Decreto legislativo - 31/12/1992 - n. 546 art. 53 - Forma dell'appello 1 2 .

Francesca Picardi

Forma dell'appello12.

1. Il ricorso in appello contiene l'indicazione della corte di giustizia tributaria di primo e secondo grado a cui è diretto, dell'appellante e delle altre parti nei cui confronti è proposto, gli estremi della sentenza impugnata, l'esposizione sommaria dei fatti, l'oggetto della domanda ed i motivi specifici dell'impugnazione. Il ricorso in appello è inammissibile se manca o è assolutamente incerto uno degli elementi sopra indicati o se non è sottoscritto a norma dell'art. 18, comma 3.

2. Il ricorso in appello è proposto nelle forme di cui all'art. 20, commi 1 e 2, nei confronti di tutte le parti che hanno partecipato al giudizio di primo grado e deve essere depositato a norma dell'art. 22, commi 1, 2 e 3. [Ove il ricorso non sia notificato a mezzo di ufficiale giudiziario, l'appellante deve, a pena d'inammissibilità, depositare copia dell'appello presso l'ufficio di segreteria della corte di giustizia tributaria di primo e secondo grado che ha pronunciato la sentenza impugnata] 3.

3. Subito dopo il deposito del ricorso in appello, la segreteria della corte di giustizia tributaria di secondo grado chiede alla segreteria della commissione provinciale la trasmissione del fascicolo del processo, che deve contenere copia autentica della sentenza.

[1] Per l'abrogazione del presente articolo, a decorrere dal 1° gennaio 2026, vedi l'articolo 130, comma 1, lettera d), del D.Lgs. 14 novembre 2024, n. 175. Vedi, anche, l'articolo 130, comma 3, del D.Lgs. 175/2024 medesimo.

[2] Per le nuove disposizioni legislative in materia di giustizia tributaria, di cui al presente articolo, a decorrere dal 1° gennaio 2026, vedi l'articolo 107 del D.Lgs. 14 novembre 2024, n. 175.

Inquadramento

Come noto, i mezzi d'impugnazione possono consistere in gravami a critica libera, che non conoscono limitazioni quanto al novero dei motivi adducibili per censurare la pronuncia in contestazione, o a critica vincolata, detti anche azioni d'impugnativa, e, cioè, come rimedi che ammettono solo la deduzione di un prefissato numero di ragioni d'impugnazione. Di regola, l'oggetto del gravame a critica libera viene identificato nel rapporto sostanziale, rimesso al giudice di secondo grado affinché, ove necessario, emetta una statuizione sostituiva di quella impugnata; invece, con le azioni d'impugnativa sono denunciati i vizi di attività o giudizio della sentenza, sicché compito del giudice di grado superiore è quello di verificare la sussistenza delle censure dedotte ed eliminare, all'esito della fase cd. rescindente, la statuizione che ne sia realmente affetta, al fine di rinnovare il giudizio, dopo una seconda fase cd. rescissoria, che può essere affidata al giudice di primo o di secondo grado. Entrambi i modelli hanno subito una serie di adattamenti e spesso, nella loro effettiva configurazione, non si rinvengono in una forma pura, corrispondente allo schema astratto.

Nel processo tributario attuale, il legislatore delegato si è trovato a disciplinare il regime dell'appello nel rispetto della sola direttiva, contenuta nella legge delega 30 dicembre 1991, n. 413, sull'adeguamento al processo civile, sicché sono state fedelmente riprodotte alcune disposizioni del c.p.c., che invero si sarebbero già potute applicare in virtù della previsione generale di cui all'art. 1, comma 2, e se ne sono adattate altre, quali, gli artt. 345 353 e 354 c.p.c., il cui contenuto è confluito, con consistenti modifiche, negli artt. 58, sulle nuove prove in appello, e 59, sulla rimessione della causa al giudice di primo grado, del d.lgs. n. 546/1992. Le divergenze rispetto al modello processuale civile vengono giustificate sia per l'esigenza di ricerca della verità materiale dei fatti controversi, collegata alla rilevanza pubblicistica dei rapporti tributari e, dunque, più avvertita rispetto al giudizio civile, sia per l'esigenza di mediare il passaggio dal precedente sistema del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636, caratterizzato da due fasi di gravame, aperte all'ampliamento del materiale di cognizione, a quello nuovo, che contempla una sola fase di appello, rigidamente chiusa alle nuove allegazioni (per un'analisi approfondita si rinvia a Pistolesi, 39 ss.). L'appello tributario, come attualmente delineato, alla stregua di quello civile, appare, comunque, un gravame e critica libera, che tende a determinare un nuovo esame della causa di primo grado, sia pure nei limiti dell'atto introduttivo di secondo grado, a cui risulta limitato il suo effetto devolutivo (per una più ampia trattazione si rinvia a Mandrioli, 442 ss.).

Tale impugnazione ordinaria è estesa a tutte le sentenze, sia di rito sia di merito, delle commissioni tributarie provinciali. Per completezza va, però, ricordato che, ai sensi dell'art. 62, comma 2-bis, del d.lgs. n. 546/1992, introdotto dall'art. 9, comma 1, lett. z, del d.lgs. 24 settembre 2015, n. 156, opera oggi anche per il contenzioso tributario l'istituto del ricorso per cassazione per saltum per cui sull'accordo delle parti la sentenza della commissione tributaria provinciale può essere impugnata — invece che con l'appello — con il ricorso per cassazione ex art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. (valutano positivamente tale novità FormicaEugeni, 649, ad avviso dei quali «la complessità delle norme fiscali – frutto, spesso, di una genesi travagliata e, quindi, suscettibili di plurime interpretazioni – rende frequente l'ipotesi di contenziosi vertenti unicamente su questioni di diritto sostanziale, canditati tipici al ricorso omisso medio», atteso che «in tali casi .. le parti potrebbero preferire, a un dispendioso grado di merito intermedio, l'accesso immediato, e dunque più celere, alla parola finale della Suprema Corte»).

La giurisprudenza di legittimità configura l'appello tributario come un mezzo di gravame a critica libera con effetto devolutivo limitato al suo atto introduttivo, facendo derivare da ciò specifiche conseguenze anche in tema di corrispondenza tra chiesto e formazione del giudicato interno.

In proposito va ricordato che, secondo un orientamento consolidato, allorquando la sentenza impugnata sia fondata su due diverse rationes decidendi, idonee entrambe a giustificarne autonomamente le statuizioni e l'impugnazione sia rivolta soltanto contro una di esse, si determina una situazione nella quale il giudice deve prendere atto che la sentenza, in quanto fondata sulla ratio decidendi non censurata, è passata in cosa giudicata e desumere, pertanto, che l'impugnazione non è ammissibile per l'esistenza del giudicato interno (Cass. III, n. 14740/2005); al contrario, se l'impugnazione è rivolta avverso tutte le plurime rationes decidendi, la ritenuta infondatezza delle censure mosse ad una di esse rende inammissibili, per sopravvenuto difetto di interesse, le censure relative alle altre ragioni censurata, in quanto queste ultime non potrebbero comunque condurre, stante l'intervenuta definitività delle altre, alla cassazione della decisione stessa (Cass. III, n. 2108/2012). In applicazione di tali principi, Cass. V, n. 2277/2004 ha cassato senza rinvio la sentenza del giudice di appello che aveva accolto la domanda di rimborso di un tributo rigettata in primo grado sia per decadenza dal relativo diritto sia nel merito, in quanto il giudice di secondo grado non si era avveduto dell'inammissibilità del gravame per il giudicato interno formatosi, essendo l'impugnazione limitata solo al primo profilo delle ragioni di rigetto. In tale occasione si è precisato che affinché possa ritenersi che l'atto di appello investa nella sua totalità la sentenza impugnata, la quale abbia rigettato la domanda con una pluralità di autonome statuizioni, non è sufficiente la richiesta di riforma integrale della sentenza medesima o il generico richiamo alle domande ed eccezioni formulate in primo grado, qualora le censure svolte con i motivi siano limitate soltanto ad una od alcune di dette statuizioni, e, quindi, precludano di individuare un'inequivoca volontà di devolvere al giudice di secondo grado il riesame anche delle altre. In tale situazione, pertanto, ove la sentenza di secondo grado investa esplicitamente o implicitamente i capi non impugnati, si verifica una violazione del giudicato interno, rilevabile in sede di legittimità e implicante la cassazione senza rinvio della sentenza stessa relativamente ai suddetti capi. Nello stesso senso risulta orientata Cass. VI, n. 4259/2015, secondo cui è inammissibile l'appello avverso la sentenza che affermi l'incontestabilità del preavviso di fermo amministrativo non iscritto nel pubblico registro e l'insussistenza di vizi propri della comunicazione preventiva, qualora il gravame non contenga specifiche censure alla prima delle predette rationes decidendi, che è logicamente e giuridicamente pregiudiziale e di per sé sufficiente a giustificare la decisione.

Sul punto si registra un'inversione di tendenza rispetto al precedente sistema processuale in cui si è affermato che, atteso il carattere devolutivo del ricorso alla commissione tributaria di secondo grado, il giudice del gravame è investito, sia pure nell'ambito del capo di decisione oggetto di censura, del riesame di tutte le questioni da questo stesso capo implicate e, quindi, della rinnovazione del relativo giudizio, sicché, anche ove il ricorrente lamenti l'erroneità di una determinata statuizione con esclusivo riguardo ad uno degli argomenti svolti dal primo giudice, la mancata formulazione di critiche in ordine ad ulteriori argomenti, nonostante l'autonoma idoneità di questi ultimi a sorreggere detta statuizione, non implica inammissibilità del gravame, restando del tutto irrilevante, se concernente ragioni giuridiche, o essendo liberamente apprezzabile dal giudice, ai sensi dell'art. 116 c.p.c., se concernente ragioni di fatto (Cass. I, n. 5388/1991).

Va pure segnalato, che secondo Cass. V, n. 33580/2019 e Cass. II, n. 22954/2011, qualora la sentenza impugnata, nel definire il giudizio, abbia deciso esclusivamente una questione preliminare di rito, i motivi di appello, che hanno la finalità di denunciare gli errori di diritto o l'ingiustizia della decisione, non possono concernere anche il merito della domanda che non ha formato oggetto della pronuncia, essendo al riguardo sufficiente che l'appellante abbia riproposto, ai sensi dell'art. 346 c.p.c., la domanda non esaminata.

Recentemente, però, Cass. V, n. 1322/2018 ha affermato che la regola per cui le domande non esaminate perché ritenute assorbite, pur non potendo costituire oggetto di motivo d'appello, devono comunque essere riproposte ai sensi dell'art. 346 c.p.c., non trova applicazione in caso di impugnazione della decisione che ha giudicato inammissibile il ricorso di primo grado, la quale costituisce comunque manifestazione di volontà di proseguire nel giudizio, con implicita riproposizione della domanda principale, specialmente quando tale volontà sia anche chiaramente espressa con l'esplicito rinvio, nelle conclusioni dei motivi di appello, al ricorso introduttivo, non avendo altrimenti alcuna valida e concreta ragione la sola impugnativa della questione pregiudiziale di rito: in particolare, nella decisione in esame, si è ritenuto che, nel processo tributario, il rinvio al ricorso introduttivo contenuto nell'appello è sufficiente ad investire il giudice del gravame della domanda di annullamento dell'atto impositivo, senza che sia necessaria la riproposizione anche dei motivi di censura, essendo potere-dovere del giudice enucleare, nell'ambito del ricorso originario, il contenuto ancora attuale e quello assorbito dalla precedente dichiarazione di inammissibilità.

In effetti, quest'ultima pronuncia, pur enunciando un principio apparentemente difforme da quello espresso da Cass. V, n. 33580/2019 e Cass. II, n. 22954/2011, finisce piuttosto con il definire in modo attenuato il contenuto dell'onere di riproposizione ex art. 56 d.lgs. n. 546 del 1992 nell'ipotesi di impugnazione di sentenza di inammissibilità del ricorso.

Il contenuto dell'atto di appello e la specificità dei motivi d'impugnazione

L'art. 53, coma 1, del d.lgs. n. 546/1992 delimita il contenuto del ricorso introduttivo dell'appello tributario, da un lato, stabilendo che deve contenere l'indicazione della commissione tributaria a cui è diretto, dell'appellante e delle altre parti nei cui confronti è proposto, gli estremi della sentenza impugnata, l'esposizione sommaria dei fatti, l'oggetto della domanda ed i motivi specifici dell'impugnazione e, dall'altro, sanzionando con l'inammissibilità la mancanza o l'assoluta incertezza di uno di tali elementi.

Appare opportuno un confronto con l'art. 342 c.p.c., il quale, nella versione introdotta dal d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito in l. 7 agosto 2012, n. 134, recita che l'appello, da proporsi con citazione, deve contenere le indicazioni prescritte dall'art. 163 c.p.c. e deve, a pena d'inammissibilità, essere motivato con l'indicazione delle parti del provvedimento appellate, delle modifiche richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di primo grado, delle circostanze da cui deriva la violazione della legge e della loro rilevanza ai fini della decisione impugnata, mentre, nella versione precedente, imponeva in modo più generico l'esposizione sommaria dei fatti e di motivi specifici dell'impugnazione nonché le indicazioni prescritte nell'art. 163 c.p.c. (come osserva Rizzardi, 913, «nonostante le modifiche al d.lgs. n. 546/1992, recate dal d.lgs. n. 156/2015, adottato per effetto della legge delega del 2014, nessuno si è accorto della necessità di riallineare le due disposizioni. La norma del contenzioso tributario è infatti rimasta un mero «copia-incolla» della disposizione del codice di procedura, ma nella versione ora non più vigente. Segno evidente che se le stesse cose sono dette in due testi diversi, è fondato il rischio che uno dei due vada più avanti dell'altro e possa generare significativi errori operativi a causa del mancato allineamento). Invero, la formulazione dell'art. 53, comma 1, del d.lgs. n. 546/1992 non appare lontana da quella dell'art. 342 c.p.c. anteriore all'intervento legislativo del 2012.

Eppure la dottrina ha evidenziato la divergenza delle posizioni della giurisprudenza di legittimità relativamente al requisito della specificità dei motivi  di appello nel processo civile ed in quello tributario: difatti, mentre la Sezione tributaria tende ad escludere che possa costituire causa d'inammissibilità, di per sé, l'identità testuale dei motivi di appello rispetto a quelli enunciati nel ricorso introduttivo del primo grado, purché dal gravame emergano con chiarezza le questioni devolute al giudice di appello e i profili di contestazione delle statuizioni rese al riguardo dai primi giudici, per le altre Sezioni, alla stregua dell'insegnamento di Cass.  S.U., n. 16/2000, non è sufficiente che l'atto di appello consenta di individuare le statuizioni concretamente impugnate, ma è altresì necessario, anche quando la sentenza è stata appellata nella sua interezza, che il gravame contenga una parte argomentativa diretta, con sufficiente grado di specificità, a contrastare e a confutare le ragioni addotte dal primo giudice (su tale difformità di vedute all'interno della giurisprudenza di legittimità, v. Gianneschi, 2016, 3561).

Invero, l'individuazione del contenuto minimo, necessario a soddisfare il requisito di specificità, di cui all'art. 53 è intimamente connessa a quella della funzione dei motivi, che, secondo taluni, costituiscono un mero veicolo di accesso alla fase di appello, mentre, secondo altri, contribuiscono a delimitare le singole questioni su cui il giudice di appello è chiamato a pronunciarsi e più in generale l'oggetto del giudizio ed il petitum (per un esame approfondito del dibattito sul punto v. Pistolesi, 206 ss., ad avviso del quale il problema va risolto alla luce della non automaticità dell'effetto devolutivo dell'appello, desumibile anche dall'art 56, ossia della mera possibilità, rimessa all'attività effettivamente svolta dalle parti, che venga trasferita al giudice di secondo grado l'intera controversia esaminata in prima istanza. L'Autore osserva, 209-210, che «se la parte vittoriosa in primo grado è obbligata a riproporre in fase di appello ... i profili su cui il primo giudice non si è ... pronunciato ... significa che, a maggior ragione l'appellante deve, mediante l'indicazione di dettagliati motivi, richiamare l'attenzione del giudice del gravame sulle questioni che possono consentire la riforma della pronuncia impugnata. Pena, in difetto, un'incomprensibile ed inaccettabile disparità di trattamento fra le parti del processo di secondo grado»). A ciò si aggiunga che un mezzo di gravame non può, per la sua stessa natura, prescindere dalla portata rivestita dalla sentenza impugnata, per cui «tanto più è articolata la motivazione della pronuncia di primo grado e tanto più specifiche devono essere le censure addotte dall'appellante per contestarla», «mentre, se la decisione gravata è apodittica o addirittura ha omesso di affrontare una domanda avanzata nel giudizio di cui rappresenta l'epilogo, il grado di specificità dei motivi ne esce inevitabilmente ridimensionato (ancora Pistolesi 223, secondo cui «il mero richiamo alle difese spese nella prima fase di giudizio o la pedissequa riproposizione delle stesse può comportare la sostanziale elusione del dettato dell'art. 53, comma 1, ogniqualvolta non consenta, attraverso l'esposizione delle censure rivolte alla sentenza impugnata, l'individuazione delle questioni sulle quali il giudice di seconde cure è chiamato a pronunciarsi ....E questo, generalmente, è quel che accade perché il rinvio o ripetizione delle argomentazioni di primo grado, siccome non permettono di ravvisare alcun appunto al dictum di primo grado, possono mostrarsi inidonei ad evidenziare le ragioni che consentono l'accoglimento della domanda rivolta al giudice del gravame»).

La giurisprudenza di legittimità, anche prima della recente novella del 2012, ha interpretato in modo rigido il requisito della specificità dei motivi riguardo all'appello ordinario civile, non iudicium novum, ma revisio prioris instantiae, esigendo che alle argomentazioni svolte nella sentenza impugnata vengano contrapposte quelle dell'appellante, volte ad incrinare il fondamento logico giuridico delle prime, sicché quanto più approfondite e dettagliate risultano le argomentazioni del provvedimento censurato, tanto più puntuali devono profilarsi quelle utilizzate per confutare l'impianto motivazionale del giudice di prime cure (da ultimo, Cass. II, n. 4695/2017, che conferma Cass. S.U., n. 16/2000; v., tra le tante, anche Cass. I, n. 18932/2016, secondo cui, nell'atto di appello, che, fissando i limiti della controversia in sede di gravame, consuma il diritto potestativo di impugnazione, alla parte volitiva deve sempre accompagnarsi, a pena di inammissibilità del gravame, rilevabile d'ufficio e non sanabile per effetto dell'attività difensiva della controparte, una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice, per cui non è sufficiente l'individuazione delle statuizioni concretamente impugnate, ma è altresì necessario, pur quando la sentenza di primo grado sia censurata nella sua interezza, che le ragioni sulle quali si fonda il gravame siano esposte con sufficiente grado di specificità da correlare, peraltro, con la motivazione della sentenza impugnata).

Al contrario, relativamente al processo tributario è emerso un orientamento secondo cui la mera riproposizione in appello delle stesse argomentazioni poste a sostegno della domanda disattesa dal giudice di primo grado, in quanto ritenute giuste e idonee al conseguimento della pretesa fatta valere, è sufficiente ad assolvere l'onere di specificità dei motivi di impugnazione imposto dall'art. 53, ben potendo il dissenso della parte soccombente investire la decisione impugnata nella sua interezza (così, tra le tante, Cass. V, n. 16163/2016 e Cass. VI, n. 14908/2014).  Da ultimo, in questo senso si sono espresse Cass. V, n. 1030/2024e Cass.V, n. 32954/2018, secondo cui in tema di contenzioso tributario, la riproposizione in appello delle ragioni poste a fondamento dell'originaria impugnazione del provvedimento impositivo da parte del contribuente ovvero della legittimità dell'accertamento da parte dell'Amministrazione finanziaria, in contrapposizione alle argomentazioni adottate dal giudice di primo grado, assolve l'onere di impugnazione specifica imposto dall'art. 53 del d.lgs. n. 546 del 1992, quando il dissenso investa la decisione nella sua interezza e, comunque, ove dall'atto di gravame, interpretato nel suo complesso, siano ricavabili in modo inequivoco, seppur per implicito, i motivi di censura, e Cass. n.  n. 11676/2024. Questa posizione è stata espressa sia con riferimento all'appello proposto dal contribuente, sia a quello proposto dall'Amministrazione finanziaria, in considerazione del carattere devolutivo pieno, nel contenzioso tributario, dell'appello, che non è limitato al controllo di vizi specifici, ma rivolto ad ottenere il riesame della causa del merito (può rinviarsi con riguardo alla parte privata a Cass. VI, n. 1200/2016 e Cass.  VI n. 30525/2018 , secondo cui la riproposizione, a supporto dell'appello proposto dal contribuente, delle ragioni di impugnazione del provvedimento impositivo in contrapposizione alle argomentazioni adottate dal giudice di primo grado assolve l'onere di impugnazione specifica imposto dall'art. 53; con riguardo alla parte pubblica a Cass. VI, n. 2464/2018, Cass. V, n. 3064/2012, Cass. V, n. 4784/2011, Cass. V, n. 14031/2006, secondo cui ove l'Amministrazione finanziaria si limiti a ribadire e riproporre in appello le stesse ragioni e argomentazioni poste a sostegno della legittimità del proprio operato, come già dedotto in primo grado, in quanto considerate dalla stessa idonee a sostenere la legittimità dell'avviso di accertamento annullato, è da ritenersi assolto l'onere d'impugnazione specifica previsto dall'art. 53 secondo cui il ricorso in appello deve contenere «i motivi specifici dell'impugnazione» e non già «nuovi motivi», atteso il carattere devolutivo pieno dell'appello, che è un mezzo di impugnazione non limitato al controllo di vizi specifici della sentenza di primo grado, ma rivolto ad ottenere il riesame della causa nel merito; ; v. anche la recentissima Cass. VI-V n. 6302 del 2022, secondo cui, nel processo tributario, ove l'Amministrazione finanziaria si limiti a ribadire e riproporre in appello le stesse ragioni ed argomentazioni poste a sostegno della legittimità del proprio operato, come già dedotto in primo grado, in quanto considerate dalla stessa idonee a sostenere la legittimità dell'avviso di accertamento annullato, è da ritenersi assolto l'onere d'impugnazione specifica previsto dall'art. 53 del d.lgs. n. 546 del 1992  Addirittura in Cass. V, n. 11001/2016, si legge che la Corte di cassazione «non è legittimata a sostituirsi alla commissione tributaria regionale negli apprezzamenti di fatto circa la sussistenza del requisito di specificità dei motivi di appello» e che «poiché non è stato dedotto il vizio della motivazione ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 ma esclusivamente il vizio di violazione di legge, ... neppure è legittimata ad esaminare la tenuta logica o la sufficienza della motivazione con la quale il competente giudice di merito ha rilevato il difetto del requisito della specificità dei motivi di appello (il provvedimento è edito in Corr. trib., 2016, 3567, con nota critica di Gianneschi, È inammissibile l'appello che si limita a riprodurre i motivi del ricorso introduttivo?, che sottolinea che il vizio di motivazione tradizionalmente riconducibile all'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., concerne esclusivamente i fatti sostanziali rilevanti ai fini della decisione della controversia, mentre «l'erronea interpretazione od applicazione di norme di natura processuale ricade nell'ambito degli errori di diritto .. censurabili, in quanto comportanti nullità della sentenza o del procedimento, attraverso l'art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c.», sicché sarebbe inammissibile la deduzione di un vizio di motivazione della pronuncia di merito rispetto ad un presunto error in procedendo alla stessa imputato, dovendo la Suprema Corte, indipendentemente dalla giustificazione addotta dal giudice di merito, accertare l'esistenza dell'invalidità denunciata).

Tuttavia, non mancano posizioni più rigorose: ad esempio, recentemente Cass. VI, n. 1461/2017 ha confermato l'inammissibilità, per difetto di specificità dei motivi ex art. 53 dell'appello che si sia limitato a riproporre le stesse argomentazioni poste a sostegno della domanda disattesa dal giudice di primo grado, senza contenere alcuna parte argomentativa che, mediante censura espressa e motivata, miri a contestare l'iter logico-giuridico della sentenza impugnata. Parimenti Cass. V, n. 4558/2017, ha cassato senza rinvio la sentenza impugnata che aveva omesso di rilevare la mancanza in sede di appello di una qualsivoglia critica alla decisione di primo grado e conseguentemente dichiarare l'inammissibilità dell'appello, nonostante l'appellante si fosse limitato a riprodurre testualmente le deduzioni difensive iniziali, senza prendere minimamente in considerazione il contenuto della sentenza di primo grado, precisando che, in tema di contenzioso tributario, il carattere devolutivo pieno dell'appello non esclude che le deduzioni dell'appellante debbano essere svolte in contrapposizione alle argomentazioni del giudice di primo grado, di cui la parte non può disinteressarsi. Del resto, in questo senso risultava orientata la giurisprudenza meno recente. Ad esempio, ad avviso di Cass. V, n. 12589/2004, l'indicazione di specifici motivi d'impugnazione costituisce un requisito essenziale dell'atto di appello exart. 53, posto che la relativa funzione è proprio quella di indicare esattamente i limiti della devoluzione, così consentendo non solo di individuare le questioni costituenti l'oggetto e l'ambito del riesame, richiesti al giudice di secondo grado ma, altresì, di evidenziare gli errori commessi dal primo giudice e la relativa connessione causale con il provvedimento impugnato e, quindi, identificare le concrete ragioni per cui se ne invoca la riforma.

Ad ogni modo, sicuramente dall'analisi della giurisprudenza di legittimità si evince la tendenza ad evitare le pronunce in rito fondate su rigidi criteri formali: orientamento che risulta, peraltro, in linea con le indicazioni che provengono dalla Corte europea dei diritti dell'Uomo (v. Corte Edu, I, 28 ottobre 2021, r.g. n. 55064/2011, secondo cui il diritto di accesso a un tribunale, garantito dall'art. 6 comma 1 Cedu, deve essere concreto ed effettivo e non teorico e illusorio, per cui le norme che limitano l'accesso a un tribunale e le procedure che disciplinano l'esercizio del potere di impugnazione devono essere chiare e prevedibili per il ricorrente, ed anche, proporzionate dal punto di vista delle conseguenze che derivano dalle violazioni di norme processuali – in applicazione di tale principio, la Corte europea ha ritenuto eccessivamente formalistici i criteri di redazione del ricorso in cassazione in violazione dell'art. 6 comma 1 Cedu, riconoscendo anche il risarcimento del danno morale).

Così, ad esempio, come chiarito da da Cass. V, n. 30341/2019  e Cass., V, n. 1224/2007, l'indicazione dei motivi specifici dell'impugnazione, prescritta dall'art. 53, non deve necessariamente consistere in una rigorosa e formalistica enunciazione delle ragioni invocate a sostegno dell'appello, richiedendosi, invece, soltanto una esposizione chiara ed univoca, anche se sommaria, sia della domanda rivolta al giudice del gravame, sia delle ragioni della doglianza, sicché è irrilevante che i motivi siano enunciati nella parte espositiva dell'atto ovvero separatamente, atteso che, non essendo imposti dalla norma rigidi formalismi, gli elementi idonei a rendere «specifici» i motivi d'appello possono essere ricavati, anche per implicito, purché in maniera univoca, dall'intero atto di impugnazione considerato nel suo complesso, comprese le premesse in fatto, la parte espositiva e le conclusioni.

Ad avviso di Cass. VI, n. 20379/2017 e Cass. V, n. 15519/2020 la mancanza o l'assoluta incertezza dei motivi specifici dell'impugnazione, le quali, ai sensi dell'art. 53, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992, determinano l'inammissibilità del ricorso in appello, non sono ravvisabili qualora il gravame, benché formulato in modo sintetico, contenga una motivazione interpretabile in modo inequivoco, potendo gli elementi di specificità dei motivi essere ricavati, anche per implicito, dall'intero atto di impugnazione considerato nel suo complesso, comprese le premesse in fatto, la parte espositiva e le conclusioni (Cass. V, n. 15519/2020, nel cassare la pronuncia della CTR che aveva ritenuto non identificabile la sentenza impugnata, sul rilievo che nel motivo di gravame fosse stata indicata una cartella di pagamento riferita ad altro giudizio, pur desumendosi dallo stralcio dell'impugnazione – in particolare dalla parte in fatto e dalla motivazione della stessa pronuncia di appello - quale fosse la sentenza in questione, ha precisato che l'art. 53 va interpretato restrittivamente, in conformità all'art. 14 disp. prel. c.c., in quanto si tratta di disposizione eccezionale che limita l'accesso alla giustizia, mentre, invece, deve consentirsi, ogni qual volta nell'atto sia comunque espressa la volontà di contestare la decisione di primo grado, l'effettività del sindacato sul merito dell'impugnazione)

Questo stesso approccio caratterizza anche le posizioni assunte relativamente agli altri elementi contenutistici richiesti dall'art. 53. Difatti, si ritiene che l'erronea indicazione, nel ricorso in appello, degli estremi della sentenza impugnata non comporti l'inammissibilità dell'impugnazione allorché sia possibile, attraverso l'esame del contenuto del ricorso, individuare con certezza il provvedimento oggetto dell'impugnazione (da ultimo, Cass. VI, n. 20324/2014, ma già Cass. V, n. 6084/2001). Parimenti si è precisato che i requisiti di cui all'art. 53 del d.lgs. n. 546 del 1992 sono soddisfatti e l'appello è ammissibile anche qualora, pur essendo stata erroneamente indicata l'operazione assoggettata a imposizione, la sentenza impugnata sia correttamente individuata e i motivi di gravame siano congruenti.

In ordine alla corretta individuazione del destinatario dell'appello, si è recentemente precisato che l'appello proposto nei confronti di un soggetto deceduto nella pendenza del termine di impugnazione, mediante atto notificato presso il procuratore domiciliatario del de cuius, anziché nei confronti dei suoi eredi, non è affetto da nullità della notifica, bensì da errata identificazione del soggetto destinatario della vocatio in ius, stante il principio di cui all'art. 328 c.p.c., dovendo trovare applicazione anche nel processo tributario, in assenza di specifica regolamentazione, la disciplina di cui all'art. 164, commi 1 e 2, c.p.c. (Sez. VI - 5, n. 35884 del 6/12/2022).

L'appello cumulativo e collettivo

Il problema dell'ammissibilità, nel contenzioso tributario, della proposizione di un unico appello avverso più sentenze pronunciate tra le stesse parti (appello cumulativo) o della proposizione unitaria di più appelli, da parte di soggetti diversi, avverso sentenze che involgano la soluzione delle medesime questioni (appello collettivo) è collegato a quello più generale del litisconsorzio facoltativo originario, che si pone anche riguardo al primo grado e, cioè, all'impugnazione di più atti impositivi, riguardanti, ad esempio, la stessa imposta, ma diverse annualità o contribuenti diversi. Il d.lgs. n. 546 del 1992 detta una disciplina specifica, all'art. 14, solo per il litisconsorzio necessario e per l'intervento, volontario o per chiamata, dei soggetti che siano destinatari, insieme al ricorrente, dell'atto impugnato o comunque parti del rapporto tributario controverso, ma prevede, altresì, all'art. 29, la possibilità per il presidente della sezione o della commissione di disporre la riunione dei procedimenti nel caso in cui questi abbiano lo stesso oggetto o siano comunque fra loro connessi. Nella lettura pressoché unanime della dottrina, la riunione dei procedimenti ex art. 29 del d.lgs. n. 546 del 1992 è ritenuta possibile anche nelle ipotesi di connessione c.d. impropria, sicché proprio tale disposizione costituisce l'argomento sistematico addotto a sostegno dell'applicabilità al giudizio tributario dell'art. 103 c.p.c. nella sua intera estensione, anche in sede di appello, atteso che non si comprende per quale ragione si dovrebbe negare la possibilità di un litisconsorzio facoltativo improprio fin dall'origine, risultando troppo labile e formale l'obiezione fondata sul tenore letterale dell'art. 53 del d.lgs. n. 546/1992, che si riferisce alla sentenza impugnata, usando il singolare (così Mistrangelo, 1082 ss.). Si è, difatti, osservato che non sembra sussistere, nel nostro sistema giudiziale, un monopolio giurisdizionale nel determinare l'unitarietà del rapporto processuale nella sua dimensione contenziosa, per cui nulla impedisce che lo stesso effetto pratico della riunione possa essere raggiunto, in via anticipata, per iniziativa della parte, tanto in primo grado quanto in sede di impugnazione (Spaccapelo, 1127). Né si può sposare la soluzione contraria in nome della ragionevole durata del processo, in quanto, ai sensi dell'art. 103, comma 2,c.p.c., applicabile anche all'appello tributario in virtù del combinato disposto degli artt. 1, comma 2, e 61 che rispettivamente rinviano, nei limiti della compatibilità, alle norme del c.p.c. e alle norme del procedimento di primo grado, si può sempre disporre la separazione delle cause se vi è istanza di tutte le parti o se la loro riunione ritarda o rende più gravoso il processo. A ciò si aggiunga che, in linea di principio, la trattazione congiunta dei giudizi non può essere considerata negativamente, essendo funzionale ad esigenze di economia processuale ed evitando la formazione di giudicati contraddittori tra di loro.

Tuttavia, come suggerito dalla dottrina, «fino a quando non si avrà, dunque, un orientamento giurisprudenziale consolidato, o meglio ancora un intervento risolutore del legislatore, nei casi in cui non vi sia identità delle parti conviene presentare appelli separati, confidando nell'accoglimento da parte del presidente dell'istanza di riunione eventualmente presentata» al fine di «mettersi al riparo da dichiarazioni di inammissibilità che, purtroppo, potrebbero ancora colpire i ricorsi e gli appelli collettivi» (Mistrangelo, 1102).

In giurisprudenza è ormai pacifica, dopo la pronuncia di Cass.  S.U., n. 3692/2009, l'ammissibilità in materia tributaria — fermi restando gli eventuali obblighi tributari del ricorrente, in relazione al numero dei provvedimenti impugnati — del ricorso cumulativo avverso più sentenze emesse tra le stesse parti, sulla base della medesima ratio, in procedimenti formalmente distinti ma attinenti al medesimo rapporto giuridico d'imposta, pur se riferiti a diverse annualità, ove i medesimi dipendano per intero dalla soluzione di una identica questione di diritto comune a tutte le cause, in ipotesi suscettibile di dar vita ad un giudicato rilevabile d'ufficio in tutte le cause relative al medesimo rapporto d'imposta. Ciò accade, ad esempio, ove i motivi di impugnativa siano comuni, in tutti i loro elementi, a tutte le sentenze impugnate, difettando, in caso contrario, il presupposto costituito dalla possibilità della formazione del giudicato rilevabile d'ufficio nel caso di decisione separata di una delle cause (così Cass. V, n. 11186/2010; v. anche Cass. V, n. 8075/2013, che ha ritenuto ammissibile l'unico appello avverso più sentenze emesse dalla commissione tributaria provinciale, tenuto conto della sovrapponibilità delle questioni dedotte per le diverse annualità d'imposta e dell'affermata illegittimità del ricorso all'accertamento induttivo per l'assenza del relativo identico presupposto). 

In ordine alla corretta individuazione del destinatario dell'appello, si è recentemente precisato che l'appello proposto nei confronti di un soggetto deceduto nella pendenza del termine di impugnazione, mediante atto notificato presso il procuratore domiciliatario del de cuius, anziché nei confronti dei suoi eredi, non è affetto da nullità della notifica, bensì da errata identificazione del soggetto destinatario della vocatio in ius, stante il principio di cui all'art. 328 c.p.c., dovendo trovare applicazione anche nel processo tributario, in assenza di specifica regolamentazione, la disciplina di cui all'art. 164, commi 1 e 2, c.p.c. (Sez. VI - 5, n. 35884 del 6/12/2022).

Di recente, Cass. V, n. 22657/2014 ha ammesso in sede di contenzioso tributario anche l'impugnazione collettiva e cumulativa (proposta da più soggetti ed avverso diverse sentenze), ove esistano elementi di consistente connessione, che, benché solo oggettiva, riflettano lo stretto collegamento esistente tra le pretese impositive, trovando applicazione anche in appello la disciplina del litisconsorzio facoltativo, in virtù del combinato disposto degli artt. 103 e 359 c.p.c., richiamati dagli artt. 1, comma 2, e 49 del d.lgs. n. 546/1992. Va, però, segnalato che quest'apertura risulta ridimensionata dalla successiva e recentissima Cass. V, n. 4595/2017, che ha ritenuto inammissibile il ricorso per cassazione cumulativo avverso più sentenze emesse nei confronti di parti diverse, la prima nei confronti di Equitalia Centro S.p.A., relativa al provvedimento di iscrizione di ipoteca, e la seconda nei confronti dell'Agenzia delle entrate, avente ad oggetto il provvedimento di diniego della definizione dei carichi di ruolo, precisando che «il ricorso cumulativo ..è ammissibile solo ove i diversi procedimenti non solo si svolgano tra le stesse parti ed attengano al medesimo rapporto giuridico di imposta ... ma soprattutto dipendano per intero dalla soluzione di una identica questione di diritto comune a tutte le cause ed in ipotesi suscettibile di dare vita ad un giudicato rilevabile d'ufficio in tutte le cause relative al medesimo rapporto di imposta».

La notifica dell'atto di appello

Nel contenzioso tributario, relativamente alla notifica dell'atto introduttivo del giudizio di appello, molto dibattuta è l'applicabilità dell'art. 330, comma 1, c.p.c., ai sensi del quale se nell'atto di notificazione della sentenza la parte ha dichiarato la sua residenza o eletto domicilio nella circoscrizione del giudice che l'ha pronunciata, l'impugnazione deve essere notificata nel luogo indicato; altrimenti si notifica ai sensi dell'art. 170 presso il procuratore costituito o nella residenza dichiarata o nel domicilio eletto per il giudizio. Il dubbio nasce in conseguenza del rinvio, da un lato, dell'art. 49 del d.lgs. n. 546/1992 alle disposizioni del libro II, titolo III, capo I del c.p.c., in cui è collocato appunto l'art. 330 c.p.c., e, dall'altro, dell'art. 61 alle norme dettate per i procedimenti di primo grado, tra cui l'art. 22 che, a sua volta, richiama gli artt. 16 e 17 sulle notifiche, considerati, peraltro, già di per sé applicabili in secondo grado quali disposizioni generali del contenzioso tributario. Invero l'art. 49 d.lgs. n. 546/1992, nel rinviare alla disciplina generale del c.p.c. sulle impugnazioni, fa salvo quanto disposto nello stesso d.lgs. e, pertanto, fa salvo il regime speciale delle notifiche del regime tributario. Si è, dunque, sostenuto che l'assenza di una norma specifica per la notifica delle impugnazioni nel processo tributario non può essere considerata una lacuna, trovando applicazione altre disposizioni dello stesso rito, sicché, in presenza di una disciplina ad hoc desumibile dallo stesso d.lgs. n. 546/1992, non vi è spazio per l'operatività del rinvio di cui all'art. 49 del d.lgs. n. 546/1992 (così Augello, 1331). Anzi più in generale si è esclusa l'applicabilità nel processo tributario degli artt. 170,285, e 330 c.p.c. «per la semplice ragione che in questo processo è prevista un'apposita disciplina delle comunicazioni e notificazioni degli atti processuali, tra i quali si collocano le sentenze e le impugnazioni, diversamente basata su domicili eletti o residenze dichiarate e altre residuali localizzazioni, ... completa e alternativa rispetto a quanto previsto dal codice di procedura civile e, quindi, assorbentemente operante ed esclusiva di ogni altra normativa, ai sensi dell'art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 546/1992 e del noto principio per cui la legge speciale prevale su quella generale» (cfr. Glendi, 2959, che argomenta anche dalla modifica, apportata nel 2010, all'art. 38 del d.lgs. n. 546/1992, avente ad oggetto la notifica della sentenza, per la quale si rinvia non più agli art. 137 ss. c.p.c., ma appunto all'art. 16 del d.lgs. n. 546/1992).

Cass. V, n. 871 del 2022 ha chiarito che la notificazione dell'appello tramite il messo di cui all'art. 16, comma 4, del d.lgs. n. 546 del 1992, equivale a quella effettuata a mezzo di ufficiale giudiziario, di talché egli è onerato, exart. 123, comma 1, disp. att. c.p.c., di dare immediato avviso scritto dell'avvenuta notifica al cancelliere del giudice che ha reso la sentenza impugnata; onere il cui inadempimento non è sanzionato con l'inammissibilità del gravame, essendo tale attività del tutto fuori dalle possibilità di verifica attiva e sostitutiva della parte appellante. Secondo Cass.  S.U., n. 29290/2008, l'art. 330 c.p.c., nella parte in cui dispone l'eseguibilità della notifica dell'impugnazione presso il procuratore costituito, è applicabile al processo tributario in quanto la specifica previsione normativa in tema di notificazioni contenuta nell'art. 17 del d.lgs. n. 546/1992, secondo la quale la notifica deve eseguirsi, salvo quella a mani proprie, nel domicilio eletto o, in mancanza, nella residenza o nella sede dichiarata dalla parte all'atto della costituzione in giudizio, costituisce eccezione all'art. 170 c.p.c. relativo alle sole notificazioni endoprocessuali e non all'art. 330 c.p.c., invece applicabile in virtù del richiamo contenuto negli artt. 1, comma 2 e 49 del d.lgs n. 546/1992 alle norme processuali codicistiche, non costituendo ostacolo, all'introduzione della notifica dell'impugnazione presso il procuratore costituito, la non obbligatorietà, nel processo tributario, della rappresentanza processuale da parte del procuratore ad litem, in quanto tale rappresentanza, non essendo vietata, è facoltativa. Nella stessa pronuncia le Sezioni Unite hanno affermato che la notificazione dell'atto d'impugnazione eseguita presso il procuratore costituito per più parti, mediante consegna di una sola copia, è valida ed efficace sia nel processo ordinario che in quello tributario, in virtù della generale applicazione del principio costituzionale della ragionevole durata del processo, alla luce del quale deve ritenersi che non solo in ordine alle notificazioni endoprocessuali, regolate dall'art. 170 c.p.c., ma anche per quelle disciplinate dall'art. 330 primo comma, c.p.c., il procuratore costituito non è un mero consegnatario dell'atto di impugnazione ma ne è il destinatario, analogamente a quanto si verifica in ordine alla notificazione della sentenza a fini della decorrenza del termine d'impugnazione ex art. 285 c.p.c., in quanto investito dell'inderogabile obbligo di fornire, anche in virtù dello sviluppo degli strumenti tecnici di riproduzione degli atti, ai propri rappresentati tutte le informazioni relative allo svolgimento e all'esito del processo.

Recentemente, però, Cass.  S.U., n. 14916/2016, ha chiarito che quanto all'individuazione del luogo in cui va effettuata la notificazione delle impugnazioni delle sentenze delle commissioni tributarie, «occorre tenere distinta la disciplina dettata dall'art. 17 del d.lgs. n. 546/1992 per il processo tributario, cioè per quello che si svolge dinanzi alle commissioni tributarie, da quella prevista dal codice di rito ordinario in tema di ricorso per cassazione», non esistendo ragioni normative che impongano di affermare che l'art. 17 cit. si riferisce esclusivamente alle notificazioni endoprocessuali, laddove, anzi, proprio la previsione di cui al comma 2, secondo cui l'indicazione della residenza o della sede e l'elezione del domicilio hanno effetto anche per i successivi gradi del processo, nonché esigenze di coerenza sistematica, inducono alla conclusione che la norma è applicabile, con carattere di specialità e quindi di prevalenza, anche alla notificazione del ricorso in appello. Nella pronuncia si è, invece, precisato che alla notificazione del ricorso per cassazione si applica, in virtù dell'art. 62 del d.lgs. n. 546/1992, la disciplina di cui all'art. 330 c.p.c., salva la previsione di ultrattività dell'indicazione della residenza o della sede e dell'elezione di domicilio, che si riflette sull'individuazione del luogo di notificazione del ricorso per cassazione, per cui, in deroga alla regola ordinaria, il ricorso è validamente notificato, ai sensi dell'art. 330, comma 1, seconda ipotesi, c.p.c., anche nel caso in cui il soggetto destinatario della notificazione non si sia costituito nel giudizio di appello oppure, pur costituitosi, non abbia effettuato alcuna indicazione.

Del resto già Cass. V, n. 9381/2007 e Cass. V, n. 10474/2003 avevano ritenuto che l'art. 49 del d.lgs. n. 546/1992, richiamando solo alcune disposizioni del codice di procedura civile, rende applicabile l'art. 16 dello stesso d.lgs. n. 546, che, a sua volta, rinviando al successivo art. 17 del d.lgs. n. 546/1992 detta una disciplina speciale, in virtù della quale è sempre consentita la consegna a mani proprie, come tale intendendosi tutte le forme di notifica, ivi compresa quella a mezzo del servizio postale, a seguito delle quali l'atto venga comunque consegnato a mani proprie del destinatario, per cui, difformemente da quanto previsto dall'art. 330, comma 1, c.p.c., in sede di contenzioso tributario, facendo l'art. 17 del d.lgs. n. 546/1992 sempre salva la «consegna in mani proprie», è valida, anche in presenza di un'elezione di domicilio, la notifica dell'appello eseguita in tal modo (Cass. V-VI, n. 1528/2017). Più recentemente Cass. V, n. 4233/2017, proprio in applicazione di Cass. S.U., n. 14916/2016, ha addirittura affermato che alla notifica dell'appello tributario si applica l'art. 17 del d.lgs. n. 546/1992, avente carattere di specialità rispetto all'art. 330 c.p.c., per cui la stessa va effettuata, in assenza di elezione di domicilio, nella residenza dichiarata dal contribuente ed è nulla (anche se non inesistente) se eseguita presso il procuratore costituito in primo grado ma non domiciliatario. Tale nullità, ove non sanata dalla costituzione del convenuto e rilevata solo in sede di legittimità, comporta la cassazione della sentenza con rinvio ad altro giudice di pari grado, dinanzi al quale, essendo ormai l'impugnazione pervenuta a conoscenza dell'appellato, è sufficiente la riassunzione della causa nelle forme di cui all'art. 392 c.p.c.

Al contrario, in passato, è stato dichiarato inammissibile l' appello la cui notifica era stata eseguita ai sensi dell'art. 17, comma 3, del d.lgs. n. 546/1992 anziché secondo quanto previsto dall'art. 330 c.p.c., in quanto il mero deposito dell'atto presso la segreteria del giudice ove deve essere effettuata l'impugnazione non integra il requisito del «concreto collegamento con il destinatario della notifica», trattandosi di luogo presso il quale il giudizio non è stato ancora instaurato, sicché non è possibile la sanatoria o la rinnovazione ai sensi degli artt. 291 e 350 c.p.c. (così Cass. n. 11252/2015, con nota di Cancedda, Al difensore irreperibile, notifica in segreteria soltanto per gli atti endoprocessuali, in Fisco, 2015, 2770). Invero, tale precedente si riferisce, però, ad una fattispecie in cui l'Agenzia delle entrate ha eseguito la notifica dell'appello presso la segreteria della commissione, ritenendo sussistere l'assenza della dichiarazione di domicilio o residenza da parte del contribuente all'esito della mancata comunicazione, da parte del difensore di quest'ultimo, del trasferimento dello studio. In tale ipotesi la medesima conclusione appare giustificata dall'orientamento che appare prevalente, secondo cui nel processo tributario, l'onere di notificare alle controparti costituite le variazioni del domicilio eletto o della residenza o della sede è previsto dall'art. 17, comma 1, del d.lgs. n. 546/1992 per il domicilio autonomamente eletto dalla parte, mentre l'elezione di domicilio operata presso lo studio del procuratore ha la mera funzione d'indicare la sede dello studio di quest'ultimo, sicché il difensore domiciliatario non ha, a sua volta, l'onere di comunicare il cambiamento d'indirizzo del proprio studio, spettando, invece, al notificante effettuare apposite ricerche per individuare il nuovo luogo di notificazione, ove quello a sua conoscenza sia mutato, salva la legittimità della notifica o comunicazione dell'atto presso la segreteria della commissione tributaria ai sensi del medesimo art. 17, comma 3, in caso di esito negativo di tali indagini (v., da ultimo, Cass. VI,, n. 13238/2016  nello stesso senso si è espressa anche la recentissima Cass. V, n. 29507/2020, secondo cui, nel contenzioso tributario, l'elezione di domicilio presso il professionista che assiste il contribuente ha la mera funzione di individuare la sede dello studio, sicché è onere del notificante accertare, a prescindere dalla comunicazione del mutamento di indirizzo da parte del difensore, quale ne sia l'effettiva ubicazione, anche mediante riscontro delle risultanze dell'albo di iscrizione; pertanto è valida la notifica - nella specie di atto di appello andata a buon fine - effettuata presso lo studio, pur situato in indirizzo diverso da quello originariamente indicato ed eletto).

Ad ogni modo, alla luce del nuovo arresto delle Sezioni Unite del 2016, l'Agenzia delle Entrate dovrà probabilmente rivedere, la posizione assunta nella circolare 17/E del 31 marzo 2010, in cui si era concluso per l'applicabilità nel processo tributario dell'art. 330 c.p.c., pur invitando gli uffici, nei casi dubbi, a valutare l'opportunità di notificare l'impugnazione anche ai sensi dell'art. 17 del d.lgs. n. 546 del 1992 ossia anche presso il domicilio eletto dalla parte.

Occorre, inoltre, segnalare che nel processo tributario, la notificazione dell'appello, in forza del rinvio operato dall'art. 20 al precedente art. 16, comma 3, può essere effettuata all'ufficio del Ministero delle finanze ed all'ente locale mediante consegna all'impiegato addetto che ne rilascia ricevuta sulla copia: in tale ipotesi, tuttavia, la notifica è inesistente se, sulla copia dell'atto depositato, manchi la sottoscrizione di un qualsivoglia impiegato dell'ufficio destinatario, non essendo sufficiente, per considerare completate le modalità della notifica, un qualunque altro documento, diverso ed estraneo alla copia del ricorso, dal quale risulterebbero le circostanze della consegna dell'atto (così Cass. V, n. 2816/2012). Già in passato Cass. V, n. 22576/2005 e Cass., n. 8982/2002 hanno precisato che l'art. 16, comma 3, prevede che l'impiegato addetto rilasci ricevuta sulla copia notificata, la quale non può non avere la forma e il contenuto di una dichiarazione, sottoscritta dall'impiegato, con cui il medesimo attesti l'avvenuta consegna, non essendo, invece, sufficiente un semplice timbro, atteso che, in assenza di sottoscrizione, il timbro potrebbe essere stato apposto da un soggetto diverso dall'impiegato addetto, che non è in alcun modo identificabile.

Infine,  la notifica del ricorso in appello può essere effettuata - giusta l'espressa facoltà riconosciuta dall'art. 16, comma 3, del d.lgs. n. 546 del 1992 - direttamente a mezzo del servizio postale, mediante spedizione dell'atto in plico senza busta, raccomandato con avviso di ricevimento. In tale eventualità, gli artt. 3 e 4 della l. n. 890 del 1982 prescrivono le formalità che l'ufficiale giudiziario (o il messo autorizzato dall'Amministrazione finanziaria, ai sensi del comma quarto dell'art. 16 cit.) deve compiere per la spedizione dell'atto (v., da ultimo Cass. V, n. 20789 del 2021, che ha precisato che, allorchè, a seguito del mancato rispetto di tali formalità, la Corte di cassazione sia investita - attraverso ricorso ad essa presentato - della inesistenza della notifica e delle conseguenti nullità dell'atto introduttivo del giudizio di appello, nonché della sentenza emessa all'esito del medesimo, quest'ultima deve essere annullata senza rinvio, ai sensi del combinato disposto degli artt. 62, comma 2, del d.lgs. n. 546 cit., e 382, comma 3, c.p.c., e ciò in quanto il processo non avrebbe potuto essere proseguito in grado di appello ed i giudici avrebbero dovuto dichiarare inammissibile il gravame, ai sensi dell'art. 53, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992.  Invece la spedizione del ricorso o dell'atto d'appello a mezzo posta in busta chiusa, pur se priva di qualsiasi indicazione relativa all'atto in esso racchiuso, anziché in plico senza busta come previsto dall'art. 20, costituisce una mera irregolarità se il contenuto della busta e la riferibilità alla parte non siano contestati, essendo, altrimenti, onere del ricorrente o dell'appellante dare la prova dell'infondatezza della contestazione formulata (Cass. V, n. 15309/2014, e Cass. V, n. 19864/2016 e  Cass. V, n. 3234/2020).  È stato pure ritenuto che qualora l'atto di appello sia stato notificato in una copia mancante di una o più pagine, non va dichiarata automaticamente l'inammissibilità dell'impugnazione, in virtù della disposizione dell'art. 22, comma 3, (esplicitamente richiamata, quanto all'appello, dal comma 2 dell'art. 53 del medesimo d.lgs.), in quanto tale ipotesi integra una mera incompletezza materiale e non quella sostanziale difformità di contenuto sanzionata con l'inammissibilità, pur dovendo il giudice accertare, in concreto, se la suddetta mancanza abbia effettivamente impedito al destinatario della notifica la completa comprensione dell'atto e, quindi, leso il suo diritto di difesa, con la conseguenza che non può dichiararsi l'inammissibilità se le pagine omesse risultino irrilevanti al fine di comprendere il tenore dell'impugnazione, ovvero quando l'atto di costituzione dell'appellato contenga, comunque, una puntuale replica ai motivi di gravame contenuti nell'atto notificato (Cass., V, n. 8138/2011).

Cass. V, n. 11271/2022 , pur premettendo che, in tema di contenzioso tributario, l'art. 22, comma 3, del d.lgs. n. 546 del 1992 (richiamato, per il giudizio d'appello, dal successivo art. 53), va interpretato nel senso che costituisce causa di inammissibilità del ricorso o dell'appello non la mancanza di attestazione, da parte del ricorrente, della conformità tra l'atto depositato e quello notificato, ma solo la loro effettiva difformità, accertabile d'ufficio in caso di omissione dell'attestazione, ha, però, ritenuto che, se la controparte è rimasta contumace, la mancata attestazione della conformità costituisce, di per sé, causa di inammissibilità, non essendo questa onerata dell'accesso presso la segreteria della commissione tributaria per verificare l'eventuale difformità tra l'atto a lei notificato e quello depositato, trattandosi di attività difensiva che presuppone, comunque, già sorto un interesse concreto a contraddire.

Cass. VI, n. 4151/2020   e Cass. V, n. 22878/2017 hanno ritenuto che, nel giudizio tributario, la prova del perfezionamento della notifica a mezzo posta dell'atto d'appello per il notificante nel termine di cui all'art. 327 c.p.c., è validamente fornita dall'elenco di trasmissione delle raccomandate recante il timbro datario delle Poste, non potendosi attribuire all'apposizione di quest'ultimo su detta distinta cumulativa altro significato se non quello di attestarne la consegna all'ufficio postale: si è, cioè, affermata la piena equiparabilità, ai fini della prova della regolarità della notifica delle impugnazioni, della produzione, in luogo delle singole ricevute di spedizione delle raccomandate, di una distinta di spedizione degli appelli, recante gli estremi delle stesse, valendo l'indicazione in essa di destinatario, data e spese ad attribuire al timbro postale il significato di attestazione della consegna, pur in assenza di dicitura di avvenuta ricezione.

Si è anche chiarito che  non costituisce motivo d'inammissibilità del ricorso (o dell'appello), che sia stato notificato direttamente a mezzo del servizio postale universale, il fatto che il ricorrente (o l'appellante), al momento della costituzione entro il termine di trenta giorni dalla ricezione (e non dalla data di spedizione) della raccomandata da parte del destinatario, depositi l'avviso di ricevimento del plico e non la ricevuta di spedizione, purché nell'avviso di ricevimento medesimo la data di spedizione sia asseverata dall'ufficio postale con stampigliatura meccanografica ovvero con proprio timbro datario. (Nella specie, Sez. V, n. 24726/2022 ha cassato la decisione della corte territoriale di inammissibilità dell'appello in ragione del mancato deposito della ricevuta di spedizione della raccomandata a mezzo del servizio postale e del computo errato del termine di trenta giorni dalla data di spedizione invece che da quella di ricezione).

Come precisato da Cass. V, n. 24901/2023, il conferimento di un'azienda individuale in una società di capitali integra una cessione d'azienda e, ove avvenga nel corso del giudizio, configura un'ipotesi di successione a titolo particolare nel diritto controverso, ex art. 111 c.p.c., sicché il conferente conserva la legittimazione processuale, quale sostituto del cessionario, anche per il ricevimento della notificazione degli atti processuali, poiché il processo prosegue tra le parti originarie, senza che l'intervento del successore determini, in mancanza dell'esplicito concorde consenso di tutte le parti e del relativo provvedimento giudiziale, l'estromissione del dante causa: la Corte ha, quindi, affermato la validità della notificazione dell'atto di appello effettuata nei confronti della parte originaria che, dopo la sentenza di primo grado, aveva conferito la propria azienda individuale in una società di capitali.

La costituzione dell'appellante

L'art. 53, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992 prevede che il ricorso in appello deve essere depositato a norma dell'art. 22, commi 1, 2 e 3. Le disposizioni de quibus, nella versione introdotta dal d.l. 13 agosto 2011, n. 138, conv. con modificazioni in l. 14 settembre 2011, n. 148, stabiliscono che il ricorrente, entro trenta giorni dalla proposizione del ricorso, a pena d'inammissibilità deposita, nella segreteria della commissione tributaria adita, o trasmette a mezzo posta, in plico raccomandato senza busta con avviso di ricevimento, l'originale del ricorso notificato ex artt. 137 c.p.c. ovvero copia del ricorso consegnato o spedito per posta, con fotocopia della ricevuta di deposito o della spedizione per raccomandata a mezzo del servizio postale; all'atto della costituzione in giudizio, il ricorrente deve depositare la nota di iscrizione al ruolo, contenente l'indicazione delle parti, del difensore che si costituisce, dell'atto impugnato, della materia del contendere, del valore della controversia e della data di notificazione del ricorso; l'inammissibilità del ricorso è rilevabile d'ufficio in ogni stato e grado del giudizio, anche se la parte resistente si costituisce ritualmente; in caso di consegna o spedizione a mezzo di servizio postale la conformità dell'atto depositato a quello consegnato o spedito è attestata conforme dallo stesso ricorrente; se l'atto depositato nella segreteria della commissione non è conforme a quello consegnato o spedito alla parte nei cui confronti il ricorso è proposto, il ricorso è inammissibile e si applica il comma precedente. L'originario art. 22 del d.lgs. n. 546/1992 ha subito una prima modifica all'esito della sentenza della Corte cost. n. 520/2002, che aveva dichiarato l'illegittimità costituzionale dei commi 1 e 2 «nella parte in cui non consente, per il deposito degli atti ai fini della costituzione in giudizio, l'utilizzo del servizio postale»; da ultimo, invece, con la novella del 2011 si è prescritto il deposito della nota di iscrizione a ruolo, indicandosene il necessario contenuto.

Gli artt. 22 e 53 del d.lgs. n. 546/1992 vanno, inoltre, coordinati con il precedente art. 20, ai sensi del quale la spedizione del ricorso a mezzo posta dev'essere fatta in plico raccomandato senza busta con avviso di ricevimento e il ricorso notificato a mezzo posta s'intende proposto al momento della spedizione nelle forme sopra indicate. Quest'ultima disposizione è coerente con la regola generale di cui all'art. 16, ultimo comma, del d.lgs. n. 546/1992, secondo cui, in applicazione del principio di scissione degli effetti della notificazione per il notificante ed il destinatario della notifica, qualunque comunicazione o notificazione a mezzo del servizio postale si considera fatta nella data della spedizione; tuttavia, lo stesso art. 16 precisa che i termini i quali hanno inizio dalla notificazione o dalla comunicazione decorrono dalla data in cui l'atto è ricevuto.

Come evidenziato in dottrina, intorno a queste norme si sviluppano un mosaico di dubbi, che si intrecciano tra di loro: in particolare quello dell'individuazione del documento (ricevuta di spedizione e avviso di ricevimento), sufficiente ad evitare il rischio della declaratoria d'inammissibilità della domanda, nonché quello relativo al dubbio sul dies a quo intorno al quale inizia il decorso del termine per la costituzione della parte ricorrente (o appellante), (Russo, 3782). Mentre la prima problematica riguarda unicamente il contenzioso tributario, la seconda appare comune al processo civile, in cui si è posta per tutti i termini il cui dies a quo coincide con la notifica di un atto, all'esito della valenza generale acquisita nell'ordinamento dal principio di scissione degli effetti della notificazione per il notificante ed il destinatario della notifica. In proposito può ricordarsi che, secondo la dottrina prevalente, il perfezionamento della notifica, quale dies a quo di un termine processuale, deve essere comune ad entrambe le parti del processo, per cui non può che coincidere con l'esaurimento dell'intero procedimento. A sostegno di tale conclusione milita la ratio dell'istituto della scissione degli effetti della notificazione, che è quella di salvaguardare il diritto di difesa del notificante e non quella di limitarne l'esercizio, accrescendo il rischio di eventuali decadenze. Né argomenti in senso contrario possono desumersi dall'art. 5, comma della legge 20 novembre 1982, n. 890, ai sensi del quale la causa non potrà essere messa in decisione se non sia allegato agli atti l'avviso di ricevimento, salvo che il convenuto si costituisca: da tale disposizione si ricava, difatti che al notificante è consentito di ottenere, proprio ai fini dell'iscrizione a ruolo della causa o del deposito del ricorso o controricorso nei giudizi di legittimità, la restituzione dell'originale dell'atto dall'ufficiale giudiziario prima del ritorno dell'avviso di ricevimento, ma dall'attribuzione di una facoltà non possono farsi discendere oneri e decadenze. Al contrario, è ragionevole che il notificante abbia la possibilità di verificare il buon esito della notifica prima di assumere le sue determinazioni, come confermato, in tema di nota di iscrizione a ruolo, dalla prescrizione ex art. 71 disp. att. c.p.c. dell'indicazione della data della notifica della citazione. Del resto, un'anticipazione del termine non risulterebbe neppure strumentale alla tutela del notificato, che, prima dell'ingresso dell'atto nella sua sfera di conoscibilità, non trae alcun vantaggio dall'adempimento della controparte. A ciò si aggiunga che, talvolta, la scadenza del termine a carico del notificante coincide con il momento iniziale di un termine a carico della controparte: si pensi, ad esempio, al giudizio di cassazione, in cui dalla scadenza del termine, a carico del ricorrente, per il deposito del ricorso in cancelleria inizia a decorrere il termine ex art. 370 c.p.c. per la notifica del controricorso. In tali ipotesi non è proponibile una diversa soluzione, che pregiudicherebbe il destinatario della notifica. Del resto, ove si inquadri la scissione nell'ambito non del perfezionamento della notificazione, ma in quello dei suoi effetti, risulta incongrua sia una anticipazione sia una retrodatazione di un termine, che non è, in senso proprio, un effetto della notificazione (In dottrina, cfr., tra gli altri, Carbone — Batà, 32; S. Rusciano, 907; Corsini, F. Corsini, 115).

Nella giurisprudenza di legittimità le incertezze relativamente alla modalità e tempistica della costituzione dell'appellante si sono formate limitatamente all'ipotesi della notifica dell'appello a mezzo posta, mentre non hanno investito la diversa ipotesi dell'appello a mezzo ufficiale giudiziario, come si ricava dalla recente Cass., VI, n. 23589/2016, secondo cui il termine per la costituzione del ricorrente in grado di appello, desumibile dal combinato disposto degli artt. 22, comma 1, e 53, comma 2, del d.lgs. n. 546/1992, decorre, ove la notificazione del ricorso sia avvenuta tramite l'ufficiale giudiziario, dalla ricezione dell'atto da parte del destinatario, e, ove cada di sabato, viene prorogato, ex art. 155, comma 5, c.p.c., al primo giorno successivo non festivo. Tale posizione appare in linea con quella assunta dalla giurisprudenza di legittimità riguardo al giudizio di appello civile ordinario, in cui è pacifico che il termine per la costituzione dell'appellante, ai sensi dell'art. 347 c.p.c., in relazione all'art. 165 c.p.c., decorre dal momento del perfezionamento della notificazione dell'atto di appello nei confronti del destinatario e non dal momento della consegna di tale atto all'ufficiale giudiziario, che rileva, invece, solo ai fini della tempestività dell'impugnazione (così Cass. III, n. 9329/2010; v. anche Cass. I, n. 11783/2007, secondo cui, ai fini dell'osservanza del termine di costituzione in appello da parte dell'appellante, per «giorno della notificazione», ai sensi degli artt. 165 e 347 c.p.c., s'intende non quello in cui si realizza l'effetto, anticipato e provvisorio, a vantaggio del notificante, ma il perfezionamento del procedimento notificatorio nei confronti del destinatario, procedimento che resta ancorato al momento in cui l'atto è ricevuto dal destinatario medesimo o perviene nella sua sfera di conoscibilità; Cass. III, n. 10837/2007, secondo cui la distinzione dei momenti di perfezionamento della notifica per il notificante e il destinatario dell'atto, risultante dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, trova applicazione solo quando dall'intempestivo esito del procedimento notificatorio, per la parte di questo sottratta alla disponibilità del notificante, potrebbero derivare conseguenze negative per il notificante, quale la decadenza conseguente al tardivo compimento di attività riferibile all'ufficiale giudiziario, non anche quando la norma preveda che un termine debba decorrere o un altro adempimento debba essere compiuto dal tempo dell'avvenuta notificazione, come per la costituzione dell'appellante o il deposito del ricorso per cassazione, dovendo essa in tal caso intendersi per entrambe le parti perfezionata, come si ricava dal tenore testuale degli artt. 165 e 369 c.p.c., al momento della ricezione dell'atto da parte del destinatario, contro cui l'impugnazione è rivolta). Del resto la stessa soluzione è stata adottata da Cass. S.U., n. 458/2005, con riferimento al termine per il deposito del ricorso per cassazione, stabilito a pena di improcedibilità dall'art. 369, c.p.c., e da Cass. I, n. 25796/2006, con riferimento al termine per il deposito del controricorso per cassazione, che l'art. 370 c.p.c. ancora dalla scadenza del termine per il deposito del ricorso di modo che il dies a quo del primo termine opera in effetti anche come dies a quo per il secondo: in entrambi i casi il momento iniziale del termine è stato individuato con quello del perfezionamento della notifica per il destinatario. Del resto anche la Corte costituzionale è orientata a ritenere che il principio di scissione non può operare con riguardo ai casi in cui il perfezionamento della notifica assume rilievo, non già ai fini dell'osservanza di un termine pendente nei confronti del notificante, bensì al fine di stabilire il dies a quo di un termine successivo del processo a suo carico (in particolare quello della sua costituzione in giudizio), esulando dalla sua ratio, che è quella di tutela del diritto di difesa del notificante, l'anticipazione degli incombenti processuali e la creazione di decadenze a carico delle parti (v. Cort. cost. n. 318/2009, riguardo all'art. 31, comma 4, della l. n. 87/1953 ai sensi del quale il ricorso introduttivo del giudizio di legittimità costituzionale ivi disciplinato deve essere depositato nella cancelleria della Corte costituzionale entro il termine di dieci giorni dalla notificazione; cfr. anche Corte cost. n. 154/2005 e Corte cost n. 107/2004, con cui è stata dichiarata rispettivamente la manifesta infondatezza della questione di legittimità del combinato disposto degli artt. 645, comma 2, 647 e 165 c.p.c. e l'inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 647, commi 1 e 2, c.p.c., affermandosi che, pur potendo essere compiute dal notificante tutte le attività che presuppongono il perfezionamento della notificazione — nel caso di specie, iscrizione a ruolo della causa di opposizione a decreto ingiuntivo- dall'avvenuta consegna dell'atto all'ufficiale giudiziario, il dies a quo da cui decorre il termine a carico del notificante resta il momento della consegna dell'atto al destinatario).

Era, invece, controverso se, in caso di notifica dell'appello tributario a mezzo del servizio postale, il dies a quo del termine di costituzione per il ricorrente coincidesse con la data di spedizione o con quella di ricezione, da parte del destinatario, dell'atto. Invero, la giurisprudenza sul punto concerne l'art. 22, che, tuttavia, è richiamato dal successivo art. 53 del d.lgs. n. 546/1992, per cui, ai fini della costituzione dell'appellante si ripropongono le medesime problematiche sollevate per la costituzione del ricorrente in primo grado. In proposito può ricordarsi che, ad avviso Cass. V, n. 14246/2007 e di Cass. V, n. 20262/2004, il deposito, nella segreteria della commissione tributaria adita, del ricorso notificato per posta deve essere effettuato entro trenta giorni dalla spedizione postale del documento incorporante il ricorso, e non dalla sua ricezione da parte del destinatario, atteso che l'art. 22, comma 1, del d.lgs. n. 546/1992, prevede modalità di deposito (copia del ricorso e fotocopia della ricevuta di spedizione della raccomandata postale) che presuppongono solo la spedizione del ricorso e non la sua ricezione e sottrae, quindi, il detto adempimento alla regola di cui all'art. 16, comma 5, secondo periodo, del medesimo d.lgs. n. 546/1992 (il quale dispone che i termini che hanno inizio dalla notificazione «decorrono dalla data in cui l'atto è ricevuto» e che trova applicazione, fra l'altro, nel caso di deposito del ricorso notificato attraverso ufficiale giudiziario); al contrario, ad avviso di Cass. V, n. 12185/2008, qualora la notificazione del ricorso introduttivo abbia avuto luogo mediante spedizione a mezzo posta, il termine entro il quale, ai sensi dell'art. 22 del d.lgs. n. 546 del 1992, dev'essere effettuato il deposito presso la segreteria della commissione tributaria decorre non già dalla data della spedizione, bensì da quella della ricezione dell'atto da parte del destinatario, atteso che la regola, desumibile dall'art. 16, ultimo comma, secondo cui la notificazione a mezzo del servizio postale si considera effettuata al momento della spedizione, in quanto volta ad evitare che eventuali disservizi postali possano determinare decadenze incolpevoli a carico del notificante, si riferisce ai soli termini entro i quali la notificazione stessa deve intervenire, ed avendo carattere eccezionale non può essere estesa in via analogica a quelli per i quali il perfezionamento della notificazione rappresenta il momento iniziale, trovando in tal caso applicazione il principio generale secondo cui la notificazione si perfeziona con la conoscenza legale dell'atto da parte del destinatario (così anche Cass. V, n. 9173/2011, Cass. V, n. 18373/2012, Cass. VI, n. 12027/2014, Cass. VI, n. 3432/2017, secondo cui il termine entro il quale la copia del ricorso spedito per posta deve essere depositata nella segreteria della commissione tributaria adita, ai sensi dell'art. 22 del d.lgs. n. 546 del 1992, decorre non già dalla data della spedizione, bensì da quella della ricezione dell'atto da parte del destinatario). 

È dubbio, inoltre, se, ai fini della rituale costituzione sia necessario il deposito dell'avviso di spedizione, come testualmente prescritto dal combinato disposto degli artt. 53, comma 2, e 22, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992, o sia equivalente anche il deposito dell'avviso di ricevimento. Secondo Cass. V, n. 27286/2016, Cass. VI, n. 19138/2016, Cass. V, n. 5376/2015, Cass. V, n. 4614/2008, non costituisce motivo di inammissibilità dell'appello notificato a mezzo posta il fatto che, all'atto della costituzione, l'appellante depositi l'avviso di ricevimento del plico inoltrato per raccomandata in luogo del prescritto avviso di spedizione, atteso che anche l'avviso di ricevimento riporta la data della spedizione, sicché il relativo deposito è perfettamente idoneo ad assolvere la funzione probatoria connessa a tale adempimento. Invece, ad avviso di Cass. V, n. 16758/2016, Cass. V, n. 7373/2011, Cass. V, n. 24182/2006, nel procedimento di appello, ai sensi dell'art. 22, comma 1, quale richiamato dal successivo art. 53, comma 2, la rituale costituzione in giudizio del ricorrente, ancorata alla spedizione e non alla ricezione del ricorso da parte del resistente, richiede il deposito, entro trenta giorni dalla proposizione, nella segreteria della Commissione tributaria adita, dell'originale del ricorso notificato o di copia dello stesso, unitamente a copia della ricevuta di spedizione per raccomandata a mezzo del servizio postale, sicché, in difetto, attenendo l'adempimento al riscontro della stessa tempestività della costituzione, il ricorso è inammissibile e tale sanzione va rilevata d'ufficio in ogni stato e grado del processo, né è sanabile per via della costituzione del convenuto.

Il contrasto è stato risolto da Cass. S.U, n. 13452/2017, secondo cui, nel processo tributario, non costituisce motivo d'inammissibilità del ricorso (o dell' appello), che sia stato notificato direttamente a mezzo del servizio postale universale, il fatto che il ricorrente (o l' appellante), al momento della costituzione entro il termine di trenta giorni dalla ricezione della raccomandata da parte del destinatario, depositi l'avviso di ricevimento del plico e non la ricevuta di spedizione, purché nell'avviso di ricevimento medesimo la data di spedizione sia asseverata dall'ufficio postale con stampigliatura meccanografica ovvero con proprio timbro datario. Solo in tal caso, infatti, l'avviso di ricevimento è idoneo ad assolvere la medesima funzione probatoria che la legge assegna alla ricevuta di spedizione; invece, in loro mancanza, la non idoneità della mera scritturazione manuale o comunemente dattilografica della data di spedizione sull'avviso di ricevimento può essere superata, ai fini della tempestività della notifica del ricorso (o dell' appello), unicamente se la ricezione del plico sia certificata dall'agente postale come avvenuta entro il termine di decadenza per l'impugnazione dell'atto (o della sentenza). Per la conferma successiva di tale principio si rinvia a Cass. V, n. 27726/2022, che ha cassato la decisione della corte territoriale di inammissibilità dell'appello in ragione del mancato deposito della ricevuta di spedizione della raccomandata a mezzo del servizio postale e del computo errato del termine di trenta giorni dalla data di spedizione invece che da quella di ricezione.

In questo contesto va, inoltre, menzionata Cass. V, n. 21483/2022, secondo cui, nel processo tributario, in caso di notificazione a mezzo posta dell'appello secondo le modalità fissate dall'art. 20, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992, richiamato dal successivo art. 53, comma 2, i dati alfanumerici sulla data e l'ufficio postale di accettazione, ove mancanti sull'avviso di ricevimento, in tutto o in parte, ovvero d'incerta paternità, sono surrogati, con efficacia di atto pubblico anche in difetto di sottoscrizione, dal timbro datario dell'ufficio postale di partenza, che attesti l'avvenuta consegna per l'inoltro in forme e modi equipollenti a quelli della ricevuta di spedizione, secondo una prassi adottata dagli uffici postali, di notoria conoscenza, e riconducibile ad una nozione costituzionalmente adeguata delle dette disposizioni, anche in rispondenza della nozione ristretta delle inammissibilità processuali, posta a cardine interpretativo del processo tributario dalla Corte costituzionale (sentenze n. 189 del 2000 e n. 520 del 2002).

Si è precisato che, nel processo tributario, è inammissibile l'appello proposto con un atto notificato direttamente a mezzo del servizio postale, ove, nel termine previsto dall'art. 22, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992, non venga depositato il relativo avviso di ricevimento, sicché la sentenza di appello che, non rilevando tale radicale vizio processuale, abbia deciso la controversia nel merito, deve essere cassata senza rinvio, in quanto il processo non avrebbe potuto essere proseguito in grado di appello e pertanto la Corte di cassazione non può tenere conto della eventuale produzione tardiva dell'avviso nel corso del giudizio di legittimità (Cass. V, n. 10322/2019; nello stesso senso Cass. VI, n. 15182/2018, che, in applicazione del principio in base al quale, nel giudizio tributario, la prova della tempestività della costituzione in giudizio del ricorrente - o dell'appellante - entro trenta giorni dalla spedizione dell'atto introduttivo a mezzo del servizio postale deve essere fornita contestualmente a detta costituzione, al fine di consentire la verifica officiosa delle condizioni di ammissibilità del procedimento, ha confermato la decisione impugnata che aveva ritenuto inammissibile il gravame proposto dall'Agenzia delle entrate che aveva depositato la distinta attestante la data di spedizione della raccomandata soltanto all'udienza).

Altro aspetto oggetto di discussione concerne l'attestazione di conformità, da parte dell'appellante, dell'appello depositato a quello spedito a mezzo posta, necessaria in virtù del rinvio dell'art. 53 al precedente art. 22, comma 3. In proposito va segnalato che, sebbene la giurisprudenza colleghi l'inammissibilità del ricorso (introduttivo sia del primo sia del secondo grado di giudizio) non alla mancata attestazione, da parte dell'appellante, della conformità tra il documento depositato ed il documento notificato, ma solo alla loro effettiva difformità, accertata d'ufficio dal giudice (da ultimo, in questo senso Sez. V, n. 15439/2022, secondo cui, in tema di processo tributario, la difformità tra l'atto di appello depositato davanti alla commissione tributaria e quello notificato alla controparte determina l'inammissibilità del ricorso, rilevabile anche d'ufficio, soltanto nel caso in cui sia di carattere sostanziale, cioè tale da impedire al destinatario la completa comprensione dell'atto e, quindi, da rendere incerti il "petitum" e la "causa petendi" dell'azione proposta, comportando una lesione del diritto di difesa), in caso di contumacia del convenuto, sembra prevalere la posizione più rigida confermata dalla recente Cass. V, n. 6677 /2017, n. (già in passato nello stesso senso Cass. V, n. 1174/2010 e Cass. V, n. 4615/2008), secondo cui, qualora, l'appellato sia rimasto contumace, venendo a mancare in radice la possibilità di riscontrare e denunciare la difformità, si impone la declaratoria dell'inammissibilità dell'appello, in quanto, in caso contrario, nell'ipotesi de qua la prescritta formalità risulterebbe priva di qualsiasi reale funzione. Appare, difatti, isolata Cass. V, n. 6780/2009, secondo cui si presume la conformità dell'atto d'impugnazione notificato rispetto a quello depositato presso la segreteria della commissione tributaria regionale sia quando l'appellato si costituisca e non sollevi alcuna eccezione al riguardo, sia quando non si costituisca, così rinunciando a sollevare l'eccezione predetta, per cui, in tale ipotesi, non può pervenirsi alla declaratoria d'inammissibilità dell'appello.

Occorre, pure, menzionare l'orientamento secondo cui, nel giudizio d'impugnazione dinanzi alla commissione tributaria regionale, il deposito del ricorso contenente l'appello in data anteriore a quella della sua notifica e/o comunicazione alla controparte non rende inammissibile il gravame, sempre che la notifica e/o la comunicazione siano effettuate nel rispetto del termine fissato per la proposizione dell'impugnazione, in quanto l'art. 22 del d.lgs. n. 546 del 1992, ricollegando la sanzione dell'improcedibilità dell'impugnazione unicamente all'inutile scadenza del termine da esso previsto per il deposito del ricorso, decorrente dalla notifica e/o dalla comunicazione del ricorso stesso, consente di ravvisare nell'inversione dell'ordine temporale tra le attività volte all'instaurazione del contraddittorio tra le parti e tra queste ed il giudice una mera irregolarità, sanata ogni qual volta sia raggiunto lo scopo del meccanismo processuale in questione, avendo avuto le parti la possibilità di attuare le proprie difese.

Le questioni recentemente risolte dalle Sezioni Unite

In dottrina si è osservato che, in base ad una lettura costituzionalmente orientata, ispirata all'art. 24 Cost., si dovrebbe considerare equipollente la produzione dell'avviso di ricevimento a quello di spedizione, consentendo, peraltro, il primo documento di valutare d'ufficio la tempestiva costituzione in giudizio del convenuto. Del resto, la commissione adita può sempre ordinare, ove insorgano contestazioni intorno al contenuto della raccomanda con ricevuta di ritorno, la produzione della copia della ricevuta di spedizione, per cui l'inammissibilità dell'appello in conseguenza del mancato deposito della ricevuta di spedizione, al momento della costituzione dell'appellante, viene ritenuta una sanzione del tutto sproporzionata rispetto alla gravità dell'inadempimento e, dunque, irragionevole, soprattutto nel caso in cui anche dall'avviso di ricezione è evincibile una data manifestamente «interna» al termine per impugnare (Russo, 3782). Si è, inoltre, osservato che, sebbene non sia previsto dalla legge, il «retro» dell'avviso di ricevimento non è, di regola, compilato dal mittente, ma è riempito dall'ufficio postale, a cui è richiesto il servizio, attraverso un sistema di registrazione automatizzato. Il software in uso alle poste, in particolare prevede che lo spazio dedicato alla data di spedizione sia compilato «macchina», per cui, diversamente da quanto stabilito dal regolamento di esecuzione del codice postale, è l'agente postale che si occupa di inserire la data di spedizione riportata sull'avviso di ricevimento, sovrascrivendo quanto eventualmente compilato a mano dal mittente/ricorrente, salva l'ipotesi di un temporaneo malfunzionamento dei computers, in cui l'operatore si limiti ad annotare a mano la data di spedizione o a ritirare l'avviso di ricevimento già compilato dal mittente, apponendo, comunque, il timbro delle poste e la sua firma. In definitiva, l'impossibilità di attribuire fede privilegiata alla data di spedizione riportata sull'avviso di ricevimento sarebbe limitata all'ipotesi in cui l'impiegato delle poste, per distrazione o imperizia, si limiti a compilare manualmente la data di spedizione o verificare quella eventualmente apposta dal mittente, senza lasciare alcun indizio del suo intervento (v. Raggi, 3481).

Relativamente all'individuazione del dies a quo del termine di costituzione del ricorrente/appellante, l'orientamento che lo ancora alla ricezione dell'atto da parte del destinatario appare il «più coerente con la ratio delle previsioni del vigente codice processuale tributario», in cui 1) è conferita al notificante la facoltà di notificare il ricorso via posta direttamente, senza passare attraverso gli ufficiali giudiziari, 2) gli effetti della notifica via posta sono anticipati «alla data di spedizione» della raccomandata, onde evitare che i disservizi postali possano arrecare pregiudizio al notificante, 3) è possibile procedere all'iscrizione a ruolo del ricorso avvalendosi, come nella notifica via posta a mezzo di ufficiale giudiziario, della sola ricevuta di spedizione (v. Raggi, 3485).

A ciò si aggiunga che una diversa soluzione risulterebbe in contrasto con la posizione ormai consolidata della Consulta e della Suprema Corte, secondo cui, come già visto, qualora la notificazione assurga a momento iniziale di un termine, occorre far riferimento all'esaurimento dell'intero procedimento, in quanto la scissione degli effetti della notificazione per il notificante ed il notificato è un istituto che tende ad evitare decadenza per il notificante, non a crearle. Né va dimenticato che in sede di giudizio di legittimità il dies a quo per la costituzione del ricorrente e del contro ricorrente viene identificato con quella dell'esaurimento del procedimento di notificazione e, dunque, con la ricezione dell'atto da parte del destinatario. Peraltro, nel caso di specie, vi è anche l'interesse pratico del notificante di evitare la costituzione ed il pagamento del contributo unificato laddove la notifica abbia esito negativo e ne risulti difficile la rinnovazione. Va, tuttavia, segnalato che nel disegno di legge n. 988 del 1° agosto 2013, (in corso di esame in commissione) la decorrenza del termine per la costituzione in giudizio del ricorrente non è più agganciata genericamente alla proposizione del ricorso, ma in modo netto alla data di spedizione del ricorso a mezzo del servizio postale. Ad ogni modo, se, in caso di approvazione del disegno di legge, tale dicitura eliminerà, per il futuro, ogni incertezza, proprio «la riformulazione del codice vigente sul punto legittima il sospetto che la ventura novella imponga un risultato non altrimenti ricavabile dall'attuale cornice normativa».

Recentemente tali questioni, reputate di massima importanza, concernenti, da un lato, l'individuazione del dies a quo del termine di cui all'art. 22 del d.lgs. n. 546/1992 (spedizione o ricezione del ricorso), dall'altro, la possibilità di produrre, al momento della costituzione, in luogo della fotocopia della ricevuta di spedizione del ricorso, la relativa ricevuta di ritorno sono state rimesse alle Sezioni Unite (v. le ordinanze interlocutorie Cass. V, n. 18000/2016 e Cass. V, n. 18001/2016). Nelle ordinanze interlocutorie si è evidenziato che il deposito presso la segreteria della commissione tributaria adita non solo della copia del ricorso in primo grado o in appello ma anche della fotocopia della ricevuta attestante la data della spedizione per raccomandata del ricorso introduttivo o dell'atto di impugnazione assolve a una duplice funzione: a) da un lato, consente la verifica dell'osservanza — nel giudizio di primo grado — del termine di decadenza dalla proposizione del ricorso introduttivo ex art. 21 del d.lgs. n. 546/1992, ai fini dell'eventuale consolidamento del rapporto tributario sulla base del provvedimento dell'amministrazione finanziaria oggetto di doglianza, ovvero, nel giudizio di appello, del termine di decadenza dall'impugnazione, previsto dall'art. 51, ai fini del passaggio in giudicato della sentenza gravata; b) dall'altro lato, consente la verifica della tempestiva costituzione in giudizio del ricorrente/impugnante, in quanto, con specifico riguardo ai gradi di merito, la decorrenza del termine di trenta giorni per la costituzione in giudizio del ricorrente sarebbe normativamente ancorata alla «spedizione», e non alla ricezione del ricorso da parte del resistente, come si evincerebbe dal fatto che l'art. 22, comma 1, cit. prevede modalità di deposito che presupporrebbero solo la spedizione del ricorso, e non la sua ricezione, sottraendo, in tal modo, detto adempimento alla regola di cui all'art. 16, comma 5, a tenore del quale «i termini che hanno inizio dalla notificazione o comunicazione decorrono dalla data in cui l'atto è ricevuto». Entrambe queste verifiche, attenendo al rispetto di norme di ordine pubblico processuale, sono compiute anche d'ufficio dal giudice e sono sottratte al potere dispositivo delle parti. Si è, tuttavia, rilevato che la seconda funzione viene meno optando per l'opzione interpretativa secondo cui il dies a quo per la costituzione in giudizio del ricorrente coincide con il perfezionamento della notifica e, dunque, con la ricezione dell'atto da parte del destinatario, risultato a cui si perviene valorizzando la scissione degli effetti della notifica ed attribuendo portata generale all'art. 16, comma 5. Si sono, invece, manifestate perplessità relativamente alla idoneità della ricevuta di ricezione, in sostituzione di quella di spedizione, ad assolvere la prima funzione non potendo essere riconosciuta alcuna fede privilegiata alle indicazioni apposte su di essa (tra cui la data di spedizione), che non è riconducibile all'agente postale, visto che, ai sensi dell'art. 6 del d.P.R. n. 655/1982, che «gli avvisi di ricevimento, di cui all'art. 37 del codice postale ... sono predisposti dagli interessati». Più precisamente l'avviso contiene l'attestazione» di «fatti avvenuti» innanzi all'agente postale «di distribuzione» limitatamente all'avvenuta apposizione della firma da parte del destinatario, mentre non contiene — almeno in base al modello standardizzato — alcuna attestazione di fatti avvenuti innanzi all'agente postale di «accettazione», tra i quali l'attestazione della data dell'invio.

Le Sezioni Unite, con la sentenza Cass. S.U., n. 13452/2017, hanno risolto le due questioni, affermando, da un lato, che nel processo tributario, il termine di trenta giorni per la costituzione in giudizio del ricorrente o dell'appellante, che si avvalga per la notificazione del servizio postale universale, decorre non dalla data della spedizione diretta del ricorso a mezzo di raccomandata con avviso di ricevimento, ma dal giorno della ricezione del plico da parte del destinatario o dall'evento che la legge considera equipollente alla ricezione e, dall'altro, che non costituisce motivo d'inammissibilità del ricorso o dell'appello, che sia stato notificato direttamente a mezzo del servizio postale universale, il fatto che il ricorrente o l'appellante, al momento della costituzione entro il termine di trenta giorni dalla ricezione della raccomandata da parte del destinatario, depositi l'avviso di ricevimento del plico e non la ricevuta di spedizione, purché nell'avviso di ricevimento medesimo la data di spedizione sia asseverata dall'ufficio postale con stampigliatura meccanografica ovvero con proprio timbro datario, atteso che solo in tal caso l'avviso di ricevimento è idoneo ad assolvere la medesima funzione probatoria che la legge assegna alla ricevuta di spedizione, mentre in mancanza l'inidoneità della mera scritturazione manuale o comunemente dattilografica della data di spedizione sull'avviso di ricevimento può essere superata, ai fini della tempestività della notifica del ricorso o dell'appello, unicamente se la ricezione del plico sia certificata dall'agente postale come avvenuta entro il termine di decadenza per l'impugnazione dell'atto o della sentenza.

Alla prima conclusione, premessa la necessità, in base ai principi desumibili dalla Convenzione dei diritti dell'uomo e dalla Costituzione, di ancorare le sanzioni processuali a canoni di proporzionalità, chiarezza e prevedibilità e di far prevalere le interpretazioni dirette a consentire al processo di giungere al suo sbocco naturale della decisione di merito e non di mero rito, si è pervenuti in considerazione dell'esigenza di un'interpretazione sistematicamente coerente con il processo civile, amministrativo e con lo steso processo tributario (relativamente a notifiche diverse da quelle a mezzo posta), in cui, come già evidenziato, il dies quo per la costituzione dell'attore viene individuato nel momento in cui la notifica dell'atto introduttivo si perfeziona per il destinatario — nel c.p.a. il principio è codificato nell'art. 45, che stabilisce che il ricorso e gli altri atti processuali soggetti a preventiva notificazione sono depositati nella segreteria del giudice nel termine perentorio di trenta giorni, decorrente dal momento in cui l'ultima notificazione dell'atto stesso si è perfezionata anche per il destinatario. Peraltro, si è reputato privo di una logica giustificazione costringere la parte a costituirsi senza neppure conoscere gli esiti della notifica del ricorso. In definitiva, il diverso regime di costituzione per la sola notificazione diretta mediante raccomandata postale con avviso di ricevimento colliderebbe con gli artt. 3 e 24 Cost. riguardo alle altre forme di notificazione previste per il processo tributario e in particolare con quella ex art. 149 c.p.c. e riguardo alla circostanza al diverso computo del termine per la costituzione nelle vertenze fiscali obbligatoriamente soggette a reclamo/mediazione; con l'art. 76 Cost. riguardo al tendenziale rispetto dei principi del processo civile ordinario previsto dalla legge delega del 1991; con l'art. 117, comma 1, Cost., in relazione all'art. 6 della Convenzione dei diritti dell'Uomo, riguardo all'irrazionale e discriminante ostacolo all'accesso alla giurisdizione con riferimento ai processi riguardanti sanzioni tributarie aventi copertura convenzionale e con l'art. 6 del Trattato sull'Unione europea sempre in relazione all'art. 6 CEDU con riferimento al contenzioso sui tributi armonizzati.

Per quanto concerne la soluzione della seconda questione, si è osservato che, nonostante la trasformazione in società per azioni dell'Ente Poste, permane tuttora in capo all'agente postale l'esercizio di poteri certificativi propriamente inerenti a un pubblico servizio, a ragione della connotazione pubblicistica della normativa che continua a disciplinarlo e del perseguimento di connesse finalità pubbliche, prevalendo, ai fini della qualifica di pubblico ufficiale in capo all'agente, il criterio oggettivo-funzionale di cui agli artt. 357 e 358 c.p. relativamente alla natura del servizio postale esercitato, e che l'avviso di ricevimento, che è compilato dal mittente solo con l'indirizzo proprio e del destinatario, ben può assolvere alla funzione fidefaciente relativamente alla data di spedizione, ove la stessa risulti dalla stampigliatura con macchina numeratrice e datatrice o dall'apposizione del timbro dell'ufficio postale, che assicurano ai documenti postali in generale la natura di atti pubblici, ancorché privi della sottoscrizione del pubblico ufficiale, e più in generale garantiscono la relazione intercorrente tra mittente e ufficio postale e tra questi ed il destinatario del plico e l'identità dei dati relativi a giorno e modi di spedizione tanto sul modulo per l'accettazione della raccomandata quanto sull'avviso di ricevimento, entrambi sempre generati dal sistema operativo di Poste Italiane.

Deposito dell'appello presso la segreteria del giudice di primo grado

Con l'art. 3-bis, comma 7, del d.l. 30 settembre 2005, n. 203, conv., con modif., in l. 2 dicembre 2005, n. 248, si è introdotto, a pena d'inammissibilità dell'appello, nell'ipotesi in cui la notifica del ricorso non sia avvenuta a mezzo di ufficiale giudiziario, l'ulteriore adempimento del deposito della sua copia presso l'ufficio di segreteria della commissione tributaria che ha pronunciato la sentenza impugnata. Va subito sottolineato, però, che, dopo nemmeno un decennio, il d.lgs. 21 novembre 2014, n. 175, in vigore a decorrere dal 13 dicembre 2014, nel suo testo definitivo, ha eliminato il secondo periodo dell'art. 53, comma 2, e conseguentemente soppresso la prescrizione in esame, il cui obiettivo era di evitare l'erronea attestazione, da parte della cancelleria del giudice di primo grado, del passaggio in giudicato della sentenza, nonostante la proposizione dell'impugnazione. Dalla relazione al decreto delegato sulle semplificazioni n. 175 del 2014 si evince che l'effetto informativo, prima assolto dal deposito imposto all'appellante, viene ora completamente affidato al dialogo tra gli uffici e alla tempestività della richiesta del fascicolo, da parte della segreteria della commissione regionale, a quella della commissione provinciale. Secondo la dottrina, il legislatore del 2014 ha rimosso un adempimento vissuto come angosciante, data la reazione sproporzionata dell'ordinamento, dagli addetti ai lavori (non solo dai difensori delle parti private, ma anche degli enti impositori), sebbene si ammetta che non sia stata introdotta nessuna forma di cautela per assicurare l'immediatezza della richiesta del fascicolo da parte della segreteria del giudice di secondo grado a quella di primo grado (così Basilavecchia, 1640-1641, secondo cui, peraltro, l'inadempimento dell'obbligo in esame «non compromette il contraddittorio», visto che «la parte vittoriosa, deposito o non deposito, sa certamente che la sentenza è stata impugnata, e il rilascio di copia in forma esecutiva è senza dubbio dovuta ad un comportamento non in buona fede ascrivibile non certo all'appellante»).

In definitiva, il deposito della copia dell'appello presso la segreteria della commissione tributaria provinciale sicuramente non è più necessario per tutti gli appelli notificati a decorrere dal 13 dicembre 2014, ma, secondo la dottrina, «potrebbe anche ritenersi, in effetti, che per tutti gli appelli già notificati a quella data, ma non ancora depositati nella segreteria del giudice di primo grado, l'onere di deposito sia comunque venuto meno, con la conseguenza che essi non possono essere considerati inammissibili», atteso che la soppressione dell'art. 53, comma 2, secondo periodo, del d.lgs. n. 546/1992 è in vigore dal 13 dicembre 2014 e, trattandosi di una disposizione processuale, dovrebbe essere immediatamente applicabile anche ai procedimenti in corso (v. sempre Basilavecchia, 1641).

Tuttavia, nell'incertezza della soluzione, è plausibile che le parti abbiano continuato ad effettuare il deposito per i ricorsi introduttivi del giudizio di appello notificati prima del 13 dicembre 2014, come suggerito ai propri uffici dall'Agenzia delle entrate nella circolare n. 31/E del 30 dicembre 2014. Del resto, il principio tempus regit actum comporta, ove manchi una specifica disciplina transitoria, l'immediata applicabilità delle norme processuali esclusivamente agli atti posti in essere posteriormente alla loro entrata in vigore, in ossequio al principio generale d'irretroattività della legge di cui all'art. 11 dis.prel. c.c. Sembra, dunque, doversi escludere l'operatività della nuova disciplina riguardo ai ricorsi per i quali alla data del 13 dicembre 2013 non solo sia già esaurito il procedimento di notificazione, ma sia anche già scaduto il termine per il deposito del ricorso presso la segreteria della commissione provinciale che ha pronunciato la sentenza, atteso che in tale ipotesi l'introduzione del giudizio di appello si è già interamente perfezionata nel vigore dell'art. 53, comma 2, secondo periodo, del d.lgs. n. 546/1992, nella pregressa formulazione. Possono eventualmente nutrirsi dei dubbi esclusivamente per le fattispecie in cui alla data del 13 dicembre 2014 il termine per il deposito del ricorso presso la segreteria del giudice di primo grado non sia ancora scaduto oppure in cui il procedimento di notificazione sia stato avviato, ma non si sia ancora esaurito, in quanto il principio tempus regit actum può effettivamente giustificare l'applicazione della nuova disciplina ove l'adempimento, strumentale all'instaurazione del giudizio di appello, non sia stato ancora completato.

Proprio recentemente la sentenza  Corte cost. n. 121/2016, aveva ribadito la legittimità costituzionale della disciplina dell'art. 53, comma 2, secondo periodo, nella versione introdotta nel 2005 ed oggi abrogata, dichiarando non fondata la questione sollevata in riferimento agli artt. 3, 24 e 111, comma 2, Cost.

Ad avviso della Consulta, difatti, in materia di disciplina del processo e di conformazione degli istituti processuali, il legislatore dispone di un'ampia discrezionalità con il solo limite della manifesta irragionevolezza o arbitrarietà delle scelte compiute, ravvisabile, con riferimento specifico all'art. 24 Cost., solo laddove emerga un'ingiustificabile compressione del diritto di agire. Tale precetto costituzionale non impone, dunque, che il cittadino possa conseguire la tutela giurisdizionale sempre nello stesso modo e con i medesimi effetti; è sufficiente che non vengano imposti oneri o prescritte modalità tali da rendere impossibile o estremamente difficile l'esercizio del diritto di difesa o lo svolgimento dell'attività processuale. L'onere di deposito dell'appello presso la segreteria del giudice a quo, imposto dall'art. 53 del d.lgs. n. 546/1992, nella pregressa formulazione, è stato ritenuto, al contrario, di per sè non eccessivamente gravoso, ed, inoltre, giustificato dalla ratio della norma, ravvisabile nell'intento di evitare il rischio di una erronea attestazione del passaggio in giudicato della sentenza di primo grado, che potrebbe verificarsi qualora l'appellante notifichi il ricorso in appello non avvalendosi dell'ufficiale giudiziario, tenuto per legge, ai sensi dell'art. 123 disp. att. c.p.c., a dare avviso scritto dell'impugnazione alla segreteria della commissione a quo. La Corte costituzionale si era, peraltro, già espressa più volte nello stesso senso (v. Corte cost. ord. n. 141/2011, Corte cost. n. 17/2011, Corte cost. ord. n. 43/2010, Corte cost. n. 321/2009; in particolare nell'ordinanza Corte cost. ord. n. 43/2010, da un lato, si è esclusa l'asserita ingiustificata diversità di trattamento tra processo civile e processo tributario, sia per il mancato superamento del limite di arbitrarietà e ragionevolezza, sia per l'assenza nel processo civile ordinario della peculiare facoltà di notificare direttamente l'appello, e, dall'altro, si è identificato il termine per l'espletamento dell'onere con quello stabilito per la costituzione in giudizio dell'appellante). Ad ogni modo, l'affermata legittimità costituzionale della pregressa disciplina non si traduce nella sua ineluttabilità, sicché la recente soppressione dell'obbligo di deposito dell'atto presso la segreteria del giudice della sentenza impugnata non dovrebbe suscitare alcun dubbio di illegittimità rispetto ai parametri costituzionali.

La Suprema Corte è spesso intervenuta al fine di definire l'interpretazione dell'art. 53, comma 2, secondo periodo, del d.lgs. n. 546/1992, nella versione in vigore dal 3 dicembre 2005 al 13 dicembre 2014.

In primo luogo, si è specificato che la modifica dell'art. 53 apportata dalla legge di conversione n. 248 del 2005, che ha introdotto l'art. 3-bis, comma 7, del d.l. n. 203 del 2005, nel prevedere, a pena d'inammissibilità, il deposito della copia dell'appello presso l'ufficio di segreteria della commissione tributaria che ha pronunciato la sentenza impugnata, istituisce un onere finalizzato al perfezionamento dell'impugnazione proposta che si applica ai soli ricorsi successivi alla sua entrata in vigore e non anche a quelli proposti in data precedente (Cass. V, n. 5347/2015 e Cass. V, n. 21077/2011). La Suprema Corte continua, invece, a ritenere applicabile la disposizione in esame nella sua pregressa formulazione agli appelli anteriori al 13 dicembre 2014, come si evince da Cass. VI, n. 3442/2016, che ha confermato la pronuncia impugnata con cui era stata dichiarata l'inammissibilità dell'appello proposto prima dell'entrata in vigore del d.lgs. n. 175 del 2014 in conseguenza del suo omesso deposito presso la segreteria della commissione tributaria provinciale, espressamente qualificando come irrilevante la nuova disciplina rispetto a quelle fattispecie già perfezionate in epoca antecedente (v. anche le recentissime Cass. VI, n. 1635/2017 e Cass. VI, n. 22627/2017 secondo cui il deposito di copia dell'appello presso la segreteria della commissione che ha emesso la sentenza impugnata, quale requisito di ammissibilità dell'appello non notificato a mezzo di ufficiale postale, è stato eliminato dall'art. 36 d.lgs. n. 175 del 2014 con efficacia non retroattiva, compatibile con l'art. 6 della CEDU, che non garantisce il diritto a beneficiare di norme procedurali sopravvenute, a cui lo Stato può legittimamente applicare il principio tempus regit actum.: in applicazione di tale principio, la S.C. ha escluso l'applicabilità della modifica dell'art. 53 in una fattispecie in cui la spedizione dell'appello era avvenuta anteriormente alla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 175 del 2014 e, cioè, anteriormente al 13 dicembre 2014, confermando, quindi, l'inammissibilità dell'appello in conseguenza dell'omesso deposito). La posizione appare condivisibile, considerato che il principio tempus regit actum comporta l'immediata applicabilità delle norme processuali che è possibile, però, ove manchi una specifica disciplina transitoria, solo con riferimento agli atti posti in essere posteriormente alla loro entrata in vigore, nel rispetto del principio generale d'irretroattività della legge di cui all'art. 11 d.p.c.c.

Relativamente alle modalità di espletamento dell'adempimento in esame, come affermato da Cass. VI, n. 12861/2014, e da Cass. V, n. 8388/2010, in ossequio alle indicazioni della Consulta, il deposito di copia dell'appello notificato non a mezzo di ufficiale giudiziario presso la segreteria della commissione che ha emesso la sentenza impugnata deve aver luogo entro il termine perentorio di trenta giorni, indicato dalla prima parte della medesima disposizione, attraverso il richiamo all'art. 22, comma 1, per il deposito del ricorso presso la segreteria della commissione ad quem, trattandosi di attività finalizzata al perfezionamento del gravame.

Cass. V, n. 14273/2016 e Cass. VI, n. 9319/2014 hanno precisato che la notifica tramite il messo di cui all'art. 16, comma 4, equivale integralmente a quella effettuata a mezzo ufficiale giudiziario, sicché in tale ipotesi non si applica la prescrizione de qua e l'omesso deposito della copia dell'appello presso la segreteria della commissione tributaria provinciale che ha pronunciato la sentenza impugnata non determina l'inammissibilità del gravame, trovando applicazione piuttosto la regola di cui all'art. 123 disp. att. c.p.c., che onera l'ufficiale giudiziario (e, quindi, anche il messo notificatore) di dare immediato avviso scritto dell'avvenuta notificazione dell'appello al cancelliere del giudice che ha reso la sentenza impugnata.

Cass. VI, n. 24669/2015 ha, invece, chiarito che il deposito di copia dell'appello nella segreteria della commissione tributaria di primo grado può avvenire anche a mezzo posta, non derivando da tale irritualità una sanzione di nullità in mancanza di una esplicita disposizione in tal senso, ma che, ai fini della decorrenza dell'adempimento, opera la data di ricezione dell'atto e non quella di spedizione. Del resto, come già stabilito da Cass. S.U., n. 5160/2009, l'invio a mezzo posta dell'atto processuale destinato alla cancelleria (nella specie, memoria di costituzione in giudizio comprensiva di domanda riconvenzionale), anche laddove non espressamente consentito, realizza un deposito irrituale, in quanto non previsto dalla legge, che, tuttavia, riguardando un'attività materiale priva di requisito volitivo autonomo, non riservata al difensore, ma delegabile anche un nuncius, può essere idoneo a raggiungere lo scopo, con conseguente sanatoria del vizio ex art. 156, comma 3, c.p.c., la cui decorrenza, però, resta ancorata alla data di ricezione dell'atto da parte del cancelliere e non a quella di spedizione, non applicandosi il principio della scissione, che vale solo per la notifica e non per il deposito.

Cass. V, n. 24289/2018 ha affermato, con riferimento alla disposizione oramai soppressa dal d.l. n. 203 del 2005, convertito in l. n. 248 del 2005, che l'appellante può dimostrare di aver depositato copia dell'atto di appello presso la segreteria della Commissione tributaria provinciale che ha emesso la sentenza di primo grado, depositando, al momento della costituzione in giudizio, ricevuta di detta segreteria attestante tale presentazione, senza che sia necessario il rinvenimento della copia (integrale o meno) dell'atto medesimo nel fascicolo d'ufficio di primo grado rimesso alla Commissione tributaria regionale.

Se l'appello principale è inammissibile ai sensi dell'art. 53, comma 2, secondo periodo, d.lgs. n. 546 del 1992, nella versione applicabile ratione temporis, prima dell'ultima modifica del 2014, anche l'appello  incidentale è inammissibile, pur se tempestivamente proposto, quando non sia depositata copia dello stesso nella segreteria della commissione tributaria che ha pronunciato la sentenza impugnata, atteso che, pur non essendo l'impugnazione incidentale travolta dall'inammissibilità di quella principale, secondo quanto previsto dall'art. 334 c.p.c. per le sole impugnazioni incidentali tardive, l'incombente del deposito deve ritenersi imposto anche all'appellante incidentale tempestivo, in quanto diretto ad evitare il rischio di un'erronea attestazione del passaggio in giudicato della sentenza impugnata.

Come precisato da Cass. V, n. 8809 del 2021, in caso di mancato tempestivo deposito da parte dell'appellante principale dell'atto notificato presso la segreteria della Commissione tributaria, l'appello incidentale tempestivo, non notificato a mezzo di ufficiale giudiziario, deve essere, a pena di inammissibilità, depositato in copia presso la segreteria della CTP che ha emesso la sentenza impugnata, non potendo tale adempimento essere sostituito dalla richiesta di acquisizione del fascicolo di primo grado ex art. 53, comma 3, del d.lgs. n. 546 del 1992, "ratione temporis" vigente, ancorché, come nella specie, tale istanza venga ricevuta dalla segreteria del giudice di primo grado antecedentemente alla costituzione dell'appellante incidentale. Neppure in tale evenienza, infatti, detta richiesta può reputarsi equipollente all'adempimento di cui all'art. 53, comma 2, del d.lgs. cit., attesa la sua inidoneità a far conseguire una sicura informazione circa l'avvenuta proposizione dell'impugnazione incidentale la quale, rispetto a quella principale, costituisce una mera eventualità. Del resto, la previsione di tale onere a carico dell'appellante incidentale non gli rende eccessivamente difficile l'esercizio del diritto di difesa, spettandogli il termine di sessanta giorni dalla notifica dell'appello principale per costituirsi e, quindi, per verificare se l'appellante principale abbia effettuato l'adempimento o se, invece, egli debba surrogarsi a questo per evitare la pronuncia di inammissibilità (così Cass. V, n. 15432/2015, e Cass. V, n. 4679/2012; v. anche Cass. V, n. 1446/2022, secondo cui qualora l'appello principale sia inammissibile per mancato deposito dell'atto d'impugnazione nella segreteria della Commissione tributaria che ha pronunciato la sentenza impugnata, è inammissibile anche l'appello incidentale egualmente non depositato, atteso che tale obbligo di deposito deve ritenersi imposto anche all'appellante incidentale, pur se tempestivo, ai sensi dell'art. 53, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992, vigente "ratione temporis", in quanto diretto ad evitare il rischio di un'erronea attestazione del passaggio in giudicato della sentenza impugnata da parte della segreteria del giudice di primo grado). Pure deve segnalarsi Cass. VI, n. 1253/2017, con cui si è puntualizzato che l'inammissibilità dell'appello principale comporta l'inammissibilità di quello incidentale tempestivo solo se dichiarata in ragione dell'omesso o tardivo deposito dell'atto d'impugnazione nella segreteria della commissione tributaria di primo grado, mentre, qualora non sussista il rischio di un'erronea attestazione del passaggio in giudicato della sentenza impugnata, per essere stato regolarmente effettuato il deposito dell'appello principale presso la segreteria del giudice di primo grado, la declaratoria di inammissibilità di quest'ultimo per altre cause (nella specie, per carenza di specificità dei motivi d'impugnazione) non comporta la caducazione dell'appello incidentale tempestivo.

Relativamente alla disciplina pregressa, in vigore dal 3 dicembre 2005 al 13 dicembre 2014, la giurisprudenza di legittimità ha avuto modo di specificare che la modifica dell'art. 53 apportata dalla legge di conversione n. 248 del 2005, che ha introdotto l'art. 3-bis, comma 7, del d.l. n. 203 del 2005, nel prevedere, a pena d'inammissibilità, il deposito della copia dell'appello presso l'ufficio di segreteria della commissione tributaria che ha pronunciato la sentenza impugnata, istituisce un onere finalizzato al perfezionamento dell'impugnazione proposta che si applica ai soli ricorsi successivi alla sua entrata in vigore e non anche a quelli proposti in data precedente (Cass. V, n. 5347/2015 e Cass. V, n. 21077/2011). La Suprema Corte continua, invece, a ritenere applicabile la disposizione in esame nella sua pregressa formulazione agli appelli anteriori al 13 dicembre 2014, come si evince da Cass. VI, n. 3442/2016, che ha confermato la pronuncia impugnata con cui era stata dichiarata l'inammissibilità dell'appello proposto prima dell'entrata in vigore del d.lgs. n. 175 del 2014 in conseguenza del suo omesso deposito presso la segreteria della commissione tributaria provinciale, espressamente qualificando come irrilevante la nuova disciplina rispetto a quelle fattispecie già perfezionate in epoca antecedente (v. anche la recentissima Cass. VI, n. 1635/2017, secondo cui il deposito di copia dell'appello presso la segreteria della commissione che ha emesso la sentenza impugnata, quale requisito di ammissibilità dell'appello non notificato a mezzo di ufficiale postale, è stato eliminato dall'art. 36 d.lgs. n. 175 del 2014 con efficacia non retroattiva, compatibile con l'art. 6 della CEDU, che non garantisce il diritto a beneficiare di norme procedurali sopravvenute, a cui lo Stato può legittimamente applicare il principio tempus regit actum.: in applicazione di tale principio, la S.C. ha escluso l'applicabilità della modifica dell'art. 53 in una fattispecie in cui la spedizione dell'appello era avvenuta anteriormente alla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 175 del 2014 e, cioè, anteriormente al 13 dicembre 2014, confermando, quindi, l'inammissibilità dell'appello in conseguenza dell'omesso deposito). La posizione appare condivisibile, considerato che il principio tempus regit actum comporta l'immediata applicabilità delle norme processuali che è possibile, però, ove manchi una specifica disciplina transitoria, solo con riferimento agli atti posti in essere posteriormente alla loro entrata in vigore, nel rispetto del principio generale d'irretroattività della legge di cui all'art. 11 d.p.c.c.

Anche ad avviso di Cass. VI, n. 22627/2017, la disposizione di cui all'art 36 d.lgs. n. 175 del 2014, che ha abrogato il secondo periodo del comma 2 dell'art. 53 del d.lgs. n. 546 del 1992, non si applica qualora la spedizione dell'appello sia avvenuta in epoca anteriore all'entrata in vigore della normativa sopravvenuta, non contrastando tale previsione con i principi della CEDU secondo i quali il legislatore può legittimamente applicare alle norme di procedura il principio tempus regit actum, per cui è stata confermata la sentenza di merito che aveva dichiarato inammissibile l'appello in quanto la parte aveva omesso di depositare l'atto di appello spedito a mezzo raccomandata presso la segreteria del giudice che aveva emesso la sentenza di primo grado in data antecedente l'entrata in vigore della norma.

Importante segnalare che, secondo la recentissima Cass. V, n. 2702/2022, La verifica, da parte del giudice tributario di secondo grado, dell'avvenuto deposito dell'atto d'appello presso la segreteria del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata, quando il ricorso non sia notificato a mezzo di ufficiale giudiziario (ai sensi dell'art. 53, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992), costituisce oggetto di un accertamento di fatto, e non di un'interpretazione degli atti processuali. Pertanto, la parte la quale lamenti che il giudice d'appello abbia dichiarato inammissibile il gravame, sull'erroneo presupposto che il suddetto deposito non fosse avvenuto, ha l'onere di impugnare la sentenza con la revocazione ordinaria, e non col ricorso per cassazione.

Parti del giudizio di appello

La dizione dell'art. 53, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992, ai sensi del quale il ricorso «è proposto ... nei confronti di tutte le parti che hanno partecipato al giudizio di primo grado», ha indotto una parte della dottrina a sostenere che l'appello tributario si caratterizza per il litisconsorzio necessario, comportando l'applicazione generalizzata dell'art. 331 c.p.c., secondo cui «se la sentenza pronunciata tra più parti in causa inscindibile o in cause tra di loro dipendenti non è stata impugnata nei confronti di tutte, il giudice ordina l'integrazione del contraddittorio», a pena d'inammissibilità (Santamaria, 5297). Sembra, però, prevalere la tesi secondo cui nel contenzioso tributario permane l'applicazione sia dell'art. 331 sia dell'art. 332 c.p.c., con conseguente necessità di distinguere tra cause inscindibili e cause scindibili, atteso che in queste ultime, ove la notificazione ordinata dal giudice non sia eseguita, l'unica conseguenza consiste nella sospensione del processo sino a quando non siano decorsi i termini di cui agli artt. 325 e 327 c.p.c. (Pistolesi, 2002).

La giurisprudenza di legittimità esclude che la partecipazione di più parti al giudizio dinanzi alla commissione tributaria provinciale determini automaticamente il litisconsorzio necessario e l'applicabilità dell'art. 331 c.p.c. dinanzi alla commissione tributaria regionale, non rinvenendosi nell'art. 53, comma 2, alcuna specifica sanzione processuale in caso di omessa proposizione dell'appello nei confronti di tutte le parti del giudizio di primo grado e dovendosi, quindi, ricercare la disciplina applicabile nel c.p.c.

In definitiva, l'art. 53, comma 2, del d.lgs. 546 del 1992, secondo cui l'appello deve essere proposto nei confronti di tutte le parti che hanno partecipato al giudizio di primo grado, non fa venir meno la distinzione tra cause inscindibili e cause scindibili, ai sensi degli artt. 331 e 332 c.p.c., con la conseguenza che, in presenza di cause scindibili, la mancata proposizione dell'appello nei confronti di tutte le parti presenti in primo grado non comporta l'obbligo di integrare il contraddittorio quando, rispetto alla parti pretermesse, sia ormai decorso il termine per l'impugnazione – così Cass. V, n. 25588/2017, che ha ritenuto esente da critiche l'omessa integrazione del contraddittorio in appello nei confronti del concessionario del servizio di riscossione, convenuto nel giudizio di primo grado insieme all'Amministrazione finanziaria, tenuto conto che l'impugnazione aveva ad oggetto solo l'esistenza dell'obbligazione tributaria e che il termine per impugnare era già decorso.

Segue la stessa impostazione  Cass. V, n. 17698/2009, secondo cui in tema di contenzioso tributario ed in ipotesi di litisconsorzio, per l'esistenza di una situazione che comporti l'obbligo di chiamare in causa anche in appello, ai sensi dell'art. 331 c.p.c., tutte le parti presenti nella prima fase del processo, è necessario che i rapporti dedotti in causa siano inscindibili, non suscettibili di soluzioni differenti nei confronti delle varie parti del giudizio, o che due (o più) rapporti dipendano logicamente l'uno dall'altro, o da un presupposto di fatto comune, in modo tale da non consentire razionalmente l'adozione nei confronti delle diverse parti di soluzioni non conformi perché comporterebbero capi di decisione logicamente in contraddizione tra loro, sicché, quando il giudice di primo grado adotti, senza contraddizioni insanabili, soluzioni diverse nei confronti di più parti, se ne deve dedurre l'insussistenza di alcuna ipotesi di litisconsorzio necessario, nemmeno di carattere processuale, e l'applicabilità dell'art. 332 c.p.c. sull'impugnazione relativa alle cause scindibili, non potendosi argomentare in senso contrario dal disposto del dell'art. 53 del d.lgs. n. 546/1992 — ai sensi del quale «il ricorso in appello è proposto ... nei confronti di tutte le parti che hanno partecipato al giudizio di primo grado ...» — sia perché l'inosservanza di questa prescrizione non è sanzionata con la nullità, sia perché, comunque, ai sensi dell'art. 157 c.p.c., nessuna nullità può essere opposta dalla parte che vi ha rinunziato anche tacitamente.

Recentemente Cass. V, n. 4597/2018 ha precisato che, anche con riguardo al contenzioso tributario, l'l'art. 331 c.p.c. trova applicazione non solo nelle ipotesi di cause inscindibili, ossia di litisconsorzio necessario sostanziale, ma anche in quelle di cd. cause dipendenti che, riguardando due o più rapporti scindibili ma logicamente interdipendenti tra loro o dipendenti da un presupposto di fatto comune, meritano, per esigenze di non contraddizione, l'adozione di soluzioni uniformi nei confronti delle diverse parti che abbiano partecipato al giudizio di primo grado.

Ad ogni modo, come ritenuto da Cass. V, n. 27616/2018 e Cass. V, n. 10934/2015, nel processo tributario, in caso di litisconsorzio processuale, che determina l'inscindibilità delle cause pure in assenza del litisconsorzio necessario di natura sostanziale, l'omessa impugnazione della sentenza nei confronti di tutte le parti non determina l'inammissibilità del gravame, ma la necessità per il giudice d'ordinare l'integrazione del contraddittorio, ai sensi dell'art. 331 c.p.c., nei confronti della parte pretermessa, pena la nullità del procedimento di secondo grado e della sentenza che l'ha concluso, rilevabile d'ufficio anche in sede di legittimità.

Va, tuttavia, segnalato che Cass. V, n. 6204/2023 ha disposto la trasmissione del ricorso al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite della questione riguardante le modalità di proposizione dell'appello incidentale nel processo tributario e le possibili ripercussioni sul diritto di difesa in caso di cause scindibili. In particolare si chiede di chiarire se l'art. 53, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992, disciplini un litisconsorzio necessario processuale che imponga sempre, prescindendo dal carattere scindibile o inscindibile delle cause o della loro dipendenza ai sensi degli artt. 331 e 332 c.p.c., l'integrazione del contraddittorio nei confronti di tutti i partecipanti al giudizio di primo grado, e, cioè, se il legislatore abbia inteso rendere la materia del litisconsorzio nel processo tributario di secondo grado autonoma rispetto a quella contenuta nel codice di procedura civile, così evidenziando gli aspetti peculiari della disciplina del processo tributario di appello e, tra questi, le modalità di proposizione dell'appello tributario stabilite dall'art. 54 del d.lgs. n. 546 del 1992. Nell'ordinanza si è evidenziato che l'art. 53, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992 nulla dice sulla differenza tra cause inscindibili, dipendenti e scindibili e che nel processo tributario,  tenuto conto che l'appello incidentale può essere proposto solo con il deposito dell'atto contenente le controdeduzioni, ai sensi del successivo art. 54, la parte appellata, qualora abbia interesse ad impugnare nei confronti di tutte le parti presenti nel giudizio di primo grado, nelle cause scindibili, non può notificare la sua impugnazione incidentale alle parti presenti nel giudizio di primo grado alle quali l'appellante principale non abbia notificato il suo atto di appello, con la conseguenza che la mancata instaurazione del contraddittorio con le parti interessate dal capo della sentenza, da lui appellata e che lo ha visto soccombente, determina un'evidente e grave lesione del suo diritto di difesa - nella fattispecie in esame, caratterizzata dalla scindibilità delle cause, riguardanti tributi diversi, l'appello principale, proposto dalla sola Agenzia delle Entrate, è stato notificato al solo contribuente e non agli altri enti impositori (Regione e Camera di commercio), nei cui confronti il contribuente pure è risultato soccombente.

Le Sezioni Unite (Cass., S.U., n. 11676/2024, nel risolvere tale questione, hanno affermato che: nel processo tributario con pluralità di parti, l'art. 53, comma 2, del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, laddove prevede la proposizione dell'appello nei confronti di tutte le parti che hanno partecipato al giudizio di primo grado, non fa venir meno la distinzione tra cause inscindibili, dipendenti e scindibili, così come delineata dalle regole processual-civilistiche, e pertanto, nei limiti del rispetto delle regole prescritte dagli artt. 331 e 332, c.p.c.., applicabili al processo tributario, non vi è l'obbligo di integrare il contraddittorio nei confronti delle parti, pur presenti nel giudizio di primo grado, il cui interesse alla partecipazione al grado d'appello, per cause scindibili, sia venuto meno; nel processo tributario, le modalità di proposizione dell'appello incidentale – che l'art. 54, comma 2, del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 prevede che sia contenuto, a pena di inammissibilità, nell'atto di costituzione dell'appellato, al pari delle modalità di proposizione dell'appello incidentale che, a pena di decadenza, l'art. 343, primo comma, c.p.c., prescrive sia contenuto nella medesima comparsa di risposta depositata – riguardano esclusivamente le ipotesi di processi relativi a cause inscindibili o dipendenti, non anche quei giudizi nei quali siano portate al vaglio dell'organo giudiziario cause scindibili; pertanto, l'appellato che intende impugnare la sentenza anche nei confronti di una parte del giudizio di primo grado non convenuta dall'appellante principale in riferimento a cause scindibili, deve proporre l'appello mediante notifica nel termine di cui all'art. 23 del d.lgs. n. 546 del 1992, decorrente dal momento della conoscenza della sentenza e comunque non oltre i termini di decadenza dal diritto all'impugnazione.

Un'ipotesi di litisconsorzio necessario, che determina l'applicazione in appello dell'art. 331 c.p.c., è stata individuata nell'impugnazione della sentenza avente ad oggetto un accertamento in rettifica di dichiarazione congiunta, avverso cui i coniugi abbiano proposto insieme ricorso dinanzi al giudice tributario, essendo unico il titolo impositivo, fondato, in relazione ai diversi soggetti ed ai distinti rapporti tributari, su presupposti almeno in parte comuni (Cass. V, n. 14253/2016).

Va, inoltre, ricordato che la successione a titolo particolare dell'Agenzia delle entrate nei rapporti giuridici strumentali all'adempimento della obbligazione tributaria, intervenuta ex lege, alla data del 1° gennaio 2001, in pendenza del giudizio appello instaurato con atto di impugnazione del Ministero dell'economia e delle finanze avverso la pronuncia di primo grado, determina il formarsi di un litisconsorzio necessario tra l'Amministrazione finanziaria e la stessa Agenzia, con la conseguente necessità di integrazione del contraddittorio, ai sensi dell'art. 331 c.p.c. (Cass. V, n. 13149/2008).

Al contrario, nel giudizio instaurato dai contribuenti ed avente ad oggetto la legittimità della quota di ritenuta fiscale trattenuta dal comune sull'indennità di esproprio (o sulla somma corrisposta per la cessione bonaria dei terreni), l'ente locale è soltanto sostituto d'imposta e, quindi, obbligato in solido in un rapporto impositivo di cui è parte, come ente impositore, l'Amministrazione finanziaria dello Stato, sicché, non essendo un litisconsorte necessario, non vi è l'obbligo di disporre l'integrazione del contraddittorio nei suoi confronti neppure in secondo grado, ove ormai sia decorso il termine per l'impugnazione, atteso che l'art. 53, comma 2, ai sensi del quale l'appello deve essere proposto nei confronti di tutte le parti che hanno partecipato al giudizio di primo grado, non fa venir meno la distinzione tra cause inscindibili e cause scindibili (Cass. V, n. 18361/2015). Allo stesso modo, il giudice d'appello non è tenuto a disporre l'integrazione del contraddittorio nei confronti del coobbligato solidale che ha autonomamente impugnato l'avviso di accertamento (nella specie, di maggior valore, emesso dall'Ufficio del Registro sia nei confronti del venditore che dell'acquirente di un immobile), atteso che, nel caso di solidarietà tributaria non ricorre un'ipotesi di litisconsorzio necessario, instaurando ciascun ricorso contro lo stesso accertamento distinti rapporti processuali (Cass. V, n. 13800/2000).

Adempimenti della segreteria della commissione tributaria

In un'ottica di semplificazione, al fine di alleggerire gli adempimenti a carico dell'appellante tributario, lart. 53 ultimo comma, stabilisce che la segreteria della commissione tributaria regionale, subito dopo il deposito del ricorso, chiede alla segreteria del giudice di primo grado la trasmissione del fascicolo del processo, che deve contenere la copia autentica della sentenza di primo grado (così Turchi). Ne consegue che l'appellante non dovrà né formulare una specifica richiesta in proposito né produrre copia autentica della sentenza di primo grado, come, invece, richiesto nel processo civile dall'art. 347, comma 2, c.p.c., ma semplicemente deve formare un proprio fascicolo di parte.

Come precisato dalla giurisprudenza, nel processo tributario, l'omessa allegazione all'atto di appello della sentenza impugnata non determina l'inammissibilità del gravame, atteso che tale adempimento non è espressamente imposto da alcuna norma e che l'art. 53 del d.lgs. 546 del 1992, nel prevedere che il fascicolo trasmesso dalla commissione di primo grado a quella di appello debba includere copia della sentenza anzidetta, costituisce sicuro elemento utile al fine di esonerare dal medesimo onere l'appellante (Cass. VI, n. 24470/2015). Del resto, anche nell'appello civile, tale adempimento risulta ridimensionato: ad esempio, ad avviso di Cass. n. 23713/2016, l'art. 347, comma 2, c.p.c. stabilisce che l'appellante deve inserire nel proprio fascicolo copia della sentenza impugnata, ma, in caso di omissione, non commina la sanzione dell'improcedibilità come previsto, invece, dall'art. 348 c.p.c. per la mancata costituzione nei termini o per l'omessa comparizione dell'appellante alla prima udienza ed a quella successiva all'uopo fissata, sicché la mancanza in atti della sentenza impugnata non preclude al giudice la possibilità di decidere nel merito qualora, sulla base degli atti, egli disponga di elementi sufficienti. Va, tuttavia, segnalato il precedente di Cass. VI, n. 1079/2014, secondo cui il giudice di appello che, al momento della decisione, verifichi che la parte appellante non ha depositato la sentenza impugnata, indispensabile per individuare l'oggetto del gravame e le statuizioni contestate, e che la stessa non è, comunque, presente tra gli atti di causa, deve dichiarare l'improcedibilità del gravame, non potendo ovviare all'impedimento riscontrato rimettendo la causa sul ruolo con invito alla parte interessata a provvedere al relativo deposito). Occorre, invece, ricordare che in sede di giudizio di legittimità, deve essere depositata, a pena d'improcedibilità, unitamente al ricorso per cassazione, la copia autentica della sentenza della commissione tributaria impugnata ex art. 369 c.p.c. (da ultimo Cass. V, n. 14207/2015, secondo cui, in materia d'impugnazione di cassazione, l'art. 369, comma 2, n. 2, c.p.c., esigendo, a pena d'improcedibilità, che con il ricorso venga depositata copia autentica della sentenza impugnata, esclude che al mancato deposito possa supplirsi con la conoscenza che della stessa sentenza si attinga da altri atti del processo e, in particolare, dalla copia depositata dalla controparte o dall'esistenza della sentenza nel fascicolo d'ufficio).

È stato altresì puntualizzato che, in mancanza di una previsione specifica sulla certificazione del passaggio in giudicato della sentenza, va applicato per analogia legis, secondo la previsione dell'art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 546/1992, l'art. 124 disp. att. c.p.c., sicché è necessario che il segretario della commissione tributaria, provinciale o regionale, certifichi, in calce alla copia della sentenza contenente la relazione della notificazione alla controparte o alla copia della sentenza non notificata, che nei termini di legge non è stata proposta impugnazione, mentre non può ritenersi equipollente l'attestazione della commissione tributaria provinciale secondo cui, ad una data posteriore alla scadenza del termine per la proposizione dell'appello di una sua sentenza, non è stata chiesta dalla commissione tributaria regionale la trasmissione del fascicolo di primo grado prevista dall'art. 53, comma 3 (Cass. V, n. 21366/2015).

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