Legge - 19/10/2017 - n. 155 art. 9 - Sovraindebitamento

Fabrizio Di Marzio

Sovraindebitamento

 

1. Nell'esercizio della delega di cui all'articolo 1, per la disciplina della procedura di composizione delle crisi da sovraindebitamento di cui alla legge 27 gennaio 2012, n. 3, il Governo procede al riordino e alla semplificazione della disciplina in materia attenendosi ai seguenti principi e criteri direttivi:

a) comprendere nella procedura i soci illimitatamente responsabili e individuare criteri di coordinamento nella gestione delle procedure per sovraindebitamento riguardanti più membri della stessa famiglia;

b) disciplinare le soluzioni dirette a promuovere la continuazione dell'attività svolta dal debitore, nonché le modalità della loro eventuale conversione nelle soluzioni liquidatorie, anche ad istanza del debitore, e consentendo, esclusivamente per il debitore-consumatore, solo la soluzione liquidatoria, con esclusione dell'esdebitazione, nel caso in cui la crisi o l'insolvenza derivino da colpa grave, malafede o frode del debitore;

c) consentire al debitore meritevole, che non sia in grado di offrire ai creditori alcuna utilità, diretta o indiretta, nemmeno futura, di accedere all'esdebitazione solo per una volta, fatto salvo l'obbligo di pagamento del debito entro quattro anni, laddove sopravvengano utilità;

d) prevedere che il piano del consumatore possa comprendere anche la ristrutturazione dei crediti derivanti da contratti di finanziamento con cessione del quinto dello stipendio o della pensione e dalle operazioni di prestito su pegno;

e) prevedere che nella relazione dell'organismo di cui all'articolo 9, comma 3-bis, della legge 27 gennaio 2012, n. 3, sia indicato se il soggetto finanziatore, ai fini della concessione del finanziamento, abbia tenuto conto del merito creditizio del richiedente, valutato in relazione al suo reddito disponibile, dedotto l'importo necessario a mantenere un dignitoso tenore di vita;

f) precludere l'accesso alle procedure ai soggetti già esdebitati nei cinque anni precedenti la domanda o che abbiano beneficiato dell'esdebitazione per due volte, ovvero nei casi di frode accertata;

g) introdurre misure protettive simili a quelle previste nel concordato preventivo, revocabili su istanza dei creditori, o anche d'ufficio in caso di atti in frode ai creditori;

h) riconoscere l'iniziativa per l'apertura delle soluzioni liquidatorie, anche in pendenza di procedure esecutive individuali, ai creditori e, quando l'insolvenza riguardi l'imprenditore, al pubblico ministero;

i) ammettere all'esdebitazione anche le persone giuridiche, su domanda e con procedura semplificata, purché non ricorrano ipotesi di frode ai creditori o di volontario inadempimento del piano o dell'accordo;

l) prevedere misure sanzionatorie, eventualmente di natura processuale con riguardo ai poteri di impugnativa e di opposizione, a carico del creditore che abbia colpevolmente contribuito all'aggravamento della situazione di indebitamento;

m) attribuire anche ai creditori e al pubblico ministero l'iniziativa per la conversione in procedura liquidatoria, nei casi di frode o inadempimento.

Inquadramento

In data 11 ottobre 2017, è stata approvata dal Senato  la legge delega al Governo per la riforma delle discipline della crisi di impresa e dell'insolvenza: l. n. 155 del 19  ottobre 2017, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 30 ottobre 2017, n. 254.

I principi e i criteri direttivi di cui si compone il testo normativo delineano un disegno abbastanza preciso dei cardini su cui è destinato ad articolarsi il nuovo diritto della crisi di impresa.

Il carattere dettagliato del testo giustifica il tentativo di ricostruire, sin d'ora, un quadro di insieme in cui possa essere già ricompreso il diritto che verrà posto.

Vorrei iniziare con il ribadire i limiti del diritto della crisi d'impresa, e quale avrebbe potuto essere la prospettiva della riforma.

Più volte ho sostenuto che l'insufficienza di questo diritto, per come oggi si presenta, dipende soprattutto da alcune ragioni di fondo, trascurate nei vari tentativi di ammodernamento della legislazione di settore degli ultimi dieci anni.

In primo luogo, va considerata la vetustà dell'impianto normativo del c.d. diritto comune. La legge fallimentare del 1942 (semplicemente novellata a più riprese, ma mai abrogata) risponde ad una impostazione risalente alla codificazione commerciale francese del 1807: di matrice statalista, caratterizzata da un pesante sospetto verso la figura del fallito; orientata esclusivamente all'affermazione di interessi pubblici e subordinatamente alla tutela dei creditori (specie dei creditori garantiti); scarsamente attenta alla conservazione dell'impresa.

In questa ottica furono disciplinati nelle legislazioni storiche istituti quasi dovunque abbandonati, come il concordato preventivo e il fallimento. Ossia la procedura di stigmatizzazione dell'insolvenza dell'imprenditore (il fallimento) e la procedura in prevenzione della stessa e delle gravi conseguenze personali connesse (il concordato preventivo): istituti intrinsecamente inidonei a recare un diritto effettivamente nuovo.

Parimenti, bisognerebbe seriamente considerare l'insuperata opinabilità del c.d. diritto amministrativo della crisi di impresa (liquidazioni coatta e soprattutto amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi): certamente preoccupato della salvaguardia dell'impresa, ma sottratto al controllo giudiziario e determinato non da logiche di mercato ma da preoccupazioni di natura amministrativa e politica (secondo una soluzione non riscontrabile negli ordinamenti di civiltà affine).

Nemmeno dovrebbe sottovalutarsi l'inadeguatezza degli strumenti attualmente fruibili: concordato preventivo, fallimento, amministrazione straordinaria. È sufficiente riflettere che nessuna di queste procedure è stata effettivamente pensata per regolare strategie di corporate restructuring, bensì esclusivamente per la composizione della debitoria dell'imprenditore insolvente.

Il perdurante pregiudizio verso il debitore è anche testimoniato dall'assenza – nonostante i recenti tentativi del legislatore – di efficaci strumenti di esdebitazione.

Come pure dimostra il notevole insuccesso pratico della procedura di sovraindebitamento, in assenza di strumenti legislativi idonei a stabilire un confine netto tra dolo e sfortuna, c'è spazio esclusivamente per soluzioni di compromesso, che rendono difficilmente praticabile l'obiettivo dell'esdebitazione.

Questo stato di cose impedisce di salvaguardare non soltanto la legittima aspettativa dei debitori onesti di avere una seconda occasione sul mercato; ma anche il fascio di interessi inglobati nel fenomeno della continuità aziendale. In primo luogo la salvaguardia dei posti di lavoro secondo compatibilità di mercato; inoltre, la tutela dalle ripercussioni della crisi aziendale di realtà come distretti, indotti e reti, in cui sono coinvolti i fornitori dell'impresa (privi di reale tutela nell'ordinamento italiano, dal che il fenomeno dei c.d. fallimenti a catena); infine, la tutela degli interessi dei finanziatori istituzionali secondo strategie non di mero recupero ma di sostegno a più solidi rapporti di credito (anche attraverso l'adozione di più efficaci protocolli di merito creditizio). Aspetto, quest'ultimo, fondamentale in sistemi incentrati sul finanziamento bancario alle imprese (tanto che in Francia è prevista al riguardo un'apposita procedura di insolvenza, mentre da noi vige esclusivamente la disciplina dell'art. 182- septies l.fall.).

Si imporrebbe dunque un ripensamento generale delle strutture della decisione sulla crisi d'impresa (ancora stabilite in Italia secondo il criterio della semplice alternativa tra decisione del tribunale o della p.a. e decisione dei creditori). Potrebbe allora elaborarsi una riforma organica delle procedure concorsuali in linea con le soluzioni accolte nei paesi dell'Europa continentale: attraverso il modello della procedura unica aperta a esiti di ristrutturazione o in alternativa di liquidazione (operante in Germania dal 1996), oppure attraverso la pluralità di modelli di ristrutturazione e di liquidazione a seconda della gravità della crisi aziendale (operante in Francia, compiutamente, dal 2005).

Con maggior precisione, può osservarsi che sarebbe opportuno disciplinare il fenomeno della insolvenza societaria. Mentre in altre esperienze, come quella inglese, la corporate insolvency costituisce oggetto di legislazione e studio appositi, il diritto italiano non conosce, se non per semplici norme di dettaglio o di rinvio, regole sull'insolvenza societaria. Questo fatto determina evidentemente gravi difficoltà di coordinamento tra diritto fallimentare e diritto societario. A risentirne sono le possibilità di superamento della crisi: giacché la continuità aziendale presuppone la prosecuzione dell'attività societaria in armonia con le peculiarità del diritto fallimentare e attraverso una precisa disciplina di raccordo (il c.d. diritto societario della crisi).

Proseguendo su questa linea, sarebbe inoltre auspicabile considerare, per le crisi compatibili con la continuità aziendale, soluzioni operative in sistemi anglosassoni: come la figura dell'administration (istituto operante in Inghilterra), in cui l'obiettivo di corporate restructuring è perseguito secondo modelli di corporate governance: in breve, sostituendo all'organo amministrativo della società un amministratore giudiziario.

Quanto a interventi di minor raggio, sarebbero da rimeditare in radice: il sistema revocatorio (eccessivamente ridimensionato, con grave danno per la distribuzione equa delle perdite nel ceto creditorio); il sistema dei finanziamenti all'impresa in crisi (oggetto di una disciplina alquanto disorganica); il sistema dell'esdebitazione delle persone fisiche (pregiudicato dalle inefficienze delle  procedure di sovraindebitamento introdotte negli ultimi anni); il sistema dei reati fallimentari, corrispondente alla originaria struttura della legge fallimentare, ampiamente superata anche secondo la fisionomia attuale di quella legge.

In funzione preventiva, dovrebbero poi essere introdotte norme sulla responsabilità degli amministratori per violazione di doveri gestori di ristrutturazione (e non semplicemente di doveri sulla conservazione dell'integrità patrimoniale).

Riordino e semplificazione della disciplina

Prevede l'art. 9, comma 1, che nell'esercizio della delega il Governo proceda al riordino e alla semplificazione della disciplina sul sovraindebitamento contenuta nella l. n. 3 del 2012.

L'occasione è importante perché consentirà di riscrivere in modo meno approssimativo una disciplina importante ma pregiudicata dalla scarsa qualità del testo. L'obiettivo del riordino e della semplificazione si impone rispetto ai principi della delega, che riguardano aspetti non centrali, e spesso marginali o secondari.

Appare perciò consigliabile ricostruire brevemente i cardini degli istituti coinvolti, così da favorire una messa a punto ottimale in esecuzione della delega. 

Procedure in rimedio del sovraindebitamento

 I procedimenti di composizione della crisi da sovraindebitamento e di liquidazione del patrimonio servirebbero a porre rimedio alle situazioni di (crisi da) sovraindebitamento che colpiscono debitori non assoggettabili alle procedura concorsuali tradizionali.  Costoro hanno facoltà di concludere un ‘accordo' con i creditori secondo una procedura di composizione della crisi disciplinata di seguito; al debitore che possegga lo status di consumatore è inoltre consentito di proporre, in alternativa, un ‘piano' di ristrutturazione (cfr. art. 6, comma 1). ‘Accordo' e ‘piano' integrano l'oggetto di una “procedura”: la “procedura di composizione della crisi da sovraindebitamento”.

Nei casi stabiliti dalla legge (annullamento o risoluzione dell'accordo, cessazione degli effetti del piano omologato per causa imputabile al consumatore) questa procedura può essere convertita, su istanza del debitore o dei creditori, in una “procedura di liquidazione del patrimonio” (cfr. art. 14 quater).

La legge discorre di “accordo di ristrutturazione dei debiti” (cfr., per es., art. 7, comma 1); la formula corrisponde a quella adoperata nell'art. 182 bis l.fall. per descrivere il contratto compositivo della crisi d'impresa, concluso tra debitore fallibile e creditori e assoggettabile ad omologazione. Discorre, inoltre, di “piano del consumatore”, con formula assimilabile a quella adoperata nell'art. 67, comma 3, lett. d), l.fall. per alludere al contratto compositivo della crisi d'impresa, concluso tra debitore fallibile e creditori e non assoggettato ad omologazione.

La suggestione terminologica potrebbe indurre l'idea che si tratti effettivamente di contratti. Senonché tali contratti sono inseriti, come accennato, in procedure. Questo inserimento determina un rilevante aumento di complessità di entrambe le figure: le contenute (accordo, piano) e la contenente (procedura di composizione della crisi da sovraindebitamento).

Benché la natura contrattuale di una figura sia incompatibile con una essenza processuale, dovrebbe convenirsi che tale incompatibilità non coinvolge la struttura - processuale - che essa può assumere.

Il limite di tale compatibilità è nel fatto che la natura contrattuale del rimedio esclude il carattere concorsuale. Dunque, laddove vi sono procedure possono esservi contratti (i contratti possono essere declinati in percorsi processuali; ad esempio possono essere assoggettate procedure di omologazione); ma non possono esservi contratti laddove ci sono procedure che siano concorsuali, ossia rette dal principio della parità di trattamento di tutti i creditori.

Il c.d. “accordo” del sovraindebitato

Un primo rimedio è dato dall'“accordo di ristrutturazione dei debiti” intercorrente tra il sovraindebitato e i suoi creditori; funzione di detto accordo è infatti la risoluzione del problema costituito dal sovraindebitamento.

Fin qui, la novità potrebbe apparire modesta, soprattutto riflettendo che contratti del genere sono ampiamente ammissibili e anche copiosamente praticati sin dal diritto classico. La disciplina in esame, però, si spinge ben oltre: offrendo un rimedio molto più complesso di un semplice accordo, e di cui l'accordo appare essere soltanto un componente. Questo rimedio è nella procedura di composizione della crisi, che è la procedura secondo la quale l'accordo deve essere concluso.

Cosicché l'accordo del sovraindebitato con i suoi creditori, ragionevolmente finalizzato al superamento della crisi da sovraindebitamento, conferma questa finalità dovendo essere condotto secondo una procedura stabilita, appunto, per la composizione della “crisi”. Ma quanto veramente conta non è la finalità, bensì lo strumento.

L'accordo per superare il sovraindebitamento deve essere raggiunto secondo una precisa procedura legale. Per apprezzare la portata della novità dobbiamo sempre avere presente che la regola costitutiva del contratto si esaurisce, essenzialmente, nel consenso. Per aversi un contratto occorre - è necessario, ma anche sufficiente - raggiungere un accordo; ed è tale la forza concettuale del consenso da riassorbire in sé l'idea stessa del suo prodotto, e cioè il contratto. La legge può attardarsi sulle condizioni, sulle circostanze e sulle modalità del consenso; può disporre forme particolari, e attribuire significato a fatti altrimenti equivoci, tirando fuori il consenso anche da un silenzio sufficientemente eloquente. Ma, oltre a tutto questo, non si va. In particolare, la legge non si preoccupa di proceduralizzare la fase di formazione dell'accordo e tantomeno di assoggettare questo delicato momento a controllo giudiziario.

E invece, proprio così sembra accadere nel nostro caso: dove  debitore con eccesso di debiti e creditori si accorderebbero (ossia concluderebbero contratti) per superare il sovraindebitamento secondo una procedura di “raggiungimento” dell'accordo (cfr. la rubrica dell'articolo 11, dove il termine spurio di “raggiungimento” chiaramente allude alla procedimentalizzazione della “conclusione” dell'accordo); procedura affidata al controllo giudiziario e fondata anche sull'apporto di organismi di sostegno.

Al cosiddetto “organismo di composizione della crisi”, è infatti attribuito il generale e pervasivo compito di assumere “ogni opportuna iniziativa funzionale alla predisposizione del piano di ristrutturazione e alla buona riuscita dello stesso” (art. 15, comma 5). Ecco allora la grande novità foriera, inevitabilmente, di notevoli complicazioni sistematiche.

Contempliamo regole su un esercizio dell'autonomia privata assistito da pubblici poteri: amministrativo e giudiziario. Ciò, tuttavia, è quanto in qualche misura avviene in determinate procedure concorsuali come i concordati; ma non anche nei contratti sulla crisi di impresa, pur disciplinati in quanto tali e pur suscettibili di un qualche controllo giudiziario (come accade per gli accordi di ristrutturazione dei debiti in forma ‘pura', assoggettati una volta raggiunti a omologazione del tribunale). Diventa perciò importante chiarirsi bene le idee sulla portata effettiva della novità, data da un istituto che sembrerebbe trovarsi in bilico tra contratto e procedura concorsuale di insolvenza: senza nasconderci che il permanere di zone oscure nuocerebbe ulteriormente a una esperienza applicativa finora non a caso caratterizzata dall'insuccesso.

L'art. 11, pur intitolandosi al “raggiungimento dell'accordo” e pur discorrendo di “consenso dei creditori”, stabilisce che ai fini dell'omologazione dell'accordo questo “consenso” - peraltro prestabile anche per silenzio assenso - deve essere raggiunto tra il debitore e i creditori rappresentanti almeno il sessanta per cento dell'ammontare dei crediti; precisando significativamente che ai fini del raggiungimento di tale maggioranza non sono computati i creditori garantiti per i quali la proposta prevede l'integrale pagamento, a meno che essi non rinuncino in tutto o in parte alla prelazione.

Inoltre, l'art. 12, comma 3, stabilisce che l'accordo omologato è obbligatorio per tutti i creditori già tali al momento della pubblicazione della proposta ai sensi dell'art. 10, comma 2.

Infine, l'art. 12, comma 2, dispone che i creditori che non hanno aderito all'accordo - e per i quali, come detto, lo stesso è nondimeno vincolante - oltre ai creditori esclusi e a qualunque interessato possono in sede di omologa contestare la convenienza dell'accordo.

Non dovrebbe pertanto occorrere una sforzo di natura anche esegetica (e volto a rinvenire qua e là nell'articolato tracce distoniche con il concetto di accordo: come la possibile suddivisione dei creditori in classi: cfr. art. 7, comma 1) per argomentare l'ovvia conclusione che la legge definisce come “accordo” (contrattuale) una deliberazione (concordataria).       

Qualora i creditori esprimessero un consenso in senso proprio, non avrebbe senso distinguere tra creditori chirografari e creditori garantiti. La distinzione vale infatti a porre limiti al trattamento del credito nelle procedure concorsuali deliberative (nel chiaro senso che, risiedendo la garanzia del pagamento nella conversione in denaro dell'oggetto su cui grava la causa di prelazione, il creditore è escluso dalla deliberazione concordataria, la quale conseguentemente non può conformare la sua posizione creditoria). Invece, il problema non si pone nei contratti, essendo rimessa la ristrutturazione del credito non ad una deliberazione maggioritaria ma al consenso tra debitore e singolo creditore.

La distinzione tra creditori garantiti e creditori chirografari nell'“accordo di ristrutturazione” del sovraindebitato si spiega agevolmente con il fatto che l' “accordo” approvato a maggioranza è efficace non soltanto rispetto ai creditori che lo hanno approvato, ma anche rispetto ai creditori in disaccordo (i quali possono contestare la convenienza di un “accordo” intercorso tra il debitore e altri creditori); creditori questi ultimi che non sono affatto parti dell'“accordo”, ma che nondimeno ne restano vincolati. Il che è incompatibile con il concetto di contratto (che non produce di norma effetti nei confronti dei terzi se non quando è concluso a beneficio degli stessi: cfr. art. 1372,1411 c.c.) ed è invece tipico della deliberazione maggioritaria, la quale vale non solo per i creditori consenzienti ma anche per i creditori dissenzienti.

Per quanto esposto, l'esatta qualificazione della fattispecie “accordo di ristrutturazione” del sovraindebitato come procedura concorsuale anziché (e sulla scorta della assimilazione alla figura disciplinata dall'art. 182 -bis l.fall.) come contratto sulla crisi d'impresa serve a chiarire che anche in detta procedura - di natura appunto concorsuale - vige la regola della parità di trattamento dei creditori, fatte salve le cause legittime di prelazione (cfr. art. 2741 c.c.).

L'applicazione della regola della parità di trattamento è determinata dalle condizioni di legittimazione della deliberazione maggioritaria: che in tanto può vincolare anche i dissenzienti in quanto concerne una proposta di soddisfacimento uguale per tutti (o per tutti i creditori racchiusi in una classe omogenea).

Questa appare essere la ragione decisiva per affermare la natura di procedura concorsuale deliberativa dell'istituto; ma non mancano nemmeno riferimenti testuali a conforto: come l'art. 9, comma 3 ter, sulla sospensione del decorso degli interessi sui crediti “ai soli effetti del concorso”.

In tal senso deve pure accennarsi che la normativa espone episodi di rilevante criticità: come la possibilità, che la legge sembrerebbe concedere, di approvazione della proposta a condizioni diverse da quella in essa prospettate (cfr. art. 11, comma 1). 

Il piano del consumatore e il rilievo della regola della par condicio creditorum

Il piano del consumatore è parzialmente accomunato nella disciplina all'accordo di ristrutturazione (cfr. artt. 6, comma 1; 8; 9); se ne discosta tuttavia per non essere ribadita a tal riguardo la regola sul consenso (da intendersi come deliberazione) dei creditori. Per l'omologazione del piano del consumatore è sufficiente la positiva delibazione del tribunale sulla fattibilità dello stesso, mentre i creditori possono soltanto contestare la convenienza del piano omologato (cfr. art. 12 bis).

Come l'“accordo”, anche il piano omologato è obbligatorio per tutti i creditori già tali al momento della pubblicazione della proposta ai sensi dell'art. 12 -bis, comma 3 (cfr. art. 12 ter, comma 2).

Questa configurazione normativa corrisponde a una particolare figura di concordato rinvenibile nel diritto amministrativo della crisi d'impresa: il c.d. concordato coattivo.

Circa la liquidazione coatta amministrativa, le regole generali contenute nella legge fallimentare prevedono un particolare schema concordatario, parzialmente costruito sulle regole procedurali del concordato fallimentare (cfr. art. 214 s. l.fall.), secondo cui i soggetti legittimati alla presentazione della proposta concordataria devono essere autorizzati al deposito della stessa in tribunale dalla autorità amministrativa che vigila sulla liquidazione (e che provvede su parere del commissario liquidatore e sentito il comitato di sorveglianza); la proposta è quindi comunicata ai creditori, che non la votano ma possono opporsi alla omologazione del concordato. Il d.lgs. 8 luglio 1999, n. 270 sulla amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi c.d. ‘comune' prevede una soluzione concordataria assimilabile alla precedente (cfr. artt. 78 ss.). Il proponente deve essere autorizzato al deposito della proposta concordataria in tribunale dal ministero dello sviluppo economico (che provvede su parere del commissario straordinario e sentito il comitato di sorveglianza); la proposta è comunicata ai creditori che possono opporsi alla omologazione del concordato secondo lo schema precedentemente illustrato.

In entrambi i casi, poiché non è prevista la fase di approvazione della proposta per deliberazione dei creditori, il concordato ha natura coattiva: se costituisce espressione di autonomia privata del proponente non costituisce espressione di autonomia dei creditori. Quest'ultimo carattere è decisivo per la ricostruzione sistematica degli istituti, i quali appaiono ontologicamente diversi dai concordati assoggettati a deliberazione. Mentre questi sono approvati dai creditori, invece quelli sono in effetti approvati, per omologazione, dal tribunale.

La giustificazione di questa peculiare configurazione, già presente nelle vecchie discipline della liquidazione coatta, è stata agevolmente individuata nella tutela dell'interesse pubblico a cui presiede la disciplina legale; e dunque nell'esigenza di evitare che la deliberazione negativa dei creditori vanifichi una proposta autorizzata dal potere amministrativo e perciò ritenuta conforme all'interesse pubblico.

Questa giustificazione, assolutamente ragionevole sotto il profilo teleologico, non favorendo in nessun modo l'inquadramento della figura nello schema generale e conosciuto del concordato, schema imperniato sulla deliberazione dei creditori, induce l'idea che il concordato coattivo non sia altro che una procedura avviata da una istanza esecutiva e definita da un provvedimento giudiziario pur esso esecutivo.

Tali conclusioni sono riferibili anche alla procedura imperniata sul piano del consumatore, imperativamente costruita in vista della realizzazione dell'interesse, di ordine pubblico economico, alla definizione ragionevole della situazione di sovraindebitamento di coloro che non svolgono una attività economica.

La qualificazione del piano del consumatore come concordato coattivo implica la natura concorsuale della procedura e dunque il rilievo della regola generale della par condicio creditorum, secondo quanto già esposto in tema di “accordi”.

La procedura (concorsuale) di liquidazione

Sia l'accordo di ristrutturazione che il piano del consumatore possono articolarsi non solo nel senso della ristrutturazione del debito intesa in senso proprio e stretto ma anche nel senso della liquidazione del patrimonio del debitore (cfr. art. 6). In tali casi la modalità liquidatoria è oggetto di esercizio dell'autonomia negoziale (di debitore e creditori nell'accordo; del solo consumatore proponente nel piano, infatti non deliberato dai creditori).

Nella diversa fattispecie della procedura (concorsuale) di liquidazione, invece, questa modalità di composizione della crisi da sovraindebitamento prescinde dall'esercizio dell'autonomia negoziale.

Una prima ipotesi è disciplinata dall'art. 14 ter, e concerne la procedura di liquidazione aperta su domanda del debitore.

Una seconda ipotesi è disciplinata dall'art. 14 quater, e concerne la procedura di liquidazione aperta d'ufficio in seguito alla conversione della procedura di composizione (della crisi da sovraindebitamento) nei casi tassativi dell'annullamento dell'accordo o di cessazione degli effetti dell'omologazione per inadempimento nei confronti delle amministrazioni pubbliche; o di cessazione degli effetti dell'omologazione del piano del consumatore per compimento di atti in frode ai creditori; o di risoluzione dell'accordo per fatto imputabile al debitore; o infine di cessazione degli effetti dell'omologazione del piano del consumatore per inadempimento imputabile degli obblighi derivanti dal piano (più correttamente: dall'offerta adempitiva veicolata dal piano).

Su questo abbrivio, la legge delega - ampliando il raggio delle ipotesi ora evidenziate -  dispone che l'iniziativa per la conversione in procedura liquidatoria nei casi di frode o inadempimento dovrà essere attribuita anche ai creditori e al pubblico ministero (art. 9, comma 1, lett. m)).

Qui l'assimilazione nel trattamento del debitore civile e commerciale si consuma, come pure si suggerì nell'antico dibattito, sul terreno del fallimento (concretizzandosi nella proposta del fallimento civile).  Al diverso procedimento, a carattere negoziale e concernente la composizione del debito (procedimento diverso dal fallimento anche se non, in questo caso, a esso alternativo), subentra una procedura liquidativa di stampo fallimentare.

Né questa rinnovata primavera del fallimento, procedura concorsuale sopra tutte screditata - e ciò per la consolidata coscienza della inettitudine del fallimento a tutelare convenientemente gli interessi affidati, e sopra tutti l'interesse dei creditori - si mostra in se stessa criticabile e inopportuna.

L'inettitudine del fallimento alla tutela efficace dei creditori - arresto difficilmente dubitabile se riferito all'insolvenza dell'imprenditore -  cade tuttavia in crisi con riguardo al debitore civile. Infatti, l'inadeguatezza del fallimento alla piena tutela dell'interesse dei creditori è dovuta all'effetto di cessazione dell'attività che l'apertura della procedura normalmente comporta. Il prevalente (e sostanzialmente assorbente) carattere di esecuzione collettiva sui beni del debitore, proprio della procedura di fallimento, si mostra inconciliabile con il carattere “dinamico” della responsabilità patrimoniale d'impresa.

Nel caso del debitore civile deve invece affermarsi il contrario, giacché il carattere “statico” della responsabilità patrimoniale che viene in rilievo fa apparire il fallimento (o comunque una procedura condotta su regole di matrice ‘fallimentare') una soluzione non soltanto del tutto appropriata ma anche certamente preferibile all'esecuzione individuale in cui, per l'insolvenza del debitore, non solo potrebbero trovarsi affollate le pretese di un numero eccessivo di creditori, ma potrebbero essere iniquamente premiate le iniziative dei creditori più scaltri e reattivi.    

La procedura è dunque strutturata sullo schema del fallimento: svolgendosi nelle fasi dell'apertura (con nomina del liquidatore da parte del tribunale: cfr. art. 14 quinquies); dell'inventario dei beni (art. 14 sexies); della formazione dello stato passivo (artt. 14 septies; octies); della liquidazione (art. 14 novies ss.); e prevedendosi anche un subprocedimento sulla esdebitazione del debitore meritevole del beneficio (art. 14 terdecies).

Singolarmente manca una regolamentazione del riparto, che costituisce comunque atto necessario e (quando redatto nella forma del riparto finale) anche sostanzialmente conclusivo della procedura (comunque destinata a rimanere aperta in ogni caso ai sensi dell'art. 14 quinquies, comma 4).

A questa vistosa lacuna potrà porre rimedio il legislatore delegato.

L’opportunità offerta al legislatore delegato

Da quanto esposto possiamo trarre la conclusione che il ruolo del creditore è completamente diverso nei contratti e nelle procedure concorsuali. In queste ultime l’autonomia negoziale è compressa, ma quella compressione è bilanciata dall’applicazione del principio della parità di trattamento e dall’attribuzione di tutele processuali. In assenza del bilanciamento, i diritti dei creditori dissenzienti sono irragionevolmente sacrificati. A parte i dubbi di legittimità costituzionale della legge, difficilmente la sua applicazione pratica potrebbe sortire effetti positivi. Non a caso, fino a oggi le procedure di sovraindebitamento sono rimaste sulla carta.

Se il Governo coglierà l’occasione del decreto delegato per riformulare la disciplina del sovraindebitamento nella consapevolezza della natura concorsuale (e non contrattuale) delle procedure in questione, potranno derivarne grandi vantaggi: sistematici e per conseguenza pratici.

Taluni spunti rinvenibili nella delega fanno ben sperare, così il principio sulla introduzione di misure protettive simili a quelle previste – non per i contratti ma – per il concordato preventivo; misure che siano revocabili su istanza dei creditori o anche di ufficio in caso di atti in frode (art. 9, comma 1, lett. h)). Così anche il principio per cui nella procedura dovranno essere ricompresi i soci illimitatamente responsabili (art. 9, comma 1, lett. a)): che si allinea a quello fissato dall’art. 6, comma 1, lett. o), sui presupposti per l’estensione degli effetti esdebitatori ai soci illimitatamente responsabili che siano garanti della società.

Per il resto, e come accennato, i principi della delega riguardano questioni anche rilevanti ma mai centrali.

Dovranno essere individuati criteri di coordinamento nella gestione delle procedure per sovraindebitamento riguardanti più membri della stessa famiglia (art. 9, comma 1, lett. a)).

Nella relazione dell'organismo di cui articolo 9 dovrà essere indicato se il soggetto finanziatore ai fini della concessione del finanziamento abbia tenuto conto del merito creditizio del richiedente valutato in relazione al suo reddito disponibile dedotto l'importo necessario a mantenere un dignitoso tenore di vita (art. 9, comma 1, lett. a)).

Circa il piano del consumatore, si prevede che esso possa comprendere anche la ristrutturazione dei crediti derivanti da contratti di finanziamento con cessione del quinto dello stipendio o della pensione e dalle operazioni di prestito su pegno (art. 9, comma 1, lett. d)).

È poi fissata una direttiva sulle misure sanzionatorie, eventualmente di natura processuale, con riguardo ai poteri di impugnativa e di opposizione a carico del creditore che abbia colpevolmente contribuito alla aggravamento della situazione di indebitamento (art. 9, comma 1, lett. l)).

L’art. 9, comma 1, lett. b), detta un principio in raccordo a quello, fissato in via generale in tema di continuità aziendale, dall’art. 2, comma 1, lett. g), concernente l’elaborazione di soluzioni volte a promuovere la continuazione dell’attività svolta dal debitore, nonché le modalità della loro eventuale conversione nelle soluzioni liquidatorie (in cui, per le imprese, potrà realizzarsi la c.d. continuità aziendale indiretta).

Vi sono poi principi in tema di esdebitazione, che conviene trattare con maggiore attenzione.

Esdebitazione

Come nella liquidazione giudiziale, anche nel ‘fallimento civile' l'esdebitazione è costruita su presupposti di stampo morale.

L'art. 14-terdecies l. n. 3/2012 - in tema di procedura di liquidazione - ribadisce l'aspetto centrale della condotta positiva del sovraindebitato, che non deve avere commesso reati o atti di frode e deve avere dimostrato impegno nel favorire i migliori risultati per la procedura di liquidazione patrimoniale, e sempre che il creditori siano rimasti parzialmente soddisfatti.

I profili di meritevolezza della condotta sono accentuati nella regola che esclude dal beneficio chi si è colposamente indebitato in maniera sproporzionata rispetto al proprio patrimonio, con ciò ponendo le basi della futura insolvenza.

Nel sovraindebitamento la disciplina delle soluzioni negoziali (in cui l'esdebitazione è effetto determinato dal positivo compimento della procedura) si fonda sugli stessi presupposti. Il c.d. ‘accordo di composizione della crisi' è revocato se si accerta che durante la procedura il debitore abbia commesso atti in frode ai creditori: art. 11 l. n. 3 del 2012). Non dissimilmente dispone, poco dopo, l'art. 12 bis in tema di piano del consumatore, con norma ribadita nell'art. 14 bis in tema di revoca e cessazione degli effetti della omologazione del piano del consumatore.

L'art 9, comma 1, lett. c), pone il principio sulla esdebitabilità del debitore che si dimostri meritevole del beneficio anche nei casi in cui non sia in grado di offrire ai creditori nemmeno un adempimento parziale (cosicché la liquidazione è destinata a definirsi per totale mancanza di attivo). Questa fattispecie di esdebitazione può essere concessa una sola volta, fatto sempre salvo l'obbligo del pagamento qualora sopravvengano utilità nei quattro anni successivi.

L'art. 9, comma 1, lett. f), pone il principio sulla preclusione dell'accesso alle procedure di sovraindebitamento ai soggetti che nei cinque anni precedenti abbiano goduto del beneficio della esdebitazione, o abbiano già beneficiato due volte di tale beneficio o abbiano commesso frodi.

Il principio è confuso, e si raccorda malamente con quelli stabiliti dall'art. 2 comma 1, lett. d) ed e), sull'assoggettamento di ogni categoria di debitore all'accertamento dello stato di crisi, insolvenza o sovraindebitamento “disciplinando direttamente i diversi esiti possibili, con riguardo all'apertura di procedure di regolazione concordata o coattiva, conservativa o liquidatoria, tenendo conto delle relative peculiarità soggettive  e oggettive e in particolare assimilando il trattamento” dell'imprenditore  [… di modeste dimensioni] a quello riservato ai debitori civili, professionisti e consumatori” (ossia, il sovraindebitamento). Se infatti il debitore che sia   debitore civile, professionista o consumatore è stato esdebitato già due volte, o comunque nei cinque anni precedenti o abbia commesso frodi, non potrà essere trattato con le regole sul sovraindebitamento. Ma allora, quali regole gli si applicheranno?

La contraddizione sorge giacché nell'art. 2 il legislatore delegante non concepisce, a differenza di quanto fa nel successivo art. 9, il sovraindebitamento come procedura a domanda, di favore per il debitore, ma come esito procedurale dipendente (più che dall'istanza del debitore) dalle caratteristiche oggettive e soggettive della debitoria e della qualità del debitore (imprenditore grande o medio, oppure piccolo, oppure professionista o ancora debitore civile o infine consumatore).

Dovrebbe perciò concludersi che in realtà il debitore di cui trattiamo non possa accedere alle procedure concorsuali negoziali (accordo di ristrutturazione e piano del consumatore), ma che sia a lui riservata pur sempre la procedura di liquidazione.

Che questa sia la soluzione desumibile dalla delega appare confermato dall'art. 9, comma 1, lett. h), che fissa il principio di attribuire l'iniziativa per l'apertura delle soluzioni liquidatorie anche in pendenza di procedure esecutive individuali ai creditori e, quando l'insolvenza riguardi l'imprenditore, al pubblico ministero.

Nello stesso senso depone chiaramente il principio di riservare al consumatore caduto in sovraindebitamento e che abbia agito in colpa grave, malafede o in frode ai creditori, esclusivamente la soluzione liquidatoria (art. 9, comma 1, lett. b)).

Bibliografia

Di Marzio, La riforma delle discipline della crisi d’impresa e dell’insolvenza, Milano, 2017

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