrimonio sociale e sono personalmente e solidalmente responsabili per i danni arrecati alla società, ai soci, ai creditori sociali ed ai terzi per gli atti e le omissioni compiute in violazione della suddetta norma (art. 2486 c.c.). Come si vede, pur a fronte di una profonda modifica in ordine agli effetti dello scioglimento della società, che conseguono esclusivamente alla pubblicazione sul registro delle imprese delle deliberazioni di accertamento (art. 2484, comma 3, c.c.), anche nella disciplina introdotta dalla riforma gli amministratori hanno il dovere di: a) accertare senza indugio la verificazione di una causa di scioglimento; b) gestire l'impresa (quindi, non l'obbligo di cessare d'attività), dopo la verificazione di una causa di scioglimento (che abbiano conosciuto o avrebbero dovuto conoscere con l'ordinaria diligenza), al solo fine di conservare l'integrità ed il valore del patrimonio sociale, astenendosi, quindi, dal compiere atti od operazioni che non siano funzionali a tale obiettivo. In difetto, a norma degli artt. 2485 e 2486 c.c., gli amministratori — che abbiano conosciuto la causa di scioglimento (ad es., dopo la redazione del progetto di bilancio che esponga in modo espresso l'esistenza di perdite rilevanti) o che l'abbiano volontariamente occultata (ad es., dopo la redazione di un progetto di bilancio che falsamente non esponga la verificazione di perdite rilevanti) ovvero avrebbero potuto diligentemente conoscerne la verificazione o l'abbiano colpevolmente ignorata (ad es., per l'irregolare tenuta delle scritture contabili ovvero per la mancata predisposizione di adeguati servizi contabili e/o per il mancato controllo sulla loro adeguatezza) — sono personalmente e solidalmente responsabili – oltre che verso i singoli terzi (artt. 2485, comma 1, e 2486, comma 2, c.c.) che hanno contratto (con la società: art. 2380-bis c.c.) la stipulazione degli atti vietati (ai suoi amministratori, che li abbiano compiuti con dolo o colpa), per il danno (diretto) subito e corrispondente, nel quantum, alla prestazione non ricevuta dalla società debitrice – anche nei confronti: della società (artt. 2392, 2393, 2485, comma 1, in fine, e 2486, comma 2, c.c.), trattandosi di inadempimento doloso o colposo a doveri giuridici (art. 2485, comma 1, all'inizio, e 2486, comma 1, c.c.) previsti dalla legge anche (e soprattutto) nell'interesse della stessa, per i danni cagionati, in termini di dispersione dell'attivo e/o di incremento del passivo, al suo patrimonio; dei creditori sociali (artt. 2485, comma 1, e 2486, comma 2, c.c.), trattandosi di inadempimento doloso o colposo a doveri giuridici (art. 2485, comma 1, e 2486, comma 1, c.c.) previsti dalla legge (anche) a tutela dell'integrità del patrimonio della società debitrice (art. 2394, comma 1, c.c.), se e nella misura in cui il patrimonio della società debitrice, a fronte delle sua originaria sufficienza, sia stato danneggiato (in termini di dispersione dell'attivo e/o di incremento del passivo) e, per l'effetto, reso insufficiente alla loro completa soddisfazione (art. 2394, comma 2, c.c.), per il danno (riflesso) subìto dagli stessi (pur se, come detto, si tratta di creditori di società a responsabilità limitata) e corrispondente alla prestazione non ricevuta dalla società debitrice. Anche a seguito della riforma, quindi, il compimento da parte degli amministratori dopo lo scioglimento della società di atti non funzionali alla conservazione dell'integrità e del valore del patrimonio sociale, dà senz'altro luogo a responsabilità personale degli stessi (non solo nei confronti del terzo contraente, ma anche) nei confronti della società e dei creditori sociali (in solido con i componenti degli organi di controllo che colpevolmente non l'abbiano impedito), quando abbia provocato un danno al patrimonio sociale, quanto meno nella misura in cui l'abbia reso insufficiente alla soddisfazione dei creditori sociali ( Trib. Napoli 11 gennaio 2011, Soc. 2011, 510 ss). E in caso di fallimento della società, il curatore è senz'altro legittimato (ed in via esclusiva) ad agire contro gli amministratori (i sindaci, ecc.), in base alle norme generali degli artt. 2392 — 2394 c.c. (e delle norme particolari previste dagli artt. 2485 e 2486 c.c.), sul presupposto che il comportamento vietato, configurandosi quale inadempimento di obblighi imposti dalla legge verso la società di evitare l'aggravamento della relativa situazione patrimoniale (art. 2392 c.c.), abbia provocato il depauperamento del patrimonio sociale ovvero, configurandosi quale violazione dell'obbligo generale di conservarne l'integrità, abbia determinato (arg. ex art. 2394 c.c.), l'insufficienza del patrimonio sociale alla soddisfazione dei creditori della società (Trib. Napoli 11 gennaio 2011, Soc. 2011, 510 ss). In tal senso, del resto, sembra porsi la riforma della legge fallimentare che, nel nuovo testo dell'art. 146, comma 2, lett. a) l.fall., ha previsto che il curatore esercita (tutte) «le azioni di responsabilità» (previste dalla legge) «contro gli amministratori» della società fallita, ivi comprese, quindi, le azioni risarcitorie previste dal comb. disp. degli artt. 2392, 2394, 2476, 2485, 2486 c.c., in relazione a quanto disposto dall'art. 2394-bis c.c., per i danni che gli stessi, in violazione dolosa o colposa dell'obbligo di conservare l'integrità ed il valore del patrimonio sociale dopo la verificazione di una causa di scioglimento, abbiano provocato alla società e/o ai suoi creditori, quanto meno in termini di insufficienza dello stesso alla loro integrale soddisfazione. L'onere di dedurre e dimostrare in giudizio le singole operazioni compiute spetta, naturalmente, trattandosi di fatto costitutivo della pretesa azionata, al curatore che agisce, al pari del pregiudizio che il patrimonio sociale ne abbia, per l'effetto, subìto (Cass. n. 1115/2012, in motiv., con riguardo alla necessità di individuare «le operazioni compiute... in violazione del divieto legale»). Se, però, manca la documentazione contabile e/o amministrativa (necessaria per dimostrare le singole operazioni) ovvero la stessa è incompleta o inattendibile, il curatore può limitarsi a dedurre e provare la prosecuzione della gestione ordinaria: spettando, poi, agli amministratori convenuti dimostrare che le operazioni compiute non siano state dannose per il patrimonio sociale o, più in generale, che la prosecuzione della gestione pur dopo lo scioglimento della società per effetto della perdita integrale del capitale sociale ha avuto, in concreto, funzione meramente conservativa, vale a dire che solo e proprio la continuazione dell'attività ha evitato perdite maggiori. Il medesimo criterio presuntivo vale nel caso in cui la perdita del capitale sociale sia notevolmente anteriore rispetto alla dichiarazione di fallimento, dovendosi in tali ipotesi «valutare un complesso di attività, a volte attraverso documentaizone contabile non del tutto chiara o completa, con speciale difficoltà nell'individuare in modo sufficientemente circostanziato le operazioni non coerenti con il fine conservativo, sicché si può fare ricorso a criteri presuntivi e sintetici di allegazione e dimostrazione, che si basano sulla verosimiglianza nel caso concreto dell'imputazione causale di un certo risultato negativo per il patrimonio sociale» (Trib. Milano 18 gennaio 2011, Fall. 2011, 588 ss.). In tali ipotesi, si può... ritenere assolto l'onere di allegazione quando il curatore fallimentare deduca che la perdita del capitale e lo stato di scioglimento della società sono anteriori alla dichiarazione dello stato di insolvenza, o alla formale messa in liquidazione della società, e afferma che gli amministratori hanno proseguito l'attività di impresa provocando un'ulteriore perdita, ossia superiore a quella registrata al momento dello scioglimento di fatto...» (Trib. Milano 18 gennaio 2011, Fall. 2011, 588 ss.). Anche la novità dell'operazione (o, più in generale, la prosecuzione della gestione ordinaria dopo la verificazione della causa di scioglimento della società) deve essere provata dal curatore: infatti, quando agisce in giudizio a norma dell'art. 146 l.fall. (e degli artt. 2392-2394 c.c.), il curatore deve dimostrare «la sussistenza delle violazioni ed il nesso di causalità tra queste ed il danno verificatosi» sicché, nel caso in cui l'inadempimento invocato a sostegno della domanda risarcitoria sia costituito dal compimento di operazioni (che, oltre ad essere state compiute nella consapevolezza o, quanto meno, nella colpevole ignoranza dello scioglimento della società per effetto di perdite che abbiano eroso il capitale sociale oltre i limiti previsti dall'art. 2447 c.c., siano anche) funzionalmente incompatibili con la necessità di procedere esclusivamente alla liquidazione del patrimonio della società, con conseguente pregiudizio, deve escludersi che sia l'amministratore convenuto a dover provare «la natura liquidatoria e non pregiudizievole per la società delle operazioni compiute», competendo, piuttosto, al curatore «l'onere della prova della «novità» delle operazioni medesime... con la conseguente applicazione della regola di giudizio nel caso di accertata mancanza di tale prova»: così Cass. n. 25977/2008; nello stesso senso, Cass. n. 17121/2010. In sostanza, spetta a chi agisce la dimostrazione che l'operazione sia «nuova», e cioè indebita in quanto compiuta dopo lo scioglimento (dichiarato ovvero di mero fatto, di cui occorre del pari fornire la prova), e che la stessa non era funzionale alla conservazione dell'integrità del patrimonio sociale, oltre al danno conseguente. Quanto ai profili soggettivi, in base ai principi la prova del dolo spetta sempre a chi agisce mentre la colpa, in termini, ad es., di colpevole ignoranza delle perdite rilevanti (per violazione delle norme in tema di redazione dei bilanci), è presunta, a norma dell'art. 1218 c.c., solo in caso di azione sociale. a. La determinazione e la liquidazione dei danni in caso di nuove operazioni seguono, per quanto possibile, le regole ordinarie in precedenza illustrate. Il danno-evento, pertanto, corrisponde, nell'azione sociale, al pregiudizio arrecato (in termini di danno emergente o di lucro cessante), al patrimonio della società (che, pertanto, è sufficiente per attribuire al curatore, così come alla società prima del fallimento, il diritto a conseguire il corrispondente risarcimento) mentre, nell'azione dei creditori sociali, rileva unicamente il pregiudizio arrecato al patrimonio sociale (in termini di mero danno emergente, e cioè di riduzione del valore del beni esistenti) che ne abbia provocato, a fronte dell'originaria capienza, l'insufficienza al completo soddisfacimento dei creditori sociali, nella misura in cui, peraltro, questi ultimi non abbiano, per l'effetto, ricevuto, a causa dell'inadempimento o dell'impossibilità di adempimento della società, la prestazione dovuta: ed è solo entro tali limiti (concorrenti), quindi, che il curatore, al pari dei singoli creditori prima del fallimento, è legittimato ad agire per il relativo risarcimento. Il danno-conseguenza (risarcibile), a sua volta, deve essere quantificato con riferimento allo specifico pregiudizio prodotto dal (colpevole) compimento delle nuove operazioni vietate, da rinvenire nella complessiva perdita patrimoniale che le stesse hanno, in via diretta, arrecato al patrimonio della società (Cass. n. 17033/2008) — in termini di danno emergente (minore attivo e/o maggiore passivo) e/o di lucro cessante — previa deduzione del relativo prodotto attivo. Così, ad es., in caso di acquisto di un bene, il danno al patrimonio della società è costituito dalla somma versata quale prezzo dedotto il valore di mercato del cespite, mentre, in caso di mutuo, il danno al patrimonio della società corrisponde agli interessi pattuiti. Si tratta, quindi, di verificare, caso per caso, quali sono stati i riflessi patrimoniali imputabili alle nuove operazioni compiute dagli amministratori: e solo una volta che sia dimostrato che tali conseguenze sono pregiudizievoli (in termini di incremento del passivo e/o di riduzione dell'attivo) per il patrimonio della società, gli amministratori che le hanno colpevolmente compiute (ed i sindaci che colpevolmente le hanno tollerate) possono essere chiamati a risponderne a titolo di risarcimento dei danni nei confronti della società e, nei limiti in cui hanno cagionato l'insufficienza alla relativa soddisfazione, dei suoi creditori. b. Se, però, l'inadempimento (dedotto ed, anche in via indiziaria, dimostrato in giudizio) consiste, più ampiamente, nella prosecuzione della gestione ordinaria dopo la perdita del capitale sociale e (come per lo più accade), a fronte di uno scioglimento di fatto verificatosi molto tempo prima rispetto alla dichiarazione di fallimento, non è possibile (o, comunque, è estremamente difficile, pur con l'ausilio di tecnici all'uopo designati) ricostruire ex post le singole operazioni non conservative ed accertare, in termini di stretta derivazione causale, il pregiudizio da esse arrecato al netto dell'eventuale ricavo, il danno conseguentemente cagionato al patrimonio della società corrisponde al complessivo aumento del passivo e/o alla complessiva riduzione dell'attivo (eventualmente) verificatisi tra la perdita del capitale (o meglio: tra la conoscenza della perdita e la sua ignoranza colpevole) e lo scioglimento formale o, in mancanza, la sentenza di dichiarativa di fallimento (sul presupposto, evidentemente, che tali pregiudizi non si sarebbero verificati se la causa di scioglimento della società fosse stata tempestivamente accertata e pubblicizzata), quantificati, in via equitativa (e forfettaria), a seconda delle diverse ricostruzioni: 1) nel passivo indebitamente assunto dalla società dopo la perdita del capitale sociale (Cassottana, 27 ss.), (con esclusione, quindi, del passivo anteriore), dedotto il valore dell'attivo acquisito dalla società nello stesso periodo (e, quindi, non del totale delle poste attive esistenti al momento del fallimento), e, quindi, in definitiva, nella sommatoria delle perdite successive allo scioglimento (Cfr. Cass. n. 25743/2008, in motiv.; Cass. n. 6719/2008, che ha ritenuto corretta e condivisibile la liquidazione del danno effettuata dal giudice di merito in misura pari all'«aggravarsi del passivo per effetto della continuazione della gestione dopo la perdita del capitale sociale»): il danno accertato va, in ogni caso, decurtato delle perdite già esistenti al momento della perdita del capitale nonché delle perdite successive che si sarebbero egualmente determinate anche se la società fosse stata correttamente posta in liquidazione o ne fosse stato dichiarato il fallimento (Cass. S.U. n. 9100/2015, in motiv.; Cass. n. 17033/2008); 2) nella differenza tra i netti patrimoniali (in dottrina, Marescotti, 1070; Panzani, 973 ss.), e cioè tra il patrimonio netto (passivo — attivo) al momento in cui la società si è di fatto sciolta per la perdita del capitale sociale o la sua riduzione al di sotto del limite di legge, ed il patrimonio netto (passivo — attivo), al momento del (pur tardivo) scioglimento formale o, in mancanza, della sentenza dichiarativa del fallimento o della cessazione dalla carica dell'amministratore convenuto (Cass. n. 17033/2008), come, poi, accertato in sede fallimentare (e, quindi, in concreto, tra il passivo accertato e l'attivo liquidato), dedotte le perdite che si sarebbero egualmente verificate pur se la società fosse stata posta in liquidazione o ne fosse stato dichiarato il fallimento (Cass. n. 17033/2008): in base a tale criterio — che presuppone, evidentemente, l'esistenza di una contabilità societaria attendibile e completa al punto da consentire almeno l'identificazione dei dati necessari per i calcoli dei netti patrimoniali negli indicati momenti — il danno viene stimato nella differenza che risulta dalla comparazione tra le situazioni patrimoniali della società riferite, rispettivamente, al momento in cui si è verificata la causa scioglimento (o meglio: in cui gli amministratori l'hanno conosciuta o avrebbero dovuto diligentemente conoscerla) ed al momento della formale delibera di scioglimento o, in mancanza, di dichiarazione del fallimento. c. Se, invece, per la irregolare o mancata tenuta di una contabilità sociale completa e attendibile (e ciò a prescindere dal fatto che tale mancanza sia imputabile, anche solo per mancanza di vigilanza o controllo, ai convenuti) o per altre ragioni (come nel caso in cui i fatti dannosi sono molto risalenti rispetto al fallimento), in punto di fatto, è oggettivamente impossibile procedere ad una precisa quantificazione del danno arrecato al patrimonio sociale dalla indebita prosecuzione della gestione, la liquidazione del conseguente pregiudizio al patrimonio sociale può essere svolta, in via equitativa (e senza bisogno di espressa domanda: Cass. n. 20990/2011), in base al criterio della differenza tra il passivo accertato e l'attivo liquidato in sede fallimentare (Cass. n. 12966/2012; Cass. n. 11155/2012), sempre che sia logicamente plausibile, in rapporto alle specifiche caratteristiche del caso concreto, l'imputazione causale alla prosecuzione della gestione dopo la perdita del capitale sociale dell'intero sbilancio patrimoniale della società, quale poi accertato in sede concorsuale (Cass. S.U., n. 9100/2015; Cass. n. 1115/2012; Cass. n. 7606/2011; Cass. n. 9619/2009; Cass. 16050/2009; Cass. n. 3032/2005), e siano indicate le ragioni che non hanno permesso l'accertamento degli specifici effetti pregiudizievoli procurati al patrimonio sociale dall'illegittimo comportamento degli organi della società (Cass. S.U., n. 9100/2015; conf., Cass. n. 19733/2015): e con salvezza, naturalmente, della prova (da parte di chi ne abbia l'interesse) del maggiore o del minore danno o della mancanza di danno. La causazione o l'aggravamento del dissestoIl criterio del deficit, infine, è utilizzabile nel caso in cui sia accertato, in fatto, che gli amministratori (non necessariamente dopo la perdita del capitale sociale) abbiano — con atti per lo più configurabili come reato, come, ad es., una o più operazioni distruttive o altre operazioni dolose (che possono essere anche omissive) ovvero violando i doveri ad essi imposti dalla legge (come, ad es., il dovere di astenersi dalla prosecuzione della gestione a fronte della perdita del capitale sociale: art. 224, n. 2, l.fall.) – determinato o concorso a determinare il dissesto della società. Nel caso in cui, invece, gli amministratori hanno illegittimamente provocato, ad esempio complevolmente omettendo o ritardando la presentazione dell'istanza di fallimento della società, non il dissesto della società ma solo il suo aggravamento, il danno conseguentemente arrecato alla società deve essere commisurato (non alla differenza tra attivo e passivo, che comprende anche debiti della società sorti prima dell'aggravamento dell'insolvenza, ma soltanto) ai debiti sorti dopo, e, più precisamente, ai debiti che non sarebbero sorti se gli amministratori avessero, appunto, tempestivamente azionato le misure dovute in relazione al caso Cass. n. 23233/2013, oltre ai danni corrispondenti alla consolidazione di atti e/o pagamenti che deriva dal ritardo con cui è stato dichiarato il fallimento (Jorio, 153) Nell'uno e nell'altro caso, peraltro, la responsabilità degli amministratori in corrispondenza dell'indebito aumento del passivo sussiste anche nel caso in cui la società abbia interamente perduto il capitale sociale o, più radicalmente, il suo patrimonio. L'azione di responsabilità esperibile a norma dell'art. 146, comma 2, lett. b), l.fallL'art. 146, comma 2, lett. b), l.fall. prevede che il curatore eserciti «l'azione di responsabilità contro i soci della società a responsabilità limitata, nei casi previsti dall'art. 2476, comma settimo, del codice civile». Si tratta dell'azione che l'art. 2476, comma 7, c.c. prevede nei confronti dei soci della società a responsabilità limitata che hanno intenzionalmente deciso o autorizzato l'atto dannoso compiuto dagli amministratori. La norma trova applicazione nei casi in cui la competenza in ordine alla decisione di uno o più atti di gestione è formalmente attribuita a tutti i soci (che decidono nelle forme collegiali previste dall'art. 2479 c.c.) — come accade nei casi previsti dalla legge (art. 2479, comma 2, n. 5, c.c.) ovvero dallo statuto sociale (art. 2479, comma 1, c.c.) ovvero per effetti della richiesta di un terzo del capitale sociale o di uno o più amministratori (art. 2479, comma 2, c.c.) ovvero quando la gestione sia modellata nelle forme dell'amministrazione disgiuntiva, in caso di opposizione (art. 2257 c.c.) – e nei casi in cui lo statuto attribuisca ad uno o più soci determinati particolari diritti in materia di amministrazione (art. 2468, comma 3, c.c.), come il potere di decidere determinati atti, individuati per valore o per natura, ovvero nel diritto di opporre il veto a determinate operazioni o di autorizzare il compimento di atti di gestione da parte degli amministratori, ovvero di nominare un amministratore. In tali ipotesi, che possono essere anche occasionali, i soci che hanno formalmente «deciso o autorizzato» atti dannosi ne sono responsabili, in solido, insieme agli amministratori (di fatto o di diritto) che (senza formalizzare il proprio dissenso) abbiano concorso a deciderli o li hanno compiuti. La norma, tuttavia, come rileva la Relazione ministeriale, oltre che ai casi in cui i soci abbiano deciso il compimento di atti gestori nell'esercizio di poteri formalmente ad essi attribuiti dalla legge o dallo statuto, si applica anche a quelli in cui i soci, senza compierli direttamente, abbiano indotto gli amministratori a compiere atti illeciti dannosi, ingerendosi in via di fatto nella gestione della società, e ciò, in sostanza, può accedere quando: uno o più soci amministrano direttamente ed in modo continuativo e sistematico la società; uno o più soci compiono occasionalmente, e comunque in modo non continuativo né sistematico, atti di amministrazione; uno o più soci, pur non esponendosi direttamente attraverso il compimento, sistematico od occasionale che sia, di attività gestorie, orientano l'attività degli amministratori. Il comportamento rilevante posto in essere dal socio, come sopra descritto, deve essere intenzionale. Il socio, quindi, risponde solo se ha deciso o autorizzato l'atto con dolo e non anche per negligenza, imprudenza, imperizia, ignorando, anche colpevolmente, le possibili conseguenze dannose dell'atto indotto, che, a sua volta, può essere stato compiuto dall'amministratore con dolo ovvero con colpa. La norma dell'art. 2476, comma 7, c.c. afferma che la responsabilità dei soci che abbiano decido o autorizzato atti illeciti dannosi compiuti dall'amministratore è solidale con quella assunta da quest'ultimo «ai sensi dei precedenti commi». Si tratta, quindi, di una responsabilità: contrattuale quando gli atti indotti (compiuti in via formale, nell'esercizio dei poteri gestori attribuiti dalla legge o dallo statuto, o anche in via di mero fatto, e cioè al di fuori delle competenze previste) abbiano danneggiato il patrimonio sociale (art. 2476, comma 1, c.c.), ovvero extracontrattuale quando gli atti dell'amministratore indotti dai soci abbiano illecitamente danneggiano in modo diretto singoli soci o terzi (art. 2476, comma 6, c.c.) ovvero quando, in violazione del dovere di conservazione della sua integrità, abbiano reso il patrimonio sociale insufficiente alla completa soddisfazione dei creditori sociali (art. 2394 c.c.). La responsabilità prevista dall'art. 2476, comma 7, c.c. è solidale con quella degli amministratori che hanno compiuto l'atto deciso o autorizzato dai soci. La responsabilità del socio prevista dall'art. 2476, comma 7, c.c. presuppone, naturalmente, che l'atto indotto sia stato, poi, compiuto (dagli amministratori o, se si ritiene possibile, dallo stesso socio che lo ha deciso o da un rappresentante dei soci che l'hanno deciso). L'atto indotto, però, in tanto può fondare la responsabilità del socio o dei soci che, in fatto o in diritto, lo abbiano determinato, in quanto, in base alle norme previste in tema di responsabilità degli amministratori, sia illecito ed abbia provocato un danno. Il riferimento alla disciplina contenuta nei commi precedenti dell'art. 2476 c.c. implica, infatti, un rinvio ai presupposti (esplicitamente o implicitamente) previsti dalle relative disposizioni in tema di responsabilità, di volta in volta, verso la società, i creditori sociali, i soci ed i terzi direttamente danneggiati. Contro il socio, quindi, sono esperibili, dal punto di vista sostanziale, le stesse azioni che, in relazione all'atto indotto, sono (o sarebbero) esperibili contro gli amministratori che l'hanno compiuto, tra cui l'azione della società, se l'atto indotto costituisce inadempimento doloso o colposo ai doveri previsti a carico degli amministratori dalla legge o dallo statuto ed abbia, in conseguenza, provocato un danno diretto ed immediato al patrimonio sociale (art. 2476 c.c.), ed – ove ritenuta configurabile in tale tipo sociale al di fuori dei casi previsti dagli artt. 2485 e 2486 c.c. — l'azione dei creditori sociali, se l'atto indotto costituisce inadempimento doloso o colposo al dovere di conservazione dell'integrità del patrimonio sociale e lo abbia danneggiato in misura tale da renderlo insufficiente alla loro integrale soddisfazione (art. 2394 c.c.). Tali azioni sono assoggettate alla medesima disciplina prevista in tema di responsabilità degli amministratori, sia sul piano sostanziale (ripartizione dell'onere della prova, determinazione del danno risarcibile, termine di prescrizione e relativa decorrenza, ecc.), sia da punto di vista processuale, con le corrispondenti norme in tema di legittimazione (Angelillis-Sandrelli, 801). Ne consegue che, in caso di fallimento, il curatore può proporre, nei confronti del socio che ha deciso o autorizzato l'atto lesivo, tanto l'azione sociale (art. 2476, comma 1 e 3, c.c.), quanto l'azione dei creditori sociali (art. 2394 c.c.). Tale legittimazione è, in conformità dei prinicipi tipici delle procedure concorsuali, esclusiva. La norma è applicabile a tutte le società che si ispirano alla società a responsabilità limitata, ivi comprese le società cooperative di cui all'art. 2519, comma 2, c.c. La norma è applicabile anche nella società per azioni, tutte le volte in cui gli stessi soci, nel momento in cui scelgono di non amministrare direttamente, ma di influire sugli atti degli amministratori (Angelillis-Sandrelli, 791 ss, 799, 800) Le azioni esperibili ai sensi dell'art. 2497 c.c..Il curatore è legittimato, per espressa disposizione di legge, all'esperimento di altre azioni di responsabilità, non espressamente riconducibili alla previsione dell'art. 146, comma 2, l.fall. L'art. 2497, ult. comma, c.c. prevede, in particolare, che il curatore può proporre l'azione di responsabilità che spetta ai creditori di una società eterogestita, poi fallita, contro la società, anche di fatto, (ed, in solido con quest'ultima, a norma dell'art. 2497, comma 2, c.c., quali soggetti che hanno preso parte al fatto illecito, i suoi amministratori e gli amministratori della stessa società fallita, nonché, sia pur nei limiti di quanto ricevuto, i beneficiari del fatto) — che, avendo esercitato sulla stessa attività di direzione e coordinamento in violazione dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale, abbia, per l'effetto, arrecato un danno all'integrità del suo patrimonio. La responsabilità prevista dall'art. 2497 c.c. è di tipo extracontrattuale: del resto così esplicitamente qualificata nella relazione di accompagnamento della riforma di diritto societario. In ciò la norma trova riscontro nell'art. 90 del d.lgs. n. 270/1999 per la disciplina dell'amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato d'insolvenza, la quale, nei casi di direzione unitaria delle imprese del gruppo, già sancisce per gli amministratori che abbiano abusato di tale direzione una responsabilità solidale con gli amministratori della società insolvente quanto ai danni cagionati «in conseguenza delle direttive impartite»; con chiara allusione, quindi, a una responsabilità extracontrattuale per direttive effettivamente impartite, più che a una responsabilità per inadempimento di obbligazioni assunte nei confronti di soggetti determinati (Cass. n. 15346/2016). L'attribuzione al curatore della legittimazione ad esercitare l'azione che, prima e fuori del fallimento, spetta al singolo creditore della società eterodiretta, risponde alla medesima esigenza cui è funzionale l'assegnazione al curatore dell'azione dei creditori sociali prevista dall'art. 2394 c.c., e cioè assicurare la reintegrazione della garanzia patrimoniale della società fallita, per cui, da un lato, il risultato utile dell'azione è devoluto a vantaggio dell'intera massa e non del singolo creditore danneggiato, come invece accade quando tale azione è esercitata fuori del fallimento e, dall'altro, il danno risarcibile a tale titolo è necessariamente parametrato non alla misura del pregiudizio subìto dal singolo creditore ma all'intera massa dei creditori, fino ad estendersi, nella massima misura possibile, alla differenza tra l'attivo liquidato ed il passivo accertato, che individua il valore delle prestazioni non ricevute dell'intera massa dei creditori (D'Attorre, 59 ss). La legittimazione del curatore all'esercizio dell'azione dei creditori sociali prevista dall'art. 2497 c.c. è esclusiva: durante la procedura fallimentare, quindi, l'azione di responsabilità da abuso di direzione e coordinamento dei creditori sociali non può essere iniziata o proseguita dai singoli creditori, ma unicamente dal curatore, anche nel caso in cui quest'ultimo è rimasto inerte, nemmeno con l'intervento adesivo dipendente ex art. 105 c.p.c. o l'azione surrogatoria, salvo che a mezzo di quella particolare ipotesi di azione surrogatoria civile operata dai creditori in sede penale in caso di mancata costituzione di parte civile da parte del curatore (art. 240, comma 2, l.fall.). Solo una volta chiuso il fallimento, nel caso in cui il curatore non abbia esercitato l'azione o l'abbia abbandonata, i singoli creditori sociali riacquistano la legittimazione all'esercizio dell'azione, nei limiti in cui siano rimasti insoddisfatti, subendo la prescrizione eventualmente maturata nei confronti del curatore (D'Attorre, 59 ss.) ma godendo degli atti interruttivi eventualmente provocati da quest'ultimo. Il curatore ha, poi, la legittimazione a proporre l'azione — non prevista espressamente ma senz'altro esistente (Cariello, 1873) — di risarcimento dei danni subìti dalla stessa società eterodiretta, se non altro in conseguenza della generale sostituzione del curatore nei diritti compresi nel patrimonio dell'imprenditore fallito. Il curatore, quindi, può esercitare tanto l'azione della società (in via esclusiva rispetto all'esercizio da parte della medesima società fallita), quanto l'azione dei creditori sociali, ponendosi tra le due azioni, che rimangono distinte, problemi di coordinamento simili a quelli che si possono verificare tra azione sociale ex art. 2392 c.c. ed azione dei creditori sociali ex art. 2394 c.c. In particolare, il curatore può esercitare cumulativamente le due azioni, ma non può pretendere di conseguire due volte il ripristino del patrimonio della società fallita. Si tratta, peraltro, di una legittimazione derivata del curatore, con la conseguenza che, nel caso in cui la società, anteriormente alla dichiarazione di fallimento, abbia rinunziato all'azione nei confronti della capogruppo, tale rinunzia (salva la sua impugnabilità) è opponibile alla massa per cui, salva l'ipotesi di vittorioso esperimento di azioni volte alla declaratoria di invalidità o inefficacia della rinuncia, il curatore della eterodiretta potrà, in tale ipotesi, esercitare unicamente l'azione dei creditori sociali Il curatore fallimentare, poi, esercitando un diritto risarcitorio che trova nel patrimonio della società fallita, è legittimato a chiedere il risarcimento dell'intero danno arrecato al patrimonio sociale, anche se eccedente quanto necessario per il pagamento integrale dei creditori. In tale fattispecie, peraltro, si pone il problema del possibile concorso, relativamente ai medesimi danni al patrimonio sociale, tra le azioni del curatore, come sopra descritte, e l'azione del singolo socio della società eterodiretta il quale, a norma dell'art. 2497, comma 1, c.c., è legittimato ad agire in giudizio, in deroga a principio generale previsto dall'art. 2395 c.c. (Cass. S.U., n. 26806/2009), anche per il risarcimento del pregiudizio (riflesso) arrecato dalla società che abbia abusato del potere di direzione e coordinamento alla «redditività» ed al «valore» della sua partecipazione sociale: tale azione, infatti, non è assorbita dall'azione del curatore ed è proponibile dal singolo socio danneggiato pur in pendenza del fallimento della società (D'Attorre, 59 ss.), come nel caso dell'azione prevista dall'art. 2395 c.c., dalla quale, però, si distingue per la natura meramente riflessa del danno risarcibile. La conservazione della legittimazione in capo al socio anche dopo la dichiarazione di fallimento della società pone un problema di possibile duplicazione del danno risarcibile nel caso in cui, durante il fallimento, la medesima condotta illecita e lo stesso pregiudizio (al patrimonio sociale) siano invocati dal curatore a fondamento dell'azione della società eterodiretta e/o dei suoi creditori, posto che, in tale evenienza, l'ente che ha abusato della direzione e del coordinamento sarebbe, in ipotesi, tenuto a risarcire tanto il fallimento, quanto il singolo socio. Secondo una prima ricostruzione, che però trascura il dato letterale della norma, la duplicazione del risarcimento potrebbe essere evitata semplicemente eliminando la sovrapposizione dei titoli legittimanti e, quindi, non potendo essere esclusa l'espressa legittimazione del curatore, si dovrebbe escludere quella del socio così come avviene per i creditori (Serafini, 271. In senso dubitativo rispetto alla perdurante legittimazione dei soci, Tombari, 52). In una diversa ricostruzione, si è proposto di limitare l'ammontare del risarcimento che può essere richiesto dal curatore, che dovrebbe essere decurtato di quanto già corrisposto o da corrispondere ai soci che abbiano agito o stiano agendo autonomamente, con il rischio, però, come è stato giustamente osservato (D'Attorre, 59 ss), di arrecare un pregiudizio ai creditori sociali a vantaggio dei soci, con sovvertimento della regola generale che permette ai soci di recuperare il capitale investito solo dopo l'integrale soddisfazione dei creditori e che, quantomeno in ambito concorsuale, non può soffrire deroghe. In tale prospettiva, la determinazione del danno risarcibile deve tenere conto della circostanza che il curatore subentra nella legittimazione dell'azione dei creditori sociali e non già in quella dei soci sicché, proprio come avviene nell'esercizio dell'azione di responsabilità ex art. 2394 c.c., il curatore potrà chiedere solo il danno cagionato al ceto creditorio, il cui ammontare massimo non potrà essere superiore alla somma necessaria all'integrale pagamento dei creditori sociali, che si commisura alla differenza tra attivo realizzato o realizzabile e passivo accertato, nei limiti del pregiudizio direttamente arrecato dalla condotta della capogruppo al patrimonio sociale. Il curatore non può, invece, chiedere, a differenza di quanto accade nell'azione sociale di responsabilità ex art. 2392 c.c., il risarcimento del danno subito dai soci quale riflesso del pregiudizio del patrimonio sociale e non potrà, quindi, far valere il pregiudizio che si concreta nella riduzione o mancato incremento della parte di attivo sociale eccedente i debiti complessivi e destinato unicamente ai soci. In tale prospettiva, l'espressa previsione legislativa, contenuta nell'art. 2497, comma 1, c.c. della risarcibilità per il socio del «pregiudizio arrecato alla redditività ed al valore della partecipazione sociale» vale proprio ad indicare che il danno subito dal socio ha ad oggetto solo la parte di patrimonio che, in quanto eccedente le passività (cioè i debiti sociali), è destinato ai soci, fermo restando che il socio agisce per la sua personale posizione e quindi può richiedere il risarcimento del pregiudizio complessivo eccedente l'interesse dei creditori sociali, esclusivamente nella misura alla propria partecipazione sociale: il patrimonio fallimentare è, infatti, destinato in modo integrale al soddisfacimento dei creditori concorrenti; solo dopo l'integrale pagamento delle spese di procedura e di tutti i creditori concorrenti, l'eventuale residuo attivo del patrimonio ritorna nella piena disponibilità della società fallita e, di riflesso, dei soci. La curatela del fallimento della società eterodiretta ha, pertanto, diritto al risarcimento di tutto il pregiudizio che riguarda la parte di patrimonio destinata ai creditori; il socio ha diritto al risarcimento del pregiudizio che ha colpito solo la parte di patrimonio ulteriore, destinata appunto alla compagine sociale, cioè a rimborsare e remunerare l'investimento che si riflette nella partecipazione societaria. Il socio non ha diritto di soddisfarsi sul patrimonio sociale se questo è insufficiente a consentire l'integrale soddisfazione delle pretese dei creditori sociali; di conseguenza non potrà chiedere il risarcimento di un danno che abbia inciso sulla parte di patrimonio che, in quanto destinata unicamente ai creditori, non può essere oggetto delle pretese dei soci. La capogruppo, quindi, può essere chiamata ad un duplice risarcimento, ma non dello stesso danno, bensì di due danni diversi: al curatore della eterodiretta spetta il risarcimento del danno subito dai creditori sociali, che trova un limite nella parte di patrimonio sociale necessaria per soddisfare integralmente i creditori; al socio spetta pro quota il risarcimento del solo danno ulteriore subito dal patrimonio sociale e che colpisce la parte di esso che, una volta soddisfatti i creditori, spetta ai soci (D'Attorre, 59 ss). La legittimazione del curatore in caso di danno direttoIl curatore del fallimento non ha la legittimazione ad esperire l'azione prevista dall'art. 2395 (e dall'art. 2476, comma 6) c.c., che, in mancanza di un pregiudizio arrecato al patrimonio della società, rimane nell'esclusiva legittimazione del singolo socio o terzo (anche se creditore della società) direttamente danneggiati, anche in pendenza di fallimento (Bonelli, 458; Franzoni, 85; in giurisprudenza, in tal senso, Cass. n. 6870/2010, conf. Cass. n. 8458/2014, che ha ritenuto la sussistenza della legittimazione del creditore ex art. 2395 c.c. in una caso nel quale era stato accertato che gli amministratori della società fallita, attraverso il sostanziale trasferimento di tutte le attività e passività aziendali in favore di altro soggetto, avessero perseguito l'obiettivo di sottrarre la garanzia patrimoniale con riguardo unicamente all'obbligazione di cui l'attore era titolare, per cui solo apparentemente l'atto era dannoso per la società). Naturalmente, per rimanere nella esclusiva legittimazione del socio o terzo (anche se creditore della società), l'azione di responsabilità deve essere fondata su un danno diretto, vale a dire un danno che non sia un mero riflesso di quello arrecato al patrimonio della società: se, invece, il danno subito dal socio è solo il riflesso del danno arrecato dagli amministratori (o dai sindaci, liquidatori, ecc.) al patrimonio sociale, l'azione, ad onta della diversa qualificazione eventualmente offerta in giudizio, spetta, ed in via esclusiva, al curatore del fallimento. La giurisprudenza è, in effetti, costante nel ritenere che l'azione prevista dall'art. 2395 (e dall'art. 2476, comma 6, c.c.) è esperibile non quando gli amministratori siano colpevoli di aver cagionato un danno diretto al patrimonio sociale e solo indiretto a quello dei soci o dei terzi, che possono essere anche creditori della società, ma solo qando il danno si ripercuote direttamente nel patrimonio del socio o del terzo e non quale mero riflesso del pregiudizio arrecato al patrimonio della società (Cass. n. 8359/2007). Non sempre, però, è facile stabilire se il danno arrecato dalla violazione degli amministratori (o dei sindaci, liquidatori, ecc.) abbia leso il patrimonio della società e, solo di riflesso, i soci ed i (terzi) creditori sociali, ovvero se, al contrario, abbia colpito direttamente il patrimonio del socio o del terzo (che può anche essere un creditore della società). Il problema si è posto, in particolare, per i pagamenti preferenziali. Si tratta, come è noto, degli atti, previsti come delitti dall'art. 216, comma 3, l.fall., a mezzo dei quali gli amministratori della società poi fallita, pur essendo a conoscenza dello stato di insolvenza in cui versava quest'ultima, hanno adempiuto ad un debito sociale (effettivamente esistente) allo scopo, tuttavia, di favorire il creditore soddisfatto in danno degli altri. Il dubbio riguarda, in particolare, la questione se tale atto (illecito), in corrispondenza della somma pagata al creditore, cagiona un danno al patrimonio della società e, di riflesso, ai (residui) creditori sociali ovvero se, al contrario, il danno riguarda direttamente solo questi ultimi, nella misura pari alla differenza tra quanto hanno percepito in sede di riparto e quanto avrebbero percepito se il pagamento preferenziale non fosse stato eseguito: nel primo caso, la legittimazione spetta, evidentemente, al curatore a norma degli artt. 146, comma 2, e 240, prima parte, l.fall., in relazione agli artt. 2392, 2393, 2394 e 2476 c.c.; nel secondo, invece, la legittimazione spetta ai singoli creditori a norma degli artt. 2395 e 2476, comma 6, c.c., anche in relazione all'art. 240, seconda parte, l.fall.. L'opinione dominante, almeno in giurisprudenza, esclude che i pagamenti preferenziali possano essere invocati dal curatore, a norma dell'art. 146, comma 2, l.fall., a fondamento dell'azione di responsabilità nei confronti degli amministratori che li hanno compiuti: in tale prospettiva, infatti, tali atti arrecano un danno non all'integrità del patrimonio sociale (che, a fronte dell'adempimento di un debito della società, rimane intatta) ma solo ai singoli creditori rimasti insoddisfatti (Trib. Milano 18 gennaio 2011, Fall. 2011, 588 ss, 591; così anche Trib. Milano 22 dicembre 2010, Soc. 2011, 757 ss.). In altra ricostruzione, invece, i pagamenti preferenziali, nella misura in cui illecitamente sottraggono risorse patrimoniali (pecuniarie o meno) alla società poi fallita, danneggiano il patrimonio sociale e, per l'effetto, di riflesso, nella misura in cui ne ha cagionato (o aggravato) l'insufficienza alla loro soddisfazione, i (residui) creditori della società (così, Spiotta, 2011, 595 ss, 599 ss. In senso conf., Bosticco, 957 ss, 963). In tale prospettiva, il compimento di un pagamento preferenziale può essere senz'altro dedotto a fondamento dell'azione sociale di responsabilità e, nella misura in cui ne provochi l'insufficienza all'integrale soddisfazione, anche dell'azione dei (residui) creditori sociali (Cass. S.U. n. 1641/2017): ferma restando, però, la necessità di verificare, onde determinare compiutamente il quantum risarcibile (pari, in linea di principio, alla somma versata a titolo di pagamento preferenziale: Cass. n. 16957/2005), se (ed, eventualmente, con quale esito, sia sul piano del giudizio di cognizione, che su quello dell'effettivo realizzo in sede esecutiva, transattiva, ecc.) il curatore abbia proposto impugnazione del pagamento a norma dell'art. 67, comma 2, l.fall. Il curatore del fallimento, infine, non può far valere la responsabilità dell'unico azionista (o quotista) prevista dall'art. 2325, comma 2, c.c. (e dall'art. 2462, comma 2, c.c.), a norma del quale – alle condizioni ivi prevsite — per le obbligazioni sociali assunte nel periodo in cui le azioni sono appartenute ad una sola persona, quest'ultima, in caso di insolvenza della società, risponde illimitatamente. Si tratta, infatti, di una forma di garanzia ex lege che non può essere fatta valere dalla società debitrice né dal suo curatrore, ma solo dai singoli creditori sociali divenuti tali nel periodo in cui, appunto, tutte le azioni (o tutte le quote) siano appartenute ad un unico socio (Cass. n. 4701/1997). I profili proceduraliLe azioni di responsabilità promosse dal curatore del fallimento a norma dell'art. 146, comma 2, lett. a) e b), l.fall. — tanto nel testo anteriore, quanto in quello conseguente alla riforma della legge fallimentare — devono essere autorizzate dal giudice delegato sentito il comitato dei creditori. L'autorizzazione del giudice delegato è resa con decreto (art. 25, n. 6, l.fall.) che, in deroga alla norma generale (art. 135 c.p.c.), deve essere motivato (art. 25, ultimo comma, l.fall.). L'autorizzazione è richiesta per ogni grado del giudizio (art. 25, n. 6, l.fall.), pur se il decreto abbia fatto riferimento ad ogni grado del giudizio (in senso contrario, tuttavia, Cass. n. 2483/2013). L'invalidità dell'autorizzazione espressamente estesa anche alle fasi di gravame, tuttavia, dev'essere fatta valere in sede fallimentare, a mezzo di reclamo ex art. 26 l.fall., per cui, in difetto, la stessa è sanata e non ha, quindi, alcun effetto nel giudizio di merito. Il decreto di autorizzazione non può contenere la nomina del difensore, che, a seguito della riforma, spetta in via esclusiva al curatore (fatta salva solo la facoltà di revoca da parte del giudice delegato: art. 25, n. 6, l.fall.). L'autorizzazione, pur se data in forma generica, comprende necessariamente entrambe le azioni previste dagli artt. 2393 e 2394 c.c., a meno che il decreto non disponga espressamente in modo diverso, e copre, senza bisogno di una specifica menzione, tutte le possibili pretese ed istanze (anche cautelari, ma, in quest'ultimo caso, solo se in corso di causa, richiedendosi altrimenti una specifica autorizzazione) strumentalmente pertinenti al conseguimento del risarcimento cui le azioni autorizzate sono rivolte (Cass. n. 614/2016). L'autorizzazione è, di norma, preventiva ma può essere rilasciata, nelle forme predette, anche dopo l'introduzione del giudizio, con effetti sananti ex tunc. La mancanza dell'autorizzazione (salvi i rimedi previsti dall'art. 182 c.p.c.) comporta l'inammissibilità o, se sopravvenuta (ad es., per revoca ex art. 26 l.fall. del decreto di autorizzazione), l'improcedibilità della domanda proposta. L'art. 146, comma 2, l.fall. richiede che il giudice delegato, prima di provvedere sull'istanza del curatore di autorizzazione all'esercizio dell'azione, raccolga il parere del comitato dei creditori. Il parere del comitato dei creditori è, quindi, obbligatorio ma non è vincolante: il giudice delegato, quindi, pur se negativo, può legittimamente autorizzare l'esercizio dell'azione. Nel vigore della disciplina anteriore alla riforma, era opinione diffusa che il parere del comitato dei creditori potesse essere espresso senza particolari formalità e reso con deliberazione in forma collegiale ovvero con separate dichiarazioni dei componenti del comitato (Cass. n. 16/1998). Il metodo collegiale, previsto dall'art. 41, vecchio testo, l.fall., costituiva, infatti, solo una delle possibili forme di funzionamento del comitato dei creditori, la cui osservanza era, in definitiva, rimessa alla valutazione degli organi fallimentari da effettuarsi di volta in volta in considerazione del rilievo delle decisioni da adottare. Anche il silenzio, quindi, poteva essere considerato quale espressione del parere del comitato tutte le volte in cui fosse accompagnato da circostanze che, con sicurezza, vi attribuissero tale significato, come nel caso in cui la richiesta di parere fosse stata formulata dal curatore con l'avvertenza che la mancata manifestazione entro un termine stabilito sarebbe stata considerata come parere favorevole. La riforma della legge fallimentare, però, ha profondamente innovato in ordine alle forme di consultazione del comitato dei creditori. L'art. 41 l.fall., nel nuovo testo, infatti, ha espressamente previsto che: «le deliberazioni del comitato sono prese a maggioranza dei votanti, nel termine massimo di quindici giorni successivi a quello in cui la richiesta è pervenuta al presidente»; «il voto può essere espresso in riunioni collegiali ovvero per mezzo telefax o con altro mezzo elettronico o telematico, purché sia possibile conservare la prova della manifestazione di voto»; «in caso di inerzia, di impossibilità di funzionamento o di urgenza, provvede il giudice delegato». Il decreto correttivo ha aggiunto a tale ultima previsione l'inciso che il giudice delegato provvede anche nel caso di impossibilità di costituzione per insufficienza di numero o per indisponibilità dei creditori. In base alle nuove norme, quindi, il voto dei componenti del comitato dei creditori può essere espresso, oltre che a mezzo di una deliberazione collegiale, anche con dichiarazioni separate, da trasmettere con telefax o con altro mezzo elettronico o telematico, purché sia possibile conservare la prova della manifestazione di voto. Il silenzio, però, non ha più il significato di un parere favorevole neppure nel caso in cui la richiesta sia stata accompagnata dall'avvertimento che tale è il significato che viene attribuito alla mancata risposta: in caso di inerzia, infatti, l'unica conseguenza che la legge prevede è che deve provvedere il giudice delegato. Il parere del comitato, però, è richiesto dalla legge per promuovere un'azione di responsabilità che il giudice delegato deve, dal suo canto, autonomamente autorizzare. Non sembra concepibile, quindi, che il giudice delegato al fallimento esprima, in via surrogatoria, il parere del comitato dei creditori rimasto inerte e poi autorizzi, con autonomo decreto, la proposizione dell'azione. In definitiva, quando il comitato rimane inerte (per tutto il tempo previsto dalla norma citata, e cioè nei quindici giorni successivi al momento in cui la richiesta del curatore perviene al suo presidente), il giudice delegato, senza ulteriori determinazioni di tipo surrogatorio, può senz'altro autorizzare la proposizione dell'azione quasi che il silenzio serbato sul punto dal comitato sia considerato dalla legge, con presunzione assoluta, come parere favorevole, e ciò (ed è questo il punto innovativo) anche se il curatore, nel trasmettere la richiesta, non abbia fatto espresso avvertimento che la mancata risposta, nel termine di legge, sarebbe stata considerata come parere favorevole. Lo stesso è a dirsi per il caso dell'impossibilità di costituzione o di funzionamento del comitato. In caso di urgenza, come nel caso di prescrizione delle azioni da proporre prima della scadenza del termine di quindici giorni fissato dalla legge, il giudice delegato può legittimamente autorizzare l'azione anche senza attenderne l'inutile decorso. La mancata audizione del parere del comitato dei creditori costituisce senz'altro un vizio nel procedimento di formazione dell'autorizzazione del giudice delegato, così come descritto dalla legge, che, però, riguardando solo la corretta formazione della volontà degli organi della procedura, determina, quale vizio della volontà, solo la mera annullabilità del decreto di autorizzazione reso dal giudice delegato. Se, quindi, il decreto di autorizzazione è solo annullabile, resta, però, pur sempre efficace sul piano giuridico, almeno fino a quando non venga positivamente esperita l'azione per il relativo annullamento. Fino a tale momento, quindi, l'azione di responsabilità può comunque procedere (Cass. n. 2730/1995). I vizi relativi alla procedura di autorizzazione del curatore del fallimento ad agire in giudizio, così come anche i vizi inerenti alla procedura di preventiva audizione del comitato dei creditori, non possono essere fatti valere mediante una diretta impugnativa in sede contenziosa dell'atto posto in essere dal curatore, ma sono deducibili soltanto nell'ambito della procedura fallimentare, con reclamo avanti al tribunale fallimentare (Cass. n. 9619/2009). In mancanza, l'atto che viene a formarsi non è più impugnabile: si tratta, in definitiva, di una mera irregolarità procedimentale interna al fallimento la cui mancata impugnazione determina la sanatoria del decreto di autorizzazione e non produce conseguenze sul giudizio autorizzato dal giudice delegato e non è causa di improponibilità della domanda (Cass. n. 20637/2004; Cass. n. 16/1998). In definitiva, l'illegittimità del decreto di autorizzazione non produce conseguenze sul giudizio di merito introdotto dal curatore se il decreto non è stato tempestivamente impugnato, con il rimedio del reclamo previsto dall'art. 26 l.fall. Viceversa, se il decreto è stato impugnato (ad iniziativa, ad es., del comitato dei creditori e, probabilmente, dei soggetti passivi dell'azione), il suo conseguente annullamento fa venir meno una condizione dell'azione e comporta la sopravvenuta improcedibilità della domanda, a meno che il vizio non sia sanato (ove possibile), con conseguente sanatoria sullo giudizio stesso, ove già introdotto La riforma della legge fallimentare ha, tuttavia, stabilito che le «azioni risarcitorie» — ivi compresa, dunque, l'azione di responsabilità prevista dall'art. 146, comma 2, l.fall. — deve essere prevista (con la rappresentazione del suo possibile esito) nel programma di liquidazione predisposto dal curatore e deve essere, al pari degli altri atti ed azioni ivi previste, approvata dal comitato dei creditori (art. 104-ter, comma 2, lett. c), l.fall.). Il giudice delegato ne autorizza, poi, se ritiene, l'esercizio, quale suo atto esecutivo, ma solo se conforme alle relative previsioni (art. 104-ter, penult. comma, l.fall.). Lo stesso è a dirsi per il caso in cui l'azione sia prevista nei supplementi del programma (art. 104-ter, comma 5, l.fall.). Solo in caso di urgenza, e cioè se vi è il pericolo che il ritardo possa determinare un danno all'interesse dei creditori (ad es., per la sopravvenienza della prescrizione ovvero per la necessità di adottare misure cautelari), il giudice delegato, a norma dell'art. 104-ter, comma 6, l.fall., può autorizzare l'esercizio dell'azione di responsabilità anche prima dell'approvazione del programma di liquidazione, ma, in tal caso, solo dopo aver sentito, se possibile (art. 41, comma 4, l.fall.), il parere del comitato dei creditori. Non è chiaro quale sia il rapporto tra la norma dell'art. 146, comma 2, l.fall. (e, più in generale, dell'art. 25, n. 6, l.fall.), nella parte in cui prevedono che il giudice delegato autorizza il curatore, che assume la relativa scelta gestoria, a proporre l'azione (di responsabilità), solo sentito il parere (facoltativo ex art. 41 l.fall. ovvero obbligatorio ex art. 146, comma 2, l.fall.) del comitato dei creditori, e la norma contenuta nell'art. 104-ter l.fall., dove, invece, è stabilito che l'azione, prevista dal curatore nel programma di liquidazione, deve essere approvata dal comitato dei creditori ed, infine, autorizzata dal giudice delegato quale atto esecutivo (ivi previsto e) ad esso conforme. La soluzione preferibile è di ritenere che, ad onta dell'apparente equivalenza, le due norme debbano trovare contemporaneamente applicazione, nel senso, in particolare, di coordinare le rispettive previsione alla luce dei principi generali che hanno ispirato la riforma della legge fallimentare: sia per ciò che riguarda la distribuzione dei compiti tra giudice delegato e comitato dei creditori in ordine al controllo sulle scelte gestorie compiute dal curatore, per cui il primo può sindacare solo la loro legittimità mentre spetta al solo comitato dei creditori il potere di sindacare il merito di tali scelte; sia per ciò che riguarda i tempi e i modi di realizzo dell'attivo, per cui il curatore deve predisporre un programma che pianifichi in modo dettagliato, tempestivo e vincolante (a pena dei danni: art. 38 l.fall.) l'attività di liquidazione dell'attivo in tutte le sue possibili componenti (ivi comprese le azioni da proporre contro i terzi), allo scopo di rappresentarne ai creditori i modi e i tempi di realizzazione ed ottenere, sulla base dei dati esposti, la loro «approvazione», lasciando al giudice delegato il solo compito di autorizzarne gli atti di esecuzione, se ed in quanto conformi alle relative previsioni (e, come è ovvio, alle norme di legge in materia). La norma di riferimento, quindi, è l'art. 104 ter l.fall., A fronte di tali disposizioni, si può ritenere che l'art. 104-ter l.fall. costituisca la norma principale, alla cui disciplina vanno coordinate, se non adattate, le norme previste dall'art. 25, n. 6, e dall'art. 146, comma 2, l.fall.. In tale ricostruzione, se il curatore intende proporre l'azione di responsabilità nei confronti degli amministratori (nonché i sindaci, ecc.) della società fallita, deve rappresentarla, in tutti i suoi profili (e cioè il fondamento di fatto e di diritto, il petitum mediato ed immediato ed i soggetti convenuti), nel programma di liquidazione ed, in tal modo, ottenere, dapprima, l'approvazione, nel merito, da parte del comitato dei creditori (in sede di prima stesura ovvero di supplemento successivo, se i fatti costitutivi della pretesa sono stati in tutto o in parte accertati o, addirittura, si sono verificati dopo l'approvazione del programma), e, poi, l'autorizzazione del giudice delegato previa verifica della conformità dell'azione alle previsioni del programma (oltre che alla legge). In tale schema, dunque, l'autorizzazione al curatore a proporre l'azione di responsabilità contro gli amministratori della società fallita (salva, come vedremo, l'urgenza) consegue al pieno completamento di una fattispecie complessa a formazione procedimentale progressiva formata da: 1. la previsione dell'azione da parte del curatore nel programma di liquidazione (o nei suoi supplementi), in tutti i suoi elementi costitutivi (art. 104-ter, lett. c), l.fall.); 2. la formale approvazione del programma da parte del comitato dei creditori (art. 104-ter, comma 1, l.fall.); 3. l'autorizzazione del giudice delegato all'azione solo in quanto consentita dal programma (art. 104-ter, penult. comma, l.fall.) e dalla legge (art. 25 n. 6 l.fall.). Ne consegue che il giudice delegato non può autorizzare (e tanto meno imporre) la proposizione dell'azione se non prevista (o, addirittura, esclusa) dal programma di liquidazione o da un suo supplemento regolarmente approvato, a meno che il programma (se del caso su sollecitazione del comitato dei creditori o del giudice delegato, prima o dopo l'approvazione) non sia modificato dal curatore con la previsione dell'azione inizialmente non prevista o addirittura esclusa, fermo restando che il curatore può adeguarsi all'indicazione del comitato dei creditori ovvero del giudice delegato ma non è obbligato a farlo. In tale ricostruzione, il significato dell'art. 25, n. 6 l.fall. sta nel disciplinare la forma dei provvedimenti che il giudice delegato è chiamato a pronunciare dall'art. 104-ter l.fall. e, per l'effetto, il relativo regime giuridico, quale, ad es., il fatto che devono essere resi con decreto motivato e sono soggetti a reclamo ex art. 26 l.fall., riservato, appunto, ai decreti del giudice delegato. La norma dell'art. 146, comma 2, l.fall., invece, regola, essenzialmente, il caso, già previsto dall'art. 104-ter, comma 6, l.fall., in cui l'azione deve essere proposta con urgenza e cioè prima dell'approvazione del programma ma, appunto, con l'autorizzazione del giudice delegato previo parere del comitato dei creditori. In tal caso, il curatore deve prevedere l'azione già proposta nel programma di liquidazione, per la successiva approvazione del comitato dei creditori: in caso di diniego, l'azione deve essere immediatamente abbandonata. In definitiva, la scelta gestoria di proporre l'azione spetta senz'altro al solo curatore: deve escludersi, come invece era possibile nella disciplina abrogata, che il giudice delegato possa imporre al curatore la proposizione dell'azione, potendo, al più, in sede di controllo sulla legittimità della procedura, proporre la revoca del curatore che non abbia agito e spettando al nuovo curatore la scelta di agire per gli eventuali danni cagionati alla massa. La scelta del curatore deve essere, però, approvata dal comitato dei creditori, che, in tale sede, controlla il merito della scelta, e cioè l'opportunità, avendo riguardo alle valutazione che lo stesso curatore è tenuto a svolgere sul possibile esito delle azioni da proporre nonché sui tempi a tal fine previsti. L'eventuale diniego da parte del comitato può essere impugnato dal curatore con reclamo al giudice delegato ex art. 36 l.fall. ma solo per violazione di legge e non, quindi, per la ritenuta inopportunità dell'iniziativa. Il giudice delegato, infine, in sede di autorizzazione, ha il compito di verificare se la scelta del curatore, già approvata dal comitato dei creditori, è, o meno, legittima, controllando, in particolare, se è «conforme» al programma oltre che, come è ovvio, alla legge. Sotto quest'ultimo profilo, in particolare, il giudice delegato deve verificare se, alla luce dei fatti dedotti e delle prove raccolte o disponibili, l'azione è, in astratto, suscettibile di accoglimento, e se esistono norme che, alla luce di quei fatti, escludono il suo accoglimento. In tali ipotesi, il giudice delegato deve negare l'autorizzazione alla proposizione dell'azione pur se prevista dal programma di liquidazione regolarmente approvato. Il giudice delegato, invece, non può negare l'autorizzazione alla proposizione di un'azione prevista dal programma approvato per ragioni di mera opportunità, salvo il limite della manifesta irragionevolezza dell'iniziativa programmata, come, ad es., nel caso dell'eccessiva onerosità dell'azione rispetto ai vantaggi che ne possono derivare: e l'eventuale diniego dell'autorizzazione può essere impugnata dal curatore, per vizio di legittimità, con il reclamo al tribunale ex art. 26 l.fall. La valutazione svolta dal giudice delegato è, quindi, una mera delibazione in ordine alla astratta possibilità che l'azione prospettata sia accolta: tant'è che, avendo valutato positivamente l'accoglibilità dell'azione, non può trattare e decidere il relativo giudizio. L'art. 33 l.fall., in effetti, al comma 3, prevede che il curatore, se si tratta di società, deve esporre (nella relazione che deve essere depositata nel termine di sessanta giorni dalla sentenza di fallimento, e, quindi, senz'altro prima del programma di liquidazione, che deve essere presentato entro sessanta giorni dalla redazione dell'inventario) «i fatti accertati e le informazioni raccolte sulla responsabilità degli amministratori e degli organi di controllo, dei soci e, eventualmente, di estranei alla società» ed, al comma 4, (implicitamente) dispone che il curatore indichi le «azioni che... intende proporre qualora possano comportare l'adozione di provvedimenti cautelari» (imponendone, in parte qua, la segretazione). In definitiva, a seguito della riforma, la disciplina dell'autorizzazione relativa all'azione di responsabilità può essere ricostruita in questi termini: 1. in via ordinaria, l'azione deve essere proposta dal curatore in sede di programma di liquidazione (o di una sua successiva modifica o integrazione) e, come tale, approvata dal comitato dei creditori (ovvero, nei casi di sua inerzia, di impossibilità di costituzione o di funzionamento, o nel caso di urgenza, dal giudice delegato): il giudice delegato ne autorizza, poi, la proposizione, quale atto esecutivo, se conforme alle sue previsioni (artt. 104-ter, comma 2, lett. c), e penult. comma, l.fall.), oltre che alla legge; 2. se vi è urgenza (per la necessità di adottare misure cautelari o per altre ragioni, come l'imminenza della scadenza di un termine di prescrizione), l'azione è autorizzata dal giudice delegato, su relazione del curatore, sentito il comitato dei creditori, se già nominato (comb. disp. artt. 146, comma 2, 33, commi 3 e 4, 104-ter, comma 6, l.fall.). Gli obblighi degli amministratori e dei liquidatori e i casi in cui essi devono essere sentiti nel corso della proceduraL'art. 146, al comma 1, stabilisce, sia pur per relationem, gli obblighi cui sono tenuti, in conseguenza della dichiarazione di fallimento, gli amministratori e i liquidatori della società fallita. nonché i casi in cui gli stessi hanno il diritto di essere sentiti nel corso della procedura. Vengono, pertanto, in rilievo le norme contenute nell'art. 49 l.fall. e quelle che, sia pur con rinvio alle disposizioni che riguardano il fallito, prevedono il diritto degli amministratori e dei liquidatori della società fallita ad essere sentiti durante la procedura. L'art. 49 l.fall., in particolare, dispone che gli amministratori ed i liquidatori della società fallita sono tenuti a comunicare al curatore ogni cambiamento della propria residenza o del proprio domicilio e, ove occorrano informazioni o chiarimenti ai fini della gestione della procedura, devono presentarsi personalmente al giudice delegato, al curatore o al comitato dei creditori (art. 42, comma 5, l.fall.), salvo che in caso di legittimo impedimento o di altro giustificato motivo: in queste ultime ipotesi, il giudice può autorizzare il legale rappresentante della società fallita a comparire a mezzo di mandatario. L'inosservanza degli obblighi previsti dall'art. 49 l.fall. costituisce reato (art. 220 l.fall.). Quanto, infine, ai casi in cui gli amministratori e i liquidatori devono essere sentiti durante la procedura, si tratta, essenzialmente, dei casi previsti dagli artt. 102 (previsione di insufficiente realizzo), 116, comma 3 (rendiconto del curatore), e 119, comma 2 (chiusura per mancanza o insufficienza dell'attivo), l.fall. 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