Decreto legislativo - 31/12/1992 - n. 546 art. 2 - Oggetto della giurisdizione tributaria 1 2 3 .

Mario Cavallaro
Marisa Abbatantuoni

Oggetto della giurisdizione tributaria 123.

1. Appartengono alla giurisdizione tributaria tutte le controversie aventi ad oggetto i tributi di ogni genere e specie comunque denominati, compresi quelli regionali, provinciali e comunali e il contributo per il Servizio sanitario nazionale, le sovrimposte e le addizionali, le relative sanzioni nonche' gli interessi e ogni altro accessorio. Restano escluse dalla giurisdizione tributaria soltanto le controversie riguardanti gli atti della esecuzione forzata tributaria successivi alla notifica della cartella di pagamento e, ove previsto, dell'avviso di cui all'articolo 50 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602, per le quali continuano ad applicarsi le disposizioni del medesimo decreto del Presidente della Repubblica 4 5.

2. Appartengono altresì alla giurisdizione tributaria le controversie promosse dai singoli possessori concernenti l'intestazione, la delimitazione, la figura, l'estensione, il classamento dei terreni e la ripartizione dell'estimo fra i compossessori a titolo di promiscuità di una stessa particella, nonché le controversie concernenti la consistenza, il classamento delle singole unità immobiliari urbane e l'attribuzione della rendita catastale. Appartengono alla giurisdizione tributaria anche le controversie [relative alla debenza del canone per l'occupazione di spazi ed aree pubbliche previsto dall' articolo 63 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446 , e successive modificazioni, e del canone per lo scarico e la depurazione delle acque reflue e per lo smaltimento dei rifiuti urbani, nonche' le controversie] attinenti l'imposta o il canone comunale sulla pubblicità e il diritto sulle pubbliche affissioni 6 7.

3. Il giudice tributario risolve in via incidentale ogni questione da cui dipende la decisione delle controversie rientranti nella propria giurisdizione, fatta eccezione per le questioni in materia di querela di falso e sullo stato o la capacità delle persone, diversa dalla capacità di stare in giudizio.

 

[1] Per l'abrogazione del presente articolo, a decorrere dal 1° gennaio 2026, vedi l'articolo 130, comma 1, lettera d), del D.Lgs. 14 novembre 2024, n. 175. Vedi, anche, l'articolo 130, comma 3, del D.Lgs. 175/2024 medesimo.

[2] Per le nuove  disposizioni legislative in materia di giustizia tributaria, di cui al presente articolo, a decorrere dal 1° gennaio 2026, vedi l'articolo 46 del D.Lgs. 14 novembre 2024, n. 175.

[5] La Corte Costituzionale, con sentenza 5 maggio 2008, n. 130 (in Gazz. Uff., 21 maggio 2008, n. 22), ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del presente comma, nella parte in cui attribuisce alla giurisdizione tributaria le controversie relative alle sanzioni comunque irrogate da uffici finanziari, anche laddove esse conseguano alla violazione di disposizioni non aventi natura tributaria

[7] La Corte Costituzionale, con sentenza 10 marzo 2008, n. 64 (in Gazz. Uff., 19 marzo 2008, n. 13), ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del secondo periodo del presente comma, nella parte in cui stabilisce che «Appartengono alla giurisdizione tributaria anche le controversie relative alla debenza del canone per l'occupazione di spazi ed aree pubbliche previsto dall'articolo 63 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, e successive modificazioni». Successivamente la stessa Corte Costituzionale, con sentenza 8 febbraio 2010, n. 39 (in Gazz. Uff., 17 febbraio 2010, n. 7), ha dichiarato l'illegittimità del presente comma, nella parte in cui attribuisce alla giurisdizione del giudice tributario le controversie relative alla debenza, a partire dal 3 ottobre 2000, del canone per lo scarico e la depurazione delle acque reflue, quale disciplinato dagli artt. 13 e 14 della legge 5 gennaio 1994, n. 36.

Inquadramento.

La disposizione indica l'oggetto della giurisdizione delle commissioni tributarie individuando le controversie inerenti i tributi di ogni genere e specie comunque denominati, compresi quelli regionali, provinciali e comunali, le sovraimposte e le addizionali, le relative sanzioni nonché gli interessi ed ogni accessorio. Tra le controversie della giurisdizione tributaria rientrano anche quelle aventi ad oggetto il contributo unificato dovuto per i procedimenti giurisdizionali civili, amministrativi e tributari.

La giurisdizione tributaria rientra nell'ambito delle giurisdizioni speciali, ovvero nell'ambito delle giurisdizioni diverse da quella ordinaria. Essa non incorre nel divieto di istituzione di giudici speciali, poiché già esistente all'entrata in vigore della Costituzione; ciò consente al legislatore ordinario di ampliare e definire la giurisdizione delle commissioni tributarie, purché nel limite della materia tributaria (Corte cost. ord. n. 144/1998; Corte cost. n. 196/1982).

Con i decreti legislativi 31 dicembre 1992, nn. 545 e 546 il legislatore tributario ha portato a pieno compimento la delega di cui all'art 30 l. 30 dicembre 1991, n. 413 per la «revisione della disciplina e l'organizzazione del contenzioso tributario». Tra le novità più rilevanti introdotte dal d.lgs. n. 546/1992 si sottolinea la devoluzione alle Commissioni tributarie della giurisdizione in materia di «tributi locali», le cui controversie, fino alla data di entrata in vigore della novella, erano attribuite alla cognizione del giudice ordinario, previo esperimento dei ricorsi amministrativi.

Tale devoluzione si è poi completata successivamente con l'intervento delle modifiche introdotte dall'art. 12 comma 2 della l. 28 dicembre 2001, n. 448 (legge finanziaria 2002), che, a partire dal 1 gennaio 2002, ha esteso l'ambito della giurisdizione speciale tributaria a tutte le controversie aventi ad oggetto i tributi di ogni genere e specie al fine di assicurare una tutela giurisdizionale uniforme in materia tributaria.

Ad oggi, la giurisdizione delle Commissioni tributarie, provinciali e regionali, di molto ampliata rispetto al passato, riguarda – si può affermarlo senza tema di smentite – tutte le liti relative ai tributi, ricomprese le sovraimposte e le addizionali, e le misure cautelari, quali fermo ed ipoteca, di cui l'Amministrazione Finanziaria si avvale a tutela del credito erariale.

Restano fuori dall'alveo della giurisdizione del giudice tributario le liti relative all'esecuzione forzata che rientrano nella giurisdizione ordinaria e le impugnazioni dei regolamenti e degli atti amministrativi di portata generale la cui giurisdizione appartiene al giudice amministrativo.

Per effetto della nuova norma di cui all'art. 19 comma 2 d.lgs. n. 546/1992 tutti gli atti autonomamente impugnabili, ovviamente notificati successivamente all'entrata in vigore della modifica, devono contenere l'indicazione del termine, delle modalità e della Commissione tributaria cui è possibile ricorrere.

Questi non sono stati gli unici interventi modificatori in materia: l'art. 3-bis comma 1 d.l. 30 settembre 2005, n. 203 aveva ampliato la giurisdizione tributaria anche alle liti aventi ad oggetto il canone per l'occupazione di spazi ed aree pubbliche, il canone per lo scarico e la depurazione delle acque reflue e per lo smaltimento dei rifiuti urbani e l'imposta o il canone comunale sulla pubblicità e il diritto sulle pubbliche affissioni.

Non si può non notare che quest'ultima modifica estendeva la giurisdizione del giudice tributario a materie che hanno una natura diversa da quella tributaria, che la Suprema Corte, in più occasioni, ha qualificato come entrate patrimoniali, specie in conseguenza della defiscalizzazione delle entrate con competenza degli enti locali quali le entrate per la concessione in uso di beni pubblici e quelle relative alla prestazione dei servizi prestati tra cui il ritiro dei rifiuti.

Altra significativa modifica intervenuta a correzione dell'art. 2 d.lgs. n. 546/1992, in vigore dal 1 gennaio 2016, è stata apportata dall'art. 9 comma 1 d.lgs. n. 156/2015, che ha sottratto alla giurisdizione del giudice tributario le liti relative alla debenza del COSAP (art. 63 d.lgs. n.446/1997) e del canone per lo smaltimento dei rifiuti urbani e per lo scarico e la depurazione delle acque reflue.

A tale riguardo è opportuno precisare il chiarimento della Agenzia delle entrate con la Circolare 29 dicembre 2015, n. 38/E che ha ribadito, condividendola, la linea già seguita dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. S.U., n. 25551/2007; Cass.S.U., n. 13902/2007; Cass.S.U., n. 1611/2007; Cass.S.U., n. 1239/2005) che aveva avuto più occasioni per dichiarare che le controversie relative al COSAP non sono di natura tributaria.

Vi è di più: anche la Consulta (Corte cost. n. 39/2010) si è pronunciata dichiarando la illegittimità costituzionale dell'art. 2 comma 2 d.lgs. n. 546/1992 per la parte in cui devolve al giudice tributario la giurisdizione per dirimere questioni attinenti alla debenza del canone per lo scarico e la depurazione delle acque reflue; la competenza a decidere le relative controversie spetta dunque al giudice ordinario.

Si tratta di uno stare decisis a cui non si potrà che fare acquiescenza al momento, non senza rilevarne profili di contraddizione in punto di teoria generale del diritto, in quanto non vi è dubbio che i canoni per lo scarico e la depurazione delle acque reflue non hanno natura meramente patrimoniale e – più ancora – che nel caso di specie era stato il legislatore ordinario, a cui è riconosciuta la piena signoria nel legiferare in materia di tributi e di assegnazione della giurisdizione, anche tributaria, ad assegnare il compito di dirimere le relative controversie alla giurisdizione tributaria.

La Giurisdizione tributaria e il suo carattere onnicomprensivo.

L'art. 2 (in attuazione della delega al Governo contenuta nell'art. 30 l. 30 dicembre 1991, 413, è rubricato «oggetto della giurisdizione tributaria» e nella formulazione attualmente vigente a partire dal 1 gennaio 2016 nel testo seguito all'intervento modificatore ai sensi dell'art. 9 comma 1 lett. a) d.lgs. 24 settembre 2015, n. 156, disegna una giurisdizione tributaria dal carattere onnicomprensivo avendo ad oggetto tutte le controversie concernenti ogni tributo.

La formulazione attuale dell'art. 2 è il frutto di una radicale riformulazione apportata dall'art. 12, comma 2, legge 28 dicembre 2001, n. 448 (Finanziaria 2002).

Sino a prima della citata riforma l'art. 2 era in buona sostanza un elenco tassativo di tributi (imposte sul reddito, imposta sul valore aggiunto, imposta di registro ecc.) la cui debenza e i cui rimborsi, se oggetto di controversia, avrebbero dovuto essere accertati giudizialmente dinnanzi alle Commissioni tributarie, per gli altri tributi la giurisdizione era quella del giudice ordinario.

A decorrere dall'entrata in vigore della riforma, il 1° gennaio 2002, la giurisdizione delle Commissioni è stata «generalizzata», includendo in essa ogni tipo di controversia il cui oggetto sia, appunto, un tributo.

Ad un'individuazione analitica dei singoli tributi si è, in altre parole, sostituito un richiamo a tutto ciò che può essere qualificato come tale.

Dirimente quindi è l'individuazione del concetto di tributo, individuazione qualificatoria dopo la quale si potrà ricorrere alla giurisdizione tributaria.

La disposizione, nel suo dettato, riferisce che ogni controversia relativa a tributi di ogni genere e specie comunque denominati appartiene alla giurisdizione tributaria, ricomprendendo in tale alveo specificatamente i tributi regionali, provinciali e comunali, le addizionali, le relative sanzioni amministrative, gli interessi e ogni altro accessorio; ne sono esempi e ciò a mero titolo esemplificativo: le imposte sui redditi (IRPEF, IRES) e le varie imposte sostitutive; l'IVA; l'IRAP; i tributi locali (IMU/TASI/TARI, imposta sulla pubblicità, TOSAP); le addizionali comunali e regionali all'IRPEF; le accise, i dazi e i diritti doganali; l'imposta di bollo; l'imposta di registro, ipotecaria e catastale; l'imposta sulle assicurazioni; l'imposta sugli intrattenimenti; l'imposta di successione e donazione; il contributo di solidarietà (art. 2, comma 2, d.l. 13 agosto 2011, n. 138).

La stessa giurisprudenza (Cass.S.U., n. 24011/2004), nel tempo allineata sulla medesima posizione, dà prova di quanto sostenuto in dottrina laddove, proprio per il suo abbracciare ogni aspetto relativo all'an ed al quantum del tributo, e trovando un limite solo negli atti dell'esecuzione forzata, riconosce la giurisdizione tributaria come una giurisdizione generale ed esclusiva.

I Supremi Giudici ricordano che a norma dell'art. 2 sono sottratte alla giurisdizione del giudice tributario le sole controversie attinenti alla fase dell'esecuzione forzata; così l'impugnazione degli atti definiti prodromici, quali la cartella esattoriale, l'avviso di mora o l'intimazione di pagamento è devoluta alla cognizione delle Commissioni Tributarie (Cass.S.U., n. 19071/2016).

A tal proposito la giurisprudenza di legittimità è intervenuta pronunciandosi sul corretto riparto di giurisdizione tra il giudice ordinario e il giudice tributario, cogliendo l'occasione per ribadire che la giurisdizione tributaria delimitata dal dettato di cui all'art. 2 d.lgs. n. 546/1992 è una giurisdizione attribuita in via esclusiva e ratione materiae, indipendentemente dal contenuto della domanda e dalla tipologia dei atti emessi dall'Amministrazione finanziaria, e che, ai fini della sua sussistenza, è necessario che alla controversia non sia estraneo l'esercizio del potere impositivo sussumibile nello schema potestà-soggezione che è proprio del rapporto tributario.

La Corte sostiene che il diritto al rimborso di un tributo non dovuto non segue lo schema del modello di ripetizione dell'indebito del diritto comune, in quanto si devono osservare le regole disposte per il riparto di giurisdizione e, nel caso specifico, la speciale disciplina processuale prevista dalle leggi tributarie. In base a tale disciplina si è giunti quindi a ritenere che in materia di rimborso di tributi le controversie sono devolute allo stesso giudice cui è conferita la giurisdizione sul rapporto tributario controverso (Cass.S.U., n. 19069/2016).

A fortiori, giurisprudenza ancor più recente (Cass.S.U., n. 14554/2015), a fronte di una impugnazione che un contribuente aveva mosso per il diniego di sgravio di una cartella per spese di lite, segue lo stesso solco tracciato precedentemente dalla Suprema Corte nel riconoscere la giurisdizione tributaria anche per le liti avverso gli atti di riscossione delle spese di lite, per il caso in cui l'ente pubblico agisca coattivamente nel recupero delle spese legali all'origine della lite tributaria stessa.

Tale lettura trova la sua ratio in una interpretazione estensiva relativa al concetto di accessorio del tributo, dal momento che le spese giudiziali per una lite tributaria si farebbero rientrare proprio tra detti accessori.

La giurisdizione tributaria si definisce come una giurisdizione di annullamento, pertanto si esclude la ammissibilità dell'azione qualificata di accertamento negativo per sentir pronunciare la dichiarazione della insussistenza di un diritto richiesto dal convenuto (Cass.S.U., n. 24011/2007) e, tantomeno, la domanda ulteriore avanzata dal resistente in giudizio contro chi abbia agito; possibilità, invece, ammessa come domanda riconvenzionale nel giudizio civile.

Vi è di più: la stessa giurisprudenza nega la possibilità che l'azione di accertamento negativo sia esperibile anche dinanzi al giudice ordinario (Cass.S.U., n. 13793/2004), tanto che il contribuente, adito il Tribunale ordinario per sentirsi pronunciare sentenza dichiarativa per la insussistenza della obbligazione IRAP, si è visto dichiarare il difetto di giurisdizione.

Come poc'anzi anticipato, attesa la generalizzazione della giurisdizione delle Commissioni, assume fondamentale importanza la qualificazione in termini giuridici di ciò che deve intendersi come tributo.

Il concetto di «prestazione patrimoniale imposta» viene delineato dall'art. 23 Cost. che definisce per l'appunto il tributo e il suo requisito tipico: la coattività. La legge vincola il prelievo fiscale sottraendolo sia dalla volontà di chi lo subisce, sia da quella di chi lo preleva e/o lo gestisce. Il tributo, destinato ai sensi dell'art. 53 Cost. a far fronte alla spesa pubblica, viene accertato e riscosso attraverso poteri ben più invasivi di quelli che caratterizzano il rapporto tra privati ed non ha natura di corrispettivo, in quanto dovuto anche in assenza dell'erogazione di un servizio pubblico. In presenza di tasse, il contribuente usufruisce di un servizio o perché gli viene imposto o perché gli è indispensabile; in entrambi i casi rileva il carattere della coattività. Altro elemento caratterizzante il tributo deriva dall'art. 53 Cost., che in presenza di capacità contributiva in termini di ricchezza impone il concorso alla spesa pubblica.

Negli anni si è assistito ad un progressivo ampliamento della competenza giurisdizionale delle commissioni tributarie; come sopra indicato, la legge finanziaria 2002 ha imposto un ampliamento successivamente integrato seppur solamente a livello terminologico con la l. n. 248/2005, che con la dicitura introdotta all'art. 3-bis «tributi di ogni genere e specie» e l'inciso «comunque denominati» «per attrarre nella giurisdizione tributaria quelle forme d'imposizione nelle quali manca formalmente la definizione di tributo». La nozione di tributo diviene quindi punto focale nei conflitti per il riparto della giurisdizione, ampliamento, questo, in certi casi tacciato di incostituzionalità: si rammenta la sentenza della Corte cost. n. 64/2008 relativa alla devoluzione del canone per l'occupazione di spazi ed aree pubbliche alla giurisdizione tributaria, ed ancora del canone per lo scarico e la depurazione delle acque reflue di cui all'art. 16 della l. 10 maggio 1976, n. 319, Corte cost. n. 39/2010. La volontà espansiva del legislatore si scontra quindi con il più parsimonioso intento della giurisprudenza.

Assunti i delineati caratteri come tipizzanti il tributo, la giurisprudenza è giunta negli ultimi anni a devolvere alle Commissioni tributarie la giurisdizione su di una molteplicità di fattispecie.

Dopo interventi altalenanti la Corte di Cassazione (Cass. n. 17526/2007) ha riconosciuto la natura di «prestazione patrimoniale imposta» alla tariffa sui rifiuti poiché questa «ha sicuramente natura pubblicistica, non costituendo, in senso tecnico, il corrispettivo di una prestazione liberamente richiesta; e rappresentando invece una forma di finanziamento di servizio pubblico attraverso l'imposizione dei relativi costi sull'area sociale che da tali costi ricava, nel suo insieme, un beneficio».

Il carattere espansivo, lo si rileva da ultimo, relativamente alla qualifica di IAP è stato rimesso al Primo Presidente il compito di valutare la rimessione alle Sezioni Unite della questione sulla giurisdizione delle controversie sui provvedimenti inerenti alla qualifica di imprenditore agricolo professionale (IAP) volta all'ottenimento dei benefici fiscali in materia di acquisto di terreni agricoli per la formazione di un compendio unico di cui agli artt. 5-bis del d.lgs. n. 228/2001 e 5-bis della l. n. 97/1994 (non più vigente ex art. 10 del d.lgs. n. 23/2011).

Secondo Cass. n. 10541/2017, a seconda che si valorizzi la circostanza che il giudizio verta sulla materia tributaria ovvero su provvedimenti amministrativi connotati da discrezionalità, la giurisdizione spetterà, rispettivamente, al giudice tributario ovvero al giudice amministrativo.

Liti di competenza della giurisdizione tributaria

A causa della non sempre immediata evidenza dei caratteri tipizzanti il tributo, può accadere che l'individuazione della giurisdizione sia attività non semplice.

La giurisprudenza precisa che, la giurisdizione tributaria è una giurisdizione «esclusiva», che si estende ad ogni aspetto concernente l'an e il quantum del tributo, e che si arresta solo di fronte agli atti dell'esecuzione forzata (Cass.S.U., n. 1082/2007).

Per altro verso, si è ritenuto rientri nella giurisdizione tributaria anche la lite instaurata contro gli atti di riscossione delle spese di lite, quando l'ente pubblico agisca in via coattiva per recuperare le spese legali originanti da una lite tributaria: ciò sulla base di una interpretazione molto estensiva (e discutibile) del concetto di accessorio del tributo: le spese giudiziali per una lite tributaria rientrerebbero tra tali accessori.

Così, Cass.S.U., n. 14554/2015, in una occasione in cui il contribuente aveva impugnato il diniego di sgravio di una cartella recante spese di lite.

Si definisce la giurisdizione tributaria una giurisdizione di annullamento: per questo motivo, non è ammessa la c.d. «azione di accertamento negativo», volta a dichiarare l'insussistenza di un diritto preteso dal convenuto (Cass.S.U., n. 24011/2007) né la domanda riconvenzionale (la ulteriore domanda avanzata da colui che resiste in giudizio contro chi agisce in giudizio, che è invece ammessa davanti al giudice civile).

Come già rappresentato, l'art. 19, comma 1, d.lgs. n. 546/1992 concorre a determinare l'ampiezza della tutela giudiziaria avverso gli atti impositivi in quanto reca un elenco degli atti impugnabili dinnanzi alle Commissioni tributarie.

Alla luce della genericità degli atti oggetto d'impugnazione contenuti nell'elenco, è fondamentale individuare gli elementi caratterizzanti (avviso di accertamento, liquidazione, ruolo, cartella ecc.) al fine di verificare la corrispondenza tra l'atto da impugnare e il modello formale.

A proposito della qualificazione dell'avviso di accertamento, la Corte di Cassazione afferma che per dirsi tale e quindi impugnabile, deve esporre come minimo contenuto formale: «il presupposto della imposizione, la misura della imposta pretesa e gli anni di riferimento (...) cioè, quegli elementi minimi indispensabili voluti dal legislatore per il raggiungimento dello scopo e finalizzati a porre in grado il cittadino di conoscere la pretesa impositiva e di contestarla efficacemente» (Cass. sez. trib., n. 14482/2003).

In presenza di tali contenuti, l'atto appare come la liquidazione di una pretesa fiscale ormai compiuta e non condizionata. A tal proposito è l'art. 19, comma 2, d.lgs. n. 546/1992, che prescrive che lo stesso debba contenere «l'indicazione del termine entro il quale il ricorso deve essere proposto e della Commissione tributaria competente, nonché delle relative forme da osservare». Da ciò si trae la conseguenza che riscontrato il descritto contenuto minimo il provvedimento può definirsi a tutti gli effetti accertamento, quale che sia la denominazione attribuitagli dall'ente impositore. È dunque il contenuto dell'atto a dare una caratterizzazione maggiormente pregnante rispetto al semplice nomen iuris.

La Suprema Corte (Cass. n. 17526/2007) ha statuito che «l'art. 19 concorre (...) a delineare la natura dell'atto impugnato nel processo tributario soprattutto con il suo comma 2, in cui disciplina i profili formali cui deve rispondere tale atto»; dirimente è certamente la liquidazione de facto della pretesa a prescindere dalle indicazioni previste dall'art. 19, comma 2, anche alla luce del fatto che come statuito dalla sentenza della Cass. n. 16293/2007, sarebbe sempre possibile una rimessione in termini del contribuente per errore scusabile.

Liti del sostituto d'imposta

Sono considerate liti la cui giurisdizione appartiene al giudice ordinario a fronte di una norma apposita, la cui previsione stabilisce che in capo al sostituto vi sia una ritenuta il cui importo debba essere versato all'erario per un determinato titolo nella corresponsione di una somma al sostituito: ne è un esempio la corresponsione dello stipendio al lavoratore dipendente.

Dello stesso tenore è il caso della retribuzione o delle somme erogate per prestazioni professionali: qui, colui che eroga, il sostituto, nella veste del datore di lavoro o cliente, nel corrispondere il dovuto al soggetto che le percepisce, sostituito, nella veste del lavoratore subordinato o professionista, ha l'obbligo di procedere a ritenuta per versarla, poi, all'erario. Il rapporto trilaterale appena descritto coinvolge i tre soggetti, sostituto, sostituito e Fisco ed è complesso specie in ambito processuale.

A tale riguardo la giurisprudenza spesso si è mostrata ondivaga e l'oscillazione dell'orientamento seguito è frutto del dubbio scaturente proprio dall'oggetto della rivalsa in contestazione. Si tratta di capire alla base se quel tributo andava applicato, oppure no e se è quella la questione che viene sottoposta al giudice.

Altra questione che qui viene in rilievo è che sovente la lite non si origina a partire da un atto tributario.

Il primo caso, porta a delineare la giurisdizione in capo al giudice tributario; il secondo, fa dubitare sulla sua giurisdizione.

Sono definite liti di rivalsa ordinaria quelle in cui il sostituito, una volta che il sostituto abbia provveduto alla ritenuta nella convinzione che il provento non doveva essere assoggettato alla tassazione, chieda al sostituto la restituzione delle somme trattenute.

A tale riguardo la giurisprudenza, in origine, aveva sostenuto che la controversia tra sostituto e sostituito per l'imposta della legittimità della ritenuta d'acconto, in quanto determinante la risoluzione di una causa di natura tributaria, fosse della giurisdizione esclusiva delle Commissioni tributarie e non si presentasse come una semplice pregiudiziale da definirsi in litisconsorzio necessario con l'Amministrazione Finanziaria (Cass. n. 21733/2005; Cass.S.U., n. 9074/2003; Cass.S.U., n. 789/1999).

Successivamente a tale orientamento la Suprema Corte di Cassazione (Cass.S.U., n. 15031/2009) ha assunto una posizione diversa, stabilendo che le liti del sostituito per la definizione della legittimità delle ritenute rientrassero nella giurisdizione ordinaria in quanto la giurisdizione tributaria si giustifica alla luce del riscontro di un ente impositore al quale si debba notificare il ricorso e di un atto che sia impugnabile: ciò che nello specifico manca nella lite che coinvolge sostituto e sostituito.

La Cassazione ha peraltro sottolineato che il sostituto che abbia adempiuto al proprio obbligo tributario, e ciò sia in maniera coattiva che in via volontaria, avoca a sé il diritto di rivalsa che, quindi, mantiene, riconoscendo che il giudice ordinario può occuparsi dell'obbligazione tributaria in via incidentale; in caso di instaurazione della controversia innanzi al giudice tributario è a lui che compete la dichiarazione di inammissibilità del ricorso, mancando il provvedimento impugnabile. Dinanzi al giudice ordinario l'ufficio non potrà rivestire la qualità di litisconsorte necessario; resta in piedi la giurisdizione tributaria a fronte del diniego dell'ufficio circa la richiesta di rimborso, e relativamente all'accertamento emesso per la contestazione, ad esempio, della omessa dichiarazione di proventi imponibili, o di omessa esecuzione della ritenuta.

Si potrebbe opinare che sia propria della giurisdizione tributaria la lite avente ad oggetto un tributo, specie quando tale controversia, per essere risolta, necessiti di un giudizio che richieda la necessaria compartecipazione del sostituto, del sostituito e Fisco, determinandosi una ipotesi di litisconsorzio necessario.

In senso contrario a tale ricostruzione si è tuttavia pronunciata: Cass. n. 18361/2015.

Concludendo sul punto, per l'instaurazione di un siffatto giudizio risulta sempre necessario che vi siano: la istanza di rimborso come compiutamente formulata; la impugnazione dell'atto di diniego conseguente, sia esso tacito ovvero espresso; infine, oltre alla Amministrazione Finanziaria, anche il sostituto deve essere chiamato in causa: una tale combinazione sarebbe equilibrata, fisiologica, rispettosa non solo della natura tributaria della lite, ma anche conforme alla regola che detta che il giudizio tributario debba sempre rivolgersi contro un atto espresso, o contro un silenzio, e comunque nei confronti dell'Amministrazione Finanziaria.

Accanto all'appena descritta ipotesi qualificata di rivalsa ordinaria, si colloca una ipotesi di rivalsa successiva che si verifica quando il sostituto, non avendo operato la ritenuta, rimane obbligato verso l'Amministrazione Finanziaria; laddove provveda a versare il dovuto, sorge il problema della tutela delle proprie ragioni.

In dottrina tale problema pone due aspetti problematici che vengono risolti seguendo due distinti possibili percorsi.

Laddove il sostituto abbia effettuato il versamento non dovuto, è palese che possa procedere alla richiesta del rimborso all'Erario: in caso di diniego, o di silenzio dell'Amministrazione Finanziaria, si vedrà costretto a promuovere un giudizio la cui natura tributaria è indubbia: in tali ipotesi la giurisdizione ricade nell'alveo delle Commissioni tributarie: in tal senso Cass. n. 16105/2015.

Criticità maggiore riguarda la situazione in cui il sostituto si trovi nella posizione di dover procedere alla istanza di rimborso ed alla impugnazione del diniego o del silenzio anche per l'ipotesi in cui intenda ottenere il rimborso della ritenuta pagata dal sostituto in modo corretto, e non nella già cennata ipotesi del rimborso della ritenuta indebita.

La giurisprudenza si è pronunciata a tal proposito (Cass.S.U., n. 23019/2005; Cass.S.U., n. 15047/2009): si è in presenza di un percorso complesso, in quanto il sostituto che abbia versato l'importo della ritenuta direttamente al Fisco, e non abbia trattenuto la ritenuta pagando il sostituto volendo, poi, recuperarla, deve presentare l'istanza del rimborso all'ufficio; laddove questo emetta un diniego, il sostituto dovrà impugnarlo chiamando in causa anche il sostituito, chiedendo al giudice tributario o che il Fisco sia condannato al rimborso, oppure che sia applicata la ritenuta, così ottenendo una sentenza capace di fare stato anche nei confronti del sostituito.

Tale meccanismo, però, a ben guardare, innesca un processo la cui intenzione è quella di ottenere una sentenza di rigetto: in dottrina si è correttamente sottolineato che le due posizioni, definibili della istanza di rimborso e della rivalsa successiva, sono antitetiche e reciprocamente incompatibili.

L'interpretazione giurisprudenziale, seppur non in via esplicita, ammette la possibilità per il sostituto che abbia perso la causa contro il diniego di rimborso, di poter utilizzare il giudicato, una volta formatosi, al fine di escutere il sostituito che, in sede civile, abbia avuto il ruolo di parte nel giudizio.

Sono necessarie alcune osservazioni: preliminarmente occorre osservare che il giudicato tributario non fa stato nel giudizio civile e che il sostituto non dispone di mezzi di tipo pubblicistico che gli consentano di escutere il sostituito. A tal proposito bisognerebbe trovare conferma del fatto che, una volta intervenuta una sentenza del giudice tributario, questa abbia accertato che vi sia stato, da parte di questi, il versamento della ritenuta e che, quindi, tale ritenuta fosse dovuta effettivamente: a questo punto egli potrebbe inoltrare al giudice civile un decreto ingiuntivo contro il sostituito.

Il percorso ricostruito in sentenza appare indubbiamente problematico.

Giova qui riportare l'altro indirizzo, pure seguito dalla giurisprudenza di Cassazione (Cass. n. 15031/2009), di segno opposto a quanto finora riferito, che riconosce e devolve alla giurisdizione ordinaria le controversie tra sostituto e sostituito in costanza di assenza di un atto impugnabile, il quale è considerato il traghetto necessario verso la sponda della giurisdizione tributaria.

Non manca giurisprudenza che riconosce la giurisdizione ordinaria relativamente ai casi in cui non venga in discussione la debenza della ritenuta nei confronti dell'erario (Cass. n. 16105/2015).

Resta comunque il rilievo doveroso che la giurisprudenza non è né lineare né costante nell'assumere una posizione.

Posizione che appare incontestata è quella che riconosce la giurisdizione tributaria per i casi in cui vi sia la presenza di una istanza di rimborso cui faccia seguito un silenzio oppure un rigetto, a loro volta contestati.

Ciò che resta incerto è che la detta istanza di rimborso sia dovuta: conseguentemente vi sarà la giurisdizione del giudice tributario sugli atti di diniego o di silenzio in difetto di contestazione circa l'obbligo del versamento della ritenuta, caso in cui essendo completamente assente una questione tributaria all'origine del contendere, la giurisdizione tributaria non avrebbe alcuna ragione di esistere; oppure, anche in caso di presenza di contestazioni, le parti non vogliano ottenere una pronuncia efficace nei confronti dell'Amministrazione Finanziaria e non si attivino in tal senso: in tale secondo caso, invece, la questione relativa alla spettanza della giurisdizione se in capo al giudice ordinario od a quello tributario vede un dibattito aperto e contrastante tra varie posizioni e che ha interessato le Sezioni Unite le quali propendono perché sia riconosciuta la giurisdizione del giudice ordinario (Cass.S.U., n. 19289/2012).

Liti da cessione del credito IVA

Le controversie relative al rimborso dell'IVA sono fattispecie problematiche in quanto anch'esse, così come quella che precede, sono a volte corredate dall'incertezza della giurisdizione di riferimento, con un significativo tratto in comune:il rapporto ha una struttura trilaterale, connotata dalle figure del cedente/prestatore (contribuente percosso o di diritto, obbligato alla rivalsa), del cessionario/committente (contribuente inciso o di fatto, solo quando consumatore finale o quando l'imposta è stata assolta alla fonte ex art.74, d.P.R. n. 633/1972, e quindi privo dell'azione di rivalsa) e dell'Amministrazione Finanziaria (ente impositore); dall'altro, invece, dalle figure del sostituto (contribuente percosso o di diritto, obbligato alla rivalsa), del sostituito (contribuente inciso o di fatto, privo dell'azione di rivalsa), e dell'Amministrazione Finanziaria (ente impositore). La rivalsa IVA è un trasferimento —obbligatorio e documentalmente evidenziato ex lege (art.18, d.P.R. n. 633/1972) — di un onere tributario dal soggetto che lo ha sostenuto in prima battuta al soggetto, effettivo destinatario; la rivalsa si distingue dalla traslazione, che è un mero trasferimento economico dell'onere tributario sopportato, realizzato volontariamente con la maggiorazione del prezzo di cessione, e dal regresso, che è il diritto alla ripartizione postuma dell'adempimento di un'obbligazione tributaria solidale (priva del beneficium excussionis et divisionis), recuperando le rispettive quote dagli altri coobligati.

Le controversie originate dalla impugnazione avente ad oggetto atti di diniego di rimborso, o che riguardano ricorsi avanzati a fronte del riscontrato silenzio del Fisco, comunque definite «liti di rimborso», ricadono sicuramente nella giurisdizione del giudice tributario.

A tale riguardo, però, necessita una precisazione: la giurisdizione cambia a seconda dell'oggetto della lite di rimborso.

Nelle liti aventi ad oggetto l'applicazione dell'IVA ritenuta indebita la definizione del soggetto legittimato al rimborso, posto che esso possa essere il cedente, ma anche il cessionario, è questione che non attiene alla giurisdizione del giudice tributario; in ciò è netta la posizione della giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione (Cass.S.U., n. 27208/2009).

La questione del soggetto legittimato a proporre la domanda è di pertinenza della giurisdizione del giudice tributario: la giurisprudenza a tale riguardo distingue due diverse posizioni, da un lato quella del cessionario soggetto IVA (contribuente percosso o di diritto), e dall'altro quella del cessionario consumatore finale (contribuente inciso o di fatto), nel senso che solo al primo è concesso legittimamente di poter richiedere il rimborso (Cass. n. 13750/2015).

Altra questione è quella della giurisdizione riguardante le liti di rivalsa tra cedente e cessionario e aventi ad oggetto l'IVA, che, però, non sono relative alla contestazione di un rigetto di rimborso e neanche relative al silenzio della relativa istanza: sono questi i casi in cui sembra più facilmente negabile la giurisdizione in capo al giudice tributario, quando la controversia coinvolga un cedente e un cessionario consumatore finale che rivesta una posizione estranea al rapporto giuridico tributario (Cass.S.U., n. 208/2001). Su questa stessa linea si attesta la giurisdizione per le controversie tra appaltatore e appaltante (Cass.S.U., n. 6451/2016) e per quelle attinenti le imposte di fabbricazione come quelle sul gas (Cass. n. 1837/2016).

Più dubbio è il caso in cui la lite coinvolga un cedente ed un cessionario assoggettato ad IVA: secondo la giurisprudenza tale controversia è di pertinenza della giurisdizione ordinaria e ciò anche per il caso relativo alla debenza dell'IVA, in quanto la questione tributaria andrebbe decisa in via incidentale dal giudice ordinario (Cass.S.U., n. 3817/2009; Cass.S.U., n. 9567/2013).

Particolare attenzione è stata prestata dalla giurisprudenza alle questioni attinenti il credito IVA che può essere ceduto (ris. Agenzia delle Entrate 4 giugno 2006, n. 49; circ. Agenzia delle Entrate 13 febbraio 2006, n. par. 12.4) per come si evince dalla dichiarazione annuale, a differenza di quello infrannuale (quest'ultimo chiesto a rimborso ai sensi dell'art. 38-bis d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633).

L'atto di cessione opera il trasferimento del credito determinando il subentro del cessionario nelle posizioni giuridiche soggettive di cui prima era titolare il cedente.

È proprio in funzione di tale subentro che si riconosce la legittimazione in capo al cessionario di poter procedere alla richiesta del rimborso dell'IVA, per poi contestarne il diniego, o eventualmente il silenzio laddove esso sia ravvisato; detta azione soffre il termine di decadenza biennale per gli effetti di cui all'art. 21 d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 (Cass.S.U., n. 8090/2002; C.t.r. Lazio — Roma 18 ottobre 2005, n. 87).

La controversia avente ad oggetto il diniego o il silenzio sul rimborso rientra nella giurisdizione del giudice tributario e ciò prescindendo dal fatto che essa sia fondata e che il cessionario sia l'effettivo legittimato.

Liti da responsabilità del liquidatore e dell'amministratore di società di capitali per imposte non pagate

Ai sensi della disposizione di cui all'art. 36 ultimo comma d.P.R. n. 602/1973 si riconosce espressamente la giurisdizione del giudice tributario per le controversie intraprese per iniziativa del Fisco nell'azionare la responsabilità in capo a coloro, liquidatori ed amministratori di società di capitali, che la legge individua come soggetti che hanno l'obbligo di adempiere alle imposte IRES non pagate e che non abbiano provveduto all'adempimento.

I liquidatori che abbiano assegnato beni ai soci od a soggetti associati e che abbiano soddisfatto creditori che non dovevano essere preferiti all'Ufficio (art. 36 comma 1 d.P.R. n. 602/1973) rispondono in proprio per le imposte sui redditi dovute dalla società, e ciò, non solo per il periodo che precede la liquidazione, ma anche per quelli anteriori ai casi suddetti specie qualora nella loro disponibilità rientrino le risorse per pagare l'imposta. La responsabilità del liquidatore si configura al ricorrere della soddisfazione di crediti di ordine inferiore rispetto a quelli tributari ovvero laddove si sia verificata l'assegnazione di beni a soci o associati in danno al soddisfacimento del credito erariale: è così che si configura il presupposto affinché si ravvisi la detta responsabilità che, però, è conseguente all'accertamento definitivo del debito di imposta per la società ed in modo quantitativamente ristretto in quanto limitato al credito erariale non soddisfatto che sarebbe stato adempiuto correttamente laddove il liquidatore vi avesse adempiuto nel rispetto delle regole. Per i casi di scioglimento di società nelle quali non sia intervenuta la nomina di un liquidatore, la descritta responsabilità ricade in capo agli amministratori in carica all'epoca dello scioglimento.

Vi è di più: gli amministratori, che nei due anni che hanno preceduto la messa in liquidazione della società laddove abbiano occultato attività sociali o abbiano posto in essere operazioni riconducibili alla fase della liquidazione della società, rispondono del mancato pagamento delle imposte.

Con riguardo alla natura della responsabilità ex art. 36 d.P.R. n. 602/1973 si esclude che essa sia di tipo tributario in quanto autonoma rispetto al debito di natura tributaria della società che è il soggetto qualificato come contribuente: essa si configura come una responsabilità ex lege (Cass.S.U., n. 2079/1989; Cass. n. 13098/2005; Cass. n. 12546/2001) che ha natura civile dal momento che si pone come una responsabilità per lesione del credito del Fisco (Cass. n. 11968/2012).

L'art. 36 d.P.R. n. 602/1973 nel suo penultimo comma dispone l'azionabilità di tale responsabilità con un atto di accertamento della responsabilità della Agenzia delle Entrate, impugnabile dinanzi al giudice tributario a condizione che: i ruoli di iscrizione dei tributi della società possano essere posti in riscossione e che vi sia la certezza legale che questi non siano stati soddisfatti per il tramite delle attività di liquidazione della società (Cass. n. 11968/2012; Cass. n. 8685/2002; Cass. n. 2768/19989; Cass. n. 9688/1995; Cass. n. 2820/1985).

Secondo parte della giurisprudenza, l'onere della prova ricadrebbe in capo all'Ufficio, non solo nel determinare la certezza della sussistenza e della esistenza del tributo al momento della verificazione della condotta, ma anche per la prova del debito tributario. Ciò che determinerebbe la responsabilità del liquidatore; al liquidatore, invece, spetta la prova che non sussistano tali presupposti perché sia ravvisabile la sua responsabilità, come, ad esempio, l'incertezza del debito, ovvero la carenza di attività nel patrimonio sociale (Cass. ord. n. 179/2014; Cass. n. 10508/2008).

La norma è stata ritoccata nel tempo.

Essa, originariamente, mancava di prevedere un onere a carico del liquidatore. Ad oggi si prevede la responsabilità del liquidatore o dell'amministratore laddove non si dimostri che abbia provveduto a soddisfare i crediti tributari prima dell'assegnazione dei beni ai soci e di averne prima provveduto alla soddisfazione di quei crediti qualificati come non tributari di ordine superiore (art. 36 comma 1 d.lgs. n. 602/1973 dopo la novella per effetto dell'intervento dell'art. 28 comma 5 d.lgs. 21 novembre 2014, n. 175).

Si ritiene che l'onere di tale prova scatti laddove l'Agenzia abbia dato prova dell'assegnazione dei beni o della soddisfazione dei crediti, al fine di scongiurare una prova troppo sproporzionata che determinerebbe il rischio che potrebbe essere macchiata da illegittimità, tale da consentire una questione di legittimità costituzionale.

La giurisprudenza della Corte Suprema è intervenuta a Sezioni Unite a corroborare la natura non tributaria della responsabilità, al punto che è stata riconosciuta la possibilità di azione dinanzi al giudice civile per contestare che sussistano gli elementi dell'illecito consentendo, così, la possibilità una azione di accertamento negativo.

Per il caso in cui l'accertamento venga notificato, invece, la lite rientra nella giurisdizione tributaria (Cass.S.U., n. 2079/1989). Il momento di discrimine è segnato dalla previa notifica alla società in liquidazione dell'avviso di accertamento per le imposte che essa doveva, pure obbligatoria: prima che tale notifica sia integrata, la società che quindi ancora non ha ricevuto l'accertamento relativo alla propria responsabilità, consente al liquidatore di ottenere una pronuncia del Tribunale di accertamento negativo; successivamente, invece, la giurisdizione è di natura tributaria e pertanto andrà attivato il giudice tributario.

Il giudizio tributario che viene in essere in questa ipotesi si fonda sulla contestazione dei presupposti della responsabilità: più che l'effettiva debenza del tributo dovuto dalla società, avrà ad oggetto quelle condotte preferenziali che avrebbero determinato pregiudizio al credito erariale (Cass. n. 12546/2001; Cass. n. 3797/1984).

Permane comunque un nodo problematico difficile da sciogliere: tale ricostruzione lede la posizione del liquidatore, dal momento che non gli viene consentito un contraddittorio per l'esistenza del credito, danneggiato per giunta dalla propria condotta; ciò diventa ancora più stringente nel caso di una società dichiarata estinta.

Così, la giurisprudenza nega la possibilità della instaurazione di un processo relativo ai debiti sociali della società estinta ovvero nega che si possa proseguire nei confronti del liquidatore, dato che questi non rivestirebbe né la posizione di successore, né la qualifica di coobbligato (Cass. n. 11968/2012).

La lettura giurisprudenziale che nega al liquidatore la possibilità di resistere procedendo alla impugnazione dell'avviso di accertamento relativo alla sua responsabilità, anche per la pretesa vantata dal Fisco sul rapporto di imposta, si palesa come discutibile.

Viene qui in rilievo un contrasto giurisprudenziale forte tra la posizione della giurisprudenza della Cassazione e quella della Consulta relativa alla questione di legittimità costituzionale dell'art. 36 comma 6, per la possibilità che il liquidatore possa agire dinanzi al giudice tributario per contrasto con la regola che pone il divieto dell'istituzione di nuovi giudici speciali.

Da un lato, la Cassazione ritiene infondata tale questione, sostenendo che la scelta del giudice tributario corrisponde ai principi di buona amministrazione della cosa pubblica anche in considerazione del fatto che le controversie scaturenti dalla applicazione dell'art. 36 sono connesse alla gestione della società per il profilo fiscale che le riguarda (Cass. n. 12546/2001); dall'altro, la Corte Costituzionale mette in dubbio tale lettura della Cassazione, nel rapportarla alla sua giurisprudenza che riconosce l'attribuzione della controversia alla lite del giudice speciale in quanto, così interpretando, al giudice tributario si assegna una competenza connessa sì a tributi, ma per una obbligazione civile.

Questo punto di arrivo è comune a quello cui si perviene quando viene in considerazione la posizione dell'ex amministratore e ciò sia per il titolo di responsabilità, sia per gli aspetti della procedura, sia nel nodo problematico analizzato.

Secondo la giurisprudenza, sempre ai sensi dell'art. 36, anche l'amministratore deve rispondere in proprio per le imposte non pagate e tale responsabilità non si basa sul dolo o sulla colpa, ma su di una obbligazione ex lege che lo rende responsabile in virtù delle norme comuni di cui agli artt. 1176 e 1218 c.c., ai fini della valutazione di elementi obiettivi per la sussistenza di attività nel patrimonio della società e della distrazione di tali attività per fini diversi dal pagamento delle imposte dovute (Cass. n. 11968/2012).

Liti da risarcimento per danni causati dal fisco e dai giudici tributari.

Giurisprudenza consolidata sostiene ormai da tempo che tanto la domanda del risarcimento del danno provocato dall'Amministrazione Finanziaria (Cass.S.U., n. 8958/2007; Cass.S.U., n. 15/2007), quanto la domanda per il risarcimento avanzata per la mancata attuazione del diritto comunitario (Cass.S.U., n. 20323/2012) rientrano nella giurisdizione ordinaria.

Le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione, investite della questione, hanno confermato la giurisdizione ordinaria della controversia di un privato il quale non adempiva al debito d'imposta ICI in modo tempestivo o in modo integrale e che si attivava per la domanda del risarcimento dei danni subiti in sede di riscossione coattiva per avere dovuto provvedere anche alla corresponsione delle somme che il Comune pretendeva per l'assistenza legale di cui il medesimo ente si era avvalso (Cass.S.U., n. 10826/2008).

Con riguardo al danno cagionato dal giudice tributario al contribuente che si consideri danneggiato dal suo intervento, si ravvisa una responsabilità non qualificabile come disciplinare: a tale proposito, punto di riferimento fisso è indubbiamente la l. 13 aprile 1988 n. 117 e le liti che ne discendono sono controversie relative alla giurisdizione ordinaria.

A tale riguardo trovano conferma sia il primato del diritto comunitario sul diritto interno sia la giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea.

Quest'ultima aveva affermato che perché sia configurabile la responsabilità del giudice nazionale, non soccorrono il dolo, né la colpa grave, laddove l'errore interpretativo abbia ad oggetto questioni di cui la Corte sia stata già investita e che abbia già provveduto a dirimere (in tal senso: CGUE 24 novembre 2011, causa C-379/10, Commissione Europea/Repubblica Italiana; CGUE 13 giugno 2006, causa C-173/03, Traghetti del Mediterraneo).

I limiti previsti dalla l. n. 117/1988 da applicarsi al giudice tributario per la sua responsabilità come parametrata (rapportata) ad una quota del suo stipendio, limita la sua responsabilità patrimoniale restringendola in un perimetro molto circoscritto.

Anche l'azione per la domanda risarcitoria per il ristoro dei danni subiti dall'attività dell'Agente della Riscossione si propone dinanzi al giudice ordinario (art. 59 d.P.R. n. 602/1973) (Cass.S.U., n. 14506/2013).

I provvedimenti che qui vengono in rilievo sono sia il fermo di beni mobili registrati di cui all'art. 86 d.P.R. n. 602/1973 sia l'iscrizione di ipoteca di cui all'art. 77 d.P.R. n. 602/1973, entrambi casi nei quali l'Agente della Riscossione è chiamato al rispetto dei principi di proporzionalità e ragionevolezza, valutando con meticolosità il disagio cui è sottoposto il contribuente, da raffrontare e contemperare necessariamente con l'esigenza della riscossione del credito vantato dall'Erario.

Nello specifico, l'azione per il danno causato dall'iscrizione di ipoteca ricade nella giurisdizione del giudice ordinario anche per il caso che l'ipoteca sia posta a garanzia di crediti tributari e ciò in quanto il diritto che viene fatto valere è relativo al risarcimento del patrimonio, non attenendo strettamente al rapporto tributario sottostante, che è semplicemente quello per la cui cautela viene adottata l'ipoteca che lede il diritto fatto valere.

Il danno da responsabilità processuale aggravata di cui all'art. 96 c.p.c. ricade, invece, nella giurisdizione tributaria perché tale tipo di responsabilità è considerata come «accessoria» al giudizio: ciò in quanto il risarcimento del danno per lite temeraria, frutto dell'esercizio di una pretesa perpetrata con dolo o con mala fede da parte dell'Amministrazione Finanziaria, ingloba anche la precedente fase amministrativa rispetto al successivo contenzioso (Cass. n. 21570/2012; Cass., ord. n. 13899/2013). Ne è un esempio l'ipotesi della mancata attivazione del contraddittorio preventivo con il contribuente sui fatti che basano la pretesa per il contraddittorio per come previsto dalla legge o per il caso di richieste aventi ad oggetto imposte armonizzate (Cass.S.U., n. 24823/2015).

Riconoscimento del credito da parte dell'amministrazione finanziaria e diritto al rimborso.

La controversia riguardante la restituzione della somma per il caso in cui l'Amministrazione Finanziaria abbia riconosciuto il diritto di credito del contribuente rispecchiando i caratteri tipici dell'indebito oggettivo di cui all'art 2033 c.c., ricade sotto la giurisdizione ordinaria, pur permanendo una lite di rimborso di natura tributaria, specie in materia di IVA (Cass. n. 19069/2016). Tale ipotesi potrebbe verificarsi qualora l'Amministrazione Finanziaria con una nota all'uopo abbia specificato che le somme per quei rimborsi non solo siano di spettanza, ma siano anche giacenti, quindi disponibili, presso la sezione rimborsi ed in quanto fondi stanziati diverranno disponibili, nel rispetto dell'assegnazione, con apposito decreto ministeriale per il mezzo di una procedura manuale (Cass.S.U., n. 10725/2002).

Se, però, l'Amministrazione Finanziaria nella procedura per il riconoscimento al detto diritto di credito abbia determinato limiti o condizioni alla erogazione della somma, la controversia dovrà attivarsi dinanzi al giudice tributario proprio perché le eccezioni avanzate dall'Ufficio determinano la risoluzione di una questione di tipo fiscale (Cass.S.U., n. 5902/2008).

Ai sensi dell'art. 2 d.lgs. n. 546/1992 appartengono alla giurisdizione tributaria anche le controversie aventi ad oggetto gli interessi ed ogni altro accessorio che sia connesso alla obbligazione tributaria; nello specifico rientrano tra gli interessi quelli per ritardata iscrizione a ruolo (art. 20 d.P.R. n. 602/1973), la dilazione di pagamento (art. 21 d.P.R. n. 602/1973), il ritardato rimborso di somme pagate (art. 44 d.P.R. n. 602/1973); invece, rientrano tra gli accessori gli aggi dovuti all'esattore, le spese di notifica, gli interessi moratori ed il maggior danno da svalutazione monetaria (Cass.S.U., n. 10826/2008).

Sono conosciute dalla giurisdizione tributaria anche quelle controversie aventi ad oggetto le somme dovute come risarcimento che derivano dal maggior danno da svalutazione monetaria sulle somme indebitamente versate e ciò in quanto questioni che conseguono alle controversie fiscali (Cass.S.U., n. 16871/2007; Cass.S.U., n. 142744/2002).

Di rilevante interesse sono le riflessioni che ruotano attorno alla problematica relativa al contenzioso, sempre più corposo, che riguarda i rimborsi che sono dovuti al contribuente, molto spesso nei confronti di imprenditori, nel rispetto dei termini previsti per legge, volti alla dichiarazione della illegittimità del diniego al rimborso, sia esso espresso o tacito, a seguito della proposizione della relativa istanza.

Accade sovente che le somme che l'Erario deve restituire siano rilevanti e che gli imprenditori nelle more di dette restituzioni vivano particolari difficoltà economiche a causa dei mancati rimborsi, fino a vedersi costretti a cessare l'attività, o, nei casi più gravi, a giungere al fallimento.

Affinché sia possibile invocare la tutela cautelare devono ricorrere necessariamente, oltre che la attualità del pregiudizio, gli indefettibili presupposti cautelari del fumus boni iuris e del periculum in mora e ciò, ovviamente, anche per le controversie relative al rimborso di imposta.

In dottrina si riconosce (Glendi) che troppo spesso i ricorsi contro i dinieghi di rimborso, siano essi espressi o taciti, sono più che fondati, anche alla luce della considerazione per cui gli Uffici mancano di argomentazioni valide a fondare ragioni da poter validamente opporre alle istanze di rimborso presentate dai contribuenti: la durata dei processi viene spesso utilizzata come schermo per posticipare il pagamento dovuto alla restituzione.

L'opportunità di una tutela cautelare si ravvisa anche nelle liti per i dinieghi da rimborso, proprio in quanto l'imprenditore è esposto al rischio del fallimento e ciò non solo o non necessariamente perché l'impresa non sia in grado di provvedere all'estinzione dei propri debiti, ma anche perché, troppo spesso, non riesce a recuperare i crediti di sua spettanza: in ciò si atteggia il periculum inteso come fondato timore per il verificarsi di danni gravi ed irreparabili.

È questo il banco di prova che vaglia la tenuta del sistema: è qui che viene in rilievo se esso sia in grado approntare le giuste misure giuridiche capaci di garantire adeguata tutela nell'ambito del nuovo processo tributario.

Il ricorso alla protezione cautelare è capace di porre un rimedio immediato e consentire un argine a tali problematiche, specie alla luce della nota lentezza degli uffici ad ottemperare a detti rimborsi nei termini disposti dalla legge, come previsto dall'art. 47, d.lgs. n. 546/1992, ed all'occorrenza, con la garanzia di cui all'art.69, comma 2, prevista dall'art. 47, comma 5, stesso decreto.

Pur nella consapevolezza delle dilazioni eccessive che intercorrono tra l'avanzata domanda di tutela e la conseguente risposta giuridica, nelle quali è troppo difficile ottenere le proprie pretese risarcitorie, è facile rintracciare l'attualità del pregiudizio nelle liti da rimborso. La giurisprudenza non pare molto sensibile alle argomentazioni che hanno invece trovato ascolto nella riflessione dei giuristi. La dottrina si è domandata se, per le peculiarità proprie degli atti oggetto di tali controversie, essi possano effettivamente ed in concreto accedere a detta tutela cautelare, come prevista ex art. 47 d.lgs. n. 546/1992.

Ad una interpretazione strettamente letterale della norma essa nei commi 1 e 6 si riferisce all'espressione «atto impugnato» in senso generale, mancando qualunque riferimento limitativo che preveda l'esclusione di una qualche tipologia specifica di atto, né si ravvisa alcun cenno all'eventuale contenuto di questo che escluda la possibilità di applicazione di atti impugnati ivi considerati.

Ciò è confortato anche dalla previsione dell'art. 19 d.lgs. n. 546/1992 che, nella disposizione di cui al comma 1 lettera g), ricomprende espressamente fra gli atti impugnabili «il rifiuto espresso o tacito della restituzione di tributi, sanzioni pecuniarie ed interessi oltre ad accessori non dovuti».

In dottrina si osserva che a nulla giova la specificazione della distinzione tra imposizione, riscossione e rimborsi, da intendersi più che altro come caratterizzazioni che contraddistinguono una funzione impositiva unitaria.

Sotto un profilo più strettamente dogmatico gli atti che seguono alla richiesta di rimborso hanno natura provvedimentale: nello specifico, essi sono provvedimento di diniego del rimborso, sia esso espresso ovvero tacito.

Necessita una ulteriore specificazione: il silenzio dell'Amministrazione Finanziaria a fronte di una istanza di rimborso non si connota come un comportamento inerte di silenzio-rifiuto dal quale si avrebbe l'obbligo di provvedere nuovamente sull'istanza comunque avanzata, nè si configurerebbe un comportamento di annullamento o di rimozione, ma un vero e proprio silenzio-diniego: un silenzio, cioè, regolato normativamente, pertanto tipicizzato, connotato dal valore di un provvedimento con segno negativo.

Con esso l'Amministrazione nega recisamente, non riconoscendolo, il rimborso delle somme come da richiesta avanzata dal contribuente, con la conseguenza giuridica che, laddove esso sia accolto e non venga nelle more impugnato, per l'Amministrazione finanziaria non sorge alcun obbligo al rimborso.

In senso generale, quindi, la dottrina sottolinea l'assenza di differenze tra i giudizi per l'impugnativa dei dinieghi al rimborso e tutti gli altri giudizi d'impugnativa relativa agli altri atti impugnabili autonomamente riferibili ad atti impositivi in senso stretto o alla riscossione.

Per gli atti con i quali si procede ad impugnare il provvedimento che stabilisce il diniego del rimborso d'imposta, sia esso un provvedimento espresso o anche tacito, data la loro indiscutibile natura provvedimentale, la tutela di merito finisce comunque per risolversi nell'annullamento di tali provvedimenti con la rimozione degli effetti da essi scaturenti, che si pongono come ostacolo al rimborso che ne è precluso.

A corollario di tale considerazione ve n'è un'altra, strettamente riferibile alla tutela cautelare: stante la relazione necessaria ed indefettibile che lega la tutela cautelare (provvisoria e strumentale) a quella di merito, essa si atteggerà nella sospensione degli effetti preclusivi del provvedimento di diniego impugnato.

La conclusione cui si perviene circa l'esito che discende dall'accoglimento della istanza di sospensione cautelare è che essa, al pari dell'istanza proposta nei confronti di ogni altro atto impugnabile potenzialmente immediatamente produttivo di danni gravi ed irreparabili a carico di chi abbia proposto ricorso supportato dai presupposti cautelari, determina la sospensione degli effetti preclusivi dell'attività di rimborso.

Intervenuto il provvedimento di sospensione degli effetti preclusivi del provvedimento impugnato, seppur in via provvisoria, ed essendo, perciò, ripristinata la funzione di rimborso, l'Amministrazione, nel rispetto della pronuncia provvisoria (e comunque nell'attesa della pronuncia di quella merito), deve provvedere alla restituzione al contribuente delle somme mediante il loro versamento nel rispetto delle forme previste dal procedimento di rimborso.

Nel caso in cui l'Amministrazione finanziaria, però, manchi di provvedere e non proceda al rimborso, si verifica un problema che la dottrina equipara al problema per il caso in cui la Commissione tributaria disponga la sospensione della riscossione e il concessionario non provveda alla detta sospensione.

Ottenuta una sentenza di prime cure favorevole, ancorchè non definitiva, l'attuale assetto normativo, introdotto con d.lgs. n. 156/2015, prevede per il contribuente il pagamento a carico di parte pubblica resistente, sempre per intero (con i relative interessi e spese del giudizio) ex art. 69, anche se —tenuto conto delle condizioni di solvibilità dell'istante- può essere chiesta da controparte pubblica al giudice la prestazione dell'adeguata garanzia di cui al d.m. 6 febbraio 2017, n. 22, al fine di garantire il pagamento delle somme sospese o la ripetizione di quelle rimborsate superiori ad Euro 10.000/00 e diverse dalle spese di lite.

In linea con la giurisprudenza Cons. St. Ad. plen., n. 327/1987 ed in armonia con le disposizioni processual-civilistiche di cui all'art. 669-duodecies c.p.c. (qui applicabile per rinvio espresso sancito dal combinato disposto di cui agli articoli 669-quaterdecies c.p.c. e art. 1 comma d.lgs. n. 546/1992), il giudice che deve darne concreta attuazione deve essere lo stesso giudice che ha emesso il provvedimento cautelare; il contribuente potrà, quindi, rivolgersi nuovamente alla Commissione Tributaria Provinciale che si è già pronunciata sul cautelare, denunciando la mancata esecuzione dell'allora emesso provvedimento potendo provvedere direttamente alla completa attuazione del provvedimento cautelare emesso, potendo anche provvedere all'uopo con nomina di un commissario ad acta.

Non manca in dottrina tra gli altri (v. Menchini, cit., 393), supportato anche da qualche giurisprudenza, chi critica la ricostruzione sistematica ora analizzata: si ritiene che non sia possibile convertire la sospensione degli atti positivi in strumenti che siano di tutela cautelare effettiva per gli atti negativi, come i dinieghi di rimborso, per i quali si debba prevedere anche una successiva ed ulteriore attività amministrativa volta al soddisfacimento concreto delle esigenze di tutela in essi sancito.

L'ostacolo sarebbe conseguenza diretta della stessa disposizione di cui all'art. 47 d.lgs. n. 546/1992 che riguarda proprio la sospensione dell'esecuzione dell'atto in forza anche dell'orientamento della giurisprudenza (C.t.p. Padova n. 170/1998 — in Boll. trib. n. 6/1999): in ciò tale parte della dottrina ravvisa l'ostacolo per ottenere la tutela cautelare da opporre ai dinieghi di rimborso ai sensi dell'art. 47 d.lgs. n. 546/1992.

Ci si concentra sul valore giuridico del provvedimento cautelare e cioè sulla sfera operativa della sospensione di cui all'art. 47 citato: sospensione che intende l'interruzione dell'esecuzione dell'atto impugnato nelle more dell'attesa dell'eventuale ed auspicato (dal ricorrente) annullamento dello stesso che determinerebbe un blocco all'attività dell'Amministrazione Finanziaria. Si badi bene: blocco che riguarda l'atto impugnato e non anche l'emanazione di un altro provvedimento che non è mai stato emesso fino a quel momento.

Secondo la lettura della dottrina maggioritaria (Glendi), alla base di dette argomentazioni critiche si pongono dei rilievi preliminari che chiariscono l'equivoco: il provvedimento, sia esso positivo o negativo, già esiste nel momento in cui se ne chiede la tutela cautelare. La sospensione cautelare che interviene ad anticipare seppur temporaneamente gli effetti dell'eventuale pronunciando annullamento successivo, nella fase di merito, senza dubbio incide sulla sua attuazione e ciò sia sul piano della riscossione, sia sul livello del rimborso.

L'opportunità dell'intervento di atti ulteriori in seno al procedimento attivato è conseguenza procedimentale dell'ordinanza cautelare; se è possibile che esista una esecuzione dei provvedimenti che sospendano la riscossione, ugualmente è possibile l'esecuzione di provvedimenti di sospensione che sia correlata ai rimborsi richiesti e negati: si tratta comunque di esecuzione di provvedimenti cautelari, nonostante connotati da un oggetto diverso e da un orientamento non allineato all'interesse originalmente tutelato. Secondo la medesima dottrina, quindi, non si ravvisano limitazioni oggettive frutto di ricostruzioni dogmatiche relative all'intervento cautelare riguardante provvedimenti positivi o negativi capaci di incidere sul piano della loro esecuzione. Tali argomentazioni scardinano anche l'ultimo baluardo che si è dedotto contro l'utilizzabilità dell'art. 47 per le impugnative dei dinieghi di rimborso, laddove si è sostenuto che, una volta disposto il pagamento conseguente all'ordinanza cautelare in capo all'Amministrazione Finanziaria, a ciò conseguirebbero «conseguenze anomale» in caso di accoglimento della domanda di rimborso, perché, intervenuto il pagamento ivi disposto, verrebbe meno l'effetto della sospensiva.

A conferma dell'argomentare sin qui sostenuto vi è il sostegno apportato dalla disciplina disposta dall'art. 23 d.lgs. n. 472/1997 relativo alla impugnativa dei provvedimenti che dispongono la sospensione del pagamento dei crediti verso il Fisco ai contribuenti che si siano visti notificare atti di contestazione o di irrogazione di sanzioni anche se non definitivi, o che ne abbiano disposto la compensazione.

La norma, nel considerare espressamente impugnabili tali provvedimenti, si allinea perfettamente col disposto dell'art. 47 d.lgs. n. 546/1992. Precisazione qui, oltre che opportuna, anche necessaria, è quella che supera l'interpretazione strettamente letterale della disposizione che sembrerebbe prima facie riguardare solo la sospensione dei detti atti: si tratta comunque di atti che, a ben vedere, incidono direttamente sul pagamento sospeso o sulla compensazione eventualmente intervenuta che comunque è una forma che estingue un credito o un debito. La scelta del legislatore di avere previsto espressamente la tutela cautelare nell'art. 47 significa che la detta norma deve essere idonea a realizzare la tutela cautelare anche per i casi in argomento.

Concludendo, il processo tributario è finalizzato a trattare l'impugnazione di atti provvedimentali al fine di annullarli: in questo senso anche la tutela cautelare che ad esso si correla ha la forma della sospensione incidentale dell'esecuzione dell'atto impugnato, ciò che viene corroborato dalla previsione legislativa della possibilità di esperire la sola tutela cautelare disposta dall'art. 47 d.lgs. n. 546/1992 anche per quei giudizi che devono dirimere i dinieghi di rimborso anche nel rispetto, come si registra, della conformità al dettato costituzionale.

Liti da contributo consortile.

Si ha giurisdizione tributaria qualora la controversia verta sui contributi che spettano ai Consorzi di bonifica imposti ai proprietari per le spese di esercizio delle opere di bonifica, loro esecuzione e manutenzione, in quanto trattasi di tributi (Cass.S.U., n. 1481/2007; Cass. n. 22942/2012); si precisa, però, che la giurisdizione tributaria persiste per la fase della impugnazione delle cartelle, ma viene meno (solo) nella fase esecutiva (Cass.S.U., n. 8770/2016).

Ricade nella giurisdizione del giudice ordinario la lite relativa alla impugnazione di una cartella a mezzo della quale il Consorzio di bonifica che gestisce il servizio dell'acqua potabile ha agito nei confronti dell'utente per il recupero delle somme dovute (Cass.S.U., n. 11720/2010).

Liti da riscossione: Il fermo di crediti fiscali, di mobili registrati e l'iscrizione ipotecaria.

I provvedimenti di fermo amministrativo di beni mobili registrati e di iscrizione di ipoteca sui beni immobili del debitore di cui all'art. 19 d.lgs. n. 546/1992 sono atti la cui giurisdizione è del giudice tributario.

La giurisprudenza della Cassazione (Cass.S.U., n. 14831/2008; Cass.S.U., n. 26269/2016) si è allineata a quella costituzionale (Corte cost. n. 64/2008 e Corte cost. n. 130/2008) e ha affermato che il discrimine ruota attorno alla natura tributaria o meno dei crediti posti a fondamento del provvedimento; se sono di natura tributaria, e quindi l'atto ha ad oggetto crediti fiscali, la giurisdizione è del giudice tributario; se, invece, tali crediti a base del provvedimento non hanno natura tributaria, allora la giurisdizione è del giudice ordinario.

Va precisato che per i crediti di natura diversa cui faccia comunque riferimento il provvedimento di fermo, il debitore può ab origine proporre ricorsi separati di fronte a giudici diversamente competenti.

Sul punto la giurisprudenza di merito è ondivaga: parte di essa si è allineata all'orientamento appena esposto (C.t.r. Molise —Campobasso n. 93/2013); altra parte, invece, ritiene sussistere la giurisdizione tributaria anche se il credito alla base del fermo non sia di natura tributaria (C.t.p. Pisa n. 180/2008): detta linea interpretativa trova la propria ratio nell'evitare il contrasto tra giudicati. A titolo esemplificativo si riporta l'esempio che segue: se un contribuente risulti notificatario di una cartella di pagamento relativa ad imposte, contributi e sanzioni che derivano da violazioni del codice della strada, egli si vedrebbe costretto, per correttezza, seguendo il solco tracciato dalla giurisprudenza di legittimità a dover adire ben tre diversi giudici, rischiando di avere tre pronunce diverse di pari grado.

La P.A. può usufruire di una particolare forma di tutela per i propri crediti tra cui la sospensione dei pagamenti o dei rimborsi per i quali beneficiari siano debitori ed anche l'Amministrazione Finanziaria può beneficiare delle suddette misure cautelari.

Fermo disposto ai sensi dell'art. 69 r.d. n. 2440/1923.

Il fermo dei rimborsi fiscali è normativamente previsto da alcune disposizioni, tra queste: l'art. 69 r.d. 18 novembre 1923, n. 2440 dispone che una Amministrazione dello Stato che, a qualunque titolo o ragione, abbia crediti o somme dovute da altre Amministrazioni e che provveda a chiedere la sospensione del pagamento, si vede concedere tale sospensione nell'attesa del provvedimento definitivo. Tale disposizione si applica a tutte le amministrazioni statali. L'art. 23 d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, è relativo alle sanzioni tributarie.

La giurisprudenza, per quanto riguarda il fermo di cui all'art. 69 r.d. n. 2440/1923, distingue tra alcuni profili: il contribuente che si vede opporre al proprio rimborso un debito non tributario potrebbe procedere con la richiesta di accertamento negativo della insussistenza di tale debito. Se la natura del detto debito è di tipo civile il suo accertamento ricade sotto la giurisdizione ordinaria (Cass.S.U., n. 7945/2013).

Il contribuente che si vede notificare il fermo del rimborso potrebbe impugnarlo dinanzi al giudice tributario laddove metta in discussione la sussistenza del potere di adozione della misura cautelare (Cass.S.U., n. 7023/2006; Cass.S.U., n. 1733/2002). Se il contribuente, invece, denuncia che il fermo soffra dei vizi con ciò richiedendone l'annullamento, la giurisdizione ricade nella pertinenza del giudice amministrativo in quanto la posizione giuridica soggettiva sottesa alla tutela in tale ipotesi si configura come interesse legittimo (Cass.S.U., n. 1733/2002).

L'orientamento secondo cui il giudice tributario chiamato a pronunciarsi sulla istanza di rimborso potrebbe disapplicare, anche se in via incidentale, il provvedimento di sospensione illegittimo, anche se non impugnato tempestivamente davanti al giudice amministrativo (Cass. n. 4567/2004), è superato da un più recente orientamento delle Sezioni Unite anche se non intervenuto in materia fiscale: pronunciando sulla giurisdizione, la Suprema Corte ha sostenuto che essa deve seguire la natura giuridica del bene tutelato e quindi la natura del credito azionato (Cass.S.U., n. 25983/2010); pertanto, in linea con detta ricostruzione, l'impugnativa dei provvedimenti di sospensione dei rimborsi tributari rientrerebbe sempre nella giurisdizione tributaria.

Fermo disposto ai sensi dell'art. 23 del d.lgs n. 472/1997

L'art. 23 d.lgs. n. 472/1997, come cennato, è relativo alle sanzioni tributarie: dalla lettera della detta disposizione, i provvedimenti aventi ad oggetto compensazione e sospensione adottati all'effetto, proprio per previsione espressa della stessa norma sono impugnabili dinanzi alle Commissioni tributarie.

I crediti tributari cartellizzati.

Per quanto concerne le pretese avanzate mediante cartella di pagamento, la giurisdizione viene definita sulla base del titolo del credito azionato; si precisa che non rileva la natura extra-tributaria delle somme richieste a mezzo della cartella di pagamento. Per il caso specifico di somme riscosse per conto di uno stato estero le operazioni precedenti alla fase di espropriazione, quali l'emanazione della cartella di pagamento e dell'avviso di mora rientrano nella giurisdizione tributaria, anche se il tributo è richiesto da uno Stato estero (Cass.S.U., n. 13357/2008, nella fattispecie si trattava della Germania).

Gli atti dell'esecuzione forzata esattoriale.

Ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 2, le controversie che hanno ad oggetto gli atti di esecuzione forzata esattoriale che siano successivi alla cartella di pagamento, e, dove previsto, all'avviso di mora, sono esclusi dalla giurisdizione tributaria; pertanto, le liti relative alle opposizioni all'esecuzione, peraltro ammesse solo per questioni attenti alla pignorabilità dei beni, e quelle relative agli atti esecutivi, comunque non ammissibili in materia tributaria per i vizi di forma e di notifica del titolo esecutivo, rientrano nella giurisdizione ordinaria (art. 57 d.P.R. n. 602/1973).

Pignoramento disposto senza previa notifica della cartella di pagamento

Laddove l'atto di pignoramento sia stato emanato mancando la previa notifica dell'atto presupposto (avviso di accertamento, o cartella di pagamento), possono sorgere problemi.

A tale riguardo numerose pronunce della giurisprudenza di merito hanno affermato che, in questo caso, il pignoramento sarebbe ricorribile laddove il contribuente si attivi ad impugnare contestualmente, insieme alla cartella di pagamento, il pignoramento (Cass.S.U., n. 14667/2011; C.t.p. Piacenza n. 71/2009; C.t.p. Milano n. 255/2009; C.t.p. Parma n. 39/2010; C.t.p. Milano n. 186/2010).

La giurisprudenza di legittimità si è pronunciata, seppure in via incidentale e sul punto ha ribadito il percorso tracciato dalla giurisprudenza di merito (Cass. n. 20294/2011).

Il contribuente destinatario di una cartella di pagamento, potrebbe avere interesse a contestarne la legittimità: la fase processuale della riscossione coattiva delle imposte assume, perciò, importanza rilevante.

La regola base dispone che gli atti emanati dall'AdR (che è parte processuale limitatamente agli atti che predispone, e per i vizi lamentati relativamente ad essi e che può stare in giudizio per gli effetti di cui all'art. 10 d.lgs. n. 546/1992) si possono impugnare autonomamente, e ciò con giurisdizione riconosciuta alle Commissioni tributarie.

Tra questi atti si enumerano: la cartella di pagamento, l'avviso di mora, il fermo di beni mobili registrati e l'iscrizione di ipoteca. Il problema relativo alla fase della riscossione è duplice ed involge tanto la fase procedimentale, quanto quella più strettamente processuale, specie alla luce del fatto che le somme contestate sono iscritte a ruolo dall'ente impositore, che è diverso dal soggetto che poi provvede a notificare l'atto esattivo dell'AdR.

Un'altra criticità che viene in rilievo da un punto di vista procedimentale è relativo alla motivazione degli atti della riscossione.

Iscrizione a ruolo e motivazione degli atti emessi dall'AdR

Il contribuente che si vede notificare un titolo esecutivo deve essere messo in condizioni di conoscere perfettamente quale sia l'atto di accertamento sottostante e la motivazione della pretesa tributaria relativa, e ciò al fine del rispetto del diritto alla motivazione in linea col principio generale che si estende anche alla fase della riscossione il quale consente l'applicazione dei diritti fondamentali del contribuente che non può, quindi, limitarsi alla sola fase di esercizio dell'attività impositiva e che deve valere a fortiori per i casi in cui l'attuazione del prelievo sia affidata a soggetti esterni alla Amministrazione finanziaria ed alla luce anche della considerazione che il ruolo è atto interno all'Amministrazione finanziaria di cui il contribuente non ha contezza.

In ciò sta il senso del riprodurre il ruolo nella cartella di pagamento: il contribuente ne prende atto.

La normativa in materia di riscossione non prevede direttamente l'obbligo di motivazione, pur permanendo un obbligo di «motivazione sintetica» come sancito dallo Statuto dei diritti del contribuente (l. 27 luglio 2012, n. 2000): a tale riguardo la giurisprudenza non solo di legittimità, ma anche costituzionale, ha avuto più volte occasione per ribadire che l'obbligo di chiarezza e di motivazione degli atti relativi ai procedimenti tributari deve essere rispettato anche da parte dei soggetti cui compete la riscossione (Corte cost., ord. n. 377/2007; Cass. n. 18415/2005; Cass. n. 15638/2004).

La giurisprudenza di legittimità sulla natura del ruolo e della cartella

Ruolo e cartella sono atti che hanno natura impositiva quando non siano stati preceduti dalla rituale notificazione di un atto impositivo individuale motivato: ove ciò sia accaduto, appare non necessario allegare l'avviso di accertamento, ovvero la riproduzione integrale del suo contenuto essenziale, non dovendosi applicare l'art. 1 comma 7, l. n. 212/2000 (Cass., n. 4152/2014). Quando invece essi assumono la veste di atti portatori di una pretesa notificata per la prima volta al destinatario accanto agli atti della riscossione, anche la cartella ed il ruolo assumono natura di tipo impositivo: il ruolo deve necessariamente essere dotato delle ragioni giustificative che sono alla base della intimazione del pagamento richiesto (Cass.S.U., n. 11722/2010).

Laddove quindi l'iscrizione a ruolo non sia corredata di motivazione adeguata, essa è affetta dal vizio della nullità: secondo la giurisprudenza, l'obbligo di motivazione rientra nel confine segnato dalla conoscenza del destinatario relativamente all'an e al quantum della pretesa, che devono a loro volta rientrare nelle ragioni che l'Ufficio sostiene nel contenzioso (Cass. n. 3948/2011; Cass. n. 13335/2009).

Da tutto ciò consegue che qualora il ruolo abbia la sua giustificazione in una sentenza che abbia visto il contribuente come parte del giudizio e si abbia un semplice richiamo all'atto prodromico rispettoso dell'obbligo motivazionale, la sanzione della nullità del ruolo per carenza di motivazione sarebbe sproporzionata considerato, da un lato, il doveroso bilanciamento degli interessi contrapposti e, dall'altro, il rispetto della garanzia di difesa del contribuente che non subirebbe alcun pregiudizio di tipo sostanziale in quanto già a conoscenza dell'atto in questione.

La cartella non si può considerare nulla laddove il contribuente abbia conoscenza dei presupposti dell'imposizione per averli contestati pur nell'omissione della allegazione e della prova specifica di quale sia stato il pregiudizio subito in concreto che, a suo dire, il vizio dell'atto abbia determinato al suo diritto di difesa (Cass. n. 432/2015).

Si ha conferma della necessaria ed adeguata motivazione dell'iscrizione a ruolo quando essa si atteggi come primo atto di comunicazione della pretesa impositiva anche da parte della giurisprudenza di merito anche quando il giudice, pronunciandosi, abbia provveduto a variare il quantum (C.t.p. Matera, n. 318/2012).

Si ritiene che esso sia da equipararsi ad un atto provvedimentale ordinario dal momento che non è di competenza del cittadino la ricostruzione di quanto svolto nella propria attività dall'ente impositore, che non deve essere espresso in forma criptica (Cass. n. 15638/2004; Cass. n. 26330/2009 che opera un rinvio a Corte cost. n. 229/1999 e a Corte cost. ord. n. 117/200; Cass. n. 18415/2005; Cass. n. 28056/2009).

Nel tempo proprio con riguardo alla motivazione del ruolo ha assunto sempre maggiore importanza, anche per la linea giurisprudenziale formatasi sul punto, la questione del rilievo della motivazione della determinazione degli interessi iscritti a ruolo: si ravvisa il vizio di motivazione quando è sì, indicata la somma degli interessi dovuti, ma si dia l'assenza della indicazione specifica delle modalità del calcolo relativo (Cass. n. 4516/2012).

Le problematiche evidenziate devono essere coordinate ed aggiornate con riferimento al sistema degli accertamenti «esecutivi», poiché per gli atti emessi dall'1 ottobre 2011 su imposte sui redditi, IVA ed IRAP, il contribuente deve versare le somme entro il termine per il ricorso; in caso di inadempimento, non vi è più la cartella di pagamento, ma direttamente la presa in carico del ruolo e l'inizio della procedura di riscossione.

Le questioni sopra trattate, che hanno rilievo quando si discute di fasi distinte nell'accertamento impositivo e nella riscossione, certamente avranno meno occasione di manifestarsi nel sistema ormai a regime ed avranno rilievo solamente ad esempio per liquidazioni conseguenti a controlli formali delle dichiarazioni e a seguito di accertamenti sulle imposte d'atto; si potranno comunque porre problemi di coordinamento quando, comunque, inizi un giudizio sulla legittimità, propria o derivata, di altri atti della riscossione (es. intimazioni di pagamento) per cui le questioni che sorgono nelle «liti di riscossione» continueranno ad avere un seppur più circoscritto rilievo operativo.

Liti da operazioni catastali.

Tra le controversie che trovano giurisdizione innanzi al giudice tributario per espressa previsione dell'art. 2 d.lgs. n. 546/1992, si annoverano anche le cosiddette «liti catastali», che i singoli possessori promuovo relativamente:

alla intestazione, delimitazione e classamento dei terreni;

alla ripartizione dell'estimo fra i compossessori a titolo di promiscuità di una stessa particella;

alla consistenza, al classamento delle singole unità immobiliari urbane e all'attribuzione della rendita catastale.

Si tratta di ipotesi che danno tutte luogo a profili molto dibattuti in sede di determinazione di giurisdizione in quanto, a seconda dell'oggetto della questione da dirimere, la sua pertinenza sarà determinata ora in capo al giudice tributario, ora a quello amministrativo, oppure infine al giudice ordinario.

Fondamentale l'insegnamento delle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione che in alcune pronunce hanno chiarito il riparto di giurisdizione tra giudici ordinari e giudici tributari per le «liti catastali» (Cass.S.U., n. 16429/2007; Cass.,S.U., n. 675/2010) ricostruendo ed indicando i limiti della giurisdizione speciale.

Le liti catastali vedono la giurisdizione del giudice tributario per dirimere le questioni azionate dai privati possessori con oggetto operazioni per l'intestazione o per la variazione, operate dall'Amministrazione finanziaria per il caso che la lite abbia meramente ad oggetto l'imposizione di tributi per i quali le predette intestazioni o variazioni siano presupposti indefettibili.

La giurisdizione ricade in capo al giudice ordinario per il caso in cui la controversia verta sull'accertamento della titolarità del diritto dominicale tra più pretesi titolari e nella quale l'utilizzo dei dati catastali rilevi come dato probatorio. Rientrano, poi, nella giurisdizione ordinaria le liti promosse dai soggetti titolari del diritto di proprietà o di altro diritto reale che domandano la dichiarazione di nullità di un frazionamento catastale (Cass. n. 7144/2004).

La giurisdizione è ancora del giudice ordinario per quelle liti che abbiano ad oggetto azioni di rivendica o di regolamento di confini tra privati.

Se la pendenza della lite sia relativa alla variazione dei dati catastali per adeguarli all'esito di una lite sulla proprietà, la giurisdizione è del giudice tributario (Cass.S.U., n. 2950/2016); inoltre la giurisdizione è del giudice tributario per la controversia che il privato instauri per dolersi della modalità di esercizio dei poteri amministrativi per il mutamento cartografico della ditta catastale quando, con ciò, si lamenti una lesione del diritto di proprietà da parte potere pubblico (Cass.S.U., n. 25316/2016).

Infine, la giurisdizione è del giudice amministrativo quando si proceda alla impugnazione (anche ad opera di enti esponenziali di interessi diffusi), affinché siano annullati, gli atti amministrativi generali che portino alla creazione di «microzone comunali»; laddove, invece, in via incidentale e solo per valutare la loro illegittimità al fine della loro disapplicazione (ma non anche del loro annullamento), possono essere decisi dal giudice tributario in una lite tributaria (Cass.S.U., n. 7665/2016).

Rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo anche la questione nella quale il contribuente intenda impugnare un atto a carattere generale, quale, nello specifico, il decreto in materia di tariffe di estimo (Corte cost. n. 19/1993).

Alla luce di quanto argomentato si rende doverosa una riflessione: l'art. 2 è norma che attiene strettamente alla materia tributaria e non può essere applicata all'infuori del proprio ambito di appartenenza ed, anzi, essa non si può riferire ad ogni controversia che possa avere ad oggetto le materie dalla stessa elencate: ciò determinerebbe un'attivazione sconfinata del giudice tributario, finendo per ricomprendere, nell'alveo della sua giurisdizione, troppe azioni tipiche poste a tutela della proprietà (come: l'azione di rivendica e l'azione di regolamento di confini) finendo per scavalcare la materia che la normativa in commento disciplina effettivamente ed in concreto.

Di recente le Sezioni Unite della Cassazione sono intervenute per esprimere un importante principio di diritto che ha determinato la legittimazione processuale dei Comuni nel contenzioso catastale, riconoscendo la giurisdizione del giudice tributario anche per le ipotesi in cui la rendita o l'atto di declassamento siano impugnati anche dal Comune e non più solo dal contribuente possessore dell'immobile su cui grava il tributo locale.

La Cassazione ribalta lo scenario rispetto al passato, rispetto a quando, cioè, non era concesso agli enti locali di portare avanti un contenzioso relativo al trasferimento delle funzioni catastali (Cass.S.U., n. 15201/2015).

La pronuncia delle Sezioni Unite del 2015 determina una vera e propria rivoluzione copernicana in tema di interpretazione dell'art. 2 comma 2, mutando radicalmente l'orientamento precedentemente sostenuto dalle Sezioni Unite con l'ordinanza n. 675/2010, con la quale si statuiva il divieto di impugnazione dinanzi al giudice tributario, in capo al Comune, dell'atto di attribuzione della rendita catastale posto in essere dall'Agenzia del territorio, a cui, invece si consentiva (sempre seguendo le indicazioni della Cassazione) unicamente di adire il giudice amministrativo laddove questi ritenesse che l'atto catastale fosse affetto dai vizi tipici del provvedimento amministrativo (in nota: cfr. del Vaglio, «La legittimazione degli enti impositori nelle liti catastali, in Corr. trib. n. 15/2010, 1208).

La vicenda si inserisce nella più ampia questione riguardante la delega delle funzioni catastali ai Comuni, nel tentativo, mai abbandonato dai Comuni, di riuscire ad incidere direttamente sulla rendita catastale dei fabbricati e sulla determinazione dei della base imponibile dei tributi locali (IMU e TASI).

La questione da cui la Cassazione trae spunto per la propria pronuncia aveva visto un accertamento catastale impugnato da parte della società proprietaria di una centrale elettrica localizzata nel Comune insieme allo stesso Comune, non soddisfatto della rendita attribuita dall'Ufficio catastale ad un impianto idroelettrico nel territorio censuario di propria competenza, dinanzi al giudice tributario.

Pendente il giudizio, l'Ufficio catastale resistente proponeva regolamento preventivo di giurisdizione di cui all'art. 41 c.p.c. con riferimento all'art. 2, nella parte in cui si affermava positivamente la giurisdizione del giudice tributario per le controversie relative alla consistenza, classamento delle singole unità urbane ed all'attribuzione della rendita catastale.

La Corte motiva il proprio revirement, prima seguendo il percorso logico-giuridico alla base della precedente linea interpretativa seguita, poi, però, prendendo le mosse dalla costante e rapida velocità di evoluzione della stessa giurisprudenza di legittimità che l'ha portata a riconoscere in capo ai Comuni l'esistenza di un autonomo interesse ad agire, oltre che ad affermare che l'impugnazione dell'atto catastale deve essere valutata nell'ambito dello stesso processo e con riferimento a tutti i potenziali interessati.

La Cassazione procede, così, ad una lettura costituzionalmente orientata dell'inciso di cui all'art. 2 comma 2, «promosse dai singoli possessori», e interpreta il detto inciso, in linea col diritto di azione costituzionalmente garantito e con i valori basilari del giusto processo, nel senso che il richiamo ai contribuenti non delimita la giurisdizione del giudice tributario in ordine al soggetto che agisce.

Da ciò discende che anche altri soggetti portatori di interesse ad una decisione giurisdizionale in materia non dovranno adire un giudice di altra giurisdizione: se così fosse e si dovessero attivare giudici diversi su una medesima questione, solo con riferimento alla differenza del soggetto che promuove detta azione, si avrebbe il rischio reale che sulla stessa questione intervengano decisioni contrastanti che comporterebbero decisioni diverse per giudici diversi senza che vi sia un rimedio esperibile avverso tale inevitabile contraddizione.

Il riconoscimento della legittimazione processuale dei Comuni nel contenzioso catastale si è resa in qualche modo conseguenza logicamente necessaria del dettato dell'art. 2 comma 2 trattandosi in buona sostanza semplicemente di una ipotesi in cui la rendita o l'atto di classamento suscitano un controinteresse giuridicamente rilevante non solo da parte dal contribuente, com'è la fattispecie ordinaria, ma da parte del Comune, a cui sarebbe irrazionale non riconoscere il diritto ad una autonoma impugnazione degli atti catastali relativi.

La giurisprudenza (Cass.S.U., n. 15201/2015) ha finora dunque concluso il suo percorso riconoscendo agli enti locali, equiparandoli ai contribuenti, la possibilità di impugnare gli accertamenti catastali innanzi al giudice tributario e ciò anche e soprattutto alla luce della necessità di evitare il contrasto tra giudicati dei giudici di giurisdizioni diverse eventualmente attivati (giudice tributario e giudice amministrativo).

In dottrina, pur riconoscendosi il notevole passo avanti consentito dalla giurisprudenza nel permettere ai Comuni di contestare in sede di giudizio del contribuente la congruità della rendita catastale, si auspica che tali liti siano evitate grazie ad una effettiva e preventiva partecipazione dei Comuni alle operazioni catastali.

L'Ecotassa.

Compete allo Stato sia l'individuazione delle categorie generali di rifiuti da cui trae origine l'obbligo allo smaltimento e quindi al pagamento, sia anche tutti gli elementi che concorrono a determinare il calcolo del tributo.

Va esclusa la giurisdizione amministrativa per le liti che hanno ad oggetto canoni contrattuali o corrispettivi, ma ai sensi dell'art. 2 le controversie in materia rientrano nella giurisdizione del giudice tributario il quale è chiamato a risolvere, anche in via incidentale, ogni questione da cui dipende la decisione delle controversie rientranti nella propria giurisdizione.

È la legge che definisce i presupposti in base ai quali sorge l'obbligo del pagamento dell'ecotassa, nel difetto assoluto di qualunque spazio, anche minimo e discrezionale in capo alla P.A. per l'individuazione concreta dei soggetto obbligati, dei presupposti oggettivi, del quantum del corrispettivo dovuto: è la natura fiscale del rapporto che determina la giurisdizione del giudice tributario, restando fuori da tale novero le erogazioni dovute per prestazioni complesse e per i contratti di utenza (Cass.S.U., ord. n. 25515/2016).

La giurisdizione è del giudice tributario per tutti i casi in cui si incide sul rapporto tributario e ciò nonostante una sua accezione molto ampia.

L'art. 19 lett. i), ricomprende nel campo della giurisdizione tributaria «ogni altro atto per il quale la legge ne preveda l'autonoma impugnabilità davanti alle Commissioni tributarie».

Gli ecotributi sono corredati di tutti gli elementi essenziali dell'obbligazione tributaria: base imponibile, accertamento, riscossione, soggetto passivo.

L'ecotassa, poi, si contraddistingue per alcuni elementi specifici, quali l'obbligo di rivalsa nei confronti di colui che effettua il conferimento, la responsabilità del versamento del tributo in capo al gestore dell'impianto di stoccaggio definitivo o al gestore dell'impianto di incenerimento per i rifiuti smaltiti senza procedura di recupero di energia.

La competenza del giudice amministrativo, tuttavia, non si può escludere in modo assoluto, né tassativo, dal momento che sono di sua stretta competenza gli atti amministrativi generali che restano attributi alla sua giurisdizione (Cass.S.U., n. 7665/2016).

Affinché, perciò, si configuri l'interesse al ricorso giurisdizionale dinanzi al Tribunale Amministrativo Regionale, ovvero l'utilizzazione del ricorso straordinario al Presidente dalla Repubblica di cui al d.P.R. 24 novembre 1971, n. 1199, le Regioni devono necessariamente procedere ad emanare atti applicativi del tributo la cui origine può essere anche una nota esplicativa del Ministero dell'Economia e delle Finanze cui è affidata la gestione della finanza locale affinché l'interesse al suo annullamento si palesi con l'attualità e la concretezza necessarie per adire il giudice amministrativo; viceversa, in assenza di tale provvedimento da parte delle Regioni non è configurabile un interesse diretto e attuale degli interessati all'annullamento in via giurisdizionale del provvedimento medesimo.

Anche con riguardo alla problematica qui disaminata non sono mancati orientamenti divergenti.

A sostegno della tesi contraria c'è chi pone la lettera dell'art. 133 d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104 (Codice del processo amministrativo) approvato, il cui comma 1, lett. c), nel tracciare i confini della giurisdizione esclusiva in materia di servizi pubblici, esclude espressamente le controversie concernenti indennità, canoni ed altri corrispettivi, dall'ambito della giurisdizione amministrativa.

L'art. 133, comma 1, lett. p), al contrario, occupandosi della giurisdizione esclusiva in materia di «gestione del ciclo dei rifiuti», non contiene analoga esclusione.

La giurisdizione esclusiva in materia di gestione del ciclo di rifiuti si evince proprio dalla diversa formulazione letterale delle due disposizioni, che si caratterizza per una estensione maggiore rispetto a quella in materia di servizi pubblici al punto di includere, pertanto, anche le controversie aventi ad oggetti canoni o corrispettivi, nonostante la natura meramente patrimoniale delle pretese azionate (Cons. St. V, n. 382/2017).

La giurisprudenza afferma che la giurisdizione esclusiva presuppone sempre che l'oggetto della controversia abbia un collegamento con l'esercizio del potere, sia esso pure indiretto o mediato. Lo stesso art. 103 comma 1 Cost., conferisce al legislatore ordinario semplicemente il potere di indicare «particolari materie» nelle quali la tutela nei confronti della P.A. si estende fino al punto di ricomprendere anche diritti soggettivi.

Laddove, pertanto, l'oggetto della lite sia di tipo squisitamente patrimoniale e le modalità attraverso cui è stato esercitato il potere non siano di pertinenza dell'oggetto del decidere, la controversia non rientra nella giurisdizione amministrativa, seppure essa appartenga ad ambiti ricollegabili alla giurisdizione esclusiva, mancando l'elemento centrale richiesto dall'art. 7 comma 1 del c.p.a., conformemente alla classica riconduzione della giurisdizione amministrativa: controversia relativa all'esercizio del potere della P.A. in senso ampio, ovvero al suo mancato esercizio. In linea con l'orientamento del Consiglio di Stato è necessario attenersi e rispettare una interpretazione costituzionalmente orientata degli insegnamenti della Consulta sui limiti della giurisdizione esclusiva e sulla necessità del suo collegamento con l'esercizio del potere, rispettosa del dettato di cui all'art. 7 comma 1 c.p.a., che esclude le controversie prive del collegamento con l'esercizio del potere dalla giurisdizione esclusiva; corollario di questa ricostruzione è la considerazione per cui le controversie sui canoni o corrispettivi non sono ricomprese nella giurisdizione amministrativa.

Come prima cennato, le Regioni giocano un ruolo centrale in materia di ecotassa. Sono, infatti, proprio le Regioni, che stabiliscono per ciascun impianto di smaltimento la tariffa per il conferimento dei rifiuti indifferenziati da parte dei Comuni: è stata introdotta la cosiddetta «ecotassa» prevista esclusivamente per il deposito dei rifiuti in discarica.

Il valore per lo smaltimento dei rifiuti urbani indifferenziati risulta essere variabile da Regione a Regione, in taluni casi addirittura inferiore alla soglia massima pari a 25,8 euro/ton, originariamente individuata dalla l. n. 549/1995. Si è resa pertanto indispensabile la delimitazione dell'area della competenza della legge statale e quella della competenza della legge regionale, soprattutto nel rispetto del dettato costituzionale di cui all'art. 117 comma 2 lettere e) ed s): così, per effetto della lett. e), rientrano nella competenza esclusiva dello Stato «moneta, tutela del risparmio e mercati finanziari; tutela della concorrenza; sistema valutario; sistema tributario e contabile dello Stato; armonizzazione dei bilanci pubblici; perequazione delle risorse finanziarie»; per effetto della lett. s) detta competenza esclusiva comprende anche la «tutela dell'ambiente, dell'ecosistema e dei beni culturali». Il tributo in esame è stato costruito secondo la logica del tasso d'imposta, come tributo proporzionale rispetto ad una base imponibile non pecuniaria (art. 3, comma 28). Si rintracciano, nel caso di specie, quei criteri stabiliti dalla giurisprudenza costituzionale per qualificare «tributari» alcuni prelievi: ricorrono, cioè, la doverosità della prestazione, la mancanza di un rapporto sinallagmatico tra le parti ed il collegamento di detta prestazione alla spesa pubblica in relazione ad un presupposto economicamente rilevante (Corte cost. n. 238/2009). La detta considerazione conduce la giurisdizione al giudice tributario in quanto la natura del rapporto è indubbiamente fiscale, escludendosi le erogazioni dovute per le prestazioni complesse e per i contratti di utenza.

Tale considerazione ridonda sulla giurisdizione del giudice tributario, da intendersi come imprescindibilmente collegata unicamente alla natura fiscale del rapporto (Corte cost. ord., n. 395/2007), con esclusione, invece, di quelle erogazioni dovute per prestazioni complesse e/o contratti di utenza (Corte cost. n. 39/2010).

L'oggetto della giurisdizione tributaria e il concetto di tributo

La giurisdizione tributaria è da ritenersi circoscritta alla risoluzione di liti aventi natura, appunto, tributaria.

L'eventuale devoluzione a tale giurisdizione di liti extrafiscali contrasta con il divieto di istituzione di nuovi giudici speciali.

La giurisdizione delle commissioni tributarie comprende le liti relative ai tributi, ovverosia le liti concernenti:

- il debito di imposta;

- sovrimposta e addizionali;

- i rapporti consequenziali;

- i rimborsi;

- la riscossione;

- le sanzioni.

L'elencazione è tuttavia meramente esemplificativa, in quanto la giurisdizione tributaria non è circoscritta ad un elenco di materie (o di «submaterie»), ma postula l'analisi della natura sostanziale controversia che viene posta all'attenzione della potestà regolatrice del giudice.

Sono devolute alla giurisdizione tributaria le controversie promosse dai singoli possessori concernenti l'intestazione, la delimitazione, la figura, l'estensione, il classamento dei terreni e la ripartizione dell'estimo tra i compossessori a titolo di promiscuità di una stessa particella; le controversie concernenti la consistenza, il classamento delle singole unità immobiliari urbane e l'attribuzione della rendita catastale; le controversie riguardanti l'imposta o il canone comunale sulla pubblicità e il diritto sulle pubbliche affissioni.

La giurisdizione comprende, oltre alle fasi di merito (Cass.S.U., n. 2870/2009), anche la fase cautelare, cioè quella finalizzata a consentire la tutela dei diritti prima che arrivi la decisione definitiva.

In linea di principio, per «tributo» si intende una prestazione patrimoniale imposta che, essendo collegata ad un fatto economico, attua il concorso al finanziamento della spesa pubblica (artt. 2 e 53 Cost.).

Sono quindi tributi sia le imposte sia le tasse sia i contributi speciali.

Ai fini della qualificazione del tributo non rileva la formale denominazione attribuita dal legislatore al prelievo (Corte cost. n. 141/2009; Corte cost. n. 64/2008). Per contro, riguardo al rilievo, a determinate condizioni, della qualificazione formale assegnata dal legislatore (Cass.S.U., n. 25551/2007). Le imposte hanno come presupposto un fatto economico generato dal soggetto passivo (ad esempio, il possesso di un immobile) e non sono correlate a un servizio pubblico divisibile, mentre le tasse hanno come presupposto un atto o un'attività della P.A. (ad esempio, il rilascio di un documento) che costituisce un servizio pubblico divisibile e fruibile dal singolo.

Altra questione è data quando un singolo atto rechi pretese di natura diversa (tipicamente la cartella di pagamento, che può veicolare crediti di natura tributaria, sanzioni amministrative non tributarie ed altro).

In tal caso, la regola è che l'atto deve «scorporarsi» ai fini della giurisdizione, essendo impugnabile davanti al giudice tributario per la parte relativa alle pretese tributarie e davanti al giudice ordinario o ad altro giudice dotato del potere, per la parte relativa ai crediti di natura diversa. Non esiste una sorta di «connessione» ai fini della competenza e della giurisdizione fra qustioni tributarie e di altra natura.

La giurisprudenza ritiene che la prova della natura, tributaria o meno, del credito oggetto di esecuzione possa trarsi dall'estratto di ruolo (Cass. n. 11794/2016).

Nel corso degli anni la Corte Costituzionale ha affrontato alcune questioni sulla natura di diversi canoni e tariffe, stabilendo che rientrano nella giurisdizione tributaria le liti riguardanti il canone sulla pubblicità (Corte cost. n. 141/2009); la tariffa igiene ambientale (TIA) (Corte cost. n. 238/2009) in quanto entrata patrimoniale non di diritto privato, ma mera variante della TARSU, di cui conserva la qualifica di tributo (Cass.S.U., n. 23114/2015). A decorrere dall'1 marzo 2013, la TARSU e la TIA sono state sostituite dal tributo comunale sui rifiuti e sui servizi (c.d. «TARES»), di cui all'art. 14 del d.l. n. 201/2011. A partire dall'1 gennaio 2014 anche la TARES è stata sostituita ed oggi trova applicazione il tributo TARI.

Detta entrata, stante la sua struttura, ha natura tributaria. È stata altresì affermata la giurisdizione tributaria per le liti in materia di c.d. Ecotassa (l. n. 549/1995).

Non rientrano nella giurisdizione tributaria il canone per l'occupazione del suolo pubblico (COSAP) (Corte cost. n. 64/2008 e Cass.S.U., n. 11136/2016); il canone per la depurazione delle acque reflue (Corte cost. n. 39/2010), che costituiva entrata tributaria nella previgente disciplina della l. n. 319/1976 (Cass. n. 7739/2016). Sussistono poi alcune ipotesi residuali di canoni, variamente disciplinati, che presentano aspetti controversi.

Si pensi alle ipotesi in cui il soggetto privato domandi di fruire di un servizio pubblico e la P.A. chieda la corresponsione di un canone. La Cassazione ha affermato che essi, essendo entrate relative al godimento di un bene, non hanno natura tributaria (Cass.S.U., n. 604/2005 e Cass. n. 11089/2006).

Canone sulla pubblicità

La legge menziona espressamente il canone di pubblicità come oggetto della giurisdizione tributaria. In alternativa all'imposta sulla pubblicità, infatti, i Comuni possono introdurre un apposito canone. La Corte Costituzionale ha ritenuto che tale canone, a differenza del COSAP, sia un tributo (Corte cost. n. 1418/2009).

Nella sentenza viene specificato che:

- sia per l'imposta sulla pubblicità che per il canone, l'obbligo di erogare le somme richieste dall'ente locale nasce dalla legge per il solo fatto dell'installazione dei mezzi pubblicitari, con l'unica differenza che la suddetta installazione per essere legittima, deve essere preceduta, per l'imposta sulla pubblicità, da un'apposita dichiarazione e, per il CIMP, dall'autorizzazione del Comune;

- il canone è dovuto indipendentemente dal fatto dell'occupazione, e, quindi, dalla possibilità di instaurare una correlazione tra tali prelievi e l'uso dei beni stessi.

Tariffa igiene ambientale (TIA)

Con l'abrogazione della TARSU (Tassa per lo smaltimento dei rifiuti urbani), è stato previsto che i costi per la gestione dei rifiuti vengano coperti mediante l'istituzione di una tariffa (art. 49, d.lgs. n. 22/1997), detta TIA.

Il legislatore ha successivamente introdotto vari termini al fine di consentire ai Comuni la sostituzione della TARSU con la TIA. In un primo momento, la Corte di Cassazione ha optato per la natura tributaria della TIA (cfr., tra le altre, Cass. n. 175269/2007).

Successivamente, la questione è stata rimessa all'esame della Consulta (Cass.S.U., n. 13894/2009) che, con la sentenza n. 238/2009, ha ribadito che:

- la natura tributaria di un prelievo, a prescindere dal nomen iuris adottato dalla normativa che lo disciplina, si desume da alcuni fatti indice consistenti nella doverosità della prestazione, nella mancanza di un rapporto sinallagmatico tra parti e nel collegamento di detta prestazione alla pubblica spesa in relazione ad un presupposto economicamente rilevante;

- la TIA, in sostanza, contiene una disciplina analoga a quella della TARSU, la cui natura tributaria è pacifica in giurisprudenza; infatti, il presupposto della TIA è rinvenibile nella occupazione o conduzione di superfici;

- la natura autoritativa e non sinallagmatica della TIA si rinviene anche nel fatto che i servizi per lo smaltimento dei rifiuti sono istituiti dai Comuni, e che i soggetti obbligati non possono sottrarsi a tale obbligo adducendo di non volersi avvalere dei suddetti servizi;

- nonostante la disciplina relativa alla TIA non contenga alcun riferimento all'accertamento ed alla riscossione, tale lacuna può essere colmata con l'esercizio del potere regolamentare comunale;

- le c.d. «bollette di pagamento» possono essere impugnate dinanzi alla giustizia tributaria, per cui l'accesso a tale giurisdizione è garantito.

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