Legge - 19/10/2017 - n. 155 art. 2 - Principi generaliPrincipi generali
1. Nell'esercizio della delega di cui all'articolo 1 il Governo provvede a riformare in modo organico la disciplina delle procedure concorsuali attenendosi ai seguenti principi generali: a) sostituire il termine «fallimento» e i suoi derivati con l'espressione «liquidazione giudiziale», adeguando dal punto di vista lessicale anche le relative disposizioni penali, ferma restando la continuità delle fattispecie criminose; b) eliminare l'ipotesi della dichiarazione di fallimento d'ufficio, di cui all'articolo 3, comma 1, del decreto legislativo 8 luglio 1999, n. 270; c) introdurre una definizione dello stato di crisi, intesa come probabilità di futura insolvenza, anche tenendo conto delle elaborazioni della scienza aziendalistica, mantenendo l'attuale nozione di insolvenza di cui all'articolo 5 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267; d) adottare un unico modello processuale per l'accertamento dello stato di crisi o di insolvenza del debitore, in conformità all'articolo 15 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, e con caratteristiche di particolare celerità, anche in fase di reclamo, prevedendo la legittimazione ad agire dei soggetti con funzioni di controllo e di vigilanza sull'impresa, ammettendo l'iniziativa del pubblico ministero in ogni caso in cui egli abbia notizia dell'esistenza di uno stato di insolvenza, specificando la disciplina delle misure cautelari, con attribuzione della relativa competenza anche alla Corte di appello, e armonizzando il regime delle impugnazioni, con particolare riguardo all'efficacia delle pronunce rese avverso i provvedimenti di apertura della procedura di liquidazione giudiziale ovvero di omologazione del concordato; e) assoggettare al procedimento di accertamento dello stato di crisi o di insolvenza ogni categoria di debitore, sia esso persona fisica o giuridica, ente collettivo, consumatore, professionista o imprenditore esercente un'attività commerciale, agricola o artigianale, con esclusione dei soli enti pubblici, disciplinando distintamente i diversi esiti possibili, con riguardo all'apertura di procedure di regolazione concordata o coattiva, conservativa o liquidatoria, tenendo conto delle relative peculiarità soggettive e oggettive e in particolare assimilando il trattamento dell'imprenditore che dimostri di rivestire un profilo dimensionale inferiore a parametri predeterminati, ai sensi dell'articolo 1 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, a quello riservato a debitori civili, professionisti e consumatori, di cui all'articolo 9 della presente legge; f) recepire, ai fini della disciplina della competenza territoriale, la nozione di «centro degli interessi principali del debitore» definita dall'ordinamento dell'Unione europea; g) dare priorità di trattazione, fatti salvi i casi di abuso, alle proposte che comportino il superamento della crisi assicurando la continuità aziendale, anche tramite un diverso imprenditore, purché funzionali al miglior soddisfacimento dei creditori e purché la valutazione di convenienza sia illustrata nel piano, riservando la liquidazione giudiziale ai casi nei quali non sia proposta un'idonea soluzione alternativa; h) uniformare e semplificare, in raccordo con le disposizioni sul processo civile telematico, la disciplina dei diversi riti speciali previsti dalle disposizioni in materia concorsuale; i) prevedere che la notificazione nei confronti del debitore, che sia un professionista o un imprenditore, degli atti delle procedure concorsuali e, in particolare, dell'atto che dà inizio al procedimento di accertamento dello stato di crisi abbia luogo obbligatoriamente all'indirizzo del servizio elettronico di recapito certificato qualificato o di posta elettronica certificata del debitore risultante dal registro delle imprese ovvero dall'indice nazionale degli indirizzi di posta elettronica certificata (INI-PEC) delle imprese e dei professionisti; prevedere una procedura telematica alternativa, quando la notificazione a mezzo di posta elettronica certificata, per causa imputabile al destinatario, non è possibile o non ha esito positivo, individuando le modalità e i termini di accesso agli atti ai fini del perfezionamento della notificazione senza altra formalità; prevedere che, al fine di consentire che le notificazioni abbiano luogo con modalità telematiche, l'imprenditore sia tenuto a mantenere attivo l'indirizzo del servizio elettronico di recapito certificato qualificato o di posta elettronica certificata comunicato all'INI-PEC per un anno decorrente dalla data della cancellazione dal registro delle imprese; l) ridurre la durata e i costi delle procedure concorsuali, anche attraverso misure di responsabilizzazione degli organi di gestione e di contenimento delle ipotesi di prededuzione, con riguardo altresì ai compensi dei professionisti, al fine di evitare che il pagamento dei crediti prededucibili assorba in misura rilevante l'attivo delle procedure; m) riformulare le disposizioni che hanno originato contrasti interpretativi, al fine di favorirne il superamento, in coerenza con i principi stabiliti dalla presente legge; n) assicurare la specializzazione dei giudici addetti alla materia concorsuale, con adeguamento degli organici degli uffici giudiziari la cui competenza risulti ampliata: 1) attribuendo ai tribunali sede delle sezioni specializzate in materia di impresa la competenza sulle procedure concorsuali e sulle cause che da esse derivano, relative alle imprese in amministrazione straordinaria e ai gruppi di imprese di rilevante dimensione; 2) mantenendo invariati i vigenti criteri di attribuzione della competenza per le procedure di crisi o insolvenza del consumatore, del professionista e dell'imprenditore in possesso del profilo dimensionale ridotto di cui alla lettera e); 3) individuando tra i tribunali esistenti, quelli competenti alla trattazione delle procedure concorsuali relative alle imprese diverse da quelle di cui ai numeri 1) e 2), sulla base di criteri oggettivi e omogenei basati sui seguenti indicatori: 3.1) il numero dei giudici professionali previsti nella pianta organica di ciascun tribunale, da valutare in relazione ai limiti dimensionali previsti ai fini della costituzione di una sezione che si occupi in via esclusiva della materia; 3.2) il numero delle procedure concorsuali sopravvenute nel corso degli ultimi cinque anni; 3.3) il numero delle procedure concorsuali definite nel corso degli ultimi cinque anni; 3.4) la durata delle procedure concorsuali nel corso degli ultimi cinque anni; 3.5) il rapporto tra gli indicatori di cui ai numeri 3.2), 3.3) e 3.4) e il corrispondente dato medio nazionale riferito alle procedure concorsuali; 3.6) il numero delle imprese iscritte nel registro delle imprese; 3.7) la popolazione residente nel territorio compreso nel circondario del tribunale, ponendo questo dato in rapporto con l'indicatore di cui al numero 3.6); o) istituire presso il Ministero della giustizia un albo dei soggetti, costituiti anche in forma associata o societaria, destinati a svolgere, su incarico del tribunale, funzioni di gestione o di controllo nell'ambito delle procedure concorsuali, con indicazione dei requisiti di professionalità, indipendenza ed esperienza necessari per l'iscrizione; p) armonizzare le procedure di gestione della crisi e dell'insolvenza del datore di lavoro con le forme di tutela dell'occupazione e del reddito dei lavoratori che trovano fondamento nella Carta sociale europea, fatta a Strasburgo il 3 maggio 1996, ratificata ai sensi della legge 9 febbraio 1999, n. 30, e nella direttiva 2008/94/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 22 ottobre 2008, nonché nella direttiva 2001/23/CE del Consiglio, del 12 marzo 2001, come interpretata dalla Corte di giustizia dell'Unione europea. 2. Per l'attuazione delle disposizioni del comma 1, lettera o), è autorizzata la spesa di euro 100.000 per l'anno 2017. Al relativo onere si provvede mediante corrispondente riduzione dello stanziamento del fondo speciale di parte corrente iscritto, ai fini del bilancio triennale 2017-2019, nell'ambito del programma «Fondi di riserva e speciali» della missione «Fondi da ripartire» dello stato di previsione del Ministero dell'economia e delle finanze per l'anno 2017, allo scopo parzialmente utilizzando l'accantonamento relativo al Ministero della giustizia. InquadramentoIn data 11 ottobre 2017, è stata approvata dal Senato la legge delega al Governo per la riforma delle discipline della crisi di impresa e dell'insolvenza, la l. n. 155 del 19 ottobre 2017, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 30 ottobre 2017, n. 254. I principi e i criteri direttivi di cui si compone il testo normativo delineano un disegno abbastanza preciso dei cardini su cui è destinato ad articolarsi il nuovo diritto della crisi di impresa. Il carattere dettagliato del testo giustifica il tentativo di ricostruire, sin d'ora, un quadro di insieme in cui possa essere già ricompreso il diritto che verrà posto. Vorrei iniziare con il ribadire i limiti del diritto della crisi d'impresa, e quale avrebbe potuto essere la prospettiva della riforma. Più volte ho sostenuto che l'insufficienza di questo diritto, per come oggi si presenta, dipende soprattutto da alcune ragioni di fondo, trascurate nei vari tentativi di ammodernamento della legislazione di settore degli ultimi dieci anni. In primo luogo, va considerata la vetustà dell'impianto normativo del c.d. diritto comune. La legge fallimentare del 1942 (semplicemente novellata a più riprese, ma mai abrogata) risponde ad una impostazione risalente alla codificazione commerciale francese del 1807: di matrice statalista, caratterizzata da un pesante sospetto verso la figura del fallito; orientata esclusivamente all'affermazione di interessi pubblici e subordinatamente alla tutela dei creditori (specie dei creditori garantiti); scarsamente attenta alla conservazione dell'impresa. In questa ottica furono disciplinati nelle legislazioni storiche istituti quasi dovunque abbandonati, come il concordato preventivo e il fallimento. Ossia la procedura di stigmatizzazione dell'insolvenza dell'imprenditore (il fallimento) e la procedura in prevenzione della stessa e delle gravi conseguenze personali connesse (il concordato preventivo): istituti intrinsecamente inidonei a recare un diritto effettivamente nuovo. Parimenti, bisognerebbe seriamente considerare l'insuperata opinabilità del c.d. diritto amministrativo della crisi di impresa (liquidazioni coatta e soprattutto amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi): certamente preoccupato della salvaguardia dell'impresa, ma sottratto al controllo giudiziario e determinato non da logiche di mercato ma da preoccupazioni di natura amministrativa e politica (secondo una soluzione non riscontrabile negli ordinamenti di civiltà affine). Nemmeno dovrebbe sottovalutarsi l'inadeguatezza degli strumenti attualmente fruibili: concordato preventivo, fallimento, amministrazione straordinaria. È sufficiente riflettere che nessuna di queste procedure è stata effettivamente pensata per regolare strategie di corporate restructuring, bensì esclusivamente per la composizione della debitoria dell'imprenditore insolvente. Il perdurante pregiudizio verso il debitore è anche testimoniato dall'assenza – nonostante i recenti tentativi del legislatore – di efficaci strumenti di esdebitazione. Come pure dimostra il notevole insuccesso pratico della procedura di sovraindebitamento, in assenza di strumenti legislativi idonei a stabilire un confine netto tra dolo e sfortuna, c'è spazio esclusivamente per soluzioni di compromesso, che rendono difficilmente praticabile l'obiettivo dell'esdebitazione. Questo stato di cose impedisce di salvaguardare non soltanto la legittima aspettativa dei debitori onesti di avere una seconda occasione sul mercato; ma anche il fascio di interessi inglobati nel fenomeno della continuità aziendale. In primo luogo la salvaguardia dei posti di lavoro secondo compatibilità di mercato; inoltre, la tutela dalle ripercussioni della crisi aziendale di realtà come distretti, indotti e reti, in cui sono coinvolti i fornitori dell'impresa (privi di reale tutela nell'ordinamento italiano, dal che il fenomeno dei c.d. fallimenti a catena); infine, la tutela degli interessi dei finanziatori istituzionali secondo strategie non di mero recupero ma di sostegno a più solidi rapporti di credito (anche attraverso l'adozione di più efficaci protocolli di merito creditizio). Aspetto, quest'ultimo, fondamentale in sistemi incentrati sul finanziamento bancario alle imprese (tanto che in Francia è prevista al riguardo un'apposita procedura di insolvenza, mentre da noi vige esclusivamente la disciplina dell'art. 182 septies l.fall.). Si imporrebbe dunque un ripensamento generale delle strutture della decisione sulla crisi d'impresa (ancora stabilite in Italia secondo il criterio della semplice alternativa tra decisione del tribunale o della p.a. e decisione dei creditori). Potrebbe allora elaborarsi una riforma organica delle procedure concorsuali in linea con le soluzioni accolte nei paesi dell'Europa continentale: attraverso il modello della procedura unica aperta a esiti di ristrutturazione o in alternativa di liquidazione (operante in Germania dal 1996), oppure attraverso la pluralità di modelli di ristrutturazione e di liquidazione a seconda della gravità della crisi aziendale (operante in Francia, compiutamente, dal 2005). Con maggior precisione, può osservarsi che sarebbe opportuno disciplinare il fenomeno della insolvenza societaria. Mentre in altre esperienze, come quella inglese, la corporate insolvency costituisce oggetto di legislazione e studio appositi, il diritto italiano non conosce, se non per semplici norme di dettaglio o di rinvio, regole sull'insolvenza societaria. Questo fatto determina evidentemente gravi difficoltà di coordinamento tra diritto fallimentare e diritto societario. A risentirne sono le possibilità di superamento della crisi: giacché la continuità aziendale presuppone la prosecuzione dell'attività societaria in armonia con le peculiarità del diritto fallimentare e attraverso una precisa disciplina di raccordo (il c.d. diritto societario della crisi). Proseguendo su questa linea, sarebbe inoltre auspicabile considerare, per le crisi compatibili con la continuità aziendale, soluzioni operative in sistemi anglosassoni: come la figura dell'administration (istituto operante in Inghilterra), in cui l'obiettivo di corporate restructuring è perseguito secondo modelli di corporate governance: in breve, sostituendo all'organo amministrativo della società un amministratore giudiziario. Quanto a interventi di minor raggio, sarebbero da rimeditare in radice: il sistema revocatorio (eccessivamente ridimensionato, con grave danno per la distribuzione equa delle perdite nel ceto creditorio); il sistema dei finanziamenti all'impresa in crisi (oggetto di una disciplina alquanto disorganica); il sistema dell'esdebitazione delle persone fisiche (pregiudicato dalle inefficienze delle procedure di sovraindebitamento introdotte negli ultimi anni); il sistema dei reati fallimentari, corrispondente alla originaria struttura della legge fallimentare, ampiamente superata anche secondo la fisionomia attuale di quella legge. In funzione preventiva, dovrebbero poi essere introdotte norme sulla responsabilità degli amministratori per violazione di doveri gestori di ristrutturazione (e non semplicemente di doveri sulla conservazione dell'integrità patrimoniale). Dal “fallimento” alla “liquidazione”La delega si apre con principi generali sul soggetto debitore, sulla insolvenza, sulla impresa come attività, sui giudici e sui professionisti incaricati delle procedure (art. 2). Si tratta di regole fortemente disomogenee, di diversa portata concettuale ed estensione testuale; talvolta generiche altre volte eccessive nel dettaglio; non di rado limitate a casi particolari che sicuramente non avrebbero meritato l'inclusione in questa parte della disciplina. Il variegato materiale può essere così riorganizzato nell'esposizione. È innanzitutto stabilita la sostituzione del termine “fallimento” e dei suoi derivati con l'espressione “liquidazione giudiziale” (art. 2, comma 1, lett. a)). Questa prima regola caratterizza per la novità l'intero lavoro del legislatore. La vicenda storica del fallito si dipana dal Medioevo come una cronaca secolare di umiliazioni ed afflizioni, culminate anche in epoche recenti nel carcere per debiti e nella perdita dei diritti civili. Fino a qualche anno fa, e prima del decennio di riforme che ci siamo lasciati alle spalle, la legge fallimentare recava regole durissime contro i falliti, limitati anche nei diritti costituzionali come la libertà di corrispondenza e di movimento. La depurazione della disciplina da questi eccessi non si era spinta fino ad eliminare l'ultima scoria del passato data dal termine ‘fallimento' e dalla famiglia di significati fortemente negativi sul piano morale e sociale ad esso inestricabilmente connesso. Anche la permanenza di un termine terribile ed antico facilitava resistenze verso talune avanguardie disciplinari quali l'esdebitazione, tradizionali in tanti ordinamenti vicini, e invece presenti in forma quasi embrionale nel nostro, anche a causa del perdurante sospetto con cui erano e sono guardate da un notevole numero di operatori. La cancellazione del termine e di qualsiasi sua declinazione favorirà senza altro il superamento delle vecchie mentalità ancora diffuse tra giudici, aziendalisti, avvocati, notai e quanti altri si occupano di crisi delle imprese e di debitori insolventi. La svolta lessicale non va perciò sottovalutata. La posta in gioco è tutt'altro che secondaria. Proprio il fatto che la novità si limiti all'uso di un termine piuttosto che alla riscrittura di regole può svelarne l'importanza. Del resto lo stesso legislatore cade vittima del pregiudizio che vorrebbe combattere. È illuminante, in questo senso, il riferimento al ‘debitore meritevole' di cui all'art. 9, comma 1, lett. c). Ossia a chi è caduto nei debiti per sfortuna, e non per un uso eticamente criticabile del denaro. Proprio il soggetto marginale, debitore perché consumatore o piccolo imprenditore, resta nudo davanti alla legge. Non vi è una significativa attività di impresa posta in mezzo a giustificare o dare ragione in qualche modo del dramma dell'insolvenza. C'è soltanto una condotta di vita, anche limitata a semplici atti di consumo. In questi casi, per il nostro legislatore, sopravvive il giudizio etico a distinguere, tra gli ultimi, i buoni dai cattivi. Ecco che il riferimento al fallimento, allo stigma sociale che vi è storicamente connesso, al sentimento di disprezzo misto a sospetto con cui si guarda il protagonista della vicenda dell'insolvenza, riaffiora negli stessi principi e criteri direttivi, nonostante il congedo imposto da quella stessa legge da vecchi termini vissuti ormai come infamanti. "Crisi" e "insolvenza"Il legislatore delegato è incaricato di introdurre una definizione dello stato di crisi. Esso deve essere inteso come ‘probabilità di futura insolvenza’. È raccomandato che il legislatore tenga conto delle elaborazioni della scienza aziendalistica. Invece, è riaffermata la nozione di stato di insolvenza contenuta nell’art. 5 l.fall. (art. 2, comma 1, lett. c)). Il principio è frutto di un equivoco. Lo stato di crisi e lo stato di insolvenza si riferiscono nella nostra materia l’uno ad una attività l’altro ad un soggetto. La crisi (come pure si apprende dalle trattazioni aziendalistiche) riguarda l’attività di impresa - ossia la dinamica aziendale - e denota lo stato di malfunzionamento in cui cade il centro di produzione accusando progressive inefficienze che, se non rimediate, possono accrescersi fino a risultare incompatibili con la prosecuzione dell’attività. La condizione di insolvenza, come si apprende dal diritto civile e commerciale, riguarda il soggetto divenuto incapace di adempiere regolarmente alle proprie obbligazioni. In una prospettiva statica, di stampo patrimoniale, questa condizione può essere descritta come ‘sovraindebitamento’ (situazione in cui il passivo patrimoniale supera l’attivo). In una prospettiva dinamica, di matrice finanziaria, può diversamente essere descritta come ‘insolvenza’, ossia incapacità di adempiere regolarmente i debiti alla scadenza. Sovraindebitamento e insolvenza presuppongono un termine soggettivo di riferimento. Si dice sovraindebitato il titolare del patrimonio in cui il passivo eccede l’attivo. Si dice insolvente il soggetto passivo in una serie di rapporti obbligatori incapace di adempimenti regolari. La crisi presuppone l’azienda (si discorre, infatti, di crisi aziendale). Più esattamente l’azienda intesa in senso, appunto, ‘aziendalistico’, ossia l’impresa quale attività economica incardinata nel centro di produzione. Poiché la crisi è riferita ad una attività, non può caratterizzare un soggetto. Potremmo immaginare che l’imprecisione concettuale non produca danni effettivi. Ciò in quanto la direttiva è di disciplinare la crisi intesa come ‘pericolo di insolvenza’. Ossia come stadio preliminare ad uno stadio definitivo; come difficoltà finanziaria temporanea e rimediabile che può evolvere in insolvenza definitiva e irreversibile. Come condizione, pertanto, di pre-insolvenza, o pericolo di insolvenza, certamente riferibile al soggetto debitore (che, tranne i rari casi in cui cade d’un colpo nell’insolvenza, vi trapassa attraverso fasi progressive di crescente difficoltà finanziaria). Invece, non è così. Il costo della improvvida assimilazione tra crisi e condizione preliminare di insolvenza è modesto solo sul piano dell’insolvenza medesima, e, quindi, della condizione che caratterizza il soggetto debitore; non lo è affatto sul piano che connota l’attività economica esercitata. Schiacciare il concetto di ‘crisi’ sul concetto di ‘insolvenza’ ha per conseguenza l’annichilimento fino alla cancellazione del termine, e della problematica in esso racchiusa, esperibile soltanto considerando la dimensione dell’impresa quale attività piuttosto che la condizione in cui versa l’imprenditore. Trascurare l’autentico significato aziendalistico della crisi quale vicenda dell’attività comporta l’effetto che le ragioni del malfunzionamento (rinvenibili grosso modo in errori di formula imprenditoriale, di struttura finanziaria, o di organizzazione societaria) restano sottratte alla considerazione giuridica. Il diritto rimane impermeabile al funzionamento effettivo delle organizzazioni economiche, e si limita a cogliere le cause di questo fenomeno solo per le ripercussioni sul soggetto imprenditore: sul debitore. Ecco che la crisi di impresa resta sullo sfondo, per essere lambita dal discorso del legislatore solo attraverso espressioni generiche come ‘cause dell’insolvenza’. L’intera concezione del diritto rilevante ne rimane fiaccata e compromessa. Dopo un millenario affaccendarci intorno a mercanti fuggitivi, commercianti in bancarotta, imprenditori insolventi, continuiamo a rimanere insensibili all’enorme corpo - per i giuristi invisibile - dell’impresa che si sfalda, dell’attività che si disarticola, di un microcosmo che va rumorosamente in frantumi, rivelandosi ai professionisti della crisi di impresa solo per certe conseguenze ultime e indirette: che quel fenomeno determina sulla condizione finanziaria del debitore. Eppure, nei piani di ristrutturazione, che stanno alla base di contratti e concordati preventivi, proprio della crisi di impresa si tratta massimamente. Delle cause che l’hanno determinata; degli effetti negativi che sprigiona (non ultimo, ma nemmeno esclusivo, l’insolvenza dell’imprenditore); delle strategie per porvi rimedio. Finché il diritto non riuscirà a concettualizzare il malfunzionamento del centro di produzione come fenomeno diverso dall’insolvenza del debitore (che peraltro può essere del tutto indipendente da quel malfunzionamento, originandosi da condotte del debitore estranee all’impresa eventualmente esercitata) il trattamento giuridico della crisi di impresa resterà confinato nel cortile dell’insolvenza del debitore, compresso nelle sue potenzialità dal condizionamento mentale dato dal rapporto obbligatorio, che riempie la scena giuridica con la contesa tra debitore e creditori, lasciando l’impresa (che vi rientrerebbe solo per mezzo della crisi) dietro una quinta insuperata. "Sovraindebitamento" La delega si prende cura di definire il concetto di ‘crisi' e di confermare quello di ‘insolvenza'. Nulla dice sul concetto di ‘sovraindebitamento'. Invece, sarebbe stata più che opportuna una presa di posizione in funzione di raccordo delle procedure concorsuali di concordato e liquidazione giudiziale da un lato, e di sovraindebitamento dall'altro. Ciò tanto più se si dispone – come fa l'art. 2, comma 1, lett. d), illustrato nel paragrafo seguente - una procedura unitaria di accertamento dello stato oggettivo in cui eventualmente versa il soggetto debitore (imprenditoriale e non). Infatti, l'insolvenza d'impresa (di cui all'art. 5 l.fall.) non coincide con l'insolvenza civile (o sovraindebitamento). Come già la dottrina classica aveva cura di precisare, mentre la garanzia dell'obbligazione civile si fonda prevalentemente sul patrimonio del debitore, invece la garanzia dell'obbligazione commerciale è nel credito di cui gode l'imprenditore; mentre l'insolvenza civile esprime la sua essenza nel deterioramento della garanzia patrimoniale, invece l'insolvenza dell'impresa la esprime nella perdita del credito. La dimensione essenzialmente patrimoniale dell'insolvenza civile affiora già nel codice civile (si veda il richiamo fatto dall'art. 2743 al potere del creditore di chiedere l'immediato adempimento in caso di diminuzione della garanzia reale e omessa sostituzione della stessa); ma è la disciplina sul sovraindebitamento che, descrivendo il fenomeno, sancisce l'acquisizione al diritto positivo della tradizionale elaborazione dottrinale e giurisprudenziale. Dispone infatti l'art. 6, comma 2, lett. a), della l. n. 3 del 2012 che il termine ‘sovraindebitamento' (peraltro riferito non soltanto all'insolvenza civile ma anche all'insolvenza dell'operatore economico non fallibile) indica la situazione di perdurante squilibrio tra le obbligazioni assunte e il patrimonio prontamente liquidabile per farvi fronte, la quale causa una rilevante difficoltà di adempiere le proprie obbligazioni, ovvero la definitiva incapacità di adempierle regolarmente. Nei sistemi storicamente sviluppatisi in discipline sulla insolvenza, non solo civile ma anche commerciale, il concetto di sovraindebitamento ha una portata generale, estesa anche al patrimonio d'impresa. Nel diritto tedesco, oltre al comportamento individuabile nella nozione di insolvenza, (Zahlungsunfähigkeit), svelato dallo stato di “cessazione dei pagamenti”, si privilegia lo stato oggettivo dello “sbilancio patrimoniale” o “sovraindebitamento” (Überschuldung), ossia l'insufficienza dell'attivo patrimoniale a coprire le obbligazioni esistenti. Guardando al diritto statunitense, nel Bankruptcy Code l'insolvenza è descritta proprio in termini patrimoniali. Secondo la definizione contenuta nel Chapter 1, §101, è insolvente chi ha debiti eccedenti il proprio patrimonio. Questi dati devono avvertirci della relatività, in ogni caso, delle differenze che corrono tra insolvenza civile e insolvenza commerciale. Ciò, tuttavia, senza trascurare le innegabili differenze che l'esperienza insegna corrono tra l'una nell'altra. La dimensione essenzialmente patrimoniale dell'insolvenza civile (sottolineata nella definizione legale di ‘sovraindebitamento') rende rilevante già lo squilibrio economico senza richiede anche uno stato di squilibrio finanziario e dunque una condizione di illiquidità. Inoltre, a differenza dell'insolvenza commerciale, l'insolvenza civile non presuppone una valutazione prognostica dell'attività del debitore e della sua capacità di adempiere, ma un giudizio sulla insufficienza patrimoniale considerata nel momento in cui tale giudizio si formula. Pertanto, mentre l'insolvenza civile manifesta un carattere essenzialmente patrimoniale, invece l'insolvenza commerciale tradisce una cifra scopertamente finanziaria (ciò che si usa anche dire alludendo alla natura ‘statica' della responsabilità patrimoniale civile e alla natura ‘dinamica' della responsabilità patrimoniale commerciale). Per limitarci ad una osservazione assai preliminare, possiamo segnalare che queste differenze condizionano decisivamente la predisposizione del piano di ristrutturazione. La sostanziale assimilazione, nella disciplina del sovraindebitamento, tra insolvenza civile e insolvenza del piccolo imprenditore non fallibile si consuma sotto un profilo meramente quantitativo: si tratta pur sempre di fenomeni economicamente modesti e non coinvolgenti una apprezzabile organizzazione di impresa. Il parallelismo sulla quantità non si ripete sul piano qualitativo. Alla base dell'idea stessa di programma di ristrutturazione è l'impresa come attività; essenziale presupposto concettuale del rilievo del piano nel diritto della crisi d'impresa è la dimensione dinamica della responsabilità patrimoniale, e dunque la consapevolezza che la capacità adempitiva dell'imprenditore è strettamente connessa – piuttosto che al patrimonio staticamente considerato - allo svolgimento dell'attività produttiva. Dietro queste osservazioni, deve escludersi in via di principio un significativo travaso della cultura aziendale della pianificazione nell'ambito non aziendale della insolvenza civile. Il debitore civile, infatti, non ha che un patrimonio incapiente e una massa di debiti; non svolge alcuna azione sul mercato e non deve procedere a nessuna ristrutturazione di attività produttive. Deve piuttosto controllare e limitare la dannosa propensione al consumo. In conclusione, benché l'insolvenza civile sia superabile attraverso operazioni di ristrutturazione, in esse non si apprezza nessuna rilevanza dell'aspetto finanziario prospettico, inteso come la capacità futura di generare risorse finanziarie; il che segna la differenza rispetto alla pianificazione della ristrutturazione del debito d'impresa, realizzata proprio in ragione del passaggio dall'aspetto finanziario attuale a quello atteso. Sarebbe perciò auspicabile che il legislatore delegato prestasse attenzione all'insolvenza civile quale condizione diversa dall'insolvenza commerciale: riservando la definizione di insolvenza commerciale (di cui all'art. 5 l.fall.) a tutti i casi di crisi d'impresa, anche quelli riferibili a soggetti non fallibili; specificando il diverso concetto – di tenore non finanziario ma patrimoniale – di sovraindebitamento per i casi di debito civile (o di consumo).
Imprenditori commerciali e agricoli e debitori civiliL'organicità della riforma si gioca in larga misura sulla strutturazione del soggetto debitore. Il fallimento si avvia, nella realtà medievale, come trattamento giuridico del mercante insolvente. A differenza delle legislazioni anglosassoni, il debitore civile viene ricompreso con difficoltà nelle procedure concorsuali degli ordinamenti continentali. Nel nostro, è solo dal 2012, con la legge sul sovraindebitamento, che i soggetti economici - imprenditoriali e non (come i professionisti) - e i debitori civili sottratti al fallimento sono destinatari di un trattamento concorsuale. Per altro verso, una specifica figura imprenditoriale, l'imprenditore agricolo, è tuttora esclusa dalle procedure concorsuali di ristrutturazione e di liquidazione riferite alle imprese di non piccole dimensioni, potendo accedere esclusivamente a talune fattispecie di accordi di ristrutturazione e alle procedure sul sovraindebitamento. L'art. 2, lett. e), prevede di assoggettare ai procedimenti concorsuali ogni categoria di debitore “sia esso persona fisica o giuridica, ente collettivo, consumatore, professionista o imprenditore esercente un'attività commerciale agricola o artigianale con esclusione dei soli enti pubblici”. La procedura concorsuale è perciò riferita ad ogni possibile categoria di debitore insolvente fatta esclusione degli enti pubblici. La novità è degna di nota per il riordino che può derivarne nelle regole del diritto positivo. Per verificare, inoltre, se a questa messa in ordine si accompagneranno anche effettive novità di disciplina occorre attendere il testo del legislatore delegato. Prosegue, infatti, l'art. 2, lett. e), che spetta al legislatore delegato di disciplinare “distintamente i diversi esiti possibili, con riguardo all'apertura di procedure di regolazione concordata o coattiva, conservativa o liquidatoria, tenendo conto delle relative peculiarità soggettive e oggettive, e in particolare assimilando il trattamento dell'imprenditore” di dimensioni contenute al trattamento riservato “a debitori civili, professionisti e consumatori”, ossia - ci sarebbe da immaginare - alle procedure di sovraindebitamento. La delega è di notevole ampiezza su un punto cruciale. La discussione sui requisiti soggettivi di fallibilità e, pertanto, di destinazione alle procedure concorsuali del fallimento e del concordato preventivo (una volta anche dell'amministrazione controllata) ha animato i dibattiti dottrinali e gli indirizzi giurisprudenziali per l'intero arco di vigenza della legge fallimentare. Prima ancora dell'emanazione di quella, nel vigore del codice di commercio del 1882, ferveva il dibattito sulla estensione del fallimento al debitore civile. L'emanazione della legge fallimentare lasciò la questione irrisolta; le regole sui piccoli fallimenti rimasero disapplicate nella legge del 1942. Non dissimilmente, gli imprenditori agricoli sono sempre stati esclusi dalle procedure concorsuali, riservate agli imprenditori commerciali. L'anacronismo della scelta limitativa è stato posto più volte in questione negli ultimi decenni. Ripetutamente la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibile la questione sulla legittimità costituzionale dell'art. 1 in parola, censurato, in riferimento all'art. 3 Cost., nella parte in cui, prevedendo che sono soggetti alle disposizioni sul fallimento gli imprenditori che esercitano un'attività commerciale, esclude che siano soggetti al fallimento gli imprenditori agricoli e quelli ad essi equiparati. Recentemente la Corte ha argomentato come tale sottrazione, frutto di una scelta discrezionale del legislatore, risponda a ragioni di politica economica e giudiziaria, cioè a quelle stesse ragioni che consentono di non ritenere in contrasto con l'art. 3 Cost. la soggezione alle procedure concorsuali delle piccole società commerciali rispetto alla esenzione, da esse, delle società artigiane (cfr. sentenza del 20 aprile 2012, n. 104). Dal canto suo, la Cassazione non molto tempo fa ha ribadito che a norma dell'art. 2135 c.c. è qualificabile come attività agricola quella diretta alla coltivazione del fondo e costituente forma di sfruttamento del fattore terra, sia pure con l'ausilio delle moderne tecnologie, nonché quella connessa a tale coltivazione, che si inserisca nel ciclo dell'economia agricola; ha, invece, carattere commerciale o industriale ed è, quindi, soggetta al fallimento, se esercitata sotto forma di impresa grande e media, quell'attività che, oltre ad essere idonea a soddisfare esigenze connesse alla produzione agricola, risponda a scopi commerciali o industriali e realizzi utilità del tutto indipendenti dall'impresa agricola o, comunque, prevalenti rispetto ad essa (cfr. Cass. civ. 24 marzo 2011, n. 6853). Questo regime giuridico è tradizionalmente considerato di favore. Tuttavia, gli esiti delle recenti riforme che hanno interessato il comparto fallimentare inducono a rivedere parzialmente questo giudizio, che potrebbe mostrarsi eccessivamente ottimistico. Se infatti è certamente conveniente per l'imprenditore agricolo rimanere sottratto alle conseguenze, civili e penali, del fallimento, non dobbiamo nasconderci che per contrappasso egli non potrà però nemmeno accedere ai vantaggi di questa procedura, divenuti evidenti a partire dalla riforma inaugurata nel 2006 specie con riguardo alla disciplina della esdebitazione. A tutto ciò si è pensato di porre rimedio con l'art. 23, comma 43, d.l. 6 luglio 2011, n. 98 (convertito, con modificazioni, in legge 15 luglio 2011, n. 111), per il quale “In attesa di una revisione complessiva della disciplina dell'imprenditore agricolo in crisi e del coordinamento delle disposizioni in materia, gli imprenditori agricoli in stato di crisi o di insolvenza possono accedere alle procedure di cui agli articoli 182-bise 182-ter del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, e successive modificazioni”. Se perciò fallimento e concordato preventivo restavano esclusi per l'imprenditore agricolo, che sottraendosi tuttora al primo nemmeno può fruire delle opportunità del secondo, invece a questo soggetto è consentito l'accesso al diritto dell'insolvenza diverso dalle classiche procedure concorsuali. Così, l'imprenditore agricolo può concludere contratti di ristrutturazione dei debiti. Questa soluzione, nella sua precarietà, appare indicativa non soltanto del perdurare di una mentalità storica, ma anche di una evidente evoluzione nel segno della discontinuità. I territori tradizionali del cosiddetto diritto fallimentare restano estranei all'imprenditore agricolo, così non è per le avanguardie del diritto dell'insolvenza, costituite dai c.d. contratti protetti: accordi di ristrutturazione dei debiti ma anche piani attestati di risanamento (secondo il criterio argomentativo per cui dove è consentito il più deve ritenersi ricompreso il meno). Oggi si prevede che il sistema concorsuale riguardi anche gli imprenditori agricoli, ma non si precisa in che termini. Sono potenzialmente a disposizione tutte le procedure concorsuali: la liquidazione, il concordato preventivo, il sovraindebitamento. Se, tanto nel caso del debitore civile che in quello dell'imprenditore agricolo, la questione era ed è di stabilire quali procedure per chi, appare eccessivamente sbrigativa la direttiva al legislatore delegato di riservare liquidazione e concordato alle insolvenze c.d. “sopra soglia” (secondo il riferimento esplicito all'art. 1 l.fall.), per destinare le piccole insolvenze alle procedure di sovraindebitamento. Ciò tanto più se, come nel nostro caso, la delega precisa che il delegato dovrà tenere conto delle peculiarità oggettive e soggettive dei debitori al fine di destinarli all'una o all'altra delle procedure censibili. Senza tacere che, anche a tale ultimo riguardo, la delega apre a spazi poco controllati la scelta delegata. Discorrendo, genericamente, di procedure di regolazione concordata o coattiva, liquidatoria o conservativa, senza limitare il novero a quelle già esistenti o comunque aggiunte dal delegante (come le procedure di allerta) e, dunque, senza escludere la possibilità di procedure ad hoc oppure di rilevanti caratterizzazioni di procedure esistenti in ragione delle peculiarità del debitore, il delegante lascia carta bianca al delegato, sottraendo al pubblico confronto questioni da sempre ritenute di fondamentale importanza. BibliografiaDi Marzio, La riforma delle discipline della crisi d’impresa e dell’insolvenza, Milano, 2017 |