Regio decreto - 16/03/1942 - n. 267 art. 186 - Risoluzione e annullamento del concordato.Risoluzione e annullamento del concordato. Art. 186 Ciascuno dei creditori puo' richiedere la risoluzione del concordato per inadempimento. Il concordato non si puo' risolvere se l'inadempimento ha scarsa importanza. Il ricorso per la risoluzione deve proporsi entro un anno dalla scadenza del termine fissato per l'ultimo adempimento previsto dal concordato. Le disposizioni che precedono non si applicano quando gli obblighi derivanti dal concordato sono stati assunti da un terzo con liberazione immediata del debitore. Si applicano le disposizioni degli articoli 137 e138, in quanto compatibili, intendendosi sostituito al curatore il commissario giudiziale. (1) Articolo sostituito dall'articolo 17 del D.Lgs. 12 settembre 2007 n.169, con la decorrenza indicata nell'articolo 22 del medesimo D.Lgs. 169/2007. InquadramentoL'art. 186 l.fall., che disciplina la risoluzione e l'annullamento del concordato è stato modificato dal d.lgs. n.169/2007 che ha risolto ogni dubbio interpretativo conseguente alla riforma del 2005 che aveva lasciato inalterato il testo rispetto alla normativa vigente. Con il nuovo testo c'è stata una «privatizzazione del rimedio» con la possibilità del creditore di attivare, anche singolarmente, la risoluzione del concordato (Villannacci, 313). Il decreto correttivo, poi rifacendosi ai principi che regolano la risoluzione del contratto (art. 1453 e ss. c.c.), ha subordinato la risoluzione al fatto che l'inadempimento debba essere di non scarsa importanza (art. 1455 c.c.); quindi, soltanto un ampio scostamento rispetto alle obbligazioni a cui «contrattualmente» si era vincolato il debitore mediante la proposta concordataria, la cui atipicità e vastità di contenuti possono far raffigurare le più svariate forme di inadempimento, può portare all'interruzione del concordato mediante la risoluzione dello stesso. La legittimazione a richiedere la risoluzione è stata pertanto attribuita a ciascun creditore concorsuale, indipendentemente dalla circostanza che abbia partecipato al procedimento di concordato. Resta, invece, esclusa la legittimazione dei creditori successivi, in quanto questi non risentono degli effetti del concordato. Inoltre, è stata esclusa la legittimazione degli organi della procedura: del commissario giudiziale, che pure sorveglia l'esecuzione del concordato; del liquidatore giudiziale, nel caso di cessione dei beni. Premesso ciò, l'art. 186 costituisce una norma cardine del concordato, non soltanto perché costituisce una chiara espressione della contrattualizzazione dell'istituto, cui sono ora applicati tout court i principi che governano la risoluzione del contratto, ma anche perché condiziona le soluzioni da dare a problemi inerenti a momenti del procedimento concordatario diversi rispetto a quello dell'esecuzione, cui tipicamente inerisce la risoluzione. I presupposti della risoluzione del concordatoLa risoluzione rappresenta l'unico strumento con il quale i creditori possono liberarsi di tutti quegli effetti (remissori, dilatori e, in ogni caso, modificativi) che il concordato produce sui loro diritti ed il loro patrimonio. Nel caso in cui il piano concordatario non venga adempiuto da parte del debitore, del garante o dell'assuntore senza liberazione immediata del debitore, ciascuno dei creditori può chiedere la risoluzione del concordato. Più in generale, sono cause di inadempimento la mancata costituzione delle garanzie promesse oppure l'irregolare adempimento degli obblighi derivanti dal concordato (art. 137, comma 1, l.fall.) Per meglio dire, costituiscono esempi di inadempimento: il mancato pagamento delle somme dovute alle scadenze stabilite, la mancata cessione dei beni, o in generale, di comportamenti contrari alle disposizioni del decreto di omologazione. Ciò accade, ad esempio, nel caso in cui l'imprenditore abbia già stipulato contratti preliminari per i quali siano iniziate le azioni di adempimento o nel caso in cui l'imprenditore abbia indicato la disponibilità di somme depositate in conti correnti sulle quali la banca abbia disposto la compensazione con passività relative ad altri rapporti. Secondo il Tribunale di Monza del 21 gennaio 2013, qualora, dopo l'omologazione del concordato preventivo e durante la sua esecuzione, il valore delle attività patrimoniali, ricavabili con il piano industriale basato sulla prosecuzione dell'attività aziendale, risulti assolutamente insufficiente a soddisfare in modo non irrisorio i creditori chirografari, deve essere dichiarata, su istanza del soggetto a ciò legittimato, la risoluzione del concordato preventivo. La sopravvenuta impossibilità di eseguire il piano concordatario omologato rappresenta il massimo grado di inadempimento a cui può giungere il debitore. L'impossibilità di onorare gli impegni concordatari è valutabile dal Tribunale in ogni tempo ed anche in via prognostica (Trib. Milano 9 marzo 2007). La valutazione giudiziale della risoluzione dell'inadempimento è peraltro complicata dalla atipicità del contenuto del piano concordatario, che, come è noto, può assumere le forme più svariate, ragion per cui diventa complicato predeterminare in astratto i possibili inadempimenti rilevanti ai fini della risoluzione, dovendosi di volta in volta fare riferimento alle previsione (più o meno articolate e specifiche) del piano proposto dal debitore, approvato dai creditori ed omologato dal tribunale (Filocamo, 2681). In linea generale, può comunque affermarsi che l'inadempimento rilevante ai fini della risoluzione tutte quelle condotte e situazioni che pregiudicano l'attuazione del piano concordatario, sia sotto il profilo delle modalità esecutive che con riferimento al raggiungimento dei risultati previsti nel piano. La valutazione sull'importanza dell'inadempimento è rimessa al tribunale, che verosimilmente dovrà fare applicazione dei principi elaborati in tema di inadempimento contrattuale, avendo riguardo alla alle condizioni ed alle aspettative delle parti (Fauceglia 1768). Anche il mero ritardo nell'adempimento, al pari dell'inadempimento, legittima i creditori a chiedere la risoluzione del concordato. L'art. 161, comma 2, lett. e), l.fall., infatti, prevede che il piano di concordato debba contenere non solo la descrizione analitica delle modalità, ma anche la descrizione «dei tempi di adempimento della proposta», ragion per cui ogni ritardo nell'adempimento legittima il creditore a chiedere la risoluzione del concordato (Usai, 3782). La nozione di inadempimento di non scarsa importanzaL'art. 186, comma 2, l.fall. prevede che «il concordato non si può risolvere se l'inadempimento ha scarsa importanza». Nella relazione al d.lgs. n. 169/2007 è scritto che tale previsione normativa, giustificata dalla accentuata natura privatistica del concordato preventivo, consente di recuperare tutti i principi sull'importanza dell'inadempimento contrattuale elaborati con riferimento alla norma generale di cui all'art. 1455c.c. Tuttavia, in dottrina, è stato osservato che la nuova disposizione della legge fallimentare riproduce solo in parte l'art. 1455 c.c., senza riportare anche l'inciso finale «avuto riguardo all'interesse» della controparte, (inciso) che riveste un ruolo centrale per attribuire rilievo in sede di accertamento della gravità dell'inadempimento ai cc.dd. criteri soggettivi di valutazione (Silvestrini, 512). Sulla scia di tale considerazione, secondo alcune pronunce di merito, il mancato richiamo nell'art. 186 dell'inciso finale della citata norma codicistica escluderebbe ogni necessità d'indagine circa le componenti soggettive dell'inadempimento, quali colpa, imputabilità ed interesse soggettivo: quello che rileva, in altri termini, è la dimensione oggettiva dell'inadempimento che deve essere «grave» fra adempimento promesso e possibilità concreta di soddisfare i creditori (Trib. Ravenna 7 giugno 2012 e Trib. Forlì 19 marzo 2014). Sotto questo profilo, pertanto, la risoluzione potrà e dovrà essere pronunciata anche nel caso in cui l'accertato inadempimento dipenda da fatti non imputabili al debitore, venendo in rilievo il dato oggettivo dell'impossibilità di eseguire il piano e di soddisfare i creditori nei termini promessi» (Nigro —Vattermoli, 375). In effetti, bisogna considerare che in ambito concordatario la controparte del debitore è una platea di soggetti che attendono da tempo il pagamento del loro credito, per cui è assolutamente da escludere che possano avere rilievo molte di quelle circostanze di carattere soggettivo (reciproco inadempimento o tolleranza della parte adempiente) che in sede di risoluzione contrattuale la giurisprudenza considera rilevanti ai fini della valutazione di cui all'art. 1455 c.c. L'imputabilità dell'inadempimentoIn merito al profilo dell'imputabilità dell'inadempimento, in base alla precedente disciplina, la giurisprudenza di legittimità attribuiva rilievo all'oggettivo mancato avveramento delle condizioni del concordato, a prescindere dalla non imputabilità dell'inadempimento al debitore, in una prospettiva intesa a valorizzare il preminente interesse dei creditori (Cass. n. 13446/2011 e Cass. n. 14503/2007). Anche dopo la riforma l'opinione prevalente esclude la rilevanza dell'imputabilità dell'inadempimento al debitore ritenendo che, nell'ambito della disciplina speciale del concordato preventivo, lo stesso debba essere valutato nella sua dimensione esclusivamente oggettiva (Roppo, 960). Per meglio dire, secondo tale orientamento viene negata la possibilità di attribuire l'inadempimento al debitore a titolo di colpa o dolo, limitando pertanto la valutazione del tribunale all'accertamento in ordine alla corretta esecuzione del piano, nei termini e secondo le modalità stabile nella proposta, senza alcun margine di discrezionalità in merito all'imputabilità dell'inadempimento (Trib. Modena 11 giugno 2014). Ne consegue che la valutazione dell'elemento soggettivo non è, quindi, condizione per la pronuncia di risoluzione potendo, al limite, rilevare soltanto quale elemento di analisi aggiuntivo, suscettibile di attenuare il giudizio di gravità dell'inadempimento (App. Roma 29 maggio 2013). Nel concordato preventivo non trovando applicazione la disciplina della risoluzione per impossibilità sopravvenuta, deve necessariamente ritenersi che anche l'inadempimento non imputabile giustifichi la risoluzione, se non si vuol pervenire all'inammissibile risultato di vincolare i creditori all'effetto esdebitatorio anche quando il debitore non abbia eseguito gli impegni promessi con il concordato (Silvestrini, 513). Quindi nel caso in cui il piano sia divenuto non eseguibile per cause non imputabili al debitore, resta ferma la possibilità di ricorrere alla risoluzione, in ragione della preminente rilevanza del mancato soddisfacimento dei creditori e, conseguentemente, del mancato superamento dello stato di crisi (o insolvenza). L'importanza dell'inadempimentoUna volta precisato che l'inadempimento, ancorché non imputabile, deve essere di non scarsa importanza, occorre chiarire rispetto a cosa vada valutata questa importanza ed, in particolare, se vada rapportata al solo interesse del creditore che abbia chiesto la risoluzione ovvero debba essere riferita all'interesse generale della massa dei creditori (Trib. Forlì 19 marzo 2014). Secondo alcuni autori, la valutazione dell'importanza dell'inadempimento deve effettuarsi considerando il solo credito fatto valere dal singolo creditore che chiede la risoluzione, quindi, nell'ottica privatistica del concordato, la risoluzione si configura come una «comune controversia privata fra debitore e creditore» (Rago, 1214). Un ulteriore orientamento ritiene che «il tribunale potrà sempre valutare se la significativa compromissione degli interessi del creditore istante possa o meno incidere sull'adempimento (complessivo) degli impegni concordatari» (Fauceglia, 1769). Invero secondo tale ultimo orientamento il concordato consiste in un accordo tra il debitore e la generalità dei creditori, tanto che conseguentemente l'effetto risolutorio si estende automaticamente a tutti i rapporti creditori, la cui valutazione, dell'importanza dell'inadempimento, deve essere necessariamente parametrata al complesso degli obblighi assunti dal debitore e non al singolo rapporto obbligatorio con il creditore istante. A quest'ultima tesi, che può ritenersi ormai prevalente, accede la giurisprudenza post riforma, muovendo dal presupposto che «il concordato costituisce un accordo contrattuale dove una delle parti, la massa dei creditori, ha natura composita e plurisoggettiva», per cui «come l'omologa del concordato consegue all'approvazione da parte della maggioranza dei creditori del piano presentato dall'imprenditore proponente, allo stesso modo la risoluzione non può che fare seguito ad una valutazione degli interessi dell'intera massa dei creditori, da compiersi tramite un giudizio sulla tenuta complessiva dell'accordo piuttosto che facendo riferimento al tornaconto del singolo creditore istante» (Trib. Forlì 19 marzo 2014; Trib. Ravenna 7 giugno 2012). In conclusione deve ritenersi che l'inadempimento che il creditore istante deve allegare a fondamento della domanda di risoluzione deve riguardare non soltanto la prestazione dovuta nei suoi confronti, ma anche la prestazione dovuta nei confronti del complesso dei creditori; a sua volta, il tribunale, individuati esattamente gli impegni assunti dal debitore con la proposta, verificherà l'esatta consistenza degli inadempimenti prospettati nell'istanza di risoluzione e, prescindendo da qualsiasi rilievo in ordine alla imputabilità dell'inadempimento, valuterà se lo stesso sia di «non scarsa importanza» e cioè di gravità tale da compromettere il funzionamento della causa del concordato, consistente nel superamento della situazione di crisi attraverso il soddisfacimento sia pur minimale delle ragioni dei creditori. Termini per la richiesta di risoluzioneIn merito al termine temporale per poter agire mediante la richiesta di risoluzione del concordato, la vecchia norma, con il riferimento al terzo comma dell'art. 137, stabiliva che la «pronuncia» per la risoluzione del concordato doveva avvenire entro un anno ed il dies a quo partiva dalla scadenza dell'ultimo «pagamento» così come stabilito nel concordato. Ora il riferimento normativo è alla proposizione del ricorso e non più alla sua pronuncia di merito (che sostituisce la parola pagamento in virtù dell'ampia casistica di proposte che possono essere formulate). La modifica risulta opportuna in considerazione della varietà dei contenuti che il piano concordatario può ora assumere e, in particolare, della possibile previsione di forme di soddisfacimento del ceto creditorio alternative al pagamento nel senso che, qualora non sia fissata la scadenza dell'ultimo pagamento previsto nel concordato, il termine annuale decorre dall'esaurimento delle operazioni di liquidazione, che si completano con i pagamenti, compresi quelli conseguenti ad eventuali sopravvenienze attive (Cass. n. 27666/2011). Ai fini della decorrenza del termine annuale per la proposizione della domanda di risoluzione del concordato (che ha natura di termine decadenziale), occorrerà dunque fare riferimento ai tempi di adempimento indicati nella proposta concordataria, nelle diverse forme in cui questa può atteggiarsi. Nella prassi, tuttavia, può avvenire che le proposte non indichino esattamente tali termini, di talché il dies a quo in questione rischia di rimanere indeterminato. In questi casi, è stato ritenuto che qualora il piano non preveda un termine per l'esecuzione, il termine per la domanda di risoluzione decorrerà dall'ultimo atto di esecuzione (Maffei Alberti 2013, 1319). Nel caso di concordato con cessione di beni, qualora il piano non indichi esattamente il momento in cui deve essere compiuto l'ultimo adempimento, il termine per proporre l'azione di risoluzione del concordato inizierà a decorrere dalla conclusione delle operazioni di liquidazione (Cass. n. 27666/2011). Di conseguenza, una volta scaduto il termine, il creditore insoddisfatto può agire individualmente per ottenere l'adempimento. La giurisprudenza più recente ritiene anche possibile che i creditori possano richiedere la dichiarazione di fallimento del debitore, pur senza la preventiva risoluzione del concordato, azionando il credito nei limiti della falcidia concordataria (Trib. Bari 3 marzo 2017; Trib. Modena 1 agosto 2016; Trib. Napoli Nord 13 aprile 2016; Trib. Venezia 6 novembre 2015). Risoluzione in caso di concordato con assuntoreCon il 4° comma dell'art. 186 si continua a non ammettere l'opportunità di risolvere la proposta concordataria quando le obbligazioni derivanti da essa sono state assunte da un terzo con liberazione immediata del debitore dalle obbligazioni assunte. In questo modo si ritiene che il legislatore non ha voluto che l'inadempimento dell'assuntore potesse penalizzare il debitore che, cedendogli il suo patrimonio, eseguirebbe così i propri obblighi. Nel caso in cui il piano non presuma la liberazione immediata del debitore, quest'ultimo seguiterà a rispondere degli obblighi derivanti dal concordato preventivo e quindi l'inadempienza dell'assuntore porterà all'inadempimento del debitore stesso ed dell'opportunità per i creditore di chiedere la risoluzione del concordato. La disposizione pone, tuttavia, il problema di individuare quali strumenti di tutela abbiano i creditori a fronte dell'inadempimento dell'assuntore. Sul punto, alla tesi che esclude che il concordato possa essere interessato dalla mancata esecuzione da parte dell'assuntore, con la conseguenza che soltanto nei confronti di quest'ultimo i creditori possono indirizzare le loro azioni (Cass. n. 2400/2000), si oppone la diversa opinione di chi ritiene la risoluzione ammissibile nei confronti del solo assuntore, con la conseguenza che quest'ultimo verrebbe esautorato dalla liquidazione, che sarebbe quindi effettuata dagli organi della procedura. La risoluzione nel concordato per cessione dei beniNel caso di concordato preventivo con cessione traslativa di beni, l'obbligazione del debitore deve ritenersi adempiuta con il trasferimento dei beni a seguito dell'omologazione del concordato, essendo quindi del tutto irrilevante in quale misura ciò realizzi la soddisfazione effettiva dei creditori cessionari. Residua, quindi, in questo caso, quale unica ipotesi di possibile inadempimento rilevante ai fini della risoluzione, quella in cui i beni ceduti siano privi delle qualità promesse, ai sensi dell'art. 1497 c.c.: in tali casi si avrà inadempimento rispettivamente nel caso in cui i beni non siano trasferiti ai creditori oppure i beni ceduti non abbiano le qualità promesse (Ariani, 551). Nel caso di cessio bonorum classica, invece, si pongono dubbi nelle ipotesi (in pratica assai frequenti) in cui, nonostante le diverse previsioni contenute nel piano di concordato, dalla liquidazione dei beni non derivi dalla liquidazione la liquidità necessaria per il soddisfacimento dei creditori nelle percentuali promesse. Nel sistema previgente, era esplicitamente previsto che il concordato non potesse risolversi, se dalla liquidazione dei beni si fosse ricavata una percentuale inferiore al 40%. Tale disposizione trovava la sua giustificazione nel fatto che, nel caso di cessione di beni, l'unico adempimento richiesto al debitore era quello della messa a disposizione dei beni, e quindi, una volta operata tale prestazione, non poteva dirsi ricorrente un inadempimento rilevante ai fini della risoluzione del concordato. La giurisprudenza, peraltro, aveva temperato tale principio, affermando che la risoluzione potesse comunque essere pronunciata nelle ipotesi in cui fosse accertata l'impossibilità del soddisfacimento integrale dei creditori privilegiati, ovvero della corresponsione ai creditori chirografari di una qualsiasi percentuale, anche minima (Cass. n. 5790/1981; Cass. n. 1703/1976; Cass. 6 settembre 1974). Nel nuovo sistema, sono state prospettate invece due opzioni interpretative. Secondo un primo orientamento, è possibile il trasferimento integrale dell'alea dei risultati della liquidazione ai creditori sociali (Trib. Vicenza 7 maggio 2012), purché i rischi inerenti alla liquidazione del patrimonio siano stati ben rappresentati ai creditori. In tali casi non potrà esservi risoluzione quando, all'esito della liquidazione, i crediti chirografari non siano soddisfatti neanche in minima parte. Secondo altra posizione interpretativa, non potrebbe aversi esdebitazione, qualora il soddisfacimento manchi integralmente. Infatti, in tale prospettiva, il mancato soddisfacimento dei crediti chirografari (neanche in minima parte) non consentirebbe il perseguimento di una delle due finalità della procedura di concordato preventivo (Cass. S.U., n. 1521/2013) e pertanto potrebbe determinare il venir meno della causa concreta del concordato, consentendo così ai creditori di agire per la risoluzione dello stesso. In virtù di quanto esposto, sembrerebbe preferire (Ariani,553) la tesi secondo cui sarebbe possibile «trasferire l'alea dei risultati della liquidazione ai creditori, quando ciò sia espressamente previsto nella proposta di concordato, i beni trasferiti abbiano le qualità promesse, i rischi della liquidazione siano chiari ai creditori al momento del voto e tali rischi si manifestino solo in fase di esecuzione dell'accordo». Quindi l'indicazione della percentuale di soddisfacimento dei crediti «è dunque necessaria al fine di consentire ai creditori di valutare la concretezza e la convenienza della proposta, nonché la sua fattibilità economica, ma, a meno di un'espressa previsione in tal senso, non costituisce manifestazione di una volontà negoziale sulla quale si forma il consenso o l'accettazione, perché ciò equivarrebbe a ritenere sempre necessaria l'assunzione della forma del concordato misto, in cui la cessione è accompagnata dall'impegno a garantire ai creditori una percentuale minima di soddisfacimento, laddove oggetto dell'obbligazione nel concordato con cessione è unicamente l'impegno a mettere i beni a disposizione dei creditori liberi da vincoli ignoti che ne impediscano la liquidazione o ne diminuiscano sensibilmente il valore» (Cass. n. 6022/2014). Il panorama sembra tuttavia mutato con la previsione dell'art. 160, comma 4, l.fall. (introdotta dall'art. 4, comma 1, lett. a), del d.l. 27 giugno 2015 n. 83, convertito, con modificazioni, dalla l. 6 agosto 2015, n. 132), che ha previsto, per i concordato con cessione di beni, la necessità di «assicurare» il pagamento di almeno il 20% dei crediti chirografari. Nel nuovo sistema, dunque, stante l'abrogazione dell'art. 186, comma 2, l.fall. vecchio testo, dovrebbe a nostro avviso ritenersi che, ai fini della valutazione dell'inadempimento, dovrebbe aversi riguardo non già alla sola messa a disposizione dei beni, bensì all'intero programma concordatario, che deve prevedere anche percentuali e tempi di soddisfacimento dei creditori. In sostanza, proprio l'assoluta atipicità del nuovo concordato preventivo impone al debitore di esplicitare in maniera specifica i risultati — in termini di soddisfacimento dei creditori — contenuti nella proposta (quanto meno con l'indicazione di una percentuale minima), con la conseguenza che il mancato raggiungimento di tale percentuale potrà determinare comunque la risoluzione del concordato, a meno che la differenza in peius per i creditori non sia talmente bassa, da poter qualificare l'inadempimento come di scarsa importanza (Lenoci, 851; v. anche Usai, 3779). L'annullamento del concordatoL'ultimo comma dell'art. 186 l.fall. mantiene il rinvio all'art. 138 l.fall. che è rimasto pressoché invariato. Si sono mantenute pertanto le cause per le quali poteva essere annullata la procedura lasciando il potere di presentare l'istanza per l'annullamento anche al commissario giudiziale e non solo ai creditori (sia privilegiati che chirografi anche esterni alla procedura), in virtù dell'interesse generale posto a tutela. È importante precisare che mentre il rimedio della risoluzione si fonda sulla mancata esecuzione degli obblighi concordatari, quello dell'annullamento è correlato alla dolosa alterazione dei dati utilizzati per la decisione e mira, pertanto, «a tutelarne la genuinità e la spontaneità (Pajardi– Paluchowski, 721). Gli unici e tassativi motivi di annullamento del concordato preventivo sono la dolosa esagerazione del passivo che ricorre qualora vi sia, per effetto di raggiri dolosi o fraudolenti posti in essere dal debitore, esposizione di debiti insussistenti o sussistenti in misura inferiore a quella esposta (Pajardi, 1542); la sottrazione o la dissimulazione di una parte rilevante dell'attivo. In quest'ultimo caso la sottrazione dell'attivo può consistere nella materiale distruzione dei beni, nel far figurare sui beni della massa garanzie o pesi inesistenti, nel non denunciare o denunciare solo parzialmente crediti o diritti. Si tratta, ad esempio, dell'occultamento di beni mobili o immobili oppure della fittizia alienazione a terzi di un bene in modo da sottrarlo ai creditori o da indurli ad accettare una percentuale di soddisfacimento del credito inferiore. A tal proposito il Tribunale di Ascoli Piceno del 18 dicembre 2009, ha evidenziato che «la dissimulazione o sottrazione dell'attivo è ravvisabile in qualunque attività preordinata a sottrarre ai creditori beni destinati alla massa fallimentare, anche con l'utilizzo di strumenti giuridici quali l'intestazione fiduciaria o la vendita simulata, al fine di convincere i creditori medesimi ad accettare una percentuale inferiore». In ogni caso, le condotte (dissimulazione o sottrazione) devono essere accompagnate da un intento doloso. In proposito occorre osservare che l'art. 186 disciplina l'annullamento del concordato preventivo rinviando alla disciplina dettata dall'art. 138 l.fall. per il concordato fallimentare. L'azione di annullamento presuppone un vizio nella formazione del consenso a causa di un'inesatta rappresentazione della realtà che, se scoperta durante il procedimento di concordato, può comportarne la revoca ex art. 173 e che, qualora emerga successivamente, può dare invece luogo all'annullamento. La richiesta si propone con ricorso il cui contenuto è analogo a quello previsto nell'ipotesi dell'azione di risoluzione. Il ricorso si deve proporre nel termine di sei mesi dalla scoperta del dolo e, in ogni caso, non oltre due anni dalla scadenza del termine fissato per l'ultimo adempimento previsto nel concordato (art. 138, comma 3, l.fall.) Il termine di sei mesi (fissato, secondo alcuni, a pena di decadenza e, secondo altri, a pena di inammissibilità) ha la propria ratio nell'esigenza di garantire certezza nei rapporti derivanti dal concordato. Il termine biennale (più lungo rispetto a quello di un anno previsto nella disciplina della risoluzione) si giustifica con la considerazione che i fatti dolosi posti a base dell'azione di annullamento potrebbero non essere tempestivamente scoperti. Quanto alla legittimazione attiva l'istanza di annullamento può essere presentata esclusivamente e tassativamente nei casi stabiliti dal commissario giudiziale oltre che da qualsiasi creditore. La legittimazione del commissario giudiziale si giustifica considerando che il legislatore ha ritenuto che la tutela della genuinità dell'accordo concordatario sia interesse generale e come tale meritevole di tutela. Va esclusa la legittimazione attiva del debitore concordatario (Lo Cascio, 854). In merito alla competenza sarà il Tribunale a decidere in quanto dotato di più ampi poteri di accertare la sussistenza dei fatti allegati a motivo dell'annullamento. Nell'ipotesi in cui le azioni di risoluzione e di annullamento siano proposte contemporaneamente o successivamente ma in modo tale per cui vi sia litispendenza, si deve sospendere l'azione di risoluzione a favore dell'azione di annullamento ai sensi dell'art. 295 c.p.c. (Pajardi, 1528). Il procedimento di risoluzione e annullamentoL'art. 186 l.fall. non si occupa degli aspetti processuali, ma rinvia agli artt. 137 e 138 l.fall.; l'art. 137, a sua volta, rinvia all'art. 15 l.fall. Sul punto la giurisprudenza di merito ritiene che le norme processuali applicabili al procedimento per la risoluzione del concordato preventivo sono quelle previste dal d.lgs. n. 169/2007, anche nel caso in cui il concordato sia stato omologato prima dell'entrata in vigore della riforma, sia perché la procedura per la risoluzione è autonoma rispetto alla procedura chiusa con l'omologazione sia perché, trattandosi di norme processuali, è applicabile il principio tempus regit actum (Trib. Venezia 2 ottobre 2008 e Trib. Piacenza 12 ottobre 2009). La domanda di risoluzione (o di annullamento) va proposta al giudice del luogo dove l'impresa ha la sede principale nel momento della domanda e, quindi, se questa è stata legittimamente trasferita, il giudice competente a deciderla può essere diverso da quello che ha omologato il concordato. Unificata la disciplina del procedimento, resta la rilevante differenza quanto alla legittimazione attiva, nel caso della risoluzione limitata ai creditori, anche individualmente considerati — benché sia stato prospettato qualche dubbio in ordine alla legittimazione del creditore appartenente ad una classe che non sia stata toccata dal dedotto inadempimento ed in quello dell'annullamento estesa anche al commissario giudiziale (Cass. n. 5357/1993). Premesso quanto esposto, in merito al rinvio all'art. 15 l.fall. si ritiene che questo rappresenti l'esigenza di verificare, nel contraddittorio delle parti, e quindi con la necessaria interlocuzione del debitore, e con la possibilità di svolgere attività difensiva e assumere mezzi istruttori richiesti dalle parti o disposti d'ufficio se, oltre ai presupposti cui la legge subordina la risoluzione o l'annullamento, siano presenti i requisiti di assoggettabilità a fallimento, e segnatamente (stante l'equivalenza, nel fallimento e nel concordato, del presupposto soggettivo), se sussista lo stato di insolvenza, non necessariamente integrato dalla crisi che aveva legittimato l'imprenditore alla presentazione della domanda di concordato (Cass. n. 11503/1996; Trib. Ascoli Piceno 18 dicembre 2009). Il procedimento inizia pertanto con ricorso, mentre il provvedimento conclusivo può assumere diverse forme. In particolare, nel caso di rigetto della domanda di risoluzione o di annullamento del concordato, il tribunale adotterà un decreto, mentre nel caso di accoglimento della domanda il provvedimento finale dovrebbe avere la forma di sentenza provvisoriamente esecutiva, come indicato dall'art. 137, comma 4, e dall'art. 138, comma 2, l.fall., che menzionano le «sentenze» che risolvono o annullano il concordato (Filocamo, 2690). In senso contrario, tuttavia, è stato ritenuto che la forma della sentenza dovrebbe adottarsi soltanto nel caso di contestuale dichiarazione di fallimento (Vitiello, 2282; secondo Cass. n. 2671/2012, il provvedimento di annullamento ha la forma di decreto, con contestuale sentenza in caso di dichiarazione di fallimento) Le sentenze che risolvono o annullano il concordato preventivo sono impugnabili con reclamo ex art. 18 l.fall. (art. 137, comma 5, e art. 138, comma 2, l.fall.). Il decreto di rigetto, invece, deve ritenersi reclamabile ai sensi dell'art. 739 c.p.c, quale norma generale che regola i mezzi di impugnazione dei provvedimenti emessi in camera di consiglio, in assenza di una normativa specifica. Come è noto, nel sistema previgente la risoluzione o l'annullamento del concordato determinavano automaticamente la declaratoria di fallimento del debitore. Nell'attuale sistema, stante anche l'eliminazione del fallimento d'ufficio, la risoluzione o l'annullamento del concordato determinano esclusivamente la caducazione degli effetti modificativi dei rapporti giuridici derivanti dall'omologazione del concordato. In linea di principio, il procedimento di risoluzione o annullamento, essendo deputato esclusivamente allo scioglimento del vincolo concordatario, non dovrebbe riguardare l'eventuale dichiarazione di fallimento del debitore, che potrebbe essere richiesta soltanto all'esito della risoluzione o dell'annullamento. Tuttavia, pur nel silenzio della legge, una interpretazione sistematica dell'art. 186, 137 e 138 l.fall. con gli artt. 162, 173 e 180, potrebbe portare a ritenere che nel procedimento per la risoluzione o l'annullamento del concordato potrebbero «confluire» anche eventuali istanze di fallimento (del pubblico ministero e/o dei creditori), istanze che potrebbero essere presentate anche contestualmente alla domanda di risoluzione o annullamento del concordato, e quindi contenute nel corpo dello stesso atto (in tal senso Rago, 1212). La sentenza di risoluzione o di annullamento, pertanto, in questi casi potrebbe anche dichiarare il fallimento, nel qual caso il procedimento potrebbe risolversi: a) con un'unica sentenza di risoluzione o di annullamento del concordato, e con contestuale dichiarazione di fallimento; b) con un unico decreto di rigetto (sia della domanda di risoluzione o annullamento che della richiesta di fallimento); c) con una sentenza di risoluzione o annullamento del concordato e con contestuale decreto di rigetto dell'istanza di fallimento. In teoria potrebbe prospettarsi una quarta possibilità, con l'emissione di una sentenza dichiarativa di fallimento unitamente ad un decreto di rigetto della domanda di risoluzione o di annullamento, se si accerti una situazione di insolvenza per le obbligazioni come modificate dal concordato preventivo. Le sentenze che risolvono o annullano il concordato e dichiarano il fallimento saranno assoggettate a reclamo ex art. 18 l.fall., che riguarderà anche motivi attinenti alla risoluzione o all'annullamento che motivi attinenti alla dichiarazione di fallimento (arg. ex art. 162 l.fall.). I decreti di rigetto della domanda di risoluzione o annullamento e della richiesta di fallimento saranno invece assoggettati a reclamo ex art. 22 l.fall. (in questo senso Filocamo, 2690). Gli effetti della risoluzione e dell'annullamentoL'effetto sostanziale della risoluzione del concordato, così come dell'annullamento, è dunque la caducazione degli effetti estintivi-modificativi dei rapporti giuridici derivanti dall'omologazione, primo tra tutti quello esdebitatorio. I creditori possono insinuare l'intero credito nel successivo fallimento, se dichiarato, o, qualora il debitore ritorni in bonis (per l'accertata carenza del presupposto dello stato di insolvenza, o per la mancanza di ricorsi o richieste di fallimento), possono agire mediante l'esecuzione individuale, per il recupero dell'intero credito. La sentenza che pronuncia la risoluzione ha portata costitutiva-estintiva e determina l'eliminazione degli effetti esdebitatori e/o modificativi conseguenti all'omologazione del decreto ex art. 180 e, quindi, dovrebbe operare retroattivamente, determinando il ripristino della situazione antecedente. Invero, proseguendo sulla portata degli effetti, sembrerebbe che la regola generale che governa gli effetti della risoluzione è che essa opera in senso sfavorevole al debitore, mentre restano salvi i risultati positivi raggiunti a favore dei creditori. Gli atti compiuti prima dell'apertura del concordato sono soggetti a revocatoria sulla base del noto fenomeno della consecuzione delle procedure, ravvisabile anche nel caso in cui la dichiarazione di fallimento consegua alla risoluzione del concordato (Lo Cascio, 746). Per quel che riguarda, invece, gli atti compiuti durante la procedura concordataria, occorre distinguere tra gli atti compiuti prima dell'omologazione, e gli atti compiuti successivamente all'omologazione. Gli atti compiuti prima dell'omologazione resteranno salvi, purché ovviamente autorizzati ex art. 167 l.fall. Gli atti compiuti dopo l'omologazione, invece, resteranno slavi purché coerenti con il piano di concordato e con il contenuto del decreto di omologazione, beneficiando altresì dell'esenzione da revocatoria ex at. 67, comma 3, lett. e), l.fall., altrimenti saranno suscettibili di revocatoria fallimentare. Resteranno quindi ferme, ad es., le attività poste in essere dal liquidatore nel concordato con cessione di beni, ed i creditori saranno legittimati a trattenere i pagamenti ricevuti (Usai, 3787). Il debitore ammesso al concordato preventivo omologato che si dimostri insolvente nel pagamento dei debiti concordataripuò essere dichiarato fallito, su istanza del PM, dei creditori o sua propria, anche prima e indipendentemente dalla risoluzione del concordato (Cass. S.U. n. 4696/2022). La giurisprudenza (Cass. n. 16738/2014) ritiene applicabile analogicamente anche nel caso di risoluzione del concordato preventivo l'art. 140, comma 3, in tema di concordato fallimentare, per cui i creditori sono esonerati dalla restituzione di quanto hanno riscosso in base al concordato risolto, salvo che non siano state rispettate nei pagamenti attuati in costanza della procedura concorsuale minore le cause legittime di prelazione (Cass. n. 17059/2007); alla medesima conclusione del resto si perviene anche in base all'art. 67, comma 3, lett. e), che esenta da revocatoria i pagamenti posti in essere in esecuzione del concordato preventivo. Altra giurisprudenza, invece, ha stabilito che «in applicazione analogica del principio sancito dall'art. 140, comma 3, l.fall., in tema di concordato fallimentare, i pagamenti eseguiti nel corso della procedura minore in violazione della «par condicio creditorum» e dell'ordine delle prelazioni, sono ripetibili non in quanto oggettivamente non dovuti ma perché, in quanto difformi ai canoni di soddisfacimento concordatario, inefficaci rispetto alla massa dei creditori, sicché la relativa azione, esercitabile soltanto dalla curatela, ha carattere costitutivo e si prescrive, al pari delle azioni revocatorie, nel termine di cinque anni, con decorrenza dalla sentenza dichiarativa di fallimento, da cui sorge» (Cass. n. 509/2016). Per quanto riguarda le garanzie prestate da terzi per l'esecuzione del concordato, la giurisprudenza (Cass. S.U., n. 1482/1997) ritiene che, a seguito della risoluzione del concordato preventivo, il terzo che aveva prestato garanzia a favore del debitore è tenuto anche nel successivo fallimento, nei limiti della percentuale concordataria, ad adempiere alla obbligazione di garanzia, ma la legittimazione a pretenderne l'adempimento non compete al curatore, ma ai singoli creditori (Cass. S.U., n. 11396/2009). Da ultimo, giova ricordare che a seguito della modifica effettuata dall'art. 4, d.lgs. n. 159/2015, (integrando l'art. 25, d.P.R. n. 602/1973), il concessionario notifica la cartella di pagamento, a pena di decadenza, per i crediti anteriori alla data di pubblicazione del ricorso per l'ammissione al concordato preventivo nel registro delle imprese, non ancora iscritti a ruolo, entro il 31 dicembre del terzo anno successivo alla pubblicazione della sentenza che dichiara la risoluzione o l'annullamento del concordato preventivo ai sensi del combinato disposto degli artt. 186,137 e 138, r.d. n. 267/1942. BibliografiaV. sub art. 185. |