Decreto legislativo - 2/07/2010 - n. 104 art. 34 - Sentenze di merito

Roberto Chieppa

Sentenze di merito

 

1. In caso di accoglimento del ricorso il giudice, nei limiti della domanda:

a) annulla in tutto o in parte il provvedimento impugnato;

b) ordina all'amministrazione, rimasta inerte, di provvedere entro un termine;

c) condanna al pagamento di una somma di denaro, anche a titolo di risarcimento del danno, all'adozione delle misure idonee a tutelare la situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio e dispone misure di risarcimento in forma specifica ai sensi dell'articolo 2058 del codice civile. L'azione di condanna al rilascio di un provvedimento richiesto è esercitata, nei limiti di cui all'articolo 31, comma 3, contestualmente all'azione di annullamento del provvedimento di diniego o all'azione avverso il silenzio1;

d) nei casi di giurisdizione di merito, adotta un nuovo atto, ovvero modifica o riforma quello impugnato;

e) dispone le misure idonee ad assicurare l'attuazione del giudicato e delle pronunce non sospese, compresa la nomina di un commissario ad acta, che può avvenire anche in sede di cognizione con effetto dalla scadenza di un termine assegnato per l'ottemperanza.

2. In nessun caso il giudice può pronunciare con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati. Salvo quanto previsto dal comma 3 e dall'articolo 30, comma 3, il giudice non può conoscere della legittimità degli atti che il ricorrente avrebbe dovuto impugnare con l'azione di annullamento di cui all'articolo 29.

3. Quando, nel corso del giudizio, l'annullamento del provvedimento impugnato non risulta più utile per il ricorrente, il giudice accerta l'illegittimità dell'atto se sussiste l'interesse ai fini risarcitori.

4. In caso di condanna pecuniaria, il giudice può, in mancanza di opposizione delle parti, stabilire i criteri in base ai quali il debitore deve proporre a favore del creditore il pagamento di una somma entro un congruo termine. Se le parti non giungono ad un accordo, ovvero non adempiono agli obblighi derivanti dall'accordo concluso, con il ricorso previsto dal Titolo I del Libro IV, possono essere chiesti la determinazione della somma dovuta ovvero l'adempimento degli obblighi ineseguiti.

5. Qualora nel corso del giudizio la pretesa del ricorrente risulti pienamente soddisfatta, il giudice dichiara cessata la materia del contendere.

Inquadramento

L'art. 34 è una delle disposizioni di maggiore significato del Codice, in quanto non si limita a indicare quali sono le sentenze di merito, ma contiene anche l'indicazione dei poteri del giudice nelle sentenze di merito, con disposizioni chiaramente riferite alle sentenze costitutive, di condanna e di accertamento.

Si tratta di una impostazione simile a quella dell'ordinamento processuale amministrativo tedesco, in cui la disciplina delle azioni (artt. 42-44 Verwaltungsgerichtsordnung) è distinta da quella delle sentenze, in cui sono appunto regolati i poteri del giudice (art. 113 Verwaltungsgerichtsordnung).

L'art. 34 del Codice fa riferimento al tradizionale contenuto delle sentenze di accoglimento di determinate domande: annullamento in tutto o in parte il provvedimento impugnato (azione di annullamento); ordine all'amministrazione, rimasta inerte, di provvedere entro un termine (azione avverso il silenzio); condanna al pagamento di una somma di denaro o al rilascio di un provvedimento richiesto (azione di condanna); adozione di un nuovo atto, ovvero modifica o riforma quello impugnato (giurisdizione di merito); adozione di misure idonee ad assicurare l'attuazione del giudicato e delle pronunce non sospese, compresa la nomina di un commissario ad acta (azione esecutiva).

Va sottolineata l'importanza della previsione della condanna all'adozione delle misure idonee a tutelare la situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio, comprese quelle relative al rilascio di un provvedimento richiesto, con cui nella sostanza è stata introdotta quell'azione di adempimento, proposta dalla Commissione istituita presso il Consiglio di Stato e poi espunta dal Governo (v. art. 30).

Particolarmente efficace può risultare anche la possibilità di anticipare la nomina del commissarioad actagià in sede di cognizione con effetto dalla scadenza di un termine assegnato per l'ottemperanza.

Sono anche codificati alcuni limiti al potere del giudice: a) il giudice non può pronunciare con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati; b) il giudice non può conoscere della legittimità degli atti che il ricorrente avrebbe dovuto impugnare con l'azione di annullamento (ad eccezione del caso di azione autonoma di risarcimento e di conversione dell'azione di annullamento in azione di accertamento dell'illegittimità del provvedimento, da far valere ai fini risarcitori).

Il meccanismo di fissazione dei criteri di quantificazione del danno, già previsto dall' art. 35, comma 2, d.lgs. n. 80/1998, è esteso a ogni condanna pecuniaria e può essere utilizzato dal giudice in mancanza di opposizione delle parti; il successivo ricorso con le forme dell'ottemperanza è espressamente previsto anche in caso di inadempimento degli obblighi derivanti dall'accordo concluso dalle parti.

La cessazione della materia del contendere viene inclusa tra le sentenze di merito.

Sentenze costitutive, di condanna e di accertamento

Una distinzione delle sentenze del giudice amministrativo può anche seguire la differente tipologia di azioni di cognizione, ora in parte disciplinate dal Codice.

Nel processo amministrativo la tipica sentenza di accoglimento è quella con cui viene annullato l'atto impugnato e si tratta di una pronuncia con effetto costitutivo, con cui appunto viene accolta l'azione di annullamento (v. art. 29)

Altra sentenza è quella di condanna, oggi non più limitata alla condanna al pagamento di somme pecuniarie, compreso il risarcimento del danno, ma estesa alla condanna all'adozione delle misure idonee a tutelare la situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio, comprese quelle relative al rilascio di un provvedimento richiesto (v. art. 30 e oltre in questo commento

La pronuncia di condanna può essere emessa anche all'interno dei procedimenti di tutela sommaria, previsti in passato dall' art. 8 della l. n. 205/2000 e ora dall'art. 118 del Codice.

Tradizionalmente poco spazio è stato riservato nel processo amministrativo alle azioni e alle sentenze di accertamento, ritenute in passato inammissibili nell'ordinaria giurisdizione di legittimità e possibili, in sede di giurisdizione esclusiva, per l'accertamento di diritti.

Con riferimento all'azione di accertamento si rinvia al commento all'art. 31, comma 4.

I poteri di condanna del giudice amministrativo

Una delle principali novità introdotte con l'art. 34 è l'aver reso atipica l'azione di condanna, prevista dall'art. 30, comma 1, prevedendo non solo la condanna al pagamento di una somma di denaro, pure a titolo di risarcimento del danno per equivalente o la condanna al risarcimento in forma specifica, ma anche la condanna «all'adozione delle misure idonee a tutelare la situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio» (sulla portata espansiva di tale previsione vedi il commento all'art. 30, comma 1);

Il significato della lettera c) dell'art. 34, comma 1 è stato precisato con le modifiche introdotte con il secondo correttivo al Codice ( d.lgs. 14 settembre 2012, n. 160), con cui è stato aggiunto alla citata lettera che «L'azione di condanna al rilascio di un provvedimento richiesto è esercitata, nei limiti di cui all'articolo 31, comma 3, contestualmente all'azione di annullamento del provvedimento di diniego o all'azione avverso il silenzio».

Tale previsione conferma la possibilità di chiedere la condanna al rilascio di un determinato provvedimento in modo simile alla già citata azione di adempimento, prevista nell'ordinamento tedesco.

Segue. L'azione di adempimento nell'ordinamento tedesco.

L'azione di adempimento trova nell'ordinamento processuale tedesco una disciplina legislativa compiuta. Il par. 42 del Verwaltungsgerichtsordnung la annovera tra le azioni ammissibili innanzi al giudice amministrativo accanto all'azione di annullamento e all'azione di accertamento (per il testo tradotto dell'ordinamento processuale amministrativo tedesco, v. Falcon- Fraenkl)

Il legislatore tedesco ha previsto l'azione di condanna quale azione non costitutiva, ma di prestazione, diretta non all'annullamento di un atto amministrativo, ma all'emanazione di un atto rifiutato o di un atto omesso dalla amministrazione (Masucci;Clarich).

Essa consente, quindi, al giudice di condannare l'amministrazione all'emanazione di un atto amministrativo sia nel caso di rifiuto espresso, sia in caso di silenzio, sempre che il ricorrente vanti una pretesa giuridicamente qualificata al provvedimento.

Ove l'azione di adempimento risulti fondata, la decisione può avere, a seconda dei casi, i seguenti contenuti ai sensi dell'art. 113 del VwGo. Se il giudice considera la questione «matura per la decisione», può dichiarare l'obbligo dell'amministrazione di porre in essere l'attività richiesta. Altrimenti si limita a dichiarare l'obbligo dell'amministrazione di provvedere nei confronti dell'attore, attenendosi al principio giuridico enunciato dal giudice, senza dunque predeterminare in tutto e per tutto il contenuto del provvedimento.

L'espressione «questione matura per la decisione» va intesa in senso non già processuale, bensì sostanziale, cioè in relazione alla pretesa giuridica del soggetto fatta valere nell'istanza proposta all'amministrazione e rivolta all'emanazione del provvedimento.

Se la causa «non è matura per la decisione» il giudice può pronunciare esclusivamente in ordine all'obbligo dell'amministrazione di provvedere in favore del ricorrente secondo il punto di vista espresso dal giudice; in sostanza in questo caso l'autorità viene condannata ad una decisione, ma non sono consumati gli spazi discrezionali estranei all'oggetto del giudizio.

In definitiva, l'azione di adempimento nell'ordinamento tedesco non determina una sovrapposizione dei ruoli del giudice amministrativo e della pubblica amministrazione. Anzi, in modo duttile, cerca di conciliare la massima garanzia della situazione giuridica fatta valere in giudizio con l'esigenza di salvaguardare la sfera riservata del potere amministrativo. Solo in presenza di un potere il quale, anche in seguito agli accertamenti operati in giudizio, non presenti alcun margine di discrezionalità, l'azione di adempimento si conclude con una condanna puntuale ad emanare il provvedimento amministrativo richiesto (denegato o omesso).

Segue. Ammissibilità della condanna al rilascio di un determinato provvedimento e azione di adempimento.

È noto che la Commissione speciale istituita presso il Consiglio di Stato aveva proposto l'introduzione dell'azione di adempimento, ispirandosi dichiaratamente al sistema processuale tedesco.

Nel testo del Codice elaborato dal Consiglio di Stato, con effetti analoghi a quelli previsti nell'ordinamento germanico, era stata introdotta l'azione di adempimento, che si affiancava alle tradizionali azioni di annullamento e avverso il silenzio e completava il sistema processuale garantendo l'effettività della tutela.

L'azione di adempimento, che costituiva una specificazione dell'azione di condanna, poteva essere proposta contestualmente all'azione di annullamento (nel termine per essa previsto), mentre, nel caso di inerzia, doveva essere proposta entro i termini dell'azione per il silenzio.

La norma sull'azione di adempimento, predisposta dalla Commissione speciale presso il Consiglio di Stato, andava letta unitamente alla disposizione sulle sentenze di merito, che, tra i poteri del giudice, precisava che era possibile pronunciare sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio quando si trattava di attività vincolata o veniva accertato che non residuavano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non erano necessari adempimenti istruttori che dovevano essere compiuti dall'amministrazione.

Era, inoltre, esplicitato che gravava sulle parti l'onere di allegare in giudizio tutti gli elementi utili ai fini dell'accertamento della fondatezza della pretesa, in attuazione del principio generale di parità delle parti, attuativo dell' art. 111 Cost.

Il Governo ha espunto l'azione di adempimento, lasciandone però traccia in altre disposizioni.

In primo luogo, nella disciplina dell'azione avverso il silenzio (art. 31, comma 3), è stata confermata la (già vigente) possibilità per il g.a., di pronunciarsi sulla fondatezza della pretesa dedotta in un giudizio avverso il silenzio ed è stato previsto che il giudice possa pronunciare sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio solo quando si tratta di attività vincolata o quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall'amministrazione.

L'accertamento della fondatezza della pretesa non è, quindi, limitato all'attività vincolata, ma si estende ai casi in cui non residuano margini di discrezionalità per la P.A.

In realtà, la formula è stata ripresa dal Governo dalla (eliminata) norma sull'azione di adempimento, che riguardava sia i dinieghi che il silenzio.

Dall'art. 31, comma 3, non si poteva, tuttavia, trarre il principio secondo cui l'accertamento della pretesa è consentito solo nei ricorsi avverso il silenzio, e non in caso di domanda di annullamento, in quanto, già prima dell'entrata in vigore del Codice, la giurisprudenza era tesa ad accertare la fondatezza della pretesa anche in sede di annullamento, ove possibile in relazione ai motivi di ricorso proposti e ai margini di discrezionalità, che residuavano dopo la pronuncia in capo all'amministrazione.

Nella sostanza, il sistema previgente non era molto dissimile da quello tedesco e se ne differenziava per il fatto che nel nostro ordinamento per i provvedimenti denegati l'accertamento della fondatezza della pretesa, si concludeva con una decisione di annullamento dell'atto, la cui parte dispositiva andava letta unitamente alla parte motiva, in cui era precisato quale era l'obbligo conformativo dell'amministrazione. E in alcuni casi, tale obbligo consisteva proprio nel rilascio del provvedimento richiesto e negato.

La differenza tra ordinamento tedesco e italiano non risiedeva, quindi, nei maggiori poteri sostitutivi (di merito) del giudice, ma nel fatto che l'accertamento della pretesa, possibile in entrambi i casi in presenza di attività vincolata o di esaurimento — anche per effetto del giudizio — dei margini di discrezionalità della P.A. conduceva, nel sistema germanico, alla condanna all'emanazione di un determinato provvedimento e, in Italia, all'annullamento del diniego, cui poteva seguire l'obbligo conformativo di rilasciare il provvedimento richiesto, che se non eseguito apriva la strada al giudizio di ottemperanza e, quindi, ad una piena sostituzione del giudice alla P.A. con poteri anche di merito.

Il Codice non ha espressamente introdotto l'azione di adempimento, ma tale elemento non è sufficiente ad escludere che il giudice possa condannare l'amministrazione all'emanazione di un determinato provvedimento.

L'azione di adempimento era, peraltro, una specificazione dell'azione di condanna e la già descritta atipicità dell'azione di condanna consente che il giudice amministrativo possa condannare la P.A. «all'adozione delle misure idonee a tutelare la situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio» (art. 34, comma 1, lett, c), che – come già ricordato – con il correttivo introdotto dal d.lgs. n. 160/2012, è stato integrato con la precisazione che «L'azione di condanna al rilascio di un provvedimento richiesto è esercitata, nei limiti di cui all'articolo 31, comma 3, contestualmente all'azione di annullamento del provvedimento di diniego o all'azione avverso il silenzio».

Tale modifica ha colmato una lacuna e reso più coerente il sistema, in quanto difficilmente si sarebbe potuta spiegare l'ammissibilità di una sorta di azione di adempimento tipica, prevista nel rito del silenzio e la contraria soluzione in caso di diniego espresso, dove la condanna all'adozione di un determinato provvedimento potrebbe invece risultare più agevole per il giudice, potendo questi valutare l'istruttoria svolta dalla P.A.

È stato, quindi, definitivamente riconosciuta l'ammissibilità, in via generale, di un'azione di condanna pubblicistica (c.d. azione di esatto adempimento) tesa ad una pronuncia che, per le attività vincolate, costringa la P.A. ad adottare il provvedimento satisfattorio; Ciò è ricavabile dall'interpretazione del dato normativo in conformità ai principi costituzionali e comunitari in materia di pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale ( Cons. St.Ad. plen., n. 3/2011). Tale interpretazione è stata da ultimo cristallizzata, sul versante positivo, dalle modifiche apportate con il d.lgs. 14 settembre 2012 n. 160 al disposto dell'art. 34 comma 1 lett. c), mediante l'aggiunta di un ultimo periodo alla stregua del quale «l'azione di condanna al rilascio di un provvedimento richiesto è esercitata, nei limiti di cui all'art. 31 comma 3, contestualmente all'azione di annullamento del provvedimento di diniego o all'azione avverso il silenzio» (Cons. St. V, n. 6002/2012).

Il giudice amministrativo può, quindi, condannare la P.A. «all'adozione delle misure idonee a tutelare la situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio» e, tra esse, rientra anche la condanna all'adozione di un determinato provvedimento, come domanda aggiuntiva rispetto all'azione di annullamento.

In questo caso è rispettata la contestualità delle due azioni, richiesta dall'art. 30, comma 1 (e presente, del resto, anche nell'azione di adempimento ipotizzata dal Consiglio di Stato).

I limiti per tale richiesta di condanna si ricavano dalla disposizione sul silenzio (art. 31, comma 3 ora richiamata dall'art. 34, comma 1, lett. c), che non ha fatto altro che codificare un principio già applicato dal g.a. per procedere all'accertamento della pretesa in caso di azione di annullamento.

Del resto, il disallineamento formale tra le azioni disciplinate dal Codice e le categorie di pronunce di accoglimento di cui all'art. 34 non può condurre alla riduzione della tipologia delle misure adottabili dal giudice, in quanto non avrebbe senso prevedere poteri decisori del giudice molto estesi, ma non esercitabili per la assenza della facoltà di chiederne l'esercizio (Lipari).

È stato anche ritenuto che la domanda di conseguire l'aggiudicazione e il contratto di cui all'art. 124 costituisce una sorta di azione di adempimento (Lopilato, 2010) che sarebbe quindi già presente nello stesso Codice anche in una norma specifica, oltre che nella clausola generale dell'azione di condanna atipica.

Al riguardo, è stato precisato che in nessun caso il giudice amministrativo può pronunciare con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati (v. oltre) e tale regola vale anche quando il giudice, secondo quanto disposto dagli artt. 121 e 122 dello stesso, dichiara l'inefficacia del contratto, potendo in tal caso disporre il subentro del ricorrente solo quando l'accoglimento del ricorso non renda necessaria una ulteriore attività procedimentale dell'Amministrazione per la individuazione del nuovo aggiudicatario della gara (T.A.R. Sicilia IV, 8 settembre 2016 n. 2219).

A conferma delle precedenti considerazioni, già prima della modifica dell'art. 34, comma 1, lett. c), apportata dal d.lgs. n. 160/2012, la giurisprudenza ha condiviso la tesi dell'ammissibilità di una azione di condanna atipica, di contenuto simile a quello dell'azione di adempimento, propria dell'ordinamento tedesco. È stato affermato che è esercitatile, anche in presenza di un provvedimento espresso di rigetto e sempre che non vi osti la sussistenza di profili di discrezionalità amministrativa e tecnica, l'azione di condanna volta ad ottenere l'adozione dell'atto amministrativo richiesto. Ciò è desumibile dal combinato disposto dell'art. 30, comma 1, che fa riferimento all'azione di condanna senza una tipizzazione dei relativi contenuti (sull'atipicità di detta azione si sofferma la relazione governativa di accompagnamento al codice) e dell'art. 34, comma 1, lett. c), ove si stabilisce che la sentenza di condanna deve prescrivere l'adozione di misure idonee a tutelare la situazione soggettiva dedotta in giudizio. Cons. St.Ad. plen., n. 3/2011.

Orientamento confermato dalla Adunanza plenaria anche in materia di d.i.a. o s.c.i.a.: l'azione di annullamento proposta dal terzo può essere ritualmente accompagnata, ai fini del completamento della tutela, dall'esercizio di un'azione di condanna dell'amministrazione all'esercizio del potere inibitorio, alla stregua del combinato disposto dell'art. 30, comma 1, che fa riferimento all'azione di condanna senza la tipizzazione dei relativi contenuti (sull'atipicità di detta azione si sofferma la relazione governativa di accompagnamento al codice) e dell'art. 34, comma 1, lett. c), ove si stabilisce che la sentenza di condanna deve prescrivere l'adozione di misure idonee a tutelare la situazione soggettiva dedotta in giudizio. In materia di d.i.a. (o anche di s.c.i.a.), il terzo è legittimato all'esercizio, a completamento ed integrazione dell'azione di annullamento del silenzio significativo negativo, dell'azione di condanna pubblicistica (cd. azione di adempimento) tesa ad ottenere una pronuncia che imponga all'amministrazione l'adozione del negato provvedimento inibitorio ove non vi siano spazi per la regolarizzazione della denuncia ai sensi del comma 3 dell' art. 19 della l. n. 241/1990. Cons. St.Ad. plen., n. 15/2011.

In sostanza, il Codice ha introdotto, anche in presenza di un provvedimento espresso di rigetto e sempre che non vi osti la sussistenza di profili di discrezionalità amministrativa e tecnica, l'azione di condanna volta ad ottenere l'adozione dell'atto amministrativo richiesto. L'art. 34 comma 1, lett. c), nel precisare i contenuti della sentenza di condanna, prevede anche l'adozione «delle misure idonee a tutelare la situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio»; in base alla successiva lett. e) il giudice dispone «le misure idonee ad assicurare l'attuazione del giudicato». Le due previsioni prefigurano un potere di condanna senza restrizione di oggetto, modulabile a seconda del bisogno differenziato emerso in giudizio; ovvero, all'occorrenza, quale sbocco di una tutela restitutoria, ripristinatoria ovvero di adempimento pubblicistico coattivo. L'ammissibilità della condanna satisfattiva, sotto altro profilo, non è contraddetta dal divieto di pronuncia su poteri non ancora esercitati previsto dal comma 3 dell'art. 34, essendo quest'ultimo finalizzato ad evitare domande dirette ad orientare l'azione amministrativa futura, in cui, cioè, l'amministrazione non abbia ancora provveduto (T.A.R. Lombardia III, 8 giugno 2011 n. 1428).

Va precisato che l'accertamento della spettanza del provvedimento sarà possibile solo quando si tratta di attività vincolata o quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall'amministrazione.

L'anticipo delle misure esecutive in sede di giudizio di cognizione

Altra importante novità contenuta nell'art. 34 è l'introduzione della possibilità di anticipare la fase di esecuzione in sede di giudizio ordinario di cognizione, all'esito del quale il giudice può già disporre la nomina di un commissarioad acta con effetto dalla scadenza di un termine assegnato per l'ottemperanza.

Con questa previsione, si può saltare il passaggio del ricorso in ottemperanza, potendo il giudice già indicare nel dettaglio il contenuto dell'obbligo conformativo, che grava su una delle parti, assegnando un termine per ottemperare alla decisione, con contestuale nomina di un commissario, la cui efficacia è eventuale e subordinata al caso di mancata ottemperanza.

Nell'intento di garantire una maggiore effettività della tutela, la nuova disciplina del processo amministrativo all'art. 34, comma 1, lett «e», dispone che il g.a., allorché ritenga fondati uno o più motivi di ricorso, non debba limitarsi ad annullare l'atto impugnato ma possa contestualmente indicare alla P.A. le conseguenze che derivano dal giudicato, senza più dover attendere, a tal fine, la riedizione del potere. Tale facoltà, se raccordata con il principio della domanda comporta che il giudice amministrativo non possa dichiarare assorbiti uno o più motivi di ricorso qualora il loro accoglimento possa arricchire il contenuto del giudicato aggiungendo vincoli più specifici al riesercizio del potere amministrativo, poiché, in tal caso, la domanda di annullamento viene ad integrarsi con un distinto petitum sul quale il giudice ha l'obbligo di pronunciarsi. T.A.R. Lombardia (Milano) III, 13 maggio 2011, n. 1233.

Il limite dei poteri amministrativi non esercitati

L'art. 34 contiene anche dei limiti ai poteri del giudice: è stato escluso che il giudice possa pronunciare in relazione a poteri amministrativi ancora non esercitati e ciò al fine di evitare domande dirette ad orientare l'azione amministrativa pro futuro, con palese violazione del principio della divisione dei poteri.

È già stato ricordato che tale previsione era collocata nel testo predisposto dalla Commissione speciale istituita presso il Consiglio di Stato nell'articolo, che disciplinava la (ora eliminata) azione di accertamento e che, dovendo continuare a ritenere ammissibile l'azione di accertamento, il limite dei poteri non esercitati opera soprattutto in relazione a tale azione (v. il commento all'art. 31, comma 4).

Ai sensi dell'art. 34 comma 2, il giudice amministrativo in nessun caso può pronunciare con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati. T.A.R. Calabria (Catanzaro) II, 11 febbraio 2011, n. 208. Tale previsione è espressione del principio costituzionale fondamentale di separazione dei poteri e di riserva di amministrazione che, storicamente, nel disegno costituzionale, hanno giustificato e consolidato il sistema della giustizia amministrativa; poiché in tutte le situazioni di incompetenza, carenza di proposta o parere obbligatorio si versa nella situazione in cui il potere amministrativo non è stato ancora esercitato, in tali circostanze il giudice non può fare altro che rilevare, se assodato, il relativo vizio e assorbire tutte le altre censure, non potendo dettare le regole dell'azione amministrativa nei confronti di un organo che non ha ancora esercitato il suo munus (Cons. St. IV, n. 888/2016).

Il limite di pronunciare con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati pone una questione quando è proposto il vizio di incompetenza.

Secondo l'orientamento tradizionale il principio secondo cui la fondatezza della censura di incompetenza dell'autorità che ha emanato l'atto, da esaminarsi prioritariamente rispetto ad ogni altro motivo di ricorso, determina unicamente la rimessione dell'affare all'autorità indicata come competente ed impedisce l'esame delle altre doglianze (nello stesso senso dell'abrogato art. 26 l. n. 1034/1971 (l. T.A.R) è interpretabile il vigente art. 34 comma 2, per cui «In nessun caso il giudice può pronunciare con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati»), si fonda sulla circostanza per cui nel processo amministrativo «non è prevista alcuna forma di integrazione del contraddittorio nei confronti dell'organo amministrativo effettivamente competente», e quindi si spiega con l'esigenza di non vincolare al giudicato un soggetto che al processo non è stato in condizione di partecipare. Non sfugge allora che tale esigenza non sussiste nel caso in cui si fa questione della competenza di due organi, il dirigente e il Sindaco, pur sempre appartenenti ad un medesimo soggetto giuridico, ovvero al Comune, che nel processo è stato ritualmente evocato ed ha potuto esercitare appieno il proprio diritto di difesa con riguardo a tutte le censure dedotte (T.A.R. Lombardia (Brescia) II, 8 gennaio 2011, n. 10).

Secondo una lettura oggettiva, i poteri cui si riferisce l'art. 34, comma 2, sono quelli mai esercitati da alcuna autorità; secondo una opposta lettura, d'indole soggettiva, il riferimento è anche ai poteri non esercitati dall'autorità competente, ovvero quella chiamata a esplicare la propria volontà provvedimentale in base al micro ordinamento di settore.

La giurisprudenza ha ritenuto di preferire quest'ultima esegesi, più rispettosa del quadro sistematico e dei valori costituzionali che si correlano a tale norma: diversamente opinando, del resto, verrebbe leso il principio del contraddittorio rispetto all'autorità amministrativa competente nel senso dianzi precisato — sia essa appartenente al medesimo ente ovvero ad ente diverso ma comunque interessato alla materia — dato che la regola di condotta giudiziale si formerebbe senza che questa abbia partecipato, prima al procedimento, e poi al processo, in violazione di precise coordinate costituzionali: l' art. 97, comma 2 e 3 Cost., infatti, riserva alla legge l'ordinamento delle amministrazioni ed il riparto delle sfere di competenza ed attribuzione, impedendo all'autorità amministrativa di derogarvi a suo piacimento ( Cons. St.Ad. plen., n. 2/2015). L'art. 34, comma 2, cit., è espressione del principio costituzionale fondamentale di separazione dei poteri (e di riserva di amministrazione) che, storicamente, nel disegno costituzionale, hanno giustificato e consolidato il sistema della Giustizia amministrativa (sul valore del principio e la sua declinazione avuto riguardo al potere giurisdizionale in generale, ed a quello esercitato dal giudice amministrativo in particolare, cfr. da ultimo Corte cost. n. 85/2013, Corte cost. n. 40/2012; Cass.S.U., n. 2312/2012 e Cass.S.U., 2313/2012; Cons. St.Ad. plen., n. 9/2014 cit.; Cons. St.Ad. plen., n. 8/2014).

Tale principio fondamentale è declinato nel codice del processo amministrativo in svariate disposizioni che si ricompongono armonicamente a sistema: d) divieto assoluto del sindacato giurisdizionale sugli atti politici (art. 7, comma 1); e) divieto del giudice di sostituirsi agli apprezzamenti discrezionali amministrativi e tecnici dell'amministrazione ancorché marginali (art. 30, comma 3); f) tassatività ed eccezionalità dei casi di giurisdizione di merito (art. 134).

Pertanto, in tutte le situazioni di incompetenza, carenza di proposta o parere obbligatorio, si versa nella situazione in cui il potere amministrativo non è stato ancora esercitato, sicché il giudice non può fare altro che rilevare, se assodato, il relativo vizio e assorbire tutte le altre censure, non potendo dettare le regole dell'azione amministrativa nei confronti di un organo che non ha ancora esercitato il suo munus. A ben vedere, nel disegno del codice tale tipologia di vizi è talmente radicale e assorbente che non ammette di essere graduata dalla parte. A quest'ultima, se intende ottenere una pronuncia su tali peculiari modalità di (mancato) esercizio del potere amministrativo, si aprono perciò due strade: non sollevare la censura di incompetenza (e le altre assimilate), oppure sollevarla ma nella consapevolezza della impossibilità di graduarla. In sostanza, bisogna prendere atto che taluni vizi di legittimità esprimono una così radicale alterazione dell'esercizio della funzione pubblica che il codice ha imposto al giudice amministrativo di non ritenersi vincolato, a tutela della legalità dell'azione amministrativa e degli interessi pubblici sottostanti, dalla prospettazione del ricorrente e dalla eventuale graduazione dei motivi da quest'ultimo effettuata. Tale impostazione produce, inoltre, effetti deflattivi sul contenzioso perché dissuade il ricorrente dalla proposizione di impugnative di procedimenti attinti da una pletora di motivi sostanzialmente di facciata e lo stimola a concentrarsi solo sull'interesse sostanziale effettivamente perseguibile; si evitano, per tale via, gli eccessi di tutela spesso forieri di veri abusi del processo, il cui divieto assume, ormai, rilevanza costituzionale ex articolo 54 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea ( Cons. St., Ad. plen., n. 2/2015).

Alla formula per la quale la cognizione non poteva esaurire tutti i profili del potere amministrativo (stante la salvezza degli ulteriori atti dell'autorità amministrativa: artt. 45 r.d. n. 1054/1924 e art. 26 l. n. 1043/1971), il codice ha sostituito il ben diverso divieto di pronunciare su poteri amministrativi non ancora esercitati (art. 34, comma 2), volto soltanto ad impedire la tutela anticipata dell'interesse legittimo. T.A.R. Lombardia III, 8 giugno 2011, n. 1428.

L'accertamento dell'illegittimità dell'atto a fini risarcitori e il termine di decadenza

Altro limite è costituito dall'esigenza di evitare aggiramenti del termine decadenziale cui è assoggettata l'azione di annullamento: il giudice non può conoscere della legittimità degli atti che il ricorrente avrebbe dovuto impugnare con l'azione di annullamento.

Per tale limite sono richiamate due eccezioni:

a) l'art. 30, comma 3, che, nel disciplinare l'azione autonoma di risarcimento, presuppone, in caso di danni da provvedimento, un accertamento della illegittimità di un atto, che può non essere stato impugnato (v. il commento all'art. 30);

b) la previsione del comma 3 dello stesso art. 34, che stabilisce che, quando, nel corso del giudizio, l'annullamento del provvedimento impugnato non risulta più utile per il ricorrente, il giudice accerta l'illegittimità dell'atto se sussiste l'interesse ai fini risarcitori.

In tal modo, si consente che una azione di annullamento, che ha perso l'interesse alla decisione, possa essere nella sostanza convertita in una azione di accertamento della illegittimità dell'atto, da far valere in un (anche successivo) giudizio di risarcimento.

Non è invece consentito proporre una azione di accertamento al fine di aggirare la decadenza dal termine per impugnare gli atti amministrativi e ottenere gli stessi effetti dell'annullamento.

Ad esempio, la pretesa del dipendente pubblico all'inquadramento in una qualifica superiore ha natura di interesse legittimo, e non di diritto soggettivo, e non può quindi essere tutelata in giudizio con un'azione di accertamento, ma solo con un'azione di impugnazione dei provvedimenti amministrativi che abbiano disposto il censurato inquadramento (Cons. St. III, n. 4922/2016).

Nei casi in cui l'atto lesivo ha ormai esaurito i propri effetti, può spesso risultare inutile l'annullamento del provvedimento, pur conservando il ricorrente l'interesse all'accertamento della illegittimità dell'atto.

In passato, in questi casi il giudice amministrativo ha a volte dichiarato improcedibile il ricorso per l'annullamento, costringendo il tal modo il privato e reiniziare una controversia risarcitoria, ripartendo dall'accertamento dell'illegittimità del provvedimento (anche quando lo stato del precedente giudizio di annullamento era in fase avanzata o addirittura in appello).

Anche a seguito del superamento della pregiudiziale, proprio per evitare rallentamenti nella tutela e per rendere quest'ultima maggiormente effettiva, è stato prevista la possibilità di procedere comunque all'accertamento della illegittimità; peraltro, si ricorda che, in base all'art. 30, comma 5, quando è stata proposta azione di annullamento la domanda risarcitoria può essere formulata anche sino a centoventi giorni dal passaggio in giudicato della relativa sentenza, che può essere appunto anche di solo accertamento della illegittimità dell'atto lesivo.

Ai sensi degli artt. 34 comma 3 e 124 e in conformità ai principi che regolano l'interesse a ricorrere, non è ammissibile una pronuncia di mero accertamento dell'illegittimità di un provvedimento amministrativo che non risulti utile ai fini del conseguimento della tutela specifica e della tutela per equivalente. Cons. St. V, n. 203/2011. L'interesse all'accertamento dell'illegittimità dell'atto, quale condizione dell'azione, deve essere valutato in astratto e prescinde dalla fondatezza della domanda cui si correla, ossia, nel caso di specie, dalla fondatezza della pretesa risarcitoria azionabile in separato giudizio. La situazione processuale in questione trova puntuale riscontro nell'art. 34 comma 3 ove si prevede che «quando, nel corso del giudizio, l'annullamento del provvedimento impugnato non risulta più utile per il ricorrente, il giudice accerta l'illegittimità dell'atto se sussiste l'interesse ai fini risarcitori». Ne deriva che la sopravvenuta carenza di interesse alla decisione della domanda costitutiva di annullamento dell'atto, non priva il ricorrente dell'interesse alla decisione della domanda di accertamento dell'illegittimità del provvedimento. T.A.R. Lombardia (Milano) III, 4 febbraio 2011, n. 353.

Alla stregua dell'art. 34 comma 3, l'indagine del giudice sull'interesse in ordine ai profili risarcitori non deve essere effettuata in astratto (essendo un interesse di tal fatta — per definizione — sempre sussistente), quanto invece in concreto, ovvero tenendo presente le allegazioni sul punto fatte dalla parte interessata, alla luce della possibilità accordatale dall'ordinamento di formulare una nuova domanda risarcitoria entro il termine di 120 giorni dal passaggio in giudicato della sentenza che abbia pronunciato sui profili impugnatori. T.A.R. Campania (Napoli) VII, n. 22277/2010.

L'art. 34, comma 3, non può essere interpretato nel senso che, in seguito ad una semplice generica indicazione della parte, il giudice debba verificare la sussistenza di un interesse a fini risarcitori, anche perché, sul piano sistematico, diversamente opinando, perderebbe di senso il principio dell'autonomia dell'azione risarcitoria enucleato dall'art. 30 c.p.a. e verrebbe svalutato anche il principio dispositivo che informa anche il giudizio amministrativo e precludente la mutabilità ex officio del giudizio di annullamento, una volta azionato (Cons. St. III, n. 1059/2021).

Al riguardo, sono state rimesse alla Adunanza plenaria le seguenti questioni:

a) se - per procedersi all'accertamento dell'illegittimità dell'atto ai sensi dell'art. 34, comma 3, c.p.a., quando la domanda d'annullamento sia diventata improcedibile - sia sufficiente formulare un'istanza generica ed espressiva dell'interesse a un accertamento strumentale alla pretesa risarcitoria anche futura (e, in caso di risposta affermativa, se occorrano particolari modalità e se vi siano termini per la sua proposizione) oppure se occorra l'allegazione dei presupposti per la sua successiva proposizione (e, in caso di risposta affermativa, quali siano le modalità ed i termini per tale allegazione) oppure se sia necessaria la proposizione della domanda di risarcimento del danno, nell'ambito del medesimo giudizio nel quale si prospetta la possibile improcedibilità per sopravvenuta carenza d'interesse della domanda di annullamento o, in alternativa, in un autonomo giudizio (e, in caso di risposta affermativa, secondo quali modalità deve avvenire la formulazione di tale domanda);

b) qualora si ritenga che, ai fini dell'accertamento di illegittimità ai sensi dell'art. 34, comma 3, c.p.a., sia sufficiente la sola allegazione degli elementi costitutivi della domanda risarcitoria, se il giudice investito di questa domanda di accertamento possa comunque pronunciarsi su una questione ‘assorbente' e dunque su ogni profilo costitutivo della fattispecie risarcitoria, in quanto – anche in assenza della formulazione della domanda risarcitoria – comunque la riscontrata infondatezza di uno degli elementi costitutivi dell'illecito è correlata alla concreta insussistenza dell'interesse espressamente richiesto per la declaratoria di cui all'art. 34, comma 3, c.p.a. (Cons. St. IV, ord. n. 945/2022)

Ai sensi dell'art. 34, comma 3, si deve ritenere attualmente ammissibile, in presenza dei presupposti di legge, una conversione dell'azione di annullamento in azione di accertamento, poiché l'accertamento dell'illegittimità dell'atto impugnato è contenuto nel «petitum» di annullamento come un antecedente necessario. Cons. St. IV, n. 6703/2012.

Non è necessaria una specifica istanza dell'interessato affinché il G.A. accerti la sola illegittimità dell'atto in presenza di una azione di annullamento. L'accertamento dell'illegittimità dell'atto impugnato è contenuto nel petitum di annullamento come un presupposto necessario. Siccome il più contiene il meno, il giudice limita la sua pronuncia ad un contenuto di accertamento in seguito ad una valutazione dell'interesse a ricorrere, quindi da compiere d'ufficio: in quanto manca l'interesse all'annullamento ma sussiste l'interesse all'accertamento ai fini risarcitori. Cons. St. V, n. 2817/2011. Ai fini dell'applicazione dell'art. 34, comma 3, non occorre che il ricorrente abbia già formulato domanda risarcitoria, potendo questa essere solo annunciata e proposta in un successivo giudizio (Cons. St. VI, n. 4281/2015); è sufficiente che il ricorrente manifesti una tale intenzione in qualunque fase del processo, anche in appello (Cons. St. V, n. 3939/2014).

Per una concreta applicazione del principio, v. Cons. St. VI, n. 4281/2015, secondo cui non è possibile affermare che ogni qualvolta si verifichi, nelle more del giudizio, il collocamento a quiescenza del candidato ricorrente, il ricorso da questi proposto contro gli atti della procedura concorsuali diventi sempre necessariamente improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse. È ben possibile al contrario che, nonostante il collocamento a riposo, e quindi l'impossibilità di conseguire in forma specifica il bene della vita perseguito con l'originaria domanda (la nomina per il posto messo a concorso), il ricorrente conservi, comunque, interesse a far accertare l'illegittimità degli atti impugnati per ottenere nello stesso o in separato giudizio (che si riserva di azionare) la tutela risarcitoria per equivalente. In tali casi l'esercizio della giurisdizione per verificare la legittimità degli atti impugnati è non solo consentito, ma persino doveroso, essendo questo il senso della previsione contenuto nell'art. 34, comma 3.

È tuttavia necessario che l'annullamento chiesto dal ricorrente non possa più arrecare alcuna utilità, non potendo altrimenti il giudice scegliere la tutela risarcitoria previo accertamento dell'illegittimità in sostituzione di quella risarcitoria.

Solamente quando la domanda di annullamento, con il suo effetto tipico di eliminazione dell'atto impugnato dal mondo giuridico non dovesse soddisfare l'interesse del ricorrente e anzi dovesse lederlo (in realtà l'ordinanza di rimessione riconosce che non si verte in tale ipotesi), la pronuncia del giudice non potrebbe che essere di accertamento, ma nell'altro senso, cioè della sopravvenuta carenza di interesse del ricorrente che aveva proposto domanda di annullamento. Non è però consentito al giudice, in presenza della acclarata, obiettiva esistenza dell'interesse all'annullamento richiesto, derogare, sulla base di invocate ragioni di opportunità, giustizia, equità, proporzionalità, al principio della domanda (si tratterebbe di una omessa pronuncia, di una violazione della domanda previsto dall' art. 99 c.p.c. e del principio della corrispondenza previsto dall' art. 112 c.p.c. tra chiesto e pronunciato secondo cui «il giudice deve pronunciare su tutta la domanda e non oltre i limiti di essa», applicabili ai sensi del rinvio esterno di cui all'art. 39 anche al processo amministrativo) e trasformarne il petitum o la causa petendi, incorrendo altrimenti nel vizio di extrapetizione. Non può neppure valere il richiamo al c.d. principio di continenza, in quanto, se è vero che l'accertamento è compreso nell'annullamento (il più comprende il meno), l'accertamento a fini risarcitori è qualcosa di diverso dalla domanda di annullamento ( Cons. St., Ad. plen ., n. 2/2015).

Condanna pecuniaria e indicazione dei soli criteri da parte del giudice

L'attribuzione al giudice amministrativo della cognizione delle domande risarcitorie nel periodo 1998/2000 è stata accompagnata dall'introduzione di alcune novità, tra le quali il meccanismo previsto dall' art. 35, comma 2, del d.lgs. n. 80/1998.

In base a tale disposizione, il giudice amministrativo ha a disposizione, nel caso in cui non addivenga all'esatta determinazione del danno, una peculiare tecnica processuale: può «stabilire i criteri in base ai quali l'amministrazione pubblica o il gestore del pubblico servizio devono proporre a favore dell'avente titolo il pagamento di una somma entro un congruo termine». In caso di mancato accordo, il danneggiato può ricorrere al giudice affinché determini, nelle forme del giudizio di ottemperanza, la somma dovuta a titolo di risarcimento.

Si tratta di uno strumento che non è utilizzabile per determinare l'an del risarcimento, ma a cui può farsi ricorso solo nella fase successiva della liquidazione del danno, in quanto l'accertamento dell'inadempimento dell'amministrazione e dell'esistenza di un danno è un compito del giudice (Cons. St. V, n. 353/2001).

In sostanza, l' art. 35 d.lgs. n.80/1998 non comporta la traslazione in sede di ottemperanza di tutto il giudizio risarcitorio, ma solo della parte che concerne la determinazione del quantum, restando l'accertamento dell'an debeatur e la definizione dei criteri del risarcimento attratti nella giurisdizione di cognizione (Cons. St. IV, n. 396/2001).

La giurisprudenza ha chiarito che questo istituto non deve essere confuso con la condanna generica ai sensi dell' art. 278 c.p.c., che anzi è stata ritenuta inammissibile nel processo amministrativo ( Cons. St.Ad. plen., n. 5/2009).

Come si evince dalla lettera della legge, quella di determinare i criteri in base ai quali l'amministrazione deve proporre al danneggiato il pagamento di una somma ai sensi dell' art. 35, comma 2 del d.lgs. n. 80/1998, è una facoltà, e non un obbligo per il giudice amministrativo.

In ordine alla natura dell'accordo concluso tra le parti, sembra che allo stesso non possa attribuirsi valore di titolo esecutivo, con la conseguenza che, in caso di inadempimento da parte dell'amministrazione, al privato resta preclusa la possibilità di ottenere la soddisfazione del suo credito con gli strumenti propri del procedimento di esecuzione forzata.

Il richiamo al giudizio di ottemperanza si riferisce solo alle forme del procedimento e non anche al suo contenuto ed ai suoi presupposti, considerato che lo strumento in questione più che servire a garantire l'attuazione di una pronuncia ineseguita, risulta piuttosto preordinato alla diversa finalità di assicurare l'integrazione della stessa, nella parte, relativa alla quantificazione della soma dovuta, rimasta incompleta. Lo strumento differisce dalla condanna generica ex art. 278 c.p.c., in cui il giudice si limita ad accertare in astratto l'esistenza del pregiudizio, mentre ai sensi dell' art. 35 d.lgs. n. 80/1998 la statuizione si estende fino alla definizione dei criteri di liquidazione del danno.

Il citato art. 35 introduce una forma di ottemperanza «anomala», per il caso di mancato raggiungimento dell'accordo; del giudizio di ottemperanza tale procedura condivide non solo la ratio e lo spirito, ma anche la forma, dovendo quindi la parte vittoriosa della cognizione porre in essere, a pena di inammissibilità del ricorso, gli adempimenti prodromici al giudizio di ottemperanza, quali l'intimazione all'amministrazione di provvedere nei trenta giorni, prevista dall' art. 90 r.d. 17 agosto 1907 n.642, e, in caso di omissione di statuizione o di statuizione insoddisfacente, la domanda al giudice con ricorso notificato (Cons. St. V, n. 126/2004).

L'istituto previsto dall'art. 35, comma 2, del d.lgs. n. 89/1998 ha avuto un notevole utilizzo nel processo amministrativo, consentendo di «alleggerire» il giudizio da accertamenti e adempimenti di non particolare complessità, che possono facilmente essere svolti dalle parti sulla base dei criteri indicati dal giudice.

È necessario che il giudice non indichi criteri generici, ma sufficientemente determinati, al fine di evitare che la semplificazione iniziale si risolva in una successiva complicazione a seguito dell'instaurazione di un nuovo giudizio, da proporre nelle forme dell'ottemperanza.

Il Codice ha non solo confermato tale istituto, ma lo ha esteso ad ogni tipo di condanna pecuniaria, prevedendo che la fissazione dei criteri possa avvenire da parte del giudice «in mancanza di opposizione delle parti» (art. 34, comma 4).

 Ed infatti, la giurisprudenza ne ha ammesso l’utilizzo anche in caso di domanda diretta ad ottenere l’indennizzo ai sensi dell’art. 21 quinquies della l. n. 241 del 1990 in caso di revoca di atto amministrativo (Cons. giust. amm. Sicilia, n.479/2017, che ha ordinato al ricorrente di presentare all’amministrazione una nota delle spese e dei costi affrontati ed all’amministrazione di formulare, previa verifica della documentazione pervenutale, una “proposta indennitaria” per i titoli precedentemente indicati; spese di partecipazione alla gara, spese progettuali e spese per eventuali oneri connessi alla fase precontrattuale).

In precedenza, la tesi che riconosceva il carattere libero ed ufficioso al potere del giudice di valersi di tale modulo operativo (nel senso che lo stesso può essere usato anche in mancanza di una specifica istanza o quando la parte ha domandato la quantificazione esatta dell'importo dovuto e può non essere usato, con liquidazione diretta del danno, nel caso in cui sia stata, invece, richiesta la fissazione dei criteri ai sensi dell' art. 35, comma 2 d.lgs. n.80/1998), è stata criticata in quanto insanabilmente confliggente con le esigenze di conformità tra chiesto e pronunciato postulate dal principio della domanda consacrato nell' art. 112 c.p.c. Non si ravvisano, viceversa, ostacoli alla pronuncia di una condanna c.d. mista, che contempli, cioè, la liquidazione del danno per la parte agevolmente accertabile (ad es. quella relativa al danno emergente) e che riservi all'accordo delle parti la determinazione delle voci più difficilmente quantificabili (presuntivamente relative al lucro cessante).

La soluzione accolta dal Codice è stata quella di consentire alle parti di opporsi espressamente alla fissazione dei soli criteri di quantificazione di una condanna pecuniaria e, in questo caso, al giudice è precluso l'utilizzo di questo strumento e deve necessariamente esaminare nel giudizio di cognizione ogni profilo della condanna pecuniaria.

Il meccanismo, esteso ad ogni condanna pecuniaria, resta quello delineato dall' art. 35, comma 2, d.lgs. n. 80/1998: il giudice può limitarsi a stabilire i criteri in base ai quali il debitore deve proporre a favore del creditore il pagamento di una somma entro un congruo termine e se le parti non giungono ad un accordo, ovvero non adempiono agli obblighi derivanti dall'accordo concluso, si può agire con un ricorso in ottemperanza per chiedere la determinazione della somma dovuta ovvero l'adempimento degli obblighi ineseguiti.

Con il riferimento non solo alla mancata conclusione dell'accordo, ma anche all'inadempimento rispetto all'accordo raggiunto, si colma una lacuna della precedente disposizione, anche se si riteneva pacifico che le preminenti esigenze di garantire l'effettività della tutela e di evitare gravi lacune nel sistema processuale amministrativo imponevano di giudicare esperibile il rimedio del ricorso per ottemperanza, in via analogica, anche per l'ipotesi in cui l'accordo sia stato concluso ma l'amministrazione sia rimasta inadempiente all'obbligazione ivi assunta.

Va ricordato che l'istituto in commento non introduce alcuna deroga agli ordinari principi in materia di onere probatorio, che continua a gravare sulla parte che chiede la condanna al risarcimento del danno o ad altro pagamento.

L'assorbimento e la graduazione dei motivi di ricorso

Una prassi diffusa nella giurisprudenza amministrativa è quella dell'assorbimento dei motivi di ricorso: in caso di accoglimento del ricorso, il giudice può disporre l'assorbimento di alcuni motivi, che non vengono esaminati perché l'atto impugnato viene annullato per altri vizi.

Già prima dell'entrata in vigore del Codice, in relazione alla prassi dell'assorbimento dei motivi, la giurisprudenza aveva precisato che l'ordine del giudice di esaminare le censure non può prescindere dal principio dispositivo, che regola anche il processo amministrativo e comporta la necessità di esaminare prima quelle censure, da cui deriva un effetto pienamente satisfattivo della pretesa del ricorrente. Quale sia l'ordine di esame dei motivi, il giudice è tenuto a proseguire tale esame finché è certo che dall'accoglimento di un ulteriore motivo non deriva più alcuna utilità al ricorrente; la prassi del giudice amministrativo di assorbire alcuni motivi del ricorso, che già in precedenza poteva condurre a risultati errati, deve essere del tutto riconsiderata ora che è ammesso il risarcimento del danno derivante dall'esercizio illegittimo dell'attività amministrativa, in quanto, per assorbire un motivo, deve essere evidente che dall'eventuale accoglimento della censura assorbita non possa derivare alcun vantaggio al ricorrente, neanche sotto il profilo risarcitorio (Cons. St. VI, n. 213/2008, in cui è stato affermato che in presenza di un motivo diretto ad escludere il primo classificato di una gara di appalto e di altro motivo tendente ad una rinnovazione (parziale o totale) delle operazioni di gara, solo l'accoglimento della prima censura, che deve quindi essere esaminata per prima, soddisfa l'interesse della seconda classificata ad ottenere l'aggiudicazione dell'appalto).

La Commissione speciale istituita presso il Consiglio di Stato aveva proposto di codificare tale limitazione all'assorbimento dei motivi di ricorso, formulando un comma dell'attuale art. 34, che prevedeva che quando accoglie il ricorso, il giudice deve comunque esaminare tutti i motivi, ad eccezione di quelli dal cui esame non possa con evidenza derivare alcuna ulteriore utilità al ricorrente.

Anche qui la ratio della proposta era quella di mirare all'effettività della tutela, limitando la prassi dell'assorbimento dei motivi di ricorso di cui a volte il giudice amministrativo aveva abusato.

Il comma è stato eliminato e nella relazione del Governo viene precisato che, disattendendo un'osservazione della Commissione Giustizia della Camera, non è stato espressamente sancito il dovere del giudice di non dichiarare l'assorbimento dei motivi nel caso in cui sussista un apprezzabile interesse della parte, ciò essendo insito nel sistema.

Il ragionamento non convince: ben venga il riconoscimento che la limitazione all'assorbimento dei motivi di ricorso è insita nel sistema, ma la codificazione di alcune regole serve proprio a rendere chiaro e evidente ciò che si può ricavare dal sistema e questo è utile soprattutto quando, in relazione a determinati principi, vigono prassi di segno contrario, come è appunto per l'assorbimento dei motivi di ricorso (prassi criticata dalla stessa giurisprudenza del Consiglio di Stato appena richiamata).

L'annullamento del provvedimento per un vizio primario, quale è quello della incompetenza, esaurisce l'oggetto stesso del giudizio e rende obbligatorio l'assorbimento delle eventuali censure sostanziali, sempre che le stesse siano rivolte contro il medesimo provvedimento e non si estendano anche al rapporto tra motivi di impugnazione riferiti ad atti diversi, ancorché legati da un nesso di presupposizione o comunque connessi (Cons. St. IV, n. 4214/2001, Cons. St. V, n. 1253/2001). La tecnica dell'assorbimento dei motivi consiste in una non pronuncia sul rilievo che la deduzione considerata assorbente assume, nel contesto decisionale, una valenza del tutto prioritaria e tale da impedire una disamina delle altre censure, ciò comporta che i motivi non esaminati per assorbimento non sono stati ritenuti infondati ( Cons.St. IV, n. 1397/2001; Cons. St. IV, n. 1075/1981, Cons. St., Ad. plen., n. 52/1980).

L'erronea dichiarazione di assorbimento dei motivi è un errore di procedura, che non comporta la rimessione al I grado, ma la ritenzione della causa da parte del giudice di appello. Cons. St. IV, n. 310/1996.

La questione dell'assorbimento dei motivi di ricorso è legata anche a quella della possibilità di graduare i motivi da parte del ricorrente.

Nei processi connotati da parità delle parti e principio dispositivo, come quello amministrativo, l'ordine dei motivi vincola il giudice, laddove nei processi connotati da un primato assoluto dell'interesse pubblico l'ordine dei motivi non è vincolante per il giudice: nei giudizi di costituzionalità.

Ad esempio, secondo il costante insegnamento della Corte costituzionale, a fronte del denunciato contrasto delle norme impugnate con uno o più parametri costituzionali, rientra nella discrezionalità della Corte la scelta dell'ordine di esame dei differenti parametri, e, inoltre, dichiarata l'incostituzionalità della norma alla luce di un determinato parametro, la Corte può dichiarare assorbiti gli altri, per difetto di rilevanza, e per ragioni di economia processuale (cfr. fra le tante Corte cost. n. 262/2009).

Risulta, pertanto, definitivamente superato il tradizionale e più risalente orientamento giurisprudenziale — maggiormente preoccupato di assicurare una coerente tutela all'interesse pubblico, sembrando incoerente e paradossale che il ricorrente vittorioso consegua il bene della vita finale sulla scorta di una procedura viziata molto spesso ab imis — secondo cui spetta sempre e comunque al giudice amministrativo individuare l'ordine di esame dei motivi dedotti dal ricorrente, sulla base della loro consistenza oggettiva, e del rapporto fra gli stessi esistente sul piano logico giuridico, non alterabile dalla mera richiesta della parte.

La graduazione dei vizi — motivi, consistendo in una eccezione all'obbligo del giudice di esaminare tendenzialmente tutti i vizi di legittimità costitutivi del thema decidendum (siano essi articolati in un'unica o in più domande di annullamento proposte in via principale o incidentale), e trovando fondamento nella disponibilità degli interessi dei soggetti che agiscono in giudizio, richiede una puntuale ed esplicita esternazione da parte di questi ultimi; tanto, sia per ragioni di certezza dei rapporti processuali, che per evitare che sia il giudice a sostituirsi alle parti nella ricerca, per ciò solo arbitraria, della maggiore satisfattività dell'interesse concreto perseguito da queste ultime. In tale contesto, non può considerarsi menomato il principio di pienezza ed effettività della tutela sancito dal codice del processo amministrativo (art. 1), in quanto lo sforzo collaborativo richiesto alle parti ha un contenuto minimo, è di pronta esecuzione ed è coerente con l'obbligo di queste ultime di cooperare con il giudice per la realizzazione del giusto processo ( Cons. St.Ad. plen. n. 2/2015, secondo cui come detto in precedenza non può essere oggetto di graduazione il vizio di incompetenza, che – se proposto – va esaminato per primo dal giudice).

In questa prospettiva risulta confermata la consolidata giurisprudenza del Consiglio di Stato che ha sempre richiesto, ai fini della rituale ed effettiva subordinazione dei motivi (ovvero delle domande di annullamento), che questa sia espressa e non desumibile implicitamente dalla semplice enumerazione delle censure o dal mero ordine di prospettazione delle stesse (cfr. da ultimo Cons.St. V, n. 1662/2014; Cons. giust. amm., 7 marzo 2014, n. 98; Cons. St III, n. 2837/2013).

La cessazione della materia del contendere

Il Codice contiene l'esplicita inclusione della cessazione della materia del contendere tra le sentenze di merito: l'ultimo comma dell'art. 34 dispone, infatti, che qualora nel corso del giudizio la pretesa del ricorrente risulti pienamente soddisfatta, il giudice dichiara cessata la materia del contendere.

Come sostenuto dalla dottrina (Caianiello), si tratta non di una pronuncia di rito, ma di un accertamento (di merito) dell'avvenuta soddisfazione della pretesa azionata, che differisce dalle sentenze di rito e, in particolare, dalla declaratoria di improcedibilità per cessazione della materia del contendere.

Nel processo amministrativo, ai sensi dell'art. 34 comma 4, la cessazione della materia del contendere può essere dichiarata solo nel caso in cui la pretesa del ricorrente risulti pienamente soddisfatta potendosi, nel caso in cui il ricorrente ha comunque dimostrato di ritenere soddisfatta la propria posizione giuridico-soggettiva (sia pure entro ambiti ridotti rispetto all'originaria pretesa) e, dunque, non più utile alla sua salvaguardia la decisione nel merito della controversia, dichiarare l'improcedibilità del ricorso per sopravvenuta carenza d'interesse (Cons. St., IV, n. 2317/2015).

Per la distinzione tra la declaratoria della cessazione della materia del contendere e l'improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse, vedi Cons. St. IV, n. 4165/2005 (v. anche il commento all'art. 35). L'istituto della improcedibilità del ricorso per sopravvenuta carenza di interesse va distinto dalla cessazione della materia del contendere per la diversa soddisfazione dell'interesse leso, dato che la sopravvenuta carenza di interesse opera solo quando il nuovo provvedimento non soddisfa integralmente il ricorrente, determinando una nuova valutazione dell'assetto del rapporto tra la pubblica amministrazione e l'amministrato; al contrario, la cessazione della materia del contendere si determina quando l'operato successivo della parte pubblica si rivela integralmente satisfattivo dell'interesse azionato. Inoltre, proprio perché la valutazione dell'interesse alla prosecuzione dell'azione spetta unicamente al ricorrente, la sua carenza può essere conseguenza anche di una valutazione esclusiva dello stesso soggetto, in relazione a sopravvenienze anche indipendenti dal comportamento della controparte. Cons. St. IV, n. 9292/2009. Ai sensi dell' art. 23, comma ultimo, l. 6 dicembre 1971, n. 1034, la cessazione della materia del contendere si determina solo quando è intervenuta, prima della definizione del processo, una nuova statuizione da parte della P.A. convenuta, tale da soddisfare integralmente l'interesse giuridicamente protetto azionato, cioè un atto nuovo a contenuto definitivamente realizzativo di un risultato non inferiore per il ricorrente a quello ritraibile dal giudicato. Cons. St. IV, n. 4165/2005; Cons. St. IV, n. 5896/2001.

Bibliografia

Clarich, L'azione di adempimento del sistema di giustizia amministrativa in Germania: linee ricostruttive e orientamento giurisprudenziale, in Dir. proc. amm. 1985, 60; Falcon-C. Fraenkl (a cura di), Ordinamento processuale amministrativo tedesco (VwGO), Trento, 2000; Lipari, L'effettività della decisione tra cognizione e ottemperanza, cit.; Lopilato, Categorie contrattuali, contratti pubblici e i nuovi rimedi previsti dal decreto legislativo n. 53 del 2010 di attuazione della direttiva ricorsi, in giustamm.it, giugno 2010; Masucci, La legge tedesca sul processo amministrativo, Milano, 1991.

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