Decreto legislativo - 31/12/1992 - n. 546 art. 49 - Disposizioni generali applicabili 1 2 .1. Alle impugnazioni delle sentenze delle corti di giustizia tributaria di primo e secondo grado si applicano le disposizioni del titolo III, capo I, del libro II del codice di procedura civile, [escluso l'art. 337] e fatto salvo quanto disposto nel presente decreto 3. [1] Per l'abrogazione del presente articolo, a decorrere dal 1° gennaio 2026, vedi l'articolo 130, comma 1, lettera d), del D.Lgs. 14 novembre 2024, n. 175. Vedi, anche, l'articolo 130, comma 3, del D.Lgs. 175/2024 medesimo. [2] Per le nuove disposizioni legislative in materia di giustizia tributaria, di cui al presente articolo, a decorrere dal 1° gennaio 2026, vedi l'articolo 103 del D.Lgs. 14 novembre 2024, n. 175. [3] Comma modificato dall'articolo 9, comma 1, lettera u), del D.lgs. 24 settembre 2015, n. 156, a decorrere dal 1° gennaio 2016. Inquadramento.Con la riforma del 1992, il processo tributario ha perso il proprio carattere di «autonoma disciplina», che costituiva una delle caratteristiche principali del c.d. «vecchio rito» (disciplinato dal d.P.R. n. 636/1972) e ha fatto proprie le regole del processo civile. Uno dei più evidenti segnali della volontà del legislatore della riforma di armonizzare, per quanto possibile, le due procedure è individuabile nella decisione di eliminare la possibilità di adire la Commissione tributaria centrale, vero e proprio terzo grado di giudizio previsto esclusivamente nel rito tributario e nella scelta di rendere ancor più palesi nella norma tributaria i richiami al rito civile (Di Paola, 529). Ad ogni modo, nonostante l'espresso rinvio dinamico alle disposizioni di cui al codice di procedura civile, operato dall'art. 1, comma secondo, del d.lgs. n. 546/1992, le due procedure non risultano sovrapponibili in maniera assoluta. Invero, l'applicabilità delle disposizioni di cui al codice di procedura civile al processo tributario subisce una serie di restrizioni, tassativamente indicate dalla normativa fiscale e chiaramente dovute alla peculiarità di quest'ultima. Quanto appena detto, risulta particolarmente evidente in materia di impugnazioni. A tal riguardo, si rileva, infatti, che nonostante l'art. 49 del d.lgs. n. 546/1992 preveda espressamente che «alle impugnazioni delle sentenze delle commissioni tributarie si applicano le disposizioni del titolo III, capo I, del libro II del codice di procedura civile, e fatto salvo quanto disposto nel presente decreto», il successivo art. 50 individua in modo puntuale i mezzi di impugnazione delle sentenze pronunciate dalle Commissioni tributarie. Più precisamente, a norma dell'art. 50 del d.lgs. n. 546/1992 i mezzi per impugnare le sentenze delle Commissioni tributarie sono l'appello, il ricorso per cassazione e la revocazione: le differenze con il processo civile emergono subitanee e palesi, data l'espressa inapplicabilità al processo tributario di due mezzi di impugnazione previsti dal rito civile (ossia il regolamento di competenza e l'opposizione di terzo) (Di Paola, 530). Si anticipa sin da subito, inoltre, che la precedente formulazione dell'art. 49 escludeva espressamente l'operatività, in ambito tributario, dell'art. 337 c.p.c. che consente, in ambito civilistico, di richiedere la sospensione dell'esecutività delle sentenze emesse dai Tribunali di primo e secondo grado. Con il d.lgs. n. 156/2015, tale esclusione è stata espunta dalla norma. Il legislatore delegato, infatti, aderendo all'orientamento della Corte Costituzionale (Corte cost. n. 217/2010 e Corte cost. n. 109/2012) ha, infatti, riconosciuto al contribuente la possibilità di chiedere la sospensione dell'esecuzione delle sentenze delle Commissioni tributarie provinciali e regionali in sede di ricorso in appello, di ricorso per revocazione nonché di ricorso per cassazione. La Corte di cassazione sottolinea il rapporto di specialità esistente fra le disposizioni del d.lgs. n. 546/1992 e quelle del codice di rito, tale che la presenza di una norma processuale tributaria esclude l'operatività di quella processuale comune (Cass. n. 5504/2007, con riguardo alle modalità di notificazione degli atti di impugnazione, specificatamente regolate dagli artt. 16 e 17, d.lgs. n. 546/1992, v. anche Cass. n. 10961/2009; Cass. n. 7059/2014). Le impugnazioni nel processo tributario. Il rinvio agli articoli 323-338 del codice di procedura civileL'impugnazione è, a tutti gli effetti, una contestazione (Mandrioli, 252 ss.; con riferimento al processo tributario, Santamaria, 5245). Più precisamente, con l'espressione «impugnazione, o «mezzo d'impugnazione», si intende sia l'ulteriore fase di giudizio nella quale ritorna in discussione l'oggetto del provvedimento impugnato o il provvedimento stesso, e sia l'atto introduttivo di questa nuova fase (Mandrioli, 252). Presupposto essenziale dell'impugnazione è, naturalmente, l'esistenza di un pronunciamento di carattere decisorio emesso da un giudice rispetto al quale una delle parti della controversia possa lamentare un pregiudizio e chiederne un riesame. Per tale motivo, secondo l'opinione della dottrina più autorevole, i mezzi di impugnazione sono gli strumenti approntati da ogni sistema processuale per rimediare ai vizi delle sentenze nei tempi e nelle forme previste dalla legge, in attuazione del diritto diritto di azione e di difesa giurisdizionale costituzionalmente sanciti dall'art. 24 della Costituzione (si veda, limitatamente al processo tributario Baglione, Menchini, Miccinesi, 552; Tesauro, 227). Dottrina e giurisprudenza hanno da tempo elaborato molteplici criteri di classificazione dei mezzi di impugnazione. Uno dei principali criteri di classificazione è quello della ragione dell'impugnazione in forza del quale viene dato rilievo al motivo dell'impugnazione, che può essere originata da vizi o da ingiustizia della sentenza impugnata. Invero, la sentenza può essere stata emessa in violazione della norma procedurale (errores in procedendo) o della norma sostanziale (errores in iudicando) ed essere, quindi, viziata. In alternativa, la sentenza può, semplicemente, essere ingiusta. Nel primo caso, la parte soccombente ha interesse a richiamare l'attenzione del giudice esclusivamente sui vizi della sentenza, mentre, nel secondo caso, l'esame del giudice verterà su aspetti di merito (Di Paola, 538). Esistono, poi, impugnazioni sostitutive, volte ad eliminare la sentenza gravata e a sostituirla con una pronuncia nuova (novum iudicium), e impugnazioni rescindenti, finalizzate alla mera eliminazione della sentenza impugnata. Tipico esempio di impugnazione rescindente è il ricorso per cassazione, dove vi è una chiarissima separazione tra fase rescindente (volta all'eliminazione della sentenza) e successiva fase rescissoria (volta alla rinnovazione del giudizio), mentre il più tradizionale mezzo di impugnazione sostitutiva è costituito dall'appello. Le impugnazioni sostitutive, a critica libera, instaurano un giudizio il cui oggetto coincide con quello del giudizio precedente; le impugnazioni rescindenti, a critica vincolata, hanno invece ad oggetto la sentenza impugnata e la cognizione degli specifici vizi da cui essa si afferma essere affetta (Tesauro, 227). L'unico mezzo a critica libera presente nel nostro ordinamento è l'appello, tutti gli altri mezzi di impugnazione costituendo mezzi a critica vincolata. Tale suddivisione dei mezzi di impugnazione rimane valida anche nel processo tributario (Di Paola, 538). Con riguardo alla idoneità del mezzo di impugnazione a determinare la cosa giudicata formale, si distingue tra impugnazioni ordinarie, esperibili prima che la sentenza passi in giudicato, ed impugnazioni straordinarie, proponibili dopo la formazione del giudicato. Diversamente da quanto avviene per i mezzi di impugnazione ordinaria, i mezzi di impugnazione straordinaria danno luogo ad una nuova lite, ancorché collegata a quella vecchia. L'appello, il ricorso per cassazione, il regolamento di competenza e la revocazione per i motivi di cui all'art. 395, numeri 4 (errore di fatto) e 5 (contrasto con precedente avente valore di cosa giudicata tra le parti) rientrano nella tipologia delle impugnazioni ordinarie. Al contrario sono da considerarsi mezzi di impugnazione straordinaria, la revocazione per motivi diversi da quelli sopra menzionati e l'opposizione di terzo. Tale suddivisione rimane valida anche nell'ambito del processo tributario, ad eccezione ovviamente dei mezzi di impugnazione non esperibili ex lege. Da ultimo, occorre ricordare che i mezzi di impugnazione possono essere classificati anche in base al giudice dell'impugnazione. Appello e ricorso per cassazione sono necessariamente discussi davanti ad un giudice diverso da quello che ha emesso la decisione impugnata. Al contrario, i giudizi promossi a seguito di revocazione ed opposizione di terzo sono dinanzi allo stesso giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata. Nel processo civile, la disciplina generale in tema di impugnazioni è dettata dagli artt. 323-338 c.p.c.. In particolare, a norma dell'art. 323 c.p.c. i mezzi di impugnazione previsti per il processo civile sono: l'appello, il ricorso per cassazione, la revocazione, il regolamento di competenza e l'opposizione di terzo. Nel processo tributario, i principi generali in materia di impugnazioni sono richiamati dagli artt. 49 ss del d.lgs. n. 546/1992. Invero, la norma in commento prevede che alle impugnazioni delle sentenze delle commissioni tributarie si applicano le disposizioni del titolo III, capo I, del libro II del codice di procedura civile, e fatto salvo quanto disposto nel presente decreto. Ne deriva che, in tutti i casi in cui la normativa in commento non contenga difformi disposizioni in materia, nel contenzioso tributario si applicano tutte le disposizioni generali del codice di procedura civile in tema di impugnazioni (artt. 323-338 c.p.c.), giacché il d.lgs. n. 546/1992 disciplina, nello specifico, solo i mezzi (art. 50) ed i termini (art. 51) per le impugnazioni. In tal senso, l'art. 49, come l'art. 1, attua il principio di «adeguamento delle norme del processo tributario a quelle del processo civile» posto dall'art. 30, lett. g), l. delega 30 dicembre 1991, n. 413. Ad ogni modo, si rileva che l'applicabilità delle norme del codice di rito era comunque riconosciuta in via interpretativa anche prima della riforma del 1992 (Russo, 1987, 799; Tesauro, 186). L'impugnazione di una decisione giurisdizionale, intesa come «mezzo», consiste in una domanda, con la quale una delle parti litiganti rimette in discussione, nei confronti dell'altra, l'oggetto del provvedimento impugnato, e non può quindi indirizzarsi contro l'organo giudicante, che è soggetto terzo rispetto alle parti del processo e non può pertanto essere coinvolto dalle domande in esso proposte (Cass. n. 17014/2003). Per proporre impugnazione, oltre ad essere legittimato, bisogna avervi interesse e l'unica parte che ha interesse alla riforma della sentenza impugnata è la parte totalmente o parzialmente soccombente. Più in particolare, come rilevato da Cass. sez. trib., n. 6546/2004, il principio di cui all'art. 100 c.p.c. si applica anche nel giudizio di impugnazione, con riferimento al quale l'interesse si desume, peraltro, dall'utilità giuridica connessa (per l'impugnante) all'eventuale accoglimento del gravame, alla luce della sua sostanziale soccombenza nel precedente giudizio, intesa come effetto pregiudizievole derivante dalle statuizioni (idonee a passare in giudicato) contenute nella sentenza impugnata, e non già come mera divergenza tra quelle statuizioni e le conclusioni rassegnate dallo stesso impugnante (in senso conforme: Cass. n. 20813/2004; Cass. n. 8326/2004; Cass. n. 2494/1999; Cass. n. 9684/1998; Cass. n. 3133/1997). Con particolare riferimento al processo tributario, l'art. 49 dispone che «alle impugnazioni delle sentenze delle commissioni tributarie si applicano le disposizioni del titolo III, capo I, del libro II del codice di procedura civile, e fatto salvo quanto disposto nel presente decreto». Tuttavia, l'ampio rinvio, operato dalla norma in esame al sistema delle impugnazioni contemplato dagli artt. 323-338 c.p.c., è immediatamente temperato dal successivo art. 50 il quale, con riguardo al rito tributario, limita i mezzi di impugnazione a quelli dell'appello, del ricorso per cassazione e della revocazione. Restano, pertanto, esclusi l'opposizione di terzo ed il regolamento di competenza. In realtà, giurisprudenza recente sembra orientata ad ammettere il regolamento di competenza tra le impugnazioni del processo tributario in determinate circostanze. In tal senso si è pronunciata Cass. sez. trib., n. 8129/2007 secondo la quale gli artt. 1, secondo comma, e 5, quarto comma, del d.lgs. n. 546/1992 debbono essere interpretati in modo conforme ai diritti che gli artt. 24 e 11 della Costituzione riconoscono alla difesa nel processo tributario, il quale coinvolge interessi di particolare rilievo costituzionale. E perciò trova applicazione nel detto processo l'art. 6, della legge 26 novembre 1990, n. 353 che, modificando l'art. 42 c.p.c., ha disposto che i provvedimenti di sospensione ai sensi dell'art. 295 c.p.c. «possono essere impugnati con istanza di regolamento di competenza». Il processo tributario può essere sospeso ex art. 295 c.p.c. solo nei casi tassativamente indicati dall'art. 39 del d.lgs. 546/1992 ed in caso di pregiudizialità di una controversia tributaria ad altra controversia tributaria. Perciò deve essere cassata l'ordinanza con cui il giudice di merito abbia sospeso un processo tributario in attesa della pronuncia del giudice penale su una questione ritenuta pregiudiziale (in senso conforme si veda Cass. ord. n. 11140/2005; Cass. n. 12008/2014). Le singole disposizioni del c.p.c. applicabili alle impugnazioni tributarie. L'art. 324: cosa giudicata formaleCome anticipato, in materia di impugnazioni, l'applicabilità delle disposizioni del codice di procedura civile al rito tributario incontra una serie di restrizioni dovute soprattutto alla peculiarità di quest'ultimo. Invero, alcune di esse contrastano con le norme di cui al d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, recanti una disciplina particolare con riguardo alla tipologia dei mezzi di impugnazione esperibili (ridotti rispetto al processo civile), ai termini e alla relativa decorrenza, al luogo delle notificazioni e alla sospensione dell'esecuzione e dei processi. In disparte questi aspetti, nel presente paragrafo saranno analizzati, per la loro diretta rilevanza in materia tributaria, alcuni profili delle norme del codice di procedura civile che formano oggetto del richiamo operato dall'art. 49, d.lgs. n. 546/1992. In forza dell'espresso richiamo contenuto nell'art. 49 in esame, dottrina e giurisprudenza, sono concordi nell'affermare l'integrale applicabilità dell'art. 324 c.p.c. al processo tributario (si veda in dottrina Consolo, D'Ascola, 467). Più in particolare, la norma da ultimo citata (art. 324 c.p.c.) disciplina l'ipotesi del cosiddetto giudicato formale, che identifica la certezza della situazione controversa nella incontrovertibilità della relativa sentenza, divenuta definitiva per l'esaurimento dei mezzi di impugnazione messi a disposizione dall'ordinamento processuale o per l'inutile decorso dei termini per l'impugnazione (Di Paola, 549). Diretta conseguenza del giudicato formale è il cosiddetto giudicato sostanziale, previsto e disciplinato dall'art. 2909 c.c., a norma del quale «L'accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato ad ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa». Il giudicato sostanziale svolge un duplice ruolo: di segno negativo, perché impedisce il riesame del diritto su cui si è già deciso; e di segno positivo, poiché vincola il giudice che dovesse pronunciarsi nuovamente su tale diritto (Pistolesi, 1998, 643) a rispettare quanto disposto dalla precedente sentenza, divenuta definitiva e, quindi, irretrattabile. Quest'ultimo aspetto merita, in ogni caso, una puntualizzazione: in conseguenza del giudicato sostanziale, il giudice non è obbligato a pronunciarsi in modo conforme al giudicato, ma a non pronunciarsi affatto sull'oggetto del giudizio divenuto definitivo (Di Paola, 550). In realtà, la sentenza passata in giudicato non è assolutamente incontrovertibile in quanto potrebbe essere soggetta a revocazione ex art 395 nn. 1, 2, 3, e 6 o (nel processo civile) ad opposizione di terzo. Possono passare in giudicato le «sentenze» ovvero le sentenze di merito di primo grado, definitive o anche no definitive, le sentenze di merito pronunciate in grado di appello, sia se confermano sia se rigettano la sentenza impugnata, le sentenze della Corte di Cassazione anche se, in tal caso, non si può parlare di giudicato formale, non essendo le stesse ulteriormente impugnabili (Di Paola, Tambasco, 239). Sempre con riferimento al giudicato, un'ulteriore distinzione è quella tra giudicato interno e giudicato esterno. Più in particolare, il giudicato interno è quello che si forma nell'ambito del medesimo giudizio per effetto dell'impugnazione parziale. Detto altrimenti, qualora la sentenza non venga impugnata integralmente, ma sia proposta impugnazione nei confronti di una parte di questa, il giudicato (interno) si forma sulla parte o parti della sentenza non oggetto di impugnazione. A tal ultimo riguardo, occorre, tuttavia, sottolineare che il giudicato non può formarsi sulle parti della sentenza non espressamente impugnate e che sono necessariamente collegate ad altre parti della sentenza per cui è stata proposta impugnazione (c.d. effetto espansivo interno). Il cosiddetto giudicato esterno, invece, è quello che si forma in giudizio diverso. Pertanto, qualora due giudizi tra le stesse parti abbiano riferimento al medesimo rapporto giuridico o titolo negoziale, ed uno di essi sia stato definito con sentenza passata in giudicato, tale accertamento in ordine alla situazione giuridica ovvero alla soluzione di questioni di fatto o di diritto relative ad un punto fondamentale comune ad entrambe le cause, formando la premessa logica indispensabile della statuizione contenuta nel dispositivo della sentenza, ne preclude il riesame, anche se il successivo giudizio abbia finalità diverse da quelle che hanno costituito lo scopo ed il «petitum» del primo. È evidente che il divieto al riesame spiega i suoi effetti esclusivamente tra le parti del giudizio e non vincola in alcun modo soggetti terzi, che, pur titolari di rapporti dipendenti, non siano stati parti del giudizio passato in giudicato. Una diversa conclusione costituirebbe, infatti, una palese lesione al diritto di difesa costituzionalmente garantito dall'art. 24 Cost. (Di Paola, 550). Ebbene, come anticipato, le disposizioni di cui all'art. 324 c.p.c. trovano integrale applicazione nel processo tributario (Consolo, Glendi, 539) e, pertanto, la sentenza delle Commissioni tributarie acquista efficacia di cosa giudicata nel momento in cui si esaurisce la facoltà di esercizio delle impugnazioni c.d. ordinarie. Il giudicato copre il dedotto e il deducibile in relazione al medesimo oggetto, e, pertanto, non soltanto le ragioni giuridiche e di fatto esercitate in giudizio ma anche tutte le possibili questioni, proponibili in via di azione o eccezione, che, sebbene non dedotte specificamente, costituiscono precedenti logici, essenziali e necessari, della pronuncia (Cass. n. 3488/2016). Il giudicato non si forma, nemmeno implicitamente, sugli aspetti del rapporto che non hanno costituito oggetto di specifica disamina e valutazione da parte del giudice, cioè di un accertamento effettivo, specifico e concreto, come accade allorquando la decisione sia stata adottata alla stregua del principio della «ragione più liquida», basandosi la soluzione della causa su una o più questioni assorbenti (Cass. n. 5264/2015). Una volta che si producono gli effetti propri del giudicato non sarà più possibile il riesame del rapporto già deciso in un nuovo processo ed il giudice, eventualmente chiamato a pronunciarsi sul medesimo rapporto, dovrà rispettare il precedente accertamento giudiziale divenuto immutabile. Eccezione a tale regola è sancita dall'art. 391-bis, commi 4 e 5, c.p.c. in forza del quale la pendenza del termine per la revocazione della sentenza della Corte di Cassazione che ha respinto il ricorso non impedisce il passaggio in giudicato della sentenza impugnata ed inoltre il ricorso per revocazione avverso sentenza della Corte di Cassazione passata in giudicato non sospende l'esecuzione della sentenza medesima; si tratta a ben vedere di eccezioni che tendono ad evitare inutili impugnazioni aventi solo finalità dilatorie. È quanto sostenuto dalla Suprema corte (Cass. n. 843/2014) la quale ha affermato che, in tema di impugnazioni, l'art. 391 bis, quarto e quinto comma, c.p.c., costituisce norma speciale e derogatoria dell'art. 324 c.p.c. – e quindi di stretta applicazione – secondo la quale la proposizione di un ricorso per revocazione impedisce il passaggio in giudicato della sentenza impugnata solo ove il ricorso per cassazione sia stato accolto, dovendosi invece, ritenere che per evitare la proposizione di ricorsi meramente dilatori e diretti ad impedire la formazione del giudicato, qualora una sentenza della Corte di cassazione abbia rigettato il ricorso, e lasciata immutata la decisione impugnata, tanto per ragioni processuali, quanto per la reiezione dei motivi di merito, si formi il giudicato, che non è inciso dalla proposizione (o dalla astratta proponibilità) di un ricorso per revocazione. Con particolare riguardo alla distinzione tra giudicato esterno ed interno, una parte, per vero minoritaria, della giurisprudenza di legittimità nega ogni ultrattività al giudicato esterno sulla scorta della pretesa autonomia dei rapporti di imposta. Tale orientamento interpretativo afferma la piena autonomia, nel sistema tributario, di ogni singolo anno fiscale rispetto agli altri da cui deriva la costituzione, tra contribuente e fisco, di un rapporto giuridico distinto rispetto a quelli relativi agli anni precedenti e successivi. Di conseguenza, la decisione relativa ad una determinata annualità non è suscettibile di costituire cosa giudicata rispetto ai giudizi relativi alle altre annualità. In particolare, si è affermato che l'efficacia preclusiva del giudicato esterno non è automaticamente applicabile alle fattispecie riferite ad imposte differenti (imposte sui redditi ed i.v.a.) né, in presenza di fatti e circostanze potenzialmente mutevoli, può assumere la valenza di sostanziale identità dei fatti costitutivi del rapporto giuridico d'imposta tale da consentire l'estensione a periodi d'imposta diversi da quello di riferimento degli effetti della res iudicata quale lex specialis e di accertamento di fatto. Nel contenzioso tributario, perché risulti fondata l'eccezione di giudicato è necessario che tra i due giudizi vi sia identità di soggetti e di oggetto, tale che l'oggetto del secondo giudizio sia costituito dal medesimo rapporto tributario definito irrevocabilmente nel primo, ovvero che in quest'ultimo sia stato definitivamente compiuto un accertamento radicalmente incompatibile con quello operante nel giudizio successivo; ne consegue che per alcuni tributi come la TARSU ad esempio posto che la tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani è dovuta per anni solari, a ciascuno dei quali corrisponde un'obbligazione tributaria autonoma – non è configurabile la preclusione da giudicato allorché il precedente giudicato si riferisca ad un'annualità diversa dal periodo di tassazione considerato nella impugnata sentenza (Cass. n. 19152/2003). L'orientamento giurisprudenziale maggioritario ritiene che, in relazione alle imposte periodiche, per quanto concerne i punti comuni delle distinte controversie, il giudicato formatosi in ordine ad una annualità si estende anche alle annualità successive, atteso che l'indifferenza della fattispecie costitutiva dell'obbligazione relativa ad un determinato periodo rispetto ai fatti che si siano verificati al di fuori dello stesso, oltre a riguardare soltanto le imposte sui redditi e a trovare significative deroghe sul piano normativo, si giustifica soltanto in relazione ai fatti non aventi caratteristica di durata e comunque variabili da periodo a periodo, e non anche rispetto agli elementi costitutivi della fattispecie che, estendendosi ad una pluralità di periodi di imposta assumono carattere tendenzialmente permanente. Sul punto sono intervenute le Sezioni Unite della Corte di cassazione stabilendo che il processo tributario ha ad oggetto la tutela di un diritto soggettivo del contribuente, perciò si estende anche al merito e all'accertamento del rapporto e non è (solo) un «giudizio sull'atto» (da annullare). Quindi, il giudicato che si forma nel processo tributario non esaurisce i propri effetti nel limitato perimetro del giudizio in esito al quale si è formato e possiede (ove non si risolva nell'annullamento dell'atto per vizi formali o per vizio di motivazione) una potenziale capacità espansiva in un altro giudizio tra le stesse parti, secondo regole non dissimili nei limiti della specificità tributaria da quelle che disciplinano l'efficacia del «giudicato esterno» nel processo civile. D'altro canto, la tipicità del modello processuale tributario deve essere letta tenendo conto che la nuova formulazione dell'art. 11 della Costituzione fissa una direttiva generale (la regola del «giusto processo») cui deve rispondere l'interpretazione di ogni modello processuale, tale regola impone tra l'altro la realizzazione dell'effetività della tutela» (scopo cui precipuamente risponde l'efficacia del giudicato). Alla luce di questi principi si deve affermare che il criterio dell'«autonomia dei periodi d'imposta» (che trova un sostegno normativo nella disposizione di cui all'art. 7 del TUIR), non impedisce che il giudicato relativo ad un periodo di imposta faccia stato anche per altri; quando incida su elementi che siano rilevanti per più periodi d'imposta (nel caso di specie che la Corte ha ritenuto che la sentenza passata in giudicato che accertava la spettanza di un'esenzione pluriennale dall'Iva facesse stato per tutte le annualità e non solo per quella in cui il riferimento si era formato il giudicato stesso) (Cass. S.U., n. 13916/2006; il principio è stato, poi, ribadito da successive pronunce tra cui Cass. n. 13498/2015; Cass. n. 25762/2014: Cass. n. 23532/2014; Cass. n. 4383/2011; Cass. n. 9512/2009). Non spiega invece efficacia esterna il giudicato riguardante tributi diversi, anche se fondato sui medesimi fatti e riguardante lo stesso periodo di imposta, considerata la diversità delle norme giuridiche applicabili ai fini della determinazione delle singole imposte (Cass. n. 17175/2015; Cass. n. 8825/2014; Cass. n. 3706/2010). Tuttavia, giova sottolineare che, in altra occasione la Suprema corte ha riconosciuto efficacia espansiva anche al giudicato formatosi su tributi diversi da quelli oggetto di causa, a condizione che si tratti di imposte tra loro collegate. È questo il caso dell'imposta di registro e delle imposte sul reddito conseguenti alla qualificazione, agricola o edificabile, di un terreno oggetto di compravendita, attesa la comunanza e unitarietà di disciplina impositiva prevista dalla legge (Cass. n. 12456/2014). Nessuna efficacia ultrattiva produce la sentenza che decida una questione giuridica non condizionata dall'accertamento di elementi di fatto comuni alle diverse annualità. Invero, la preclusione del giudicato opera nel caso di giudizi identici, ma nei soli limiti dell'accertamento della questione di fatto e non anche in relazione alle conseguenze giuridiche. Sulla scorta di tali considerazioni, la Corte (Cass. n. 12763/2014) ha ritenuto privo di effetti preclusivi il giudicato concernente il pagamento del canone di fognatura e depurazione per gli anni 1997 e 1998, in quanto relativo a tributi afferenti annualità distinte rispetto a quella oggetto di causa ed incentrato sulla difforme soluzione di una questione giuridica non condizionata dall'accertamento degli stessi elementi di fatto. Negli stessi termini si è espressa Cass. n. 1837/2014, che ha escluso l'efficacia esterna del giudicato di annullamento di un avviso di rettifica, privo di adeguata motivazione e fondato su elementi inidonei a dimostrare l'inattendibilità della dichiarazione dei redditi, in altra controversia relativa ad un avviso derivante dal medesimo verbale di constatazione ma avente ad oggetto diversa annualità dello stesso tributo. Il principio di ultrattività del giudicato non opera nemmeno nei casi di applicazione di norme o principi comunitari imperativi, come il divieto di abuso del diritto. Il carattere vincolante del giudicato nazionale, quindi, formatosi su un certo periodo d'imposta in materia di Iva, non è idoneo ad impedire che, per altri periodi, trovi applicazione il principio di contrasto all'abuso del diritto, anche in difformità dell'accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato (Cass. n. 12249/2010). Per altro verso, il diritto comunitario non impone al giudice nazionale di disapplicare le norme processuali interne da cui deriva l'autorità di cosa giudicata di una decisione, nemmeno quando ciò consentirebbe di porre rimedio a una violazione del diritto comunitario da parte di tale decisione, salve le ipotesi, assolutamente eccezionali, in cui ricorrano discriminazioni tra situazioni di diritto comunitario e situazioni di diritto interno ovvero che sia reso in pratica impossibile o estremamente difficile l'esercizio dei diritti conferiti dall'ordinamento comunitario (Cass. n. 16032/2015; Cass. n. 4836/2014). Il passaggio in giudicato non è condizionato dalla nullità della sentenza derivante dall'omessa o irregolare comunicazione dell'avviso di fissazione dell'udienza. Nel processo tributario, questo vizio può essere fatto valere solo impugnando tempestivamente la sentenza conclusiva del giudizio, ovvero proponendo l'impugnazione tardiva nei limiti ed alle condizioni di cui all'art. 327 c.p.c. In mancanza, la sentenza acquista efficacia di giudicato e la nullità di essa non può essere fatta valere nei giudizi di impugnazione degli ulteriori atti consequenziali emanati dall'erario sulla base della sentenza ormai passata in giudicato (Cass. n. 6692/2015). L'efficacia del giudicato esterno non può giungere fino al punto di far ritenere vincolante, nel giudizio avente ad oggetto le medesime questioni di fatto e di diritto, la sentenza definitiva di merito priva di una specifica ratio decidendi, che, cioè, accolga o rigetti la domanda, senza spiegare in alcun modo le ragioni della scelta, poiché, pur non essendo formalmente inesistente e nemmeno nulla (coprendo il passaggio in giudicato, quanto alle nullità, il dedotto e il deducibile), essa manca di un supporto argomentativo che possa spiegare effetti oltre i confini della specifica fattispecie. L'attribuzione di efficacia di giudicato esterno ad una siffatta decisione comporterebbe d'altronde, in riferimento al giudizio di legittimità, una rinuncia della Corte di cassazione alla propria funzione nomofilattica, dovendo essa subire l'imposizione da parte del giudice di merito di un principio di diritto che non risulta neppure formulato in maniera espressa (Cass. n. 18041/2009). L'esistenza di un giudicato esterno è rilevabile di ufficio anche in sede di legittimità, e, qualora esso si sia formato dopo la notifica del ricorso per cassazione, i relativi documenti giustificativi possono essere prodotti, dalla parte regolarmente costituitasi, fino all'udienza di discussione; ove, invece, tale produzione venga effettuata, prima della menzionata udienza, dal resistente costituitosi irritualmente (perché con controricorso tardivo o con comparsa depositata per la sola discussione orale), eventualmente in allegato alla memoria exartt. 378 o 380-bis, secondo comma, c.p.c., di quei documenti non può tenersi conto, salvo che l'irritualità di detta costituzione non sia sanata dalla partecipazione del resistente alla discussione orale (Cass. n. 11365/2015). Peraltro, non va trascurato il fatto che la cosa giudicata è immodificabile nel caso in cui le disposizioni di legge che regolavano la materia controversa o lo svolgimento del relativo processo siano emendate successivamente alla formazione del giudicato ma con effetto retroattivo. A tal riguardo, la giurisprudenza intervenuta sul punto, ha rilevato che lo ius superveniens non può travolgere il giudicato già formatosi, la cui intangibilità rappresenta un principio fondamentale nel nostro sistema giuridico, quando il giudicato stesso abbia carattere sostanziale – consegua, cioè, a pronunce che, oltre a essere passate formalmente in giudicato, incidano sul diritto fatto valere in giudizio, anche risolvendo solo questioni preliminari di merito – o quando le nuove norme riguardino un oggetto che poteva essere dedotto nel precedente giudizio, ovvero quando il legislatore non abbia specificamente esteso le nuove disposizioni anche ai rapporti già definiti con sentenza passata in giudicato. Pertanto, in tema di imposta sul valore aggiunto, la disposizione di cui all'art. 3, comma 125, l. n. 549/1995, che ha riaperto i termini previsti dall'art. 34 d.P.R. n. 633 del 1972 e successive modificazioni per effettuare l'opzione per l'applicazione dell'imposta nel modo normale o la rinuncia al regime di esonero con riferimento ai periodi di imposta chiusi al 31 dicembre 1994, non può travolgere il giudicato che si sia in precedenza formato sulla decadenza dall'azione di rimborso, perché proposta oltre il termine fissato dall'allora vigente art. 34, tenuto conto che detta norma non contiene un'espressa previsione di retroattività, né introduce una nuova azione e che il giudicato formatosi prima dell'entrata in vigore di essa ha natura sostanziale, attenendo alla perdita del diritto per inerzia del titolare (Cass. n. 21382/2008; Cass. n. 15414/2004; Cass. n. 2091/2004). Infine, giova sottolineare che la parte che eccepisce la formazione del giudicato ha l'onere di provare il passaggio in giudicato delle sentenze rese negli altrui giudizi, producendo le sentenze stesse e correlandole di idonee certificazioni dalle quali risulti che esse non siano più soggette a impugnazione, non potendosi ritenere sia onere della controparte dimostrare l'impugnabilità di dette sentenze (Cass. n. 10056/2014). In tema di ricorso per cassazione, ove l'eccezione di giudicato esterno non sia conforme al principio di autosufficienza, per mancata indicazione della produzione della sentenza e della fase processuale nella quale la stessa è avvenuta, permane il dovere del giudice di legittimità di attivarsi e verificare l'effettiva esistenza di una pronuncia avente tale valenza poiché il giudicato esterno è assimilabile agli elementi normativi ed al suo accertamento, mirando ad evitare la formazione di giudicati contrastanti, è affettuabile anche d'ufficio in qualsiasi stato e grado del processo, in quanto corrisponde ad un preciso interesse pubblico, sotteso alla funzione primaria del processo e consistente nella eliminazione dell'incertezza delle situazioni giuridiche attraverso la stabilità della decisione (Cass. n. 25432/2017). Il giudicato esterno formatosi a seguito di una sentenza della Corte di cassazione è rilevabile d'ufficio anche nell'ipotesi in cui essa non sia stata resa in atti con la rituale certificazione di cui all'art. 124 disp.att c.p.c.; l'accertamento del giudicato esterno non costituisce, infatti, patrimonio esclusivo delle parti, ma corrisponde ad un preciso interesse pubblico, volto ad evitare la formazione di giudicati contrastanti, in ossequio al principio del ‘ne bis in idem' (Cass. n. 16589/2021). L'art. 327 c.p.c.: decadenza dall'impugnazione.L'art. 327, comma 1, c.p.c., così come modificato dalla legge 18 giugno 2009, n. 69, prevede il cosiddetto termine lungo di impugnazione. In particolare, in forza della norma da ultimo citata, in caso di mancata notifica della sentenza, l'appello, il ricorso per cassazione e la revocazione di cui all'art. 395, nn. 4 e 5, c.p.c. devono proporsi entro sei mesi dalla pubblicazione della sentenza ovvero dalla data di deposito in cancelleria della sentenza. Come affermato da autorevole dottrina (Mandrioli, Corso di diritto processuale civile, II, Torino, 2011, 264), la ratio della norma è quella di evitare che il passaggio in giudicato possa essere protratto indefinitamente ad arbitrio delle parti. A norma dell'art. 327, comma 2, c.p.c., tale termine può essere derogato solo se la parte contumace dimostri di non aver avuto conoscenza del processo per nullità della citazione o della notificazione della stessa o per nullità degli atti che devono essere notificati personalmente alla parte contumace (ordinanza che ammette l'interrogatorio o il giuramento, comparse contenenti domande nuove o riconvenzionali, sentenze) (Di Paola, Tambasco, 244). Ebbene, tale disposizione è certamente applicabile al processo tributario nel quale, pertanto, in mancanza di notificazione della sentenza, l'impugnazione dovrà essere proposta entro il termine di sei mesi dal deposito della sentenza nella segreteria della Commissione, senza che assuma alcun rilievo la comunicazione del relativo avviso da parte della segreteria. Inoltre, a norma dell'art. 38, comma terzo, parte seconda, d.lgs. n. 546/1992, il termine per la proposizione dell'impugnazione di cui all'art. 327, comma 1, c.p.c., non trova applicazione laddove la parte non costituita dimostri di non avere avuto conoscenza del processo per nullità della notificazione del ricorso e della comunicazione di avviso di fissazione dell'udienza, così richiamando implicitamente l'art. 327, comma secondo, c.p.c. Nel processo tributario, l'operatività del cosiddetto termine lungo di impugnazione non era prevista dal d.P.R 26 ottobre 1972, n. 636 e, tuttavia, la giurisprudenza prevalente ne riconosceva l'applicabilità allo scopo di garantire certezza e stabilità al dictum della commissione (Cass. n. 1114/2008). Al contrario, oggi, in forza dell'espresso richiamo operato dall'art. 38, comma terzo, d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, l'operatività, in materia tributaria, del termine lungo di cui all'art. 327, comma1, c.p.c., risulta pacifica (Cass. n. 13060/2015; Cass. n. 11621/2013). In particolare, la modifica dell'art. 327 c.p.c. introdotta dall'art. 46, della legge 18 giugno 2009, n. 69, che ha ridotto da un anno a sei mesi il termine decadenziale di impugnazione delle sentenze, è applicabile ai giudizi instaurati in primo grado a partire dal 4 luglio 2009, non rilevando il momento dell'instaurazione di una successiva fase o di un successivo grado di giudizio (Cass. n. 15741/2013; Cass. n. ord. 19969/2015; Cass. n. ord. 20102/2016). Ai fini del rispetto del termine lungo di impugnazione delle sentenze tributarie vale il principio conseguente alla declaratoria di parziale incostituzionalità dell'art. 149 c.p.c. e dell'art. 4, comma terzo, della legge 20 novembre 1982, n. 890, per cui la notificazione dell'impugnazione si perfeziona, per il notificante, non già alla data di ricezione dell'atto da parte del destinatario, ma nella diversa e antecedente data di consegna dell'atto stesso all'ufficiale giudiziario (Cass. n. 4166/2013). Come avviene nel processo civile, anche nel processo tributario il contumace decade dal potere di impugnazione per l'inutile decorso del termine stabilito dall'art. 327, comma 1, c.p.c., laddove si accerti, anche d'ufficio, che, nonostante la nullità della notificazione dell'atto introduttivo, lo stesso abbia avuto conoscenza del processo, e il termine sia decorso non già dalla data di pubblicazione della sentenza, bensì dal giorno di detta presa di conoscenza, se successiva alla sentenza medesima (Cass. n. 17236/2013). Nel caso in cui il termine di impugnazione della sentenza tributaria venga a scadere durante un periodo di irregolare funzionamento degli uffici finanziari, lo stesso è da considerarsi prorogato fino al decimo giorno successivo alla data di pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del decreto di accertamento della durata complessiva di detto periodo, a norma dell'art. 3, della legge 25 ottobre 1985, n. 592 (Cass. n. 6269/2013). L'art. 328 c.p.c.: decorrenza dei termini contro gli eredi della parte defuntaL'art. 328 c.p.c., disciplina la decorrenza dei termini contro gli eredi della parte defunta stabilendo che se durante il decorso del termine breve di cui all'art. 325 c.p.c. sopravviene alcuno degli eventi previsti dall'art. 299 c.p.c. (ossia la morte o la perdita della capacità di stare in giudizio di una delle parti o del suo rappresentante legale o la cessazione di tale rappresentanza o ancora la morte, la radiazione e la sospensione dell'albo del procuratore costituito), il termine è interrotto e comincia a decorrere nuovamente dal momento in cui viene rinotificata la sentenza. Tale rinnovazione può essere fatta agli eredi sia collettivamente che impersonalmente nell'ultimo domicilio del defunto. Al contrario, ai sensi dell'art. 328, comma 2, c.p.c., laddove la morte o la perdita della capacità di stare in giudizio di una delle parti o del suo rappresentante legale o la cessazione di tale rappresentanza o ancora la morte, la radiazione e la sospensione dell'albo del procuratore costituito, si verifica dopo sei mesi dalla pubblicazione della sentenza, il termine di cui all'art. 327 c.p.c. è prorogato per tutte le parti di sei mesi dal giorno dell'evento. A tal riguardo, la dottrina ha evidenziato la grave incongruenza dovuta al difetto di coordinamento tra la disposizione e l'art. 327 c.p.c. nella formulazione risultante dalle modifiche apportate dalla legge n. 69/2009 (Di Paola, Tambasco, 245). Secondo tale interpretazione dottrinale, invero, il legislatore avrebbe dovuto modificare anche il comma 3 dell'art. 328 c.p.c., che invece è rimasto inalterato, con la conseguenza che da un lato dispone l'interruzione se l'evento si verifica dopo sei mesi dalla pubblicazione della sentenza ovvero quando la stessa è già passata in giudicato e, dall'altro lato, se l'evento si verifica nel corso del termine non si ha nessuna interruzione con la conseguenza che il termine originario spira anche in pregiudizio degli eredi della parte defunta o della parte il cui difensore è venuto meno. Preso atto di tale difetto di coordinamento, la dottrina appena richiamata auspica, quindi, un urgente intervento del legislatore onde evitare gravi problemi partici stante l'attuale inapplicabilità dell'art. 328, comma 3, c.p.c. a meno che non si ammetta, ma tale soluzione risulta in contrasto con le norme del codice di procedura civile, una proroga oltre il termine di decadenza di cui all'art. 327 c.p.c. (Di Paola, Tambasco, 245). Come affermato da autorevole dottrina (Tesauro, 230) e confermato dalla giurisprudenza di legittimità, la disciplina dell'interruzione e della proroga del termine di impugnazione prevista dall'art. 328 c.p.c. per le ipotesi di cui all'art. 299 c.p.c. si applica anche al processo tributario. Qualora uno degli eventi idonei a determinare l'interruzione del processo (nella specie, la morte della parte) si verifichi nel corso del giudizio di primo grado, prima della chiusura della discussione (ovvero prima della scadenza dei termini per il deposito delle comparse conclusionali e delle memorie di replica, ai sensi del nuovo testo dell'art. 190 c.p.c.), e tale evento non venga dichiarato né notificato dal procuratore della parte cui esso si riferisce, a norma dell'art. 300 c.p.c., il giudizio di impugnazione deve essere comunque instaurato da e contro i soggetti effettivamente legittimati; ne consegue che, ove la controparte abbia avuto formale comunicazione, anche se stragiudiziale, del decesso, l'atto di appello deve essere notificato agli eredi, non potendosi ritenere valida la notifica compiuta all'originario difensore della parte defunta. (Cass.S.U., n. 259/2011; Cass. n. 18128/2013; Cass. n. 5637/2014). Solo in caso di morte della parte che abbia notificato la sentenza, è valida la notificazione dell'atto di impugnazione agli eredi anche in forma collettiva ed impersonale nel luogo del domicilio eletto di cui all'art. 330 c.p.c. (Cass.S.U., n. 14699/2010). In caso di morte della parte vittoriosa, avvenuta dopo la pubblicazione della sentenza di primo grado ma prima della notificazione della stessa, effettuata dal procuratore del defunto, sottacendo la circostanza della morte, deve ritenersi valida l'impugnazione proposta nei confronti della parte deceduta presso il predetto procuratore, qualora sia accertata l'incolpevole ignoranza dell'evento da parte dell'appellante (Cass. n. 5841/2010; Cass. n. 15295/2014; Cass. n. 23141/2014; Cass. n. 710/2016; Cass. n. 15762/2016). Qualora la parte non abbia dichiarato la residenza o eletto domicilio per il giudizio, essendo rimasta contumace o essendosi costituita personalmente senza dichiarare la residenza o eleggere domicilio, la notificazione dell'impugnazione va effettuata personalmente, ai sensi dell'art. 330, ultimo comma, c.p.c., e quindi, in caso di decesso, la notifica agli eredi non può essere effettuata collettivamente ed impersonalmente, ma va eseguita nominatim, ai sensi degli artt. 137 e ss. c.p.c., indipendentemente dall'avvenuta notifica della sentenza e dalla circostanza che la morte della parte si sia verificata prima o dopo tale notifica (Cass. n. 11315/2009; Cass. n. 3824/2015). Quando si verifica la morte della parte o altro evento interruttivo dopo la notificazione della sentenza, il termine breve per impugnare è interrotto e il nuovo termine comincia a decorrere dal giorno in cui è rinnovata la notificazione della sentenza agli eredi; in mancanza di tale rinnovazione, l'impugnazione deve essere proposta nel termine di un anno previsto dall'art. 327 c.p.c., decorrente dalla pubblicazione della sentenza, e non dall'evento interruttivo, salva una proroga di sei mesi dal giorno dell'evento, nell'ipotesi in cui quest'ultimo sia intervenuto dopo sei mesi dalla pubblicazione della sentenza (Cass. n. 25583/2008). Quando si verifica, tra una fase processuale e l'altra e dopo la pubblicazione della sentenza, la morte o la perdita della capacità di agire della parte persona fisica (o l'estinzione della persona giuridica), il problema della notificazione dell'atto di impugnazione e della instaurazione della fase di gravame va risolto non già alla luce dei principi di ultrattività del mandato al procuratore costituito, bensì in base alle disposizioni contenute nell'art. 328 c.p.c., secondo cui l'evento interruttivo incide non più sul processo, ma sul termine per la proposizione dell'impugnazione. Ne deriva che, dovendo l'impugnazione essere proposta contro il soggetto «attualmente» legittimato (art. 163, comma 3, n. 2, c.p.c.), essa se effettuata alla parte originaria anziché al successore universale, è affetta da nullità rilevabile d'ufficio, a norma dell'art. 164, comma 1, c.p.c., trattandosi di errata identificazione del soggetto passivo della vocatio in ius e tale nullità è suscettibile di sanatoria, per effetto della costituzione del successore a titolo universale, ma la sanatoria opera con efficacia ex nunc a norma dell'art. 164 c.p.c. (nel testo anteriore alla modifica introdotta dalla legge n. 353 del 1990, per essere la controversia già pendente alla data del 30 aprile 1995) (Cass. n. 5367/2002). Quando la parte muore dopo la pubblicazione della sentenza, il giudizio, nelle fasi di impugnazione, può proseguire solo contro o ad iniziativa dei suoi successori universali, ovvero in mancanza di questi, di chi ha il potere di rappresentare l'eredità (Cass. n. 3102/2002). L'art. 330, comma 2, c.p.c., nel prevedere che l'impugnazione può essere notificata, nei luoghi indicati nel comma 1, collettivamente e impersonalmente agli eredi della parte defunta dopo la notificazione della sentenza, consente a chi ha interesse a proseguire nel giudizio di non individuare personalmente gli eredi della parte defunta, lasciando a chi effettivamente ha la qualità di erede di rendere palese la sua qualità e di assumere l'onere della difesa dei diritti controversi in cui può essere solo succeduto. Tale forma di notificazione può però essere utilizzata quando la parte muoia in pendenza dei termini di impugnazione, secondo quanto stabilito dall'art. 328 c.p.c., mentre, al di fuori di tale ipotesi, e quando si verifichino situazioni nelle quali è necessario procedere ad integrazioni o rinnovazioni governate dal giudice attraverso la fissazione di termini perentori, è compito della parte sollecitare termini adeguati alle difficoltà e non si può, in linea di principio, escludere la possibilità che il giudice proroghi il termine, pur perentorio, da lui stabilito o ne assegni un altro, se la morte della parte e la difficoltà di individuare gli eredi o i tempi necessari per far designare all'eredità un rappresentante si prospettino come causa di una decadenza non imputabile alla parte, sì da potersi derogare all'art. 153 c.p.c., sulla base dell'art. 184-bis dello stesso codice (Cass. n. 3102/2002; Cass. n. 4058/2002; Cass. n. 16595/2002; Cass. ord. n. 4721/2008). Nel caso di decesso o di incapacità della parte costituita sopravvenuti nel corso del giudizio di primo grado e prima della chiusura della discussione senza che il procuratore abbia dichiarato in udienza o notificato alle altre parti l'evento, il procuratore medesimo ove l'originaria procura alla lite sia valida anche per l'ulteriore grado del processo, è legittimato a proporre impugnazione in rappresentanza della parte deceduta o incapace da considerarsi processualmente ancora in vita e capace (Cass. n. 7270/2001). L'art. 328 c.p.c. prevede la interruzione del termine per impugnare, esclusivamente a favore della parte nei cui confronti si sia verificato l'evento interruttivo, e ciò anche nell'ipotesi in cui — conformemente a quanto deve ritenersi a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 41 del 1986 — l'evento riguardi il procuratore per essa costituito nel concluso grado di giudizio; infatti, la norma è dettata dall'esigenza esclusiva di tutelare la parte che versa in condizioni di minorata difesa processuale; sicché la interruzione non si riflette sul termine per impugnare dato all'altra parte, che dovrà comunque provvedere alla tempestiva notificazione dell'impugnazione nei modi di cui all'art. 330 c.p. (Cass. n. 5069/2001). L'art. 329 c.p.c.: acquiescenza totale o parziale.Il diritto di impugnare la sentenza si perde, oltre che per la scadenza dei termini, quando la parte soccombente faccia acquiescenza alla sentenza medesima, ai sensi dell'art. 329, comma 1, c.p.c.. L'acquiescenza è configurabile solo anteriormente alla proposizione del gravame (giacché successivamente allo stesso è possibile solo la rinunzia esplicita all'impugnazione, da compiersi nella forma prescritta dalla legge) e si distingue in espressa o tacita. Nel primo caso, la volontà della parte soccombente di accettare la sentenza o di non procedere all'impugnazione è resa nota con una dichiarazione scritta o verbale, prodotta dalla parte o da un suo procuratore speciale, cui è stato esplicitamente conferito il potere di disporre del diritto controverso (Di Paola, 547). Al contrario, il fenomeno dell'acquiescenza tacita si riscontra quando la parte soccombente pone in essere degli atti che sono incompatibili con la volontà di impugnare, cioè univoci e concludenti nel senso dell'intenzione dell'acquiescente. In entrambe le fattispecie suddette, nel giudizio di gravame proposto nonostante l'intervenuta acquiescenza, questa deve essere eccepita dalla parte interessata (Cantillo, 408). L'art. 329 prevede, inoltre, anche l'ipotesi dell'acquiescenza impropria o presunta che si verifica in caso di impugnazione parziale della sentenza. In casi di tal fatta, il comma secondo della norma da ultimo citata, dispone l'acquiescenza in relazione alle parti non oggetto di impugnazione, che diventano, quindi, irretrattabili in quanto coperte da giudicato (c.d. giudicato parziale). L'acquiescenza non si verifica però se fra il capo impugnato e quello non impugnato esiste un nesso di pregiudizialità-dipendenza, dal momento che ai sensi dell'art. 336 c.p.c., la riforma o la cassazione parziale hanno effetto anche sulle parti della sentenza dipendenti dalla parte riformata o cassata (Pistolesi, 1998, 660). Ad ogni modo, giova sottolineare che l'acquiescenza opera soltanto nei confronti del soggetto acquiescente, non producendo alcun effetto sull'autonomo diritto di impugnazione riconosciuto alle altre parti del processo. Si rileva, infine, che la disposizione di cui all'art. 329 c.p.c. è integralmente applicabile anche al processo tributario perché non interferisce con il profilo (sostanziale) dell'indisponibilità dell'obbligazione d'imposta (Tesauro, 230; Pistolesi, 1998, 650). In ogni caso, si noti che l'acquiescenza (sia espressa che implicita) non vieta la possibilità di esperire la revocazione straordinaria della sentenza, a meno che la parte non abbia proposto acquiescenza dopo essere venuta a conoscenza dei motivi di revocazione (Di Paola, 549). L'acquiescenza alla sentenza, preclusiva dell'impugnazione ai sensi dell'art. 329 c.p.c. (e configurabile solo anteriormente alla proposizione del gravame, giacché successivamente allo stesso è possibile solo una rinunzia espressa all'impugnazione da compiersi nella forma prescritta dalla legge), consiste nell'accettazione della sentenza, ovverosia nella manifestazione da parte del soccombente della volontà di non impugnare, la quale può avvenire sia in forma espressa che tacita: in quest'ultimo caso, l'acquiescenza può ritenersi sussistente soltanto quando l'interessato abbia posto in essere atti da quali sia possibile desumere, in maniera precisa ed univoca, il proposito di non contrastare gli effetti giuridici della pronuncia, quando cioè gli atti stessi siano assolutamente incompatibili con la volontà di avvalersi dell'impugnazione (Cass. ord. n. 11769/2012; Cass. ord. n. 21385/2012). Ne consegue che la spontanea esecuzione della pronunzia di primo grado favorevole al contribuente da parte della P.A., anche quando la riserva d'impugnazione non venga dalla medesima a quest'ultimo resa nota, non comporta acquiescenza alla sentenza, preclusiva dell'impugnazione ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 329 c.p.c. e 49 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, trattandosi di un comportamento che può risultare fondato anche sulla mera volontà di evitare le eventuali ulteriori spese di precetto e dei successivi atti di esecuzione (Cass. n. 6334/2016; Cass. n. 13293/2014). L'acquiescenza preclusiva dell'impugnazione ex art. 329 c.p.c., è — anche nel processo tributario — soltanto quella successiva alla sentenza, sicché non è configurabile nell'ipotesi in cui la parte abbia dichiarato di «rimettersi al giudizio della commissione» circa un'avversa domanda, che, trattandosi di questione di puro diritto (per essere incontrastati i riferimenti in fatto della controversia), presuppone che la parte si attende dal giudice una pronuncia secondo giustizia, senza alcuna preventiva accettazione, né impedimento all'impugnazione (Cass. n. 1553/2014). L'acquiescenza tacita alla sentenza ex art. 329 c.p.c. può sussistere soltanto qualora l'interessato abbia posto in essere atti dai quali sia possibile desumere, in maniera precisa ed univoca, il proposito di non contrastare gli effetti giuridici della pronuncia, trattandosi di atti assolutamente incompatibili con la volontà di impugnare (Cass. n. 3934/2016). La proposizione di un nuovo giudizio, identico ad altro già pendente tra le stesse parti, non costituisce manifestazione inequivoca della volontà di accettare la sentenza emessa in quest'ultimo, né, tantomeno, un comportamento incompatibile con la volontà di impugnarla, non potendosi negare l'interesse del soccombente al proseguimento del primo giudizio, onde ottenere, in via principale, la tutela della propria posizione giuridica ovvero un favorevole regolamento delle spese processuali (Cass. n. 25959/2015). Gli atti incompatibili con la volontà di avvalersi delle impugnazioni previste dalla legge, e che, perciò, implicano una tacita acquiescenza alla sentenza ai sensi dell'art. 329 c.p.c. sono esclusivamente quelli che possono essere spiegati solo supponendo il proposito della parte di non contrastare gli effetti giuridici della decisione, così rivelando, oggettivamente, in modo inequivoco, una corrispondente volontà della parte che li ha posti in essere. Ne consegue che la richiesta di pagamento e l'effettiva riscossione, ad opera della parte vittoriosa nel giudizio, di quanto alla stessa ivi riconosciuto, non comportano acquiescenza in quanto condotte suscettibili di essere ricondotte alla volontà di conseguire quanto già riconosciuto nella sentenza, che, di per sé, non è incompatibile con l'intento di impugnarla per ottenere quanto negato o, comunque, dovuto (Cass. n. 21491/2014). Ancora, la Suprema Corte ha sostenuto che l'acquiescenza, ai sensi dell'art. 329 c.p.c., come non può essere ravvisata nel fatto che il soccombente abbia pagato il debito di cui alla sentenza esecutiva, ancorché senza espressa riserva d'impugnazione, a maggior ragione, non può evincersi dal fatto che egli ne abbia chiesto la rateazione (Cass. n. 9075/2014). Del pari, tale volontà va esclusa in relazione alla riassunzione, nei termini di rito, della causa davanti al giudice indicato nella sentenza remittente, poiché essa risponde a finalità cautelari e non preclude la facoltà di impugnare successivamente l'anzidetta decisione (Cass. n. 17532/2010; Cass. n. 4794/2006; Cass. ord. n. 21385/2012). Non è ravvisabile accettazione tacita della pronuncia per il sol fatto che l'Amministrazione soccombente dia ad essa spontanea esecuzione (nella specie, effettuazione di uno sgravio parziale); tale comportamento, infatti, può trovare motivazioni diverse dalla scelta di aderire ai dettami della sentenza e non contestarli. Pertanto, resta sempre salva la facoltà, per la parte pubblica, di adire la Commissione Tributaria di grado successivo onde ottenere una decisione a sé favorevole. (Cass. n. 21385/2012; nello stesso senso, cfr. Cass. n. 11769 /2012). Negli stessi termini, si è espressa Cass. n. 18526/2005 secondo la quale, il versamento in favore del contribuente, ad opera dell'Amministrazione finanziaria, di quanto ordinato dal giudice tributario in sede di giudizio di ottemperanza non integra i caratteri della pura e semplice acquiescenza tacita alla sentenza, come tale preclusiva del diritto di impugnazione, rappresentando esso un adempimento non spontaneo, posto in essere in osservanza di un ordine di giustizia ed ispirato, potenzialmente, anche ad altre finalità, tra le quali quella di evitare ulteriori spese giudiziali e la esecuzione forzata (nello stesso senso si veda, Cass. n. 16460/2004; Cass. n. 2281/2004). In applicazione dei suesposti principi, la Cassazione ha, altresì, ritenuto che l'adeguamento alle statuizioni di una sentenza esecutiva non costituisce acquiescenza alla stessa e pertanto non si configura come comportamento idoneo ad escludere l'ammissibilità dell'impugnazione; ne consegue che deve ritenersi ammissibile l'impugnazione proposta da un comune avverso una sentenza esecutiva che lo condanni al pagamento di una somma di danaro, anche quando il suddetto comune abbia, con propria delibera, riconosciuto, ai sensi e per gli effetti dell'art. 37 d.lgs. n. 77/1995, la legittimità del debito fuori bilancio accertato in sentenza, atteso che, così agendo, il comune si è meramente adeguato alle statuizioni della sentenza esecutiva, nella valutazione dell'interesse pubblico di non gravare il debito dei maturandi accessori, e che il riconoscimento della legittimità del debito risulta un necessario incombente, essendo imposto dalla norma citata per l'adempimento dei debiti fuori bilancio (Cass. n. 8223/2000; Cass. n. 18187/2007; Cass. n. 13429/2010). Al contrario, si è sostenuto che ogni pronuncia di merito, ancorché non accompagnata da alcuna espressa statuizione sulla giurisdizione, di regola implica la preventiva verifica della potestas iudicandi da parte del giudice che l'ha emessa. Una volta emessa, pertanto, una sentenza di merito in primo grado, la mancata proposizione in appello della questione di giurisdizione implica un comportamento incompatibile con la volontà di dedurre il difetto di giurisdizione, da valutarsi come acquiescenza sul punto, con le conseguenti preclusioni di cui agli articoli 329, comma 2, e 324 c.p.c., che rendono la questione improponibile in Cassazione (Cass.S.U., n. 25770/2008). Comportava acquiescenza, nel vigore del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636, l'affermazione della Direzione regionale delle entrate — con la quale si comunicava al contribuente che si sarebbe provveduto al richiesto decreto di rimborso, a seguito della diffida da costui inoltrata per l'esecuzione del pagamento, in ossequio alla decisione della Commissione tributaria centrale, che aveva ordinato la restituzione di quanto indebitamente da quello corrisposto a titolo di in.v.im. — in quanto espressione inequivocabile dell'accettazione della decisione del giudice tributario, e ciò in considerazione della chiara volontà contenuta nel documento e dell'orientamento giurisprudenziale della Cassazione, in materia di in.v.im., riguardante l'art. 28 del d. P.R. n. 643 del 1972, secondo il quale l'Amministrazione finanziaria, al fine della realizzazione dei suoi crediti, non ha la necessità della preventiva escussione dei soggetti passivi dell'imposta indicati nell'art. 4 del d.P.R. n. 643, vigente in quel momento storico (Cass. n. 6050/2002). La Suprema corte ha, poi, evidenziato che l'acquiescenza costituisce atto dispositivo del diritto di impugnazione e, quindi, indirettamente, del diritto fatto valere in giudizio, sicché la relativa manifestazione di volontà, oltre ad essere inequivoca, deve necessariamente provenire dal soggetto che di detto diritto possa disporre o dal procuratore munito di mandato speciale (Cass. n. 1764/2014) e, nel caso in cui sia contestata l'esistenza dei poteri rappresentativi in capo a quest'ultimo, incombe su chi intende avvalersi di tale dichiarazione l'onere di dimostrare che l'atto di acquiescenza provenga da soggetto legittimato a compierlo (Cass. n. 10785/2012, che, in applicazione di tale principio, ha escluso di poter attribuire valore di acquiescenza alla dichiarazione in tal senso sottoscritta, successivamente al deposito della sentenza di appello, dal procuratore incaricato della difesa esclusivamente in tale grado di giudizio). L'art. 330 c.p.c.: luogo di notifica dell'impugnazione.A sensi dell'art. 330, comma 1, c.p.c., l'impugnazione deve essere notificata presso la residenza dichiarata o presso il domicilio eletto nella circoscrizione del giudice che ha pronunciato la sentenza, se tali luoghi sono indicati nell'atto di notifica della sentenza stessa. In caso contrario, l'impugnazione deve essere notificata, ai sensi dell'art. 170 c.p.c., presso il procuratore costituito o nella residenza dichiarata o nel domicilio eletto per il giudizio in cui è stata emessa la sentenza impugnata. Il rinvio all'art. 170 c.p.c. (aggiunto dall'art. 46, della legge 18 giugno 2009, n. 69) comporta che la notificazione dell'impugnazione va fatta al procuratore costituito (in primo o in secondo grado) e se vi sono più parti rappresentate da un unico procuratore è sufficiente la consegna di una sola copia dell'atto (Di Paola, Tambasco, 250). Sull'applicabilità di tale disposizione al processo tributario, nonostante il rinvio contenuto nell'art. 49 d.lgs. n. 546/1992, si è ampiamente discusso in giurisprudenza sino all'intervento chiarificatore delle sezioni unite della Corte di cassazione con la decisione n. 29290 del 15 dicembre 2008 e di cui si darà conto nel prosieguo della presente trattazione. Nel processo tributario, ai sensi dell'art. 17, d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 le comunicazioni e le notificazioni sono fatte, salva consegna in mani proprie, nel domicilio eletto o, in mancanza, nella residenza o nella sede dichiarata dalla parte all'atto della sua costituzione in giudizio, e l'indicazione della residenza o della sede, nonché l'elezione del domicilio hanno effetto anche per i successivi gradi di giudizio, come anticipato, il problema del rapporto della norma da ultimo citata con l'art. 330 c.p.c., ha formato oggetto di un contrasto giurisprudenziale risolto dalle Sezioni Unite nel 2008 (Cass. S.U., n. 29290/2008), con una pronuncia di cui ha tenuto conto la stessa legge 18 giugno 2009, n. 69. La tesi contraria all'applicazione dell'art. 330 c.p.c. al processo tributario, era stata sostenuta da Cass. n. 12908/2007 (v. anche Cass. n. 9083/2015), secondo la quale n tema di contenzioso tributario, qualora l'impugnazione di una sentenza non sia stata notificata presso il domicilio eletto, ma presso il procuratore non domiciliatario, non trova applicazione l'art. 330 c.p.c., ma il d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 17 atteso il carattere speciale di tale disposizione, che prevale sulla disciplina dettata dal codice di procedura civile; la notificazione peraltro, in quanto effettuata in un luogo che ha pur sempre un collegamento con il destinatario, non è giuridicamente inesistente, ma è affetta da nullità, sanabile ex tunc per effetto del raggiungimento dello scopo dell'atto, sia mediante la rinnovazione della notificazione, sia mediante la costituzione in giudizio dell'intimato (in senso conforme cfr. Cass. n. 576/2010; Cass. n. 24920/2016; Cass. n. 4233/2017; Cass. ord. n. 8426/2017). Al contrario, altre pronunce ritenevano applicabile al processo tributario l'art. 330 c.p.c., quale norma ricompresa nel richiamo operato dall'art. 49, d.lgs. n. 546/1992. Il principio era stato implicitamente riconosciuto da Cass. n. n. 8972/2007 con riguardo ad un'ipotesi in cui l'ente impositore aveva notificato l'appello nelle mani del figlio dell'amministratore unico della società contribuente, e non presso il procuratore domiciliatario costituito in primo grado. L'applicabilità dell'art. 330 c.p.c. è stata successivamente ribadita dalla Suprema corte, la quale ha precisato che la notifica dell'impugnazione può avvenire alternativamente in uno dei luoghi indicati dall'art. 330 c.p.c., e dunque presso il procuratore costituito o nella residenza dichiarata o nel domicilio eletto dalla parte, a scelta del notificante, non esistendo un tassativo ordine di successione negli adempimenti prescritti dalla norma (Cass. n. 17137/2007). Le Sezioni Unite, chiamate a dirimere il contrasto formatosi su tale questione, in accoglimento della tesi positiva hanno confermato l'applicabilità dell'art. 330 c.p.c. al processo tributario, in considerazione del fatto che l'art. 17, d.lgs. n. 546/1992 riguarda le sole notifiche endoprocessuali, e deroga quindi al solo art. 170 c.p.c.; e che, del resto, anche nella legislazione previgente l'art. 330 c.p.c. era ritenuto applicabile al processo tributario, pur in presenza di una norma (l'art. bis, d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636) del tutto analoga all'art. 17. A sostegno della propria tesi, la Corte osserva altresì che la legge delega per la riforma del processo tributario contemplava tra i principi direttivi l'adeguamento delle norme di tale processo a quelle del processo civile. Pertanto, si sostiene che, in questa prospettiva, sarebbe davvero singolare che nel quadro di una disciplina che dovrebbe armonizzarsi con le disposizioni sul processo civile trovassero spazio dubbi sull'applicabilità dell'art. 330 c.p.c., che non insorgevano nel vigore della precedente disciplina. I principi espressi dalle Sezioni Unite sono stati successivamente confermati in altre pronunce della stessa Corte (cfr. Cass. n. 3767/2013; Cass. n. 24302/2009). Di recente la Cassazione ha precisato che l'art. 330 c.p.c., laddove sancisce l'eseguibilità della notifica dell'impugnazione presso il procuratore costituito, si applica al processo tributario, atteso che la specifica previsione di cui all'art. 17 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, – secondo il quale la notifica deve avvenire, salvo quella a mani proprie, nel domicilio eletto o, in mancanza, nella residenza o nella sede dichiarata dalla parte al momento della costituzione in giudizio – costituisce eccezione all'art. 170 c.p.c. (riguardante le sole notificazioni endoprocessuali) e non anche all'art. 330 citato, che resta utilizzabile in favore del rinvio alle norme processuali codicistiche operate dagli artt. 1, comma 2, e 49 del d.lgs. n. 546 cit., senza che a ciò osti la non obbligatorietà, in quel processo, della rappresentanza processuale da parte del procuratore «ad litem», essendo quest'ultima, in quanto non vietata, facoltativa (Cass. ord. n. 460/2014; Cass. ord. n. 8426/2017). In conseguenza dell'intervento delle Sezioni Unite, le regole elaborate dalla giurisprudenza in ordine al luogo di notificazione delle impugnazioni civili risultano applicabili nel processo tributario. A titolo esemplificativo, si ricorda l'ammissibilità del ricorso per cassazione notificato al procuratore della controparte costituito nel giudizio di merito, mediante consegna di copia dell'atto a persona addetta al ritiro, anche se in domicilio diverso da quello indicato per il menzionato giudizio (Cass. n. 21291/2007; Cass. ord. n. 17391/2009; Cass. n. 19763/2012). Da ultimo è stato precisato che l'art. 330 c.p.c., secondo cui l'impugnazione deve essere notificata, in mancanza di diversa indicazione contenuta nell'atto di notificazione della sentenza, presso il procuratore costituito o nella residenza dichiarata o nel domicilio eletto per il giudizio, si applica anche alla revocazione per errore di fatto contro le sentenze della Corte di cassazione, rientrando questa tra i mezzi di impugnazione (Cass. n. 25349/2021). Nel processo tributario, la notifica dell'atto di appello effettuata alla parte personalmente e non al suo procuratore nel domicilio dichiarato o eletto, produce non l'inesistenza ma la nullità della notifica stessa, della quale deve essere disposta ex officio la rinnovazione ai sensi dell'art. 291 c.p.c., salvo che la parte intimata non si sia costituita in giudizio, ipotesi nella quale la nullità deve ritenersi sanata ex tunc secondo il principio generale dettato dall'art. 156, comma secondo, c.p.c. (Cass. n. 2707/2014). Conseguentemente deve essere disposta ‘ex officio' la rinnovazione ai sensi dell'art. 291 c.p.c., salvo che la parte intimata non si sia costituita in giudizio, ipotesi nella quale la nullità deve ritenersi sanata ‘ex tunc' secondo il principio generale dettato dall'art. 156, comma 2, c.p.c.(Cass. n. 10500/2018) È altresì nulla, ma non inesistente, la notifica dell'appello eseguita presso il domicilio eletto dal contribuente nel ricorso di primo grado invece che in quello successivamente eletto nell'atto di prosecuzione del giudizio, seguito al decesso della parte e all'interruzione del processo. La nullità è sanata dalla costituzione in giudizio dell'appellato, anche se avvenuta dopo il decorso del termine di impugnazione di cui all'art. 327 c.p.c. (Cass. n. 19985/2008). La Cassazione sostiene, inoltre, la nullità della notificazione anche nel caso di notifica dell'impugnazione effettuata non al procuratore costituito nel giudizio di merito ma alla parte presso il domicilio eletto dal procuratore, data l'inesatta individuazione della persona del destinatario (Cass. n. 16578/2008; in senso conforme cfr. Cass. n. 1156/2008; Cass. n. 1640/2004; Cass. n. 21505/2014). Infine, è inesistente la notifica dell'impugnazione eseguita presso il procuratore il cui mandato sia stato revocato con contestuale nomina di altro difensore. Invero, secondo la Suprema corte (Cass. n. 3964/2008; Cass. n. 13477/2012; Cass. n. 759/2016) tale notifica sarebbe stata effettuata presso persona ed in luogo non aventi alcun riferimento con il destinatario dell'atto, in quanto, una volta intervenuta la sostituzione del difensore revocato, si interrompe ogni rapporto tra la parte ed il procuratore cessato, non essendovi più la prorogatio che caratterizza la revoca senza la nomina di un nuovo difensore. In tema di contenzioso tributario, è inammissibile l'appello la cui notifica sia stata eseguita ex art. 17, d.lgs. n. 546/1992 anziché ai sensi dell'art. 330 c.p.c., in quanto il mero deposito dell'atto presso la segreteria del giudice ove deve essere effettuata l'impugnazione non integra il requisito del concreto collegamento della notifica con il destinatario della stessa. Trattandosi di luogo presso il quale il giudizio non è stato ancora instaurato. In tali casi, pertanto, non è possibile la sanatoria o la rinnovazione della notifica stessa (Cass. n. 1125/2015). Al contrario, qualora l'impugnazione di una sentenza non sia stata notificata presso il domicilio eletto, ma presso il procuratore non domiciliatario, non trova applicazione l'art. 330 c.p.c., ma l'art. 17 del d.lgs. 31 dicembre 1992 n. 546, atteso il carattere speciale di tale disposizione, che prevale sulla disciplina dettata dal codice di procedura civile; la notificazione peraltro, in quanto effettuata in un luogo che ha pur sempre un collegamento con il destinatario, non è giuridicamente inesistente, ma è affetta da nullità, sanabile ex tunc per effetto del raggiungimento dello scopo dell'atto, sia mediante la rinnovazione della notificazione, sia mediante la costituzione in giudizio dell'intimato (Cass. n. 9083/2015). Inoltre, come affermato dalle Sezioni Unite del 2008 con la sentenza sopra citata, per effetto della interpretazione sistematica della norma che impone di leggere i commi 1 e 2 dell'articolo 170 del codice di procedura civile come se fossero espressione di un'unica disposizione, ben consente di rimanere valida ed efficace, ai fini della decorrenza del termine breve per l'impugnazione nei confronti di tutte le parti rappresentate, la notifica della sentenza eseguita in unica copia al procuratore costituito che rappresenti una pluralità di parti (Cass. S.U., n. 29290/2008; Cass. ord. n. 460/2014; Cass. ord. n. 8426/2014). In adesione ai principi enunciati nella sentenza da ultimo richiamata, la Cassazione ha ribadito che la notificazione dell'atto d'impugnazione eseguita presso il procuratore costituito per più parti, mediante consegna di una sola copia (o di un numero inferiore), è valida ed efficace nel processo ordinario (come in quello tributario), in virtù della generale applicazione del principio costituzionale della ragionevole durata del processo, alla luce del quale deve ritenersi che non solo in ordine alle notificazioni endoprocessuali, regolate dall'art. 170 c.p.c., ma anche per quelle disciplinate dall'art. 330, primo comma, c.p.c., il procuratore costituito non è un mero consegnatario dell'atto di impugnazione ma ne è il destinatario, analogamente a quanto si verifica in ordine alla notificazione della sentenza a fini della decorrenza del termine d'impugnazione ex art. 285 cod. proc. civ., in quanto investito dell'inderogabile obbligo di fornire, anche in virtù dello sviluppo degli strumenti tecnici di riproduzione degli atti, ai propri rappresentati tutte le informazioni relative allo svolgimento e all'esito del processo (Cass. n. 12912/2015). Gli artt. 331 e 332 c.p.c.: litisconsorzio in fase di impugnazione.Una delle fondamentali preoccupazioni del legislatore nella disciplina delle impugnazioni è quella di mantenere unitario il giudizio di impugnazione contro la stessa sentenza (Mandrioli, 267 ss.). A tal fine, il codice di procedura civile, oltre a prevedere che le impugnazioni dello stesso tipo e contro la stessa sentenza siano proposte nello stesso processo, stabilisce che, nel caso di pluralità di parti, al giudizio di impugnazione partecipino tutti coloro che furono parti nel giudizio di primo grado, salvi i casi in cui siano possibili delle pronunce separate (c.d. scindibili). Con particolare riferimento alla seconda delle ipotesi sopra delineate, occorre distinguere l'ipotesi in cui la pluralità di parti non sussisteva nel giudizio che ha condotto alla sentenza impugnata, da quella in cui tale pluralità sussisteva nel grado precedente. Rispetto alla prima ipotesi, si rileva che la pluralità in sede di impugnazione può conseguire alla successione di una parte deceduta o estinta a favore di più soggetti, i quali all'impugnazione dovranno partecipare tutti, quali litisconsorti necessari (Mandrioli, 268). Il caso diverso di pluralità di parti già sussistente nel grado precedente è previsto dagli artt. 331 e 332 c.p.c., i quali disciplinano, rispettivamente, l'ipotesi in cui la sentenza sia stata resa in causa scindibile o in cause tra loro dipendenti e quella in cui la sentenza sia stata resa in cause scindibili. Dottrina e giurisprudenza sono concordi nel ritenere che la causa è inscindibile quando nel giudizio di primo grado si sia verificato un caso di litisconsorzio necessario ex art. 102 c.p.c. (Montesano, Arieta, 1752; Picardi, 1149). Le cause tra loro dipendenti sono quelle legate tra loro non solo da una generica connessione, ma dal più specifico vincolo della pregiudizialità o della garanzia (propria) (Mandrioli, 268) e, per tale motivo, devono essere decise contestualmente anche in sede di impugnazione, posto che la decisione di una delle controversie condiziona la decisione dell'altra in quanto i rapporti processuali relativi a due convenuti sono legati dal nesso di dipendenza reciproca delle due cause (Di Paola, 561). Per i casi, dunque, di cause inscindibili con più parti o di cause tra loro dipendenti, la legge esige che anche il giudizio di impugnazione si svolga nei confronti di tutte le parti che hanno preso parte alla fase precedente del giudizio. Il fenomeno, che trova la sua ragione nella necessità di evitare che la medesima sentenza, che disciplina posizioni interdipendenti, possa passare in giudicato nei confronti di una parte e non di un'altra e nel fatto conseguente che la sentenza pronunciata senza la partecipazione di tutte le parti sarebbe inutiliter data, dà luogo ad un vero e proprio fenomeno di litisconsorzio necessario anche quando tale necessità non sussisteva in primo grado (Mandrioli, 268 ss.). per tali motivi, nel caso in cui la sentenza non sia stata impugnata nei confronti di tutte le parti, il giudice è tenuto, a norma dell'art. 331, comma1, c.p.c., ad ordinare l'integrazione del contraddittorio, fissando il termine per l'integrazione e, se necessario, l'udienza di comparizione. L'inosservanza di tale ordine comporta l'inammissibilità dell'impugnazione. Fattispecie diametralmente opposta a quella appena analizzata è costituita dalle cause scindibili di cui all'art. 332 c.p.c., ossia quelle cause che essendo state cumulate e trattate insieme in primo grado per la loro connessione oggettiva, con conseguente litisconsorzio facoltativo, rimangono tuttavia separabili, nel senso che nessun ostacolo giuridico o logico impedisce il passaggio in giudicato rispetto ad una (o alcune) delle parti, nonostante l'impugnazione ad opera di un'altra (o di più altre) delle parti stesse (Mandrioli, 269). Peraltro, trattandosi di cause scindibili, nulla vieta che un rapporto con un determinato soggetto venga disciplinato in modo diverso rispetto a quello con un altro soggetto. A tal riguardo, l'art. 332 c.p.c. dispone che se l'impugnazione di una sentenza pronunciata in cause scindibili è stata proposta soltanto da alcune delle parti o nei confronti di alcune di esse, il giudice ordina la notificazione dell'impugnazione alle altre parti fissando un termine all'uopo e, se necessario, l'udienza di comparizione. Pertanto, a differenza dell'art. 331 c.p.c. che mira a riprodurre, nella fase di gravame, la causa con tutte le parti del grado precedente, la ratio dell'art. 332 c.p.c. è quella di evitare che le eventuali impugnazioni proposte contro la stessa sentenza si disperdano in procedimenti separati. Pertanto, nella fattispecie prevista dall'art. 332 c.p.c., il litisconsorzio rimane facoltativo anche nella fase di gravame, richiedendosi solo la notificazione dell'atto di impugnazione a tutte le parti non impugnanti o bei cui confronti non sia stata proposta impugnazione. Tale notificazione non contiene una vocatio in ius, come nell'ipotesi di cui all'art 331 c.p.c., bensì una litis denuntiatio (Di Paola, Tambasco, 253). Quanto, infine al processo tributario si sostiene l'applicabilità allo stesso delle disposizioni di cui agli artt. 331 e 332 c.p.c., in forza dell'espresso richiamo operato dall'art. 49 d.lgs. n. 546/1992. In tema di contenzioso tributario, in caso di litisconsorzio processuale, che determina l'inscindibilità delle cause anche ove non sussisterebbe il litisconsorzio necessario di natura sostanziale, l'omessa impugnazione della sentenza nei confronti di tutte le parti non determina l'inammissibilità del gravame, ma la necessità per il giudice d'ordinare l'integrazione del contraddittorio, ai sensi dell'art. 331 c.p.c., nei confronti della parte pretermessa, pena la nullità del procedimento di secondo grado e della sentenza che l'ha concluso, rilevabile d'ufficio anche in sede di legittimità (Cass. n. 10934/2015). Detto altrimenti, in difetto di emissione di tale ordine il gravame non è inammissibile ma sono nulli – e il relativo vizio è rilevabile d'ufficio anche in sede di legittimità – l'intero procedimento di secondo grado e la sentenza che lo ha concluso (Cass. n. 25719/2014). Inoltre, come sottolineato dalla Suprema corte, in tema di contenzioso tributario, l'art. 53, comma 2, del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, secondo cui l'appello deve essere proposto nei confronti di tutte le parti che hanno partecipato al giudizio di primo grado, non fa venir meno la distinzione tra cause inscindibili e cause scindibili, ai sensi degli artt. 331 e 332 c.p.c., con la conseguenza che, in tale seconda ipotesi, la mancata proposizione dell'appello nei confronti di tutte le parti presenti in primo grado non comporta l'obbligo di integrare il contraddittorio quando, rispetto alla parte pretermessa, sia ormai decorso il termine per l'impugnazione (Cass. ord. n. 24083/2014). A fronte di una causa inscindibile e della regolare notifica del ricorso ad altro litisconsorte contemplato nella sentenza impugnata, in base all'art. 331 c.p.c., nel giudizio di Cassazione non è necessario disporre l'integrazione del contraddittorio, quando la parte che deve necessariamente parteciparvi ed alla quale non sia stato notificato l'atto di impugnazione, abbia spiegato la propria attività difensiva con controricorso (Cass.S.U., n. 11307/2014). In materia di contenzioso tributario, il concessionario del servizio di riscossione, regolarmente convenuto in primo grado, è litisconsorte necessario processuale nel giudizio di appello introdotto dall'Agenzia delle Entrate a seguito dell'accoglimento del ricorso del contribuente per vizi relativi al rapporto sostanziale, ove gli ulteriori vizi denunciati, ed attinenti all'atto impugnato, siano stati ritenuti assorbiti dal primo giudice. Infatti, sebbene l'esame degli ulteriori vizi denunciati dal contribuente integri una causa scindibile, non è possibile pregiudicare il diritto del contribuente ad ottenere l'esame delle censure originariamente proposte, qualora il giudice del gravame ritenga la fondatezza dell'appello. In forza di tale insegnamento, la Suprema corte ha cassato la sentenza pronunciata dalla C.T.R., la quale aveva dichiarato inammissibile l'impugnazione proposta dall'Agenzia delle Entrate per omessa notificazione dell'atto di appello al concessionario del servizio di riscossione, anziché ordinare l'integrazione del contraddittorio nei suoi confronti, ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 331 c.p.c. e 62 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546) (Cass. ord. n. 24868/2013). Nel caso di cause inscindibili, qualora l'impugnazione risulti proposta nei confronti di tutti i legittimati passivi, nel senso che l'appellante (o il ricorrente) li abbia correttamente individuati e indicati come destinatari dell'impugnazione medesima, ma poi, in relazione ad uno o ad alcuni di essi, la notificazione sia rimasta comunque inefficace (omessa o inesistente), o non ne venga dimostrato il perfezionamento – come nella fattispecie di notifica a mezzo posta, in caso di mancata produzione dell'avviso di ricevimento (dimostrazione che, nel caso di giudizio di cassazione, è possibile fino all'udienza di discussione di cui all'art. 379 c.p.c., ma prima che abbia inizio la relazione di cui al primo comma della citata disposizione, ovvero fino all'udienza di discussione di cui all'art. 379 c.p.c., ma prima che abbia inizio la relazione di cui al primo comma della citata disposizione, ovvero fino all'adunanza in camera di consiglio di cui all'art. 380-bis c.p.c.) – deve trovare applicazione l'art. 331 c.p.c., in ossequio al principio del giusto processo in ordine alla regolare costituzione del contraddittorio ex art. 111 c.p.c., da ritenersi prevalente, di regola, rispetto al principio della ragionevole durata del processo, e pertanto il giudice deve ordinare l'integrazione del contraddittorio, e non può dichiarare inammissibile l'impugnazione (Cass. n. 14124/2010; Cass. n. 8727/2011; Cass. n. 20501/2015). La notificazione dell'impugnazione relativa a cause inscindibili eseguita nei termini di legge nei confronti di uno solo dei litisconsorti necessari introduce validamente il giudizio di gravame nei confronti di tutte le altre parti, anche in caso di nullità della notificazione e di mancata costituzione dell'appellato; in siffatta ipotesi, il giudice di appello deve ordinare la rinnovazione della notificazione nei confronti di quest'ultimo ex art. 291 c.p.c., nonché l'integrazione del contraddittorio nei confronti di tutti gli altri litisconsorti necessari, ai sensi dell'art. 331 c.p.c. (Cass. n. 9381/2007). In tema di processo tributario, ove due coniugi abbiano presentato dichiarazione fiscale congiunta, e siano stati destinatari di un avviso di accertamento, impugnato da entrambi davanti alla Commissione tributaria provinciale, il giudizio di appello, proposto dall'Amministrazione fiscale nei confronti di uno solo dei due, e senza che venga disposta l'integrazione del contraddittorio, da parte del giudice di appello, anche nei confronti dell'altro co-dichiarante, è nullo, unitamente alla sentenza che l'ha concluso, con la conseguente cassazione della sentenza e il rinvio della causa ad altro giudice di appello (Cass. n. 1225/2007; Cass. n. 14253/2016). A differenza dell'ipotesi contemplata dall'art. 331 c.p.c., nell'ipotesi di cause scindibili ex art. 332 c.p.c., la notifica dell'appello proposto dal convenuto soccombente agli altri convenuti vittoriosi nel giudizio di primo grado non ha valore di vocatio in ius ma di mera litis denuntiatio, sicché questi ultimi non diventano, per ciò solo, parti del giudizio di gravame, nè sussistono i presupposti per la condanna dell'appellante al pagamento delle spese di lite in loro favore, ove gli stessi non abbiano impugnato incidentalmente la sentenza, atteso che, ai sensi dell'art. 91 c.p.c., detta pronuncia presuppone la qualità di parte nonché la soccombenza (Cass. n. 5508/2016). Nelle cause scindibili o indipendenti, peraltro, l'appello incidentale tardivo, pur potendo investire capi diversi da quelli impugnati in via principale, non può determinare un'estensione soggettiva del giudizio e non può, pertanto, essere proposto contro parti diverse da quelle che hanno proposto l'impugnazione in via principale, nei confronti delle quali deve ritenersi formato il giudicato interno (Cass. n. 15292/2015). Gli artt. 333 e 334 c.p.c.: le impugnazioni incidentaliIn una situazione ove più parti hanno il medesimo potere di impugnare una decisione in via autonoma, ciò potrebbe dar luogo ad altrettanti procedimenti distinti e separati, con l'ovvia conseguenza di una proliferazione inutile e dannosa dei processi (Di Paola, 554). Per ovviare a tale tipo di problema ed al fine, quindi, di mantenere unitario il giudizio di impugnazione contro la stessa sentenza, il codice di procedura civile, agli artt. 333,334 e 335, detta una disciplina ad hoc in tema di impugnazioni c.d. incidentali e dispone l'obbligatoria riunione, operante anche d'ufficio, di tutte le impugnazioni in un solo processo. L'impugnazione incidentale si differenzia dall'impugnazione principale in quanto, mentre quest'ultima è quella proposta per prima in ordine cronologico che costituisce ed incardina il nuovo grado di giudizio, al contrario, si definisce impugnazione incidentale ogni altra impugnazione proposta nel medesimo giudizio in cui si è proposta l'impugnazione principale, ma in data successiva rispetto a quest'ultima. A sua volta, l'impugnazione incidentale si distingue in tempestiva (art. 333 c.p.c.), ossia quando venga proposta entro il termine per l'impugnazione, e tardiva (art. 334 c.p.c.), ossia proposta successivamente alla scadenza del termine o da una parte che abbia prestato acquiescenza alla sentenza. Nel caso di impugnazione incidentale tempestiva, trattandosi di un'impugnazione vera e propria, definita incidentale per ragioni esclusivamente temporali, la stessa è assolutamente autonoma dall'impugnazione principale e prescinde, pertanto, totalmente dalla vicenda processuale di quest'ultima (Di Paola, 555). Di conseguenza, nel caso in cui l'impugnazione principale venga dichiarata inammissibile, l'impugnazione incidentale si convertirà in impugnazione principale. Legittimati all'impugnazione incidentale tempestiva sono le controparti dell'impugnante, nel caso di soccombenza reciproca, coloro che sono stati chiamati ad integrare il contraddittorio ex art. 331 c.p.c. e coloro ai quali è stato notificato l'appello ex art. 332 c.p.c. L'impugnazione incidentale tardiva è, invece, disciplinata dall'art. 334 c.p.c. per effetto del quale l'impugnazione incidentale non è preclusa dal decorso del termine ordinario di impugnazione o dall'acquiescenza alla sentenza. La ratio di tale disposizione deve essere individuata nell'opportunità di consentire alla parte parzialmente soccombente di impugnare solo nel caso in cui proponga impugnazione anche la controparte, senza dover impugnare necessariamente nei termini per evitare che si verifichi la decadenza (Di Paola, Tambasco, 255). Al contrario di quanto avviene per le impugnazioni incidentali tempestive, se l'impugnazione principale è dichiarata inammissibile, quella incidentale tardiva perde ogni efficacia. Venendo ora al processo tributario, si ritiene pacificamente ammessa l'applicabilità delle disposizioni di cui all'art. 333 e 334 c.p.c., sia in forza del richiamo operato dall'art. 49, d.lgs. n. 546/1992, sia perché alla disciplina delle impugnazioni incidentali e di quelle separatamente proposte contro la stessa sentenza fanno espresso o tacito riferimento le norme del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 che regolano i singoli mezzi di impugnazione: l'art. 54, comma 2, per il giudizio di appello e l'art. 62 per il ricorso in cassazione. Quanto alla revocazione, l'art. 66 dichiara applicabili al relativo giudizio le norme che regolano il procedimento avanti alla commissione adita. Più in particolare, se la revocazione è proposta avanti alla commissione tributaria regionale opera dunque l'art. 54, comma 2; al contrario, se è adita la commissione tributaria provinciale, l'esperibilità delle impugnazioni incidentali discende direttamente dagli artt. 333 e 334 c.p.c., in ragione della natura impugnatoria della revocazione. I principi giurisprudenziali affermati con riguardo al processo civile valgono anche in materia tributaria, sicché l'appello incidentale tardivo può riguardare anche questioni diverse da quelle prospettate con l'appello principale, non potendo attribuirsi a questo strumento di difesa una pienezza diversa da quella dell'appello incidentale civile, tenuto conto della tendenziale equiparazione del processo tributario a quello civile, stante il disposto dell'art. 49 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, che richiama per le impugnazioni tributarie le norme processuali civili, nonché dell'art. 54 del citato d.lgs., che, nel disciplinare espressamente l'appello incidentale tributario, non pone alcuna limitazione in ordine ai suoi contenuti. (Cass. ord. n. 6650/2014). L'impugnazione incidentale tardiva è sempre ammissibile, a tutela della reale utilità della parte, ove l'impugnazione principale metta in discussione l'assetto di interessi derivanti dalla sentenza cui la parte non impugnante aveva prestato acquiescenza, atteso che l'interesse ad impugnare sorge, anche nelle cause scindibili, dall'eventualità che l'accoglimento dell'impugnazione principale modifichi tale assetto giuridico (Cass. n. 23396/2015). Le regole sull'impugnazione tardiva, sia ai sensi dell'art. 334 c.p.c., che in base al combinato disposto di cui agli artt. 370 e 371 c.p.c., si applicano esclusivamente a quella incidentale in senso stretto e, cioè, proveniente dalla parte contro cui è stata proposta l'impugnazione, mentre per il ricorso di una parte che abbia contenuto adesivo a quello principale si deve osservare la disciplina dell'art. 325 c.p.c., cui è altrettanto soggetto qualsiasi ricorso successivo al primo, che abbia valenza d'impugnazione incidentale qualora investa un capo della sentenza non impugnato o lo investa per motivi diversi da quelli fatti valere con il ricorso principale (Cass. n. 20040/2015). Non sussiste l'interesse a proporre appello incidentale tardivo ove quest'ultimo investa la sentenza del tribunale su un capo estraneo all'appello principale e per una ragione diversa da quest'ultimo (Cass. n. 17017/2015). In tema di giudizio di cassazione, il ricorso incidentale tardivo, proposto oltre i termini di cui agli artt. 325, secondo comma, ovvero 327, primo comma, c.p.c., è inefficace qualora il ricorso principale per cassazione sia inammissibile, senza che, in senso contrario rilevi che lo stesso sia stato proposto nel rispetto del termine di cui all'art. 371, secondo comma, c.p.c. (quaranta giorni dalla notificazione del ricorso principale) (Cass. n. 6077/2015). Lo stesso principio era stato espresso dalle Sezioni Unite secondo cui, In tema di ricorso per cassazione, la norma dell'art. 334, secondo comma, c.p.c. – secondo cui, ove l'impugnazione principale sia dichiarata inammissibile, l'impugnazione incidentale tardiva perde efficacia – non trova applicazione nell'ipotesi di rinuncia all'impugnazione principale; poiché, infatti, la parte destinataria della rinuncia non ha alcun potere di opporsi all'iniziativa dell'avversario, l'ipotetica assimilazione di tale ipotesi a quelle dell'inammissibilità e dell'improcedibilità dell'impugnazione principale finirebbe per rimettere l'esito dell'impugnazione incidentale tardiva all'esclusiva volontà dell'impugnante principale (Cass.S.U., n. 8925/2011). Al contrario, la declaratoria di estinzione del giudizio relativo al ricorso principale, conseguente all'atto di rinuncia della parte, non determina l'inefficacia del ricorso incidentale, che pertanto deve essere esaminato nel merito (Cass.S.U., n. 8925/2011). L'art. 335 c.p.c.: riunione delle impugnazioni separateAi sensi dell'art. 335 c.p.c., tutte le impugnazioni proposte separatamente contro la stessa sentenza devono essere riunite, anche d'ufficio, in un solo processo. Risulta, quindi, evidente il fine ultimo della norma che consiste nell'attuazione del principio dell'unità del giudizio di impugnazione contro la medesima sentenza. Tale principio risulta pienamente applicabile anche al processo tributario per evidenti ragioni di economia ed in virtù del richiamo contenuto all'art. 49, d.lgs. n. 546/1992 sempre che si tratti di impugnazioni ritualmente proposte (Di Paola, Tambasco, 257). In tal caso, il provvedimento di riunione viene adottato dal presidente della Commissione tributaria regionale adita o, in alternativa, dai presidenti delle diverse sezioni assegnatarie delle distinte impugnazioni d'ufficio o su istanza di parte. In giurisprudenza, si è sviluppato un acceso dibattito in merito alle conseguenze della mancata riunione, in violazione dell'art. 335 c.p.c., delle impugnazioni proposte avverso la medesima sentenza. Secondo un primo orientamento interpretativo, la parte cui sia stata notificata l'altrui impugnazione, qualora proponga la propria separatamente in via principale, e non in via incidentale, deve mettere il giudice nelle condizioni di conoscere la simultanea pendenza dei due procedimenti, affinché possa provvedere alla loro riunione. In difetto, la mancata riunione, rende improcedibile la seconda impugnazione, non incidendo invece sulla validità della pronuncia relativa alla prima. Invero, secondo tale orientamento, risultando ormai impossibile il simultaneus processus, si verifica un impedimento all'esame degli ulteriori gravami, in ragione della decadenza con cui l'art. 333 c.p.c. sanziona la prescrizione dell'incidentalità delle impugnazioni successive (Cass.S.U., n. 15843/2009; Cass. n. 21432/2007; Cass. n. 13531/2005). Al contrario, secondo una diversa teoria interpretativa, in caso di mancata riunione di più impugnazioni ritualmente proposte contro la stessa sentenza, la decisione di una delle impugnazione non comporta l'improcedibilità delle altre, sempre che non si venga a formare il giudicato sulle questioni investite da queste ultime, dovendosi attribuire prevalenza – in difetto di previsioni sanzionatorie da parte dell'art. 335 c.p.c. – alle esigenze di tutela del soggetto che ha proposto l'impugnazione rispetto a quelle di economia processuale e della teorica armonia dei giudicati (Cass. n. 5846/2008; Cass. n. 4617/2004). Ad ogni modo, è stato precisato che l'inosservanza da parte del giudice di appello dell'obbligo di riunire in un unico procedimento tutti i gravami separatamente proposti contro la medesima sentenza non spiega effetti quando, nonostante la mancanza di un formale provvedimento di riunione, dette impugnazioni abbiano sostanzialmente avuto uno svolgimento unitario, in quanto chiamate alle stesse udienze, nonché contestualmente discusse e decise dallo stesso collegio con il medesimo relatore, sicché si resti nell'ambito della mera redazione separata di due pronunce per una decisione di tipo unitario (salva poi la facoltà di riunione dei ricorsi che siano stati proposti contro tali pronunce) (Cass. n. 6578/2001; Cass. n. 4617/2004; Cass. n. 3870/2010; Cass. n. 17328/2012). La disposizione dell'articolo 335 c.p.c., secondo cui le impugnazioni separatamente proposte contro la stessa sentenza debbono essere riunite in un unico processo non può trovare applicazione quando i provvedimenti impugnati siano o debbano considerarsi diversi, per essere stata proposta impugnazione contro la sentenza già impugnata, e, successivamente, sia impugnata l'ordinanza di rigetto dell'istanza di correzione materiale della medesima sentenza (Cass. n. 4625/2007). L'impugnazione di sentenze diverse con un unico atto (consentita a determinate condizioni) non incide sull'autonomia delle singole impugnazioni così proposte, che restano distinte benché espresse nella contestualità «spaziale» e temporale di un unico atto. Peraltro, l'opzione processuale consistente nel proporre nel medesimo atto le diverse impugnazioni non può certo attribuire alla parte il potere di disporre in tal modo la riunione dei procedimenti concernenti le impugnazioni proposte, sottraendo il relativo potere al giudice, ovvero imporre implicitamente al giudice l'esercizio di un potere (quello di riunione previsto dall'art. 274 c.p.c.), che ha natura discrezionale, laddove l'art. 335 c.p.c. impone la riunione soltanto delle impugnazioni proposte avverso la medesima sentenza (Cass. n. 7645/2006; Cass. n. 1542/2007). L'art. 336 c.p.c.: effetti della riforma o della cassazioneLa disposizione di cui all'art. 336, comma 1, c.p.c. stabilisce che «La riforma o la cassazione parziale ha effetto anche sulle parti della sentenza dipendenti dalla parte riformata o cassata». Si tratta del cosiddetto effetto «espansivo interno» che si verifica nelle ipotesi in cui, impugnando, solo un capo della sentenza si provoca la riforma o la cassazione anche dei capi del provvedimento non espressamente impugnati ma dipendenti da quello riformato o cassato. Al contrario, il secondo comma, nel prevedere che «la riforma o la cassazione estende i suoi effetti ai provvedimenti e agli atti dipendenti dalla sentenza riformata o cassata», disciplina il cosiddetto effetto «espansivo esterno» in forza del quale si ha la caducazione immediata degli atti e dei provvedimenti dipendenti dalla sentenza riformata o cassata. L'art. 336 c.p.c., in tema di effetti della riforma o della cassazione, è applicabile al rito tributario sia nel cosiddetto effetto espansivo interno, sia nel cosiddetto effetto espansivo esterno, stante il richiamo di cui all'art. 49, d.lgs. n. 546/1992. Più in particolare, applicato al processo tributario, l'effetto espansivo interno comporta, in caso di riforma o di cassazione del capo di sentenza relativo all'imposta, anche l'annullamento del capo (non contestato) relativo alle sanzioni (Pistolesi, 1998, 659). Nei giudizi tributari aventi ad oggetto l'impugnazione di provvedimenti impositivi, l'effetto espansivo esterno, di cui la secondo comma dell'art. 336 c.p.c., interessa la disciplina della riscossione in pendenza di giudizio. invero, la pronuncia di annullamento resa in appello travolge la riscossione eseguita in via provvisoria nel corso del primo e del secondo grado. I provvedimenti di riscossione provvisoria, dipendenti da quelli impositivi o sanzionatori, non sopravvivono alla declaratoria di illegittimità di questi ultimi, apparendo inidonei a produrre effetti stabili sul piano dell'obbligazione tributaria (Pistolesi, 1998, 661;Tesauro, 167). All'opposto, nel caso di riforma in appello della sentenza di annullamento resa in primo grado, il provvedimento impositivo riacquista efficacia, giustificando in tal modo una rinnovata riscossione. La restituzione di quanto pagato in esecuzione di una sentenza provvisoriamente esecutiva può chiedersi, per la prima volta, con lo stesso atto di appello avverso quest'ultima, anche in sede di precisazione delle conclusioni, non potendo tale domanda considerarsi nuova e, quindi, preclusa, sicché il giudice del gravame che ometta di pronunciarsi sulla stessa incorre nella violazione di cui all'art. 112 c.p.c. (Cass. n. 6457/2015). In tema di estinzione del processo di appello, dalla quale deriva, ai sensi dell'art. 338 c.p.c., il passaggio in giudicato della sentenza impugnata, il termine di prescrizione dell'actio iudicati decorre non già dal momento in cui è intervenuto l'evento estintivo, ma dalla declaratoria di estinzione del processo, ossia da quando si dà luogo all'effetto estintivo, in quanto il combinato disposto degli artt. 2945 c.c. e 338 c.p.c., letto alla luce del principio di ragionevolezza nonché del principio del contraddittorio, impone che il dies a quo debba coincidere con la pronuncia che ha reso le parti partecipi dello stesso evento (Cass. n. 23156/2013). Il rigetto del ricorso per cassazione avverso la riforma in appello della sentenza non definitiva di primo grado, che aveva pronunciato positivamente sull'an debeatur, comporta la caducazione della sentenza definitiva sul quantum e, quindi, l'inammissibilità del ricorso per cassazione proposto avverso quest'ultima (Cass. n. 3656/2013; Cass. ord. n. 22049/2016). In ipotesi di cassazione con rinvio il giudizio di rinvio e quello avente ad oggetto la restituzione dei beni consegnati o delle somme pagate in virtù della sentenza cassata sono tra loro autonomi, onde possono essere celebrati separatamente e non v'è necessità di riunirli. Tuttavia, tale reciproca autonomia non è assoluta, in quanto viene meno nel caso in cui il giudizio di rinvio si concluda prima di quello sulle restituzioni, con una decisione identica a quella contenuta nella sentenza cassata: e, ricorrendo tale ipotesi, giudice delle restituzioni dovrà rigettare la domanda innanzi a lui proposta (Cass. n. 19153/2012). La sentenza del giudice di appello che dichiari inammissibile l'appello principale contro decisione già appellata, erroneamente omettendo di convertirlo in appello incidentale, deve essere cassata con rinvio, producendosi, qualora il giudice di rinvio accolga l'appello convertito, gli effetti indicati dall'art. 336 c.p.c., secondo il quale la riforma ha effetto anche sulle parti della sentenza dipendenti dalla parte riformata nonché sui provvedimenti e gli atti dipendenti dalla sentenza riformata, senza che osti il giudicato formatosi su parti, provvedimenti e atti, colpiti dall'effetto espansivo, che resta condizionato dall'esito della decisione sulle questioni ancora pendenti (Cass. n. 9858/2012). In tema di spese processuali, quando il giudizio si articola in più fasi o gradi, se la sentenza conclusiva del giudice d'appello o del rinvio riforma anche parzialmente quella pronunziata in primo grado, l'effetto si estende alla statuizione relativa alle spese processuali, con la conseguenza che detto giudice ha il potere di rinnovare totalmente la regolamentazione delle spese, considerando l'esito complessivo della lite (Cass. n. 5497/2002; Cass. n. 19345/2014; Cass. ord. n. 1775/2014). La cassazione anche di un solo capo della sentenza di appello si estende alla statuizione relativa alle spese processuali con la conseguenza che il giudice di rinvio, se riforma la sentenza di primo grado, ha il potere di rinnovare totalmente la regolamentazione delle spese alla stregua dell'esito finale della lite e, in conseguenza di questo apprezzamento unitario, di pervenire anche ad un provvedimento di compensazione totale o parziale delle spese dell'intero giudizio (Cass. n. 5988/2001; Cass. n. 5164/2003). In tema di sospensione del processo, poiché l'art. 295 c.p.c., la cui ratio è quella di evitare il rischio di un conflitto tra giudicati, fa esclusivo riferimento all'ipotesi in cui fra due cause pendenti davanti allo stesso giudice o a due giudici diversi esista un nesso di pregiudizialità in senso tecnico-giuridico e non già in senso meramente logico, la sospensione necessaria del processo non può essere disposta nell'ipotesi di contemporanea pendenza davanti a due giudici diversi del giudizio sull'an debeatur e di quello sul quantum (fra i quali esiste un rapporto di pregiudizialità solamente in senso logico), essendo in tal caso applicabile l'art. 337, comma 2, c.p.c. – il quale, in caso di impugnazione di una sentenza la cui autorità possa essere invocata in un separato processo, prevede soltanto la possibilità della sospensione facoltativa di tale processo – e tenuto conto altresì del fatto che a norma dell'art. 336, comma 2, c.p.c., la riforma o la cassazione della sentenza sull'an determina l'automatica caducazione della sentenza sul quantum, anche se su quest'ultima si sia formato un giudicato apparente (Cass. n. 5006/2002; Cass. ord. n. 14060/2004; Cass. ord. n. 26435/2009; Cass. n. 5162/2005; Cass. ord. n. 13035/2013; Cass. ord. n. 674/2014; Cass. ord. n. 6207/2014). L'art. 337 c.p.c.: sospensione dell'esecuzione e dei processiPrima del 2015, era espressamente esclusa nel processo tributario l'applicabilità dell'art. 337 c.p.c., a norma del quale l'esecuzione della sentenza non è sospesa per effetto dell'impugnazione, salvo quanto disposto dagli artt. 283,373,401 e 407 c.p.c. (comma 1); e, quando l'autorità di una sentenza è invocata in un diverso processo, questo può essere sospeso (comma 2). Tuttavia, l'applicabilità della tutela cautelare era stata oggetto di numerosi interventi dottrinali e giurisprudenziali. La tesi negativa si fondava essenzialmente sulla lettura dell'articolo 49, il quale, nella sua formulazione antecedente alla riforma del 2015, prevedeva che alle impugnazioni delle sentenze tributarie «sono applicabili le norme di cui al titolo III, capo I, libro II c.p.c., ad esclusione dell'art. 337». L'esclusione, dunque, riguardava proprio quella norma (l'art. 337) che, attraverso il richiamo di altre disposizioni (283, 373, 401 e 407), prevede la sospensione dell'esecuzione della sentenza nei vari gradi di giudizio, che, dunque, non trova ingresso nel processo tributario (Pistolesi, 1998, 661). A tale argomento di carattere testuale, la tesi contraria, favorevole all'estensione dell'istituto cautelare nei confronti della sentenza d'appello, oppone un altro argomento dello stesso tipo, costituito dall'art. 61 del d.lgs n. 546. Secondo tale diversa tesi interpretativa, la disposizione da ultimo citata, ponendo il principio che nel procedimento d'appello si osservano tutte le norme dettate per il procedimento di primo grado, rende applicabile anche l'art. 47, d. lgs. n. 546/1992 che prevede la sospensione dell'atto impugnato (Muleo, 262). La Corte Costituzionale, più volte chiamata ad esprimersi sull'inapplicabilità al rito tributario della sospensione della sentenza, ha sempre manifestato un atteggiamento di estrema chiusura, basato sulla lettera dell'art. 47. A tale dato testuale, la Corte aggiunge la considerazione che la garanzia costituzionale della tutela cautelare nel processo tributario, deve ritenersi imposta solo fino al momento in cui non intervenga una pronuncia di merito, in quanto l'oggetto del provvedimento di sospensione non è la sentenza che ha rigettato il ricorso del contribuente, bensì il provvedimento impositivo rigettato in primo grado (Corte cost. n. 119/2007). Più di recente, con le sentenze n. 217 del 2010 e n. 109 del 2012, la Corte Costituzionale ha mutato avviso, statuendo che la sentenza può essere sospesa dal giudice tributario, nel caso in cui il contribuente possa subire un danno grave ed irreparabile in pendenza dell'impugnazione. In tali decisioni si sostiene, attraverso una interpretazione costituzionalmente orientata della disciplina in esame, che la previsione, contenuta nell'art. 49 del d.lgs. che esclude l'applicazione al rito tributario degli artt. 337 e 373 c.p.c., relativi, rispettivamente, alla sospensione della sentenza di primo e di secondo grado, non è di ostacolo all'applicabilità di tale strumento cautelare alle sentenze tributarie. Peraltro, la stessa Corte di giustizia europea ha ribadito, in varie occasioni, l'obbligo dei giudici nazionali di garantire la tutela cautelare. Nonostante queste aperture per via pretoria, permaneva la necessità di un intervento legislativo, che superasse le incertezze evidenziate dai contrasti emersi nella giurisprudenza delle Commissioni tributarie, non solo sulla latitudine della tutela cautelare, ma anche sulle regole processuali da applicare. Ebbene, con il decreto n. 156 del 2015, il legislatore ha dato attuazione a tali principi contenuti nella legge delega, attraverso la riformulazione del settore delle impugnazioni e della tutela cautelare di cui al d.lgs. n. 546 del 1992. L'applicazione del principio di immediata esecutorietà delle sentenze è stato recepito tenendo conto delle peculiarità del processo tributario, strutturato pur sempre come giudizio amministrativo di impugnazione di atti autoritativi, ancorché nei confronti di un giudice che ha cognizione piena sul rapporto. È quanto si rileva dall'articolo 67-bis, il quale pone il principio che le sentenze emesse dalle Commissioni tributarie sono esecutive, «secondo quanto previsto dal presente capo». Si è, dunque, stabilito quanto segue. L'esecutorietà della sentenza in favore dell'amministrazione avrebbe consentito di esigere l'intero tributo già dopo la sentenza di primo grado, mentre si è preferito lasciare inalterato il meccanismo della riscossione frazionata del tributo, previsto dalla precedente formulazione dell'art. 68. Deve, tuttavia, rilevarsi che tale favor per il contribuente viene, però, bilanciato dall'effetto negativo per il medesimo di non potersi avvalere della tutela cautelare nei confronti della riscossione frazionata. Anche nella innovativa esecutività immediata delle sentenze di condanna in favore del contribuente prevista dall'art. 69 (in precedenza l'esecutività per tali pronunzie si realizzava solo con il giudicato), si è tenuto conto delle peculiarità del giudizio tributario, in cui sono presenti una parte pubblica ed una privata. Mentre per la prima non vi è pericolo di insolvenza, potrebbe, invece, accadere che la parte privata, una volta ottenuto il pagamento per effetto della esecutività della sentenza seppur impugnata dall'amministrazione, risulti poi insolvente in caso di riforma di tale sentenza. Ecco perché la nuova formulazione della norma subordina il pagamento della somma in favore del contribuente, se superiore ad euro 10.000, ad un'idonea garanzia. Come si è già anticipato, la tutela cautelare è stata estesa a tutte le fasi del processo, in tal modo sono state codificate le conclusioni anticipatorie della Corte Costituzionale e della Cassazione, di cui si è detto, fondate su una interpretazione costituzionalmente orientata della precedente normativa. È stato così previsto (artt. 52 per la sospensiva in appello, 62-bis per quella in caso di ricorso per cassazione, 65 per quella nel giudizio di revocazione) che il contribuente può chiedere la sospensione dell'atto impugnato in presenza di un danno grave ed irreparabile; e che le parti possono sempre chiedere la sospensione degli effetti della sentenza, sia di primo che di secondo grado, analogamente a quanto previsto nel codice di procedura civile. Infine, il giudice può subordinare i provvedimenti cautelari ad idonea garanzia, la cui disciplina di dettaglio è rimessa ad un decreto ministeriale, al fine di evitare contestazioni tra le parti sulla idoneità della garanzia stessa. Nel periodo precedente alla riforma apportata con il d.lgs. n. 156/2015, il dibattito circa l'estensione dell'applicabilità dell'art. 337 c.p.c. al processo tributario aveva interessato anche la giurisprudenza, sia di merito che di legittimità. La giurisprudenza meno recente interpretava l'art. 49 d.lgs. n. 546/1992 nel senso di privare il giudice tributario d'appello del potere di sospendere l'efficacia esecutiva sia della sentenza di primo grado in pendenza d'appello (art. 283 c.p.c.) sia della sua stessa sentenza di secondo grado in pendenza del ricorso per cassazione (art. 373 c.p.c.) e, pertanto, si riteneva non applicabile il rimedio cautelare nella fase di impugnazione proprio sull'espressa esclusione dell'applicazione dell'art. 337 c.p.c. al processo tributario sancita dal già citato art. 49. Questa tesi aveva trovato riscontro anche nella giurisprudenza di merito (C.t.r. Lazio 22 settembre 1999; C.t.r. Toscana 19 marzo 1998; C.t.r. Marche 24 febbraio 1997) per la quale il sistema di riscossione introdotto dall'art. 68 d.lgs. n. 546/1992, correlato al riconoscimento di poteri cautelari alle sole commissioni tributarie provinciali, avrebbe garantito già un notevole punto di equilibrio tra la tutela cautelare del contribuente e l'esigenza del fisco di non vedersi rinviata l'attuazione della pretesa tributaria al formarsi del giudicato. Si è sostenuto, peraltro, che poiché l'art. 49, d.lgs. n. 546/1992, dettando norme in materia di impugnazioni nel processo tributario, opera un rinvio alle norme del codice di procedura civile, escludendo però l'applicabilità dell'art. 337 c.p.c., concernente la sospensione dell'esecuzione della sentenza impugnata, in nessuno dei giudizi di impugnazione previsti nel processo tributario possono ritenersi esperibili la sospensione dell'esecuzione della sentenza impugnata e la tutela cautelare previste dall'art. 47, d.lgs. n. 546/1992 (C.t.r. Puglia 23 agosto 2007; C.t.r. Lazio 28 ottobre 2006). Al contrario, secondo diversa teoria interpretativa, sono applicabili anche in appello le norme in materia cautelare dettate dall'art. 47, d.lgs. n. 546/1992, in quanto da un lato l'oggetto del giudizio di secondo grado non è la sentenza impugnata ma il provvedimento amministrativo cui la predetta norma si riferisce, mentre, sotto altro profili, il rinvio di cui all'art. 61 dello stesso decreto rappresenta l'estensione della sfera di applicazione della norma richiamata ad un'area alla quale, secondo la sua formulazione letterale, non risulterebbe applicabile. Inoltre, rinvenendosi all'interno del diritto comunitario un principio consolidato, in un'ottica di armonizzazione dei rimedi giuridici preposti dai singoli Stati membri, di completezza ed effettività della tutela giurisdizionale che coinvolge anche la tutela cautelare, si ricava che tale rimedio va assicurato anche nei casi in cui la norma processuale interna lo escluda, derivandone la disapplicazione delle leggi nazionali impeditive dell'attuazione di tali principi (C.t.r. Puglia 22 agosto 2001). Sul punto è intervenuta la Corte costituzionale la quale ha dichiarato inammissibile, in relazione agli artt. 3 e 24 Cost., la questione di legittimità costituzionale degli artt. 49 del d.lgs. n. 546 del 1992 e 30 della legge n. 413 del 1991, nella parte in cui escludano – a giudizio del rimettente – che il giudice di appello possa, su istanza della parte privata soccombente in primo grado sospendere gli effetti della sentenza impugnata ai sensi dell'art. 283 c.p.c. in presenza di grave pregiudizio della sua esecuzione – poiché oggetto del provvedimento di sospensione non potrebbe mai essere la sentenza che ha respinto l'impugnazione bensì il provvedimento impositivo la cui impugnazione è stata rigettata in primo grado (Corte cost. n. 119/2007). La Consulta si è nuovamente pronunciata nel 2010 dichiarando inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 49, comma 1, del d.lgs. n. 546/1992, censurato, in riferimento agli artt. 3,23,24,111 e 113 Cost., nonché, quale norma interposta all'art. 10 Cost., in riferimento all'art. 6, comma 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, nella parte in cui non prevede, in unico grado, la possibilità di sospensione della sentenza di appello tributaria, impugnata con ricorso per cassazione, allorquando ivi sopravvenga, per la prima volta, il pericolo di un grave ed irreparabile danno, con carattere di irreversibilità e non altrimenti evitabile. Innanzitutto, il rimettente, nonostante la mancanza di un diritto vivente sul punto, non ha esperito alcun tentativo di pervenire ad un'interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione in esame nel senso, cioè, che essa consenta l'applicazione al processo tributario della sospensione cautelare prevista dall'art. 373 c.p.c., e tale omissione si risolve nella carenza di motivazione sulla rilevanza della questione. Altro motivo di inammissibilità deriva dal fatto che non sussiste, nella specie, il requisito del fumus boni iuris dell'istanza cautelare proposta dal contribuente nel giudizio principale, con conseguente irrilevanza della sollevata questione. Infine, un ulteriore profilo di inammissibilità risiede nel difetto di motivazione sulla rilevanza per omessa prova del requisito del periculum in mora, non avendo la commissione tributaria a quo fornito alcuna motivazione in ordine né alla situazione economica del debitore, né alla possibilità per quest'ultimo di evitare, nelle more, l'esecuzione forzata immobiliare, né agli effetti lesivi irreversibili ed inadeguatamente ristorabili di tale esecuzione. La riscontrata inammissibilità della questione impedisce l'esame del merito e, in particolare, non consente di valutare la richiesta del rimettente di procedere ad un riesame della giurisprudenza costituzionale in tema di tutela cautelare nel processo tributario. Peraltro, l'inapplicabilità al processo tributario, disposta dal primo comma dell'art. 49 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, della regola, sostanzialmente identica, contenuta nel primo periodo degli artt. 337 e 373 c.p.c., non comporta necessariamente l'inapplicabilità al processo tributario anche delle «eccezioni» a tale regola poste dal secondo periodo delle stesse disposizioni codicistiche e, quindi, non esclude di per sé la sospendibilità ope iudicis dell'esecuzione della sentenza di appello impugnata per cassazione, secondo una possibile interpretazione costituzionalmente orientata che è suscettibile di impedire al citato primo comma dell'art. 49 del d.lgs. n. 546/1992 di costituire ostacolo normativo ad applicare al processo tributario l'inibitoria cautelare di cui all'art. 373 c.p.c. (Corte cost. n. 217/2010). In applicazione dei principi da ultimo enunciati dalla Consulta, la Cassazione ha stabilito che al ricorso per cassazione avverso le sentenze delle commissioni tributarie regionali si applica la disposizione di cui all'art. 373, comma primo, secondo periodo, c.p.c., secondo cui l'esecuzione della sentenza impugnata può, su istanza di parte e qualora dall'esecuzione possa derivare grave e irreparabile danno, essere sospesa dal giudice «a quo», dovendo peraltro evidenziarsi come la specialità della materia tributaria e l'esigenza che sia garantito il regolare pagamento delle imposte renda necessaria la rigorosa valutazione dei requisiti del «fumus boni iuris» e del «periculum in mora» (Cass. n. 2845/2012). Sul punto è intervenuta nuovamente, in tempi più recenti, la Corte costituzionale la quale, richiamando la sentenza n. 217 del 2010, ha dichiarato infondate o inammissibili altre questioni di costituzionalità dell'art. 49, d.lgs. n. 546/1992. Infine, giova ribadire, che nell'attuale formulazione dell'art. 49, d.lgs. n. 546/1992, fra le disposizioni applicabili al processo tributario è ricompreso anche l'art. 337 c.p.c. Invero, l'articolo 9, comma 1, lettera u) del decreto di riforma ha modificato l'articolo 49 del decreto n. 546, eliminando l'inciso «escluso l'art. 337». Fatta salva la disciplina specifica del processo tributario, la disposizione ora contiene un generale rinvio alle norme del codice di procedura civile in tema di sospensione delle sentenze, contenute nel «titolo III, capo I, del libro II del codice di procedura civile». La suddetta modifica si connota per una significativa portata di carattere sistematico, posto che la decisione di includere l'articolo 337 c.p.c. nel novero delle norme richiamate è giustificata, oltre che da esigenze di coordinamento con il nuovo regime dell'esecutività delle sentenze tributarie, dalla necessità di conformarsi alle pronunce giurisprudenziali che hanno affermato, sotto vari profili, l'applicabilità al processo tributario della predetta norma del rito civile. La disposizione che più direttamente interessa la tutela cautelare è quella contenuta nel primo comma dell'articolo 337, secondo cui «l'esecuzione della sentenza non è sospesa per effetto dell'impugnazione di essa, salve le disposizioni degli articoli 283, 373, 401 e 407». Tale richiamo consente, quindi, di applicare le norme che disciplinano la sospensione cautelare delle sentenze di primo grado e d'appello in caso di impugnazione ordinaria e straordinaria. La modifica in questione è volta a dirimere i dubbi e a rimuovere gli ostacoli all'ingresso nel contenzioso tributario delle norme processual-civilistiche da ultimo menzionate; infatti, come specificato sopra, il precedente testo dell'articolo 49 ha rappresentato per lungo tempo l'elemento testuale che precludeva l'applicabilità al processo tributario delle medesime norme, dal momento che la sua lettera (con particolare riferimento all'esclusione dell'articolo 373 c.p.c.), sia pur in via indiretta, ostava alla loro applicazione. In tal senso, il decreto di riforma recepisce in modo esplicito l'orientamento consolidatosi in capo alla giurisprudenza costituzionale e di legittimità (Circ. Ag. ent. n. 38/E del 29 dicembre 2015). L'art. 338: effetti dell'estinzione del procedimento di impugnazioneA norma dell'art. 338 c.p.c. l'estinzione del procedimento di appello o di revocazione nei casi previsti dall'art. 395, nn. 4 e 5, c.p.c. comporta il passaggio in giudicato della sentenza impugnata, salvo che ne siano stati modificati gli effetti con provvedimenti pronunciati nel procedimento estinto. Si precisa che dopo il passaggio in giudicato è preclusa la possibilità di proporre i superiori mezzi di impugnazione contro la medesima sentenza anche se sono ancora pendenti i termini di proposizione (Di Paola, Tambasco, 261). L'art. 338 c.p.c. opera anche nel processo tributario, in virtù del richiamo operato dall'art. 49, d.lgs. n. 546/1992. Ad ogni modo, occorre precisare che, con riferimento al processo tributario, non può verificarsi la situazione fatta salva dall'inciso finale dell'art. 338 c.p.c., in quanto i provvedimenti pronunciati nel procedimento estinto idonei a modificare gli effetti della sentenza impugnata sono sentenze non definitive, non ammesse nel processo tributario. Pertanto, l'estinzione del giudizio di appello o di revocazione ordinaria comporta sempre la definitività della sentenza impugnata, mentre l'estinzione del giudizio di revocazione straordinaria non incide sulla regiudicata, che è precedente (Pistolesi, 1998, 662). In tema di contenzioso tributario, qualora in sede di appello la parte interessata – e, dunque, in primo luogo l'appellante (nella specie, l'Amministrazione finanziaria) – non adempia l'ordine d'integrazione del contraddittorio nei confronti del concessionario per la riscossione, rispetto al quale il contribuente appellato abbia riproposto le contestazioni rimaste assorbite in primo grado in ordine ai vizi formali della cartella, si produce ex art. 45 del d.lgs. n. 546 del 1992 una causa estintiva dell'intero giudizio con conseguente passaggio in giudicato della sentenza di primo grado (Cass. n. 21975/2015). In tema di processo tributario, l'estinzione per inattività delle parti, intervenuta in appello, in un giudizio già definito in primo grado con decisione favorevole al contribuente di annullamento dell'avviso di accertamento, determina la cristallizzazione della situazione giuridica sostanziale come definita dalla sentenza di merito impugnata, che passa in giudicato, essendo applicabile, in virtù del rinvio di cui all'art. 49 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, l'art. 338 c.p.c., compatibile con la disciplina speciale del contenzioso tributario, senza che possa rimanere in vita il provvedimento impositivo impugnato, ormai travolto dal titolo giudiziale che ne ha annullato gli effetti (Cass. n. 13808/2014; Cass. ord. n. 22368/2015; Cass. n. 23487/2016). In tema di estinzione del processo di appello, dalla quale deriva, ai sensi dell'art. 338 c.p.c., il passaggio in giudicato della sentenza impugnata, il termine di prescrizione dell'«actio iudicati» decorre non già dal momento in cui è intervenuto l'evento estintivo, ma dalla declaratoria di estinzione del processo, ossia da quando si dà luogo all'effetto estintivo, in quanto il combinato disposto degli artt. 2945 c.c. e 338 c.p.c., letto alla luce del principio di ragionevolezza nonché del principio del contraddittorio, impone che il «dies a quo» debba coincidere con la pronuncia che ha reso le parti partecipi dello stesso evento (Cass. n. 23156/2013). L'estinzione del processo per inattività delle parti (e quindi anche per mancata riassunzione nel termine un anno dopo la cessazione della causa di sospensione), ove non dedotta dall'interessato in via di eccezione, a norma dell'art. 307 c.p.c., può essere richiesta in via di azione con atto riassuntivo del processo stesso, con la conseguenza di rimettere la causa nello stesso stato processuale in cui si trovava al momento del provvedimento (di interruzione, sospensione, cancellazione dal ruolo) che ne ha arrestato il normale iter procedimentale (Cass. n. 10609/2010; Cass. n. 22320/2011). Il provvedimento con cui l'organo collegiale d'appello dichiara l'estinzione del processo per cessazione della materia del contendere ha natura sostanziale di sentenza ed è perciò ricorribile per cassazione (Cass. n. 6551/2008). La pronuncia di estinzione del giudizio comporta, ex art. 393 c.p.c., il venir meno dell'intero processo e, in forza dei principi in materia di impugnazione dell'atto tributario, la definitività dell'avviso di accertamento con il conseguente integrale accoglimento delle ragioni erariali; ciò in quanto la pretesta tributaria vive di forza propria in virtù dell'atto impositivo in cui è stata formalizzata e l'estinzione del processo travolge la sentenza di primo grado, ma non l'atto amministrativo che non è un atto processuale bensì l'oggetto dell'impugnazione (pertanto, l'Amministrazione difetta di interesse ad impugnare la sentenza che dichiari l'estinzione del giudizio, ancorché tale estinzione sia dichiarata a causa di un errore della Amministrazione nella riassunzione del giudizio di merito) (Cass. n. 3040/2008; Cass. ord. n. 21143/2015). In tema di estinzione del processo di appello, dalla quale deriva, ai sensi dell'art. 338 c.p.c., il passaggio in giudicato della sentenza impugnata, il termine di prescrizione dell'actio iudicati decorre, non già dal momento in cui è intervenuto l'evento estintivo, ma dalla declaratoria di estinzione del processo, ossia da quando si dà luogo all'effetto estintivo (Cass. n. 19639/2005; Cass. n. 23156/2013). La rinuncia agli atti, compiuta in appello, di un giudizio definito in primo grado con una decisione di fondatezza dell'azione investe soltanto gli atti del procedimento di gravame, e comporta il passaggio in giudicato della pronuncia in conseguenza della sopravvenuta inefficacia della sua impugnazione, in quanto l'estinzione, a norma dell'art. 310 del c.p.c., rende inefficaci gli atti compiuti, ma non le sentenze di merito pronunciate nel corso del processo. Ne consegue che l'efficacia abdicativa in ordine all'effetto sostanziale della decisione di merito e preclusiva del potere delle parti di chiedere al giudice una nuova decisione sulla stessa controversia va riconosciuta soltanto a un atto che possa essere interpretato come rinuncia anche al giudicato, in quanto estesa alla sentenza già emessa e alle sue conseguenze (in difetto di un richiamo, da parte del giudice di merito, a un siffatto – ampio e complesso – contenuto della rinuncia agli atti in appello, la Suprema corte ha ritenuto che la pronuncia di accertamento in prime cure dell'avvenuto trasferimento di un immobile non fosse stata travolta dall'estinzione del processo) (Cass. n. 5026/2003; Cass. n. 6845/2017). Nel caso di estinzione del giudizio di rinvio per sua mancata (o tardiva) riassunzione, deve ritenersi, comunque, applicabile il disposto di cui all'art. 310 c.p.c., con la conseguenza che, nel nuovo processo eventualmente instaurato attraverso la riproposizione della domanda, conservano efficacia, e sono pertanto utilizzabili, tutte le statuizioni di merito su cui, nel corso del procedimento ormai estinto, si sia formato il giudicato, e cioè le sentenze di merito non definitive che non abbiano formato oggetto di impugnazione (o i cui motivi di impugnazione siano stati rigettati), ovvero quelle definitive, ma passate solo parzialmente in giudicato, per essere stati accolti i motivi di ricorso solo relativamente ad alcuni capi della sentenza, in virtù del principio della formazione progressiva del giudicato (Cass. n. 6712/2001; Cass. n. 20311/2004). Le disposizioni del c.p.c. non applicabili. Artt. 323, 325 e 326: mezzi di impugnazione e termini di notificaCome anticipato, non tutte le disposizioni di cui al codice di procedura civile in tema di impugnazioni sono applicabili al processo tributario. Invero, gli artt. 50 e 51, d.lgs. n. 546/1992 prevedono in materia di mezzi di impugnazione e di termini per la loro proposizione alcune regole speciali, che derogano a quelle del codice di procedura civile. Più in particolare, l'art. 323 c.p.c. individua cinque mezzi di impugnazione delle sentenze civili (il regolamento di competenza nei casi previsti dalla legge, l'appello, il ricorso per cassazione, la revocazione e l'opposizione di terzo). Al contrario, il citato art. 50 non prevede nel rito tributario l'esperibilità del regolamento di competenza e dell'opposizione di terzo. Ad ogni modo, occorre dar conto di una dottrina minoritaria (Chizzini, I rapporti tra codice di procedura civile e processo tributario, in Il processo tributario, in Giur. sist. dir. Trib. Tesauro, Torino, 1998, 21) che ritiene altresì esperibile l'opposizione di terzo, alla luce della sentenza della Corte costituzionale che ha dichiarato illegittime, per violazione degli artt. 3 e 24 Cost., le disposizioni che non prevedevano l'esperibilità di tale mezzo di impugnazione contro le sentenze del Consigli di Stato e dei tribunali amministrativi regionali (artt. 28 e 36, l. 6 dicembre 1971, n. 1034). Anche con riferimento alla disciplina dei termini «brevi» per le impugnazioni, gli artt. 325 e 326 c.p.c. sono applicabili nei limiti di compatibilità con l'art. 51, d.lgs. n. 546/1992, a norma del quale il termine per impugnare la sentenza della Commissione tributaria è di sessanta giorni (e non trenta come previsto dall'art. 325 c.p.c. per tutte le impugnazioni ad eccezione del ricorso per cassazione), decorrente dalla sua notificazione ad istanza di parte; mentre nel caso di revocazione straordinaria (ovvero per i motivi di cui ai nn. 1, 2, 3 e 6 dell'art. 395 c.p.c.) il termine di sessanta giorni decorre dal giorno in cui è stato scoperto il dolo o sono state dichiarate false le prove o è stato recuperato il documento o è passata in giudicato la sentenza che accerta il dolo del giudice (Di Paola, Tambasco, 243). Nel processo tributario non si applica il regolamento di competenza, tuttavia, interpretando restrittivamente tale divieto, la Corte di cassazione ha ritenuto proponibile detta impugnazione è ammessa nei confronti delle ordinanze di sospensione del processo emanate dalla commissione tributaria, avuto riguardo alla natura e all'importanza dei diritti, di rilevanza anche costituzionale, oggetto delle controversie tributarie. Più in particolare, secondo la Corte, un'interpretazione dell'art. 5, comma 4, d.lgs. n. 546/1992 che portasse ad intendere la norma come preclusiva, in tali situazioni, dell'esperibilità del regolamento di competenza esporrebbe la norma stessa a fondati dubbi di costituzionalità, data l'idoneità dei provvedimenti de quibus a ledere diritti costituzionalmente garantiti (Cass. n. 8129/2007; nello stesso senso cfr. Cass. n. 18100/2013; Cass. n. 11140/2005; Cass. ord. n. 999/2016). Nel processo tributario non è prevista l'opposizione di terzo tra i mezzi di gravame esperibili, stante quindi il principio di tassatività delle impugnazioni, si ritiene che questo mezzo di impugnazione non sia operante (C.t.r. Bari n. 31/2008). BibliografiaBaglione, Menchini, Miccinesi, Il nuovo processo tributario, Commentario, Milano, 2004; Cantillo, Il processo tributario, Napoli, 2014; Cantillo, Un nodo da sciogliere: il potere di sospensione cautelare dell'efficacia delle sentenze dei giudici tributari, in Riv. trib. 1998; Chizzini, I rapporti tra codice di procedura civile e processo tributario, in Il processo tributario, in Giur. sist. dir. Trib. Tesauro, Torino, 1998; Colli Vignarelli, La sospensione delle sentenze delle commissioni tributarie provinciali, in Boll. trib. 1999; Consolo, D'Ascola, Giudicato tributario, in Enc. dir. Agg., V. 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