Decreto legislativo - 31/12/1992 - n. 546 art. 57 - Domande ed eccezioni nuove 1 2 .

Francesca Picardi

Domande ed eccezioni nuove12.

1. Nel giudizio d'appello non possono proporsi domande nuove e, se proposte, debbono essere dichiarate inammissibili d'ufficio. Possono tuttavia essere chiesti gli interessi maturati dopo la sentenza impugnata.

2. Non possono proporsi nuove eccezioni che non siano rilevabili anche d'ufficio.

[1] Per l'abrogazione del presente articolo, a decorrere dal 1° gennaio 2026, vedi l'articolo 130, comma 1, lettera d), del D.Lgs. 14 novembre 2024, n. 175. Vedi, anche, l'articolo 130, comma 3, del D.Lgs. 175/2024 medesimo.

[2] Per le nuove disposizioni legislative in materia di giustizia tributaria, di cui al presente articolo, a decorrere dal 1° gennaio 2026, vedi l'articolo 111 del D.Lgs. 14 novembre 2024, n. 175.

Inquadramento.

La disposizione in esame ricalca il contenuto dell'art. 345, commi 1 e 2, c.p.c., ai sensi del quale nel giudizio d'appello non possono proporsi né domande nuove, che, se proposte, debbono essere dichiarate inammissibili d'ufficio, né nuove eccezioni, che non siano rilevabili anche d'ufficio, ma possono tuttavia domandarsi gli interessi, i frutti e gli accessori maturati dopo la sentenza impugnata, nonché il risarcimento dei danni sofferti dopo la sentenza stessa. Essa costituisce esplicitazione del divieto di ius novorum in appello, integrato sul piano istruttorio dal successivo art. 58 del d.lgs. n. 546/1992, e contribuisce all'individuazione dell'oggetto dell'appello, che, al fine di assicurare il doppio grado di giurisdizione, non può essere esteso rispetto a quello del primo grado (Gianoncelli, 796), in conformità, secondo una parte della dottrina, alla natura di revisio prioris istantiae di tale giudizio (Dalla Bontà, 695; Falsitta, 553).

Ad ogni modo, il divieto di nuove domande era ritenuto operante anche prima del d.lgs. n. 546 del 1992, in virtù dell'applicazione analogica dell'art. 345, comma 2, c.p.c., non potendo né il contribuente integrare i motivi, in virtù dell'art. 19-bis del d.P.R. n. 636 del 1972, oltre la data in cui alla parte ricorrente risultasse comunicato l'avviso di fissazione di udienza dinanzi alla commissione tributaria di primo grado, né l'Amministrazione avanzare una pretesa impositiva diversa da quella espressa nell'atto impugnato (Pistolesi, 268). Al contrario, quello delle nuove eccezioni in senso stretto è una novità rispetto al regime precedente, come confermato dall'art. 79 del d.lgs. n. 546 del 1992, che esclude l'applicazione del solo comma 2, riferito alle eccezioni, e non del comma 1, riferito alle domande, ai giudizi già pendenti in appello davanti alla commissione tributaria di secondo grado e a quelli iniziati davanti alla commissione tributaria regionale se il primo grado si è svolto sotto la disciplina della legge anteriore (Gianoncelli, 798; in senso parzialmente diverso Pistolesi, L'appello nel processo tributario, Torino, 2002, 301, anche nel vigore del d.P.R. n. 636 del 1972, non potevano proporsi in appello nuove eccezioni sostanziali, in quanto assimilabili ai motivi del ricorso introduttivo del giudizio, per cui la differenza nella disciplina tra il precedente e l'attuale sistema processuale riguarderebbe solo le eccezioni processuali o di rito).

Come precisato dalla dottrina, è preclusa l'allegazione di nuovi fatti, ma non la loro riqualificazione giuridica o il riferimento a norme giuridiche diverse da quelle originariamente invocate, coerentemente, peraltro, con il principio jura novit curia (Pistolesi, 279).

Ad avviso della giurisprudenza, come della dottrina, il divieto di proporre nuove domande in appello operava anche nel vigore del d.P.R. n. 636 del 1972: così, secondo la recente Cass. VI, n. 14074/2016, l'art. 19-bis del d.P.R. n. 636 del 1972, aggiunto dall'art. 11 del d.P.R. n. 739 del 1981, consente al contribuente di integrare, soltanto nel giudizio di primo grado, i motivi proposti con il ricorso a contestazione della pretesa tributaria, fino alla data di comunicazione del decreto di fissazione dell'udienza di discussione ed anche ulteriormente ove ricorrano determinate incertezze, sicché è inammissibile la successiva deduzione, innanzi alla commissione tributaria di secondo grado o a quella centrale (e, quindi, anche davanti alla Corte d'appello), di motivi non proposti nel giudizio di primo grado ed è ugualmente inammissibile la prospettazione di nuove ragioni che implichino la valutazione di fatti e situazioni in tale sede non dedotti. Al contrario, il divieto di proporre in appello nuove eccezioni in senso tecnico, introdotto con l'art. 57, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992, non si applica, in virtù della norma transitoria dettata nel successivo art. 79, ai giudizi già pendenti in grado di appello davanti alle commissioni tributarie di secondo grado e a quelli già iniziati davanti alla commissione tributaria regionale, se il primo grado si è svolto sotto la disciplina della legge anteriore, che stabiliva il divieto delle sole «domande nuove» e non anche delle eccezioni nuove (Cass. V, n. 23615/2011; v. anche Cass. V, n. 6858/2009, secondo cui il divieto di proporre eccezioni nuove in secondo grado, stabilito dall'art. 57, non si estende ai giudizi pendenti davanti alla Commissione Tributaria Centrale alla data del 1° aprile 1996, in quanto a tale giudizio continuano ad applicarsi, in virtù della norma transitoria contenuta nell'art. 75, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992, le disposizioni precedenti, non includenti il divieto di nuove eccezioni in appello).

Non ricade nell'ambito applicativo della norma in esame la diversa qualificazione giuridica dei fatti allegati dalle parti (v., tra le altre, Cass. V, n. 525/2007, secondo cui qualora il contribuente impugni l'avviso di accertamento con cui, in rettifica del dichiarato reddito d'impresa, l'ufficio consideri utile di esercizio imponibile la somma percepita a rimborso di opere di ristrutturazione di un immobile, non è nuovo e, quindi, inammissibile il motivo di appello con cui l'ufficio riconduca tale introito, già in primo grado definito finanziamento infruttifero, al diverso concetto di contributo di cui all'art. 53, comma 1, lett. e), del d.P.R. n. 917 del 1986, in quanto, inalterati i fatti costitutivi della pretesa fiscale, viene semplicemente introdotta una loro diversa qualificazione giuridica, senza alcuna menomazione del diritto di difesa della controparte). Deve, però, segnalarsi un recente contrasto insorto relativamente alla possibilità del giudice di applicare una norma diversa da quella invocata dal contribuente in tema di decadenza dell'azione impositiva. In particolare, secondo la recente Cass. V, n. 25077/2014, allorché il contribuente eccepisca in primo grado la decadenza dell'Amministrazione finanziaria dal potere di riscossione, facendo riferimento ad un termine intermedio (nella specie, quello di cui all'art. 17, primo comma, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, nel testo vigente ratione temporis), il giudice di appello che accerti e dichiari la tardività della notifica della cartella esattoriale per violazione del termine di cui all'art. 1, comma 5-bis, del d.l. 17 giugno 2005, n. 106, conv. con modif. nella legge 31 luglio 2005, n. 156, non rileva d'ufficio un'eccezione non proposta, ma si limita a qualificare in termini giuridici diversi la già formulata deduzione di decadenza, sulla base di circostanze di fatto acquisite agli atti di primo grado ed indiscusse. Precedentemente, invece, Cass. V, n. 12594/2008, ha affermato che, allorché il contribuente eccepisca nel ricorso introduttivo la violazione del termine stabilito per la liquidazione dell'imposta ex art. 36-bis del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, costituisce questione nuova — come tale interdetta ex art. 57 del d.lgs. n. 546 del 1992 — la richiesta, avanzata in sede di appello, di dichiarare la tardività della notificazione della cartella che sia stata eseguita oltre il termine indicato dal combinato disposto degli artt. 17 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 e 43 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600.

Le nuove domande vietate

Ad avviso della dottrina prevalente, il divieto di nuove domande riguarda esclusivamente il contribuente e non l'ente impositore, che anche in primo grado è tenuto soltanto a difendere l'atto impugnato, in base al cui contenuto restano fissate le sue richieste impositive e sanzionatorie. Tale posizione merita sicura condivisione relativamente all'impugnazione del diniego di rimborso, atteso che in tale giudizio l'Amministrazione finanziaria si limita a negare il diritto del contribuente, negandone i fatti costitutivi o allegandone i fatti modificativi, estintivi, impeditivi, mentre è discutibile laddove sia impugnato un atto impositivo, potendo l'Amministrazione finanziaria allegare nuovi fatti costitutivi del credito tributario, che, tenuto conto della natura etero-determinata del rapporto obbligatorio, si traducono nella formulazione di una diversa pretesa impositiva, preclusa in virtù del divieto in esame (Gianoncelli, 798).

Per quanto concerne il contribuente integra sicuramente una domanda nuova, oltre quella avente ad oggetto un atto diverso da quello impugnato, quella fondata su vizi dell'atto impugnato non allegati dinanzi alla commissione tributaria provinciale, integrando l'immodificabilità dei motivi una diretta conseguenza della natura impugnatoria del giudizio tributario, il cui oggetto è definito dalle censure formulate e non può essere esteso in secondo grado. Una parte della dottrina ritiene, difatti, che l'azione di annullamento è integrata non solo dal petitum, ma anche dalla causa petendi, costituita dai motivi. Alla stessa conclusione pervengono anche coloro che, pur non identificando i motivi su cui si fonda il ricorso con la causa petendi, rinvengono in essi un limite alla cognizione del giudice che si affianca a quello costituito dall'atto impugnato e ritengono, pertanto, inammissibile sia l'allegazione di nuovi fatti sia la prospettazione di nuove questioni giuridiche (Pistolesi, 272, il quale sottolinea come non può pervenirsi all'incongruo risultato di consentire la deduzione di ulteriori motivi in appello, quando in primo grado la facoltà di ampliare quelli contenuti nel ricorso introduttivo è riconosciuta nella sola ipotesi di cui all'art. 24 del d.lgs. n. 546 del 1992). Ad ogni modo, il divieto de quo viene addirittura ritenuto pleonastico nella misura in cui esiste già in primo grado, derivando dal carattere perentorio del termine di impugnazione l'impossibilità d'integrare i motivi di ricorso (Gianoncelli, 798).

Non si pone il problema specifico delle domande riconvenzionali, che non sono configurabili nel giudizio tributario (Pistolesi, 271).

Si ammette, invece, in appello l'eventuale riduzione della pretesa tributaria da parte dell'Ufficio, che corrisponde non tanto alla formulazione di una nuova domanda, ma alla modifica delle conclusioni e asseconda le stesse esigenze che giustificano l'autotutela (Dalla Bontà, 700)

Parimenti è consentita la precisazione o specificazione della causa petendi, consistente eventualmente nella enunciazione di ulteriori argomentazioni, o la diversa qualificazione giuridica dei fatti già dedotti, mentre il riferimento ad una nuova norma giuridica risulta precluso laddove si traduca nella prospettazione di un nuovo vizio dell'atto impugnato, che, come visto, ricade nel divieto in esame (Gianoncelli, 802).

Infine, può chiedersi in appello, entro il primo atto difensivo successivo alla sua entrata in vigore, l'applicazione dello ius superveniens, che non comporti la deduzione di nuove pretese o di nuovi fatti (Pistolesi, 278).

La violazione del divieto de quo determina l'inammissibilità della nuova domanda proposta in appello, rilevabile d'ufficio anche in sede di legittimità, salva la necessità di una specifica impugnazione laddove la questione non sia stata oggetto di una specifica decisione.

Recentemente Cass. V, n. 5160/2020 ha puntualizzato che, in tema di contenzioso tributario, il divieto di domande nuove previsto all'art. 57, comma 1, trova applicazione anche nei confronti dell'Amministrazione finanziaria, alla quale non è consentito, innanzi al giudice d'appello, mutare i termini della contestazione, deducendo motivi diversi, sotto il profilo del fondamento giustificativo, da quelli contenuti nell'atto impositivo - nella specie, concernente avviso di accertamento per disconoscimento dell'inerenza di costi di pubblicità, la S.C. ha ritenuto integrare domanda nuova, per diversità di "petitum" e "causa petendi", la qualificazione degli stessi costi come spese di rappresentanza, operata dall'Amministrazione nel giudizio di appello. Seguendo la medesima impostazione Cass. V, n.15730/2020, ha confermato la sentenza della CTR che, a fronte del motivo del ricorso originario fondato sulla mancata sottoscrizione del ruolo, aveva ritenuto non integrasse una domanda nuova la deduzione da parte dell'Amministrazione, in sede di gravame, dell'avvenuta sottoscrizione non solo digitale, come eccepito innanzi alla CTP, ma anche manuale del ruolo medesimo, non concretando un nuovo tema di indagine e di decisione: difatti, si ha domanda nuova - inammissibile in appello – soltanto laddove vi sia una modificazione della "causa petendi" e, cioè, quando il diverso titolo giuridico della pretesa, dedotto innanzi al giudice di secondo grado, essendo impostato su presupposti di fatto e su situazioni giuridiche non prospettate in primo grado, comporti il mutamento dei fatti costitutivi del diritto azionato e, introducendo nel processo un nuovo tema di indagine e di decisione, alteri l'oggetto sostanziale dell'azione e i termini della controversia, in modo da porre in essere una pretesa diversa, per la sua intrinseca essenza, da quella fatta valere in primo grado e sulla quale non si è svolto in quella sede il contraddittorio. Merita di essere segnalata anche Cass. V, n. 18830/2020, secondo cui il contribuente quando impugna il silenzio rifiuto su di un'istanza di rimborso d'imposta, deve dimostrare, in punto di fatto, che non sussiste alcuna delle ipotesi che legittimano il rifiuto, mentre l'Amministrazione finanziaria può difendersi senza alcun vincolo ad una specifica motivazione di rigetto, sì che le eventuali incongruenze del ricorso introduttivo possono legittimamente essere eccepite dall'Ufficio anche in grado di appello a prescindere dalla preclusione posta dall'art. 57, trattandosi comunque di rilievi pur sempre attinenti all'originario tema del decidere e cioè la sussistenza o meno dei presupposti idonei a legittimare il rifiuto del richiesto rimborso.

Nel processo tributario d'appello, la nuova difesa del contribuente, ove non sia riconducibile all'originaria causa petendi e si fondi su fatti diversi da quelli dedotti in primo grado, che ampliano l'indagine giudiziaria ed allargano la materia del contendere, non integra un'eccezione, ma si traduce in un motivo aggiunto e, dunque, in una nuova domanda, vietata ai sensi degli artt. 24 e 57 del d.lgs. n. 546 del 1992 (Cass. V, n. 13742/2015). 

Recentemente Cass. V n. 32390/2022ha precisato che nel processo tributario d'appello, la nuova difesa del contribuente, ove non sia riconducibile all'originaria causa petendi e si fondi su fatti diversi da quelli dedotti in primo grado, che ampliano l'indagine giudiziaria ed allargano la materia del contendere, non integra un'eccezione, ma si traduce in un motivo aggiunto e, dunque, in una nuova domanda, vietata ai sensi degli artt. 24 e 57 del d.lgs. n. 546 del 1992.

  In modo  speculare si è affermato che nel giudizio tributario è configurabile una domanda nuova, inammissibile in appello, quando il contribuente introduce una diversa "causa petendi", deducendo un differente tema di indagine e di decisione idoneo ad alterare l'oggetto sostanziale dell'azione e i termini della controversia, mentre il contribuente ,  che, nel primo grado, abbia comunque contestato in toto  l 'an   debeatur ,  è legittimato a sollevare col gravame una diversa prospettazione giuridica del medesimo petitum sulla non debenza del tributo  -    diversa prospettazione  che sia sostanzialmente  ricompresa nel petitum come originariamente formulato in primo grado  (così Cass. V, n. 2058/2024, c he ha escluso  che i motivi di appello aventi a d oggetto la carenza del potere impositivo del  Comune  o la riduzione d'imposta  integrassero una domanda nuova, a fronte della  integrale  negazione de l l a pretesa tributaria in primo grado).

In tema di iscrizione ipotecaria per crediti erariali, l'illegittimità del relativo avviso derivante dal superamento della soglia legale di euro ventimila per l'iscrivibilità dell'ipoteca deve essere tempestivamente dedotta dal contribuente con il ricorso introduttivo della lite tributaria, trattandosi di vizio dell'atto riscossivo non rilevabile d'ufficio (Cass. VI, n. 12699/2017; v. anche Cass. VI, n. 22859/2018 che ha annullato, per vizio di ultrapetizione, la sentenza impugnata che aveva accolto l'eccezione proposta dal contribuente per la prima volta nelle controdeduzioni di secondo grado).

In tema d'ICI, la domanda di riduzione d'imposta ex art. 8 del d.lgs. n. 504 del 1992, formulata non con il ricorso di primo grado ma per la prima volta in appello, non può essere accolta, ostandovi la preclusione posta dall'art. 57 del d.lgs. n. 546 del 1992, a norma del quale, in sede d'impugnazione dinanzi alla commissione tributaria regionale, non possono essere proposte domande o eccezioni nuove che non siano rilevabili anche d'ufficio, mutando altrimenti gli elementi materiali del fatto costitutivo della pretesa (Cass. V, n. 16236/2015).

Si ha domanda nuova — inammissibile in appello — per modificazione della causa petendi quando il diverso titolo giuridico della pretesa, dedotto innanzi al giudice di secondo grado, essendo impostato su presupposti di fatto e su situazioni giuridiche non prospettate in primo grado, comporti il mutamento dei fatti costitutivi del diritto azionato e, introducendo nel processo un nuovo tema di indagine e di decisione, alteri l'oggetto sostanziale dell'azione e i termini della controversia, in modo da porre in essere una pretesa diversa, per la sua intrinseca essenza, da quella fatta valere in primo grado e sulla quale non si è svolto in quella sede il contraddittorio. (Nella specie, la Cass. V, n. 2201/2012, ha confermato la sentenza appellata, la quale aveva ritenuto nuova la domanda, proposta dallo IACP per la prima volta in appello, di riconoscimento dell'agevolazione ICI prevista dall'art. 8 del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, sul presupposto che l'agevolazione medesima spettasse in forza di una decisione delle S.U. pubblicata dopo la sentenza di primo grado).

Il divieto di domande nuove previsto all'art. 57, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992, trova applicazione anche nei confronti dell'Ufficio finanziario, al quale non è consentito, innanzi al giudice d'appello, avanzare pretese diverse, sotto il profilo del fondamento giustificativo, e dunque sul piano della causa petendi, da quelle recepite nell'atto impositivo, altrimenti ledendosi la concreta possibilità per il contribuente di esercitare il diritto di difesa attraverso l'esternazione dei motivi di ricorso, i quali, necessariamente, vanno rapportati a ciò che nell'atto stesso risulta esposto. (Nella specie concernente rettifica e liquidazione di maggiore imposta di registro in relazione ad un contratto di acquisto di azienda, Cass. V, n. 9810/2014 ha cassato la sentenza impugnata che aveva ritenuto correttamente effettuata la rettifica del valore di avviamento dell'azienda sulla base di coefficienti di redditività diversi da quelli recepiti nell'atto impositivo e menzionati esclusivamente nell'atto di appello; v. anche Cass. n. 25909/2008, secondo cui nel processo tributario di appello, l'Amministrazione finanziaria non può, mutare i termini della contestazione, deducendo motivi e circostanze diversi da quelli contenuti nell'atto di accertamento, sicché, se il giudizio ha ad oggetto l'impugnazione di un avviso di accertamento IVA per omessa fatturazione di cessioni di merci, fondato sul mancato rinvenimento dei documenti di trasporto previsti dall'art. 2, comma 5, del d.P.R. n. 441 del 1997, costituisce violazione del jus novorum da parte dell'Amministrazione la deduzione in appello di motivi fondati sulla generica previsione dell'art. 53 del d.P.R. n. 633 del 1972, che costituisce una fattispecie normativa diversa, in quanto non attribuisce alcun rilievo alla mancata emissione dei documenti, ma solo al mancato rinvenimento delle merci nel luogo o in uno dei luoghi in cui il contribuente esercita la sua attività.

Nel processo tributario di appello la novità della domanda deve essere verificata in stretto riferimento alla pretesa effettivamente avanzata nell'atto impositivo impugnato e, quindi, alla stregua dei presupposti di fatto e di diritto in esso indicati, poiché il processo tributario, in quanto rivolto a sollecitare il sindacato giurisdizionale sulla legittimità del provvedimento impositivo, è strutturato come un giudizio di impugnazione del provvedimento stesso, nel quale l'Ufficio assume la veste di attore in senso sostanziale, e la sua pretesa è quella risultante dall'atto impugnato, sia per quanto riguarda il petitum sia per quanto riguarda la causa petendi (Cass. V, n. 17231/2019). Ne consegue che, per eccepire validamente la inammissibilità dell'appello per novità della domanda, è necessario dimostrare che gli elementi dedotti in secondo grado dall'Amministrazione non sono stati evidenziati neppure nel processo verbale di constatazione e nel conseguente avviso di accertamento oggetto dell'impugnazione (Cass. V, n. 10806/2012).

 Allo stesso modo, però, l'Amministrazione finanziaria non può mutare i termini della contestazione, deducendo motivi diversi da quelli contenuti nell'atto di accertamento, in quanto il divieto di domande nuove previsto all'art. 57, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992 trova applicazione anche nei confronti dell'Ufficio finanziario, al quale non è consentito, innanzi al giudice del gravame, avanzare pretese diverse, sotto il profilo del fondamento giustificativo e, dunque, sul piano della causa petendi, da quelle recepite nell'atto impositivo, altrimenti ledendosi la concreta possibilità per il contribuente di esercitare il diritto di difesa attraverso l'esternazione dei motivi di ricorso, i quali, necessariamente, vanno rapportati a ciò che nell'atto stesso risulta esposto (Cass. V, n. 12467/2019).

In tema di impugnazione di sanzioni tributarie, non costituisce domanda nuova, ed è, pertanto, proponibile in sede di gravame, da parte dell'Amministrazione Finanziaria, la mera variazione quantitativa del petitum dipendente da una normativa sopravvenuta o da un evento, parimenti sopravvenuto, necessariamente collegato a quello iniziale, per cui la S.C. ha cassato la sentenza impugnata che aveva ritenuto inammissibile, perché qualificata come novum in appello, la richiesta di riduzione della misura della sanzione tributaria in conseguenza dello ius superveniens rappresentato dalla sentenza della Corte cost. n. 144 del 2005(Cass. V, n. 11470/2014). Invero, si ritiene liberamente consentita all'Ente impositore, nel corso del giudizio e anche con la proposizione di una richiesta subordinata, la rettifica della pretesa impositiva che comporti una riduzione dell'onere richiesto al contribuente, senza necessità di emanare un nuovo provvedimento impositivo, necessario, invece, allorché la rettifica comporti un aumento del predetto onere (Cass. V, n. 19367/2021).

Non costituisce mutamento inammissibile della domanda la circostanza che l'erario, dopo avere contestato al contribuente di avere portato in deduzione dell'imponibile, ai fini dell'imposta di successione, debiti ereditari non risultanti da atto scritto avente data certa anteriore all'apertura della successione ex art. 21 del d.lgs. n. 346 del 1990, solo in sede di appello eccepisca altresì che quei debiti, in quanto vantati da istituti di credito, non erano accompagnati dal prescritto certificato rilasciato dall'ente creditore exart. 23 del decreto citato (Cass. V, n. 22553/2012).

Le nuove domande consentite

Si ritiene che l'art. 57 del d.lgs. n. 546 del 1992, nel consentire la richiesta degli interessi maturati dopo la sentenza impugnata, si riferisca alle richieste di rimborso del contribuente e non a quelle restitutorie, collegate all'impugnazione degli atti impositivi. In tale seconda ipotesi, difatti, gli interessi sono automaticamente dovuti, a prescindere dall'istanza di parte, ai sensi dell'art. 68, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992, secondo cui se il ricorso viene accolto, il tributo corrisposto in eccedenza rispetto a quanto statuito dalla sentenza della commissione tributaria provinciale, con i relativi interessi previsti dalle leggi fiscali, deve essere rimborsato d'ufficio entro novanta giorni dalla notificazione della sentenza. Ad ogni modo, la regola de qua è implicita nei principi generali, essendo gli interessi maturati dopo la sentenza integrano un accessorio del credito (Gianoncelli, 802).

Parimenti si considera ammissibile in appello la formulazione della domanda dei danni per responsabilità aggravataex art. 96 c.p.c., verificandosi i fatti costitutivi della pretesa proprio al momento della proposizione dell'impugnazione (Pistolesi, 282), e quella di restituzione degli importi pagati a titolo provvisorio in esecuzione della sentenza di primo grado o ancor prima nelle more del giudizio ai sensi dell'art. 15 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, che può considerarsi un diritto dipendente ex art. 336 c.p.c. rispetto alla richiesta riforma della decisione della commissione tributaria provinciale (Gianoncelli, 803).

Va tenuto presente che, in tema di contenzioso tributario, in presenza di domanda di rimborso o restituzione, la svalutazione monetaria verificatasi durante la mora del debitore non giustifica il riconoscimento d'ufficio del maggior danno derivante dall'inadempimento, ai sensi dell'art. 1224, comma 2, c.c., occorrendo a tal fine un'apposita domanda, la quale non può essere proposta per la prima volta in appello, stante il divieto di cui all'art. 345 c.p.c., applicabile anche nel processo tributario, come si desumeva nel rito previgente dall'art. 19-bis del d.P.R. n. 636 del 1972, e come risulta espressamente dal vigente art. 57 del d.lgs. n. 546 del 1992; analogamente, richiede una specifica domanda, autonoma e distinta rispetto a quella volta ad ottenere il riconoscimento degli interessi principali, ed inammissibile ove proposta per la prima volta in appello, l'attribuzione degli interessi anatocistici, non assumendo alcun rilievo, a tal fine, la natura corrispettiva o moratoria degli interessi principali, in quanto l'art. 1283 c.c. si riferisce agli interessi di qualsiasi natura (Cass. V, n. 10783/2007).

Come precisato da Cass. VI, n. 1115/2016 e Cass. III, n. 22226/2014, la domanda di risarcimento danni per responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c. può essere proposta per la prima volta nella fase di gravame solo con riferimento a comportamenti della controparte posti in atto in tale grado del giudizio, quali la colpevole reiterazione di tesi giuridiche già reputate manifestamente infondate dal primo giudice ovvero la proposizione di censure la cui inconsistenza giuridica avrebbe potuto essere apprezzata in modo da evitare il gravame, e non è soggetta al regime delle preclusioni previste dall'art. 345, comma 1, c.p.c., tutelando un diritto conseguente alla situazione giuridica soggettiva principale dedotta nel processo, strettamente collegato e connesso all'agire od al resistere in giudizio, sicché non può essere esercitato in via di azione autonoma. Si è, inoltre, ritenuto che nel giudizio di appello incorre in colpa grave, giustificando la condanna ai sensi dell'art. 96, comma 3, c.p.c., la parte che abbia insistito colpevolmente in tesi giuridiche già reputate manifestamente infondate dal primo giudice ovvero in censure della sentenza impugnata la cui inconsistenza giuridica avrebbe potuto essere apprezzata dall'appellante in modo da evitare il gravame (Cass. VI, n. 24576/2014). La domanda di risarcimento da responsabilità aggravata, di cui all'art. 96, comma 1, c.p.c., si atteggia diversamente a seconda dei gradi del giudizio, atteso che, mentre in primo grado essa è volta a sanzionare il merito di un'iniziativa giudiziaria avventata, nel secondo grado, regolato dal principio devolutivo, essa deve specificamente riferirsi alla pretestuosità dell'impugnazione, valutata con riguardo non tanto alle domande proposte, quanto, piuttosto, alla palese e strumentale infondatezza dei motivi dell'appello e, più in generale, alla condotta processuale tenuta dalla parte soccombente nella fase di gravame (Cass. II, n. 7620/2013).

Le nuove eccezioni vietate

L'incertezza nell'individuazione del soggetto su cui grava il divieto di nuove eccezioni in senso stretto costituisce la proiezione dei dubbi concernenti l'individuazione dell'oggetto del processo tributario, in cui con riferimento alla pretesa tributaria è l'ente impositore ad assumere la posizione di attore in senso sostanziale, sicché il contribuente, in quanto convenuto in senso sostanziale, nonostante la sua posizione di attore formale, è il soggetto legittimato alla proposizione delle eccezioni, mentre con riferimento all'azione di annullamento dell'atto impositivo è l'Amministrazione a formulare difese ed eventuali eccezioni (Gianoncelli, Sub art. 57, in AA.VV., Codice commentato del processo tributario, a cura di Tesauro, 2016, 804). Ad ogni modo, una parte della dottrina ridimensiona notevolmente l'ambito applicativo della regola, negando cittadinanza nel processo tributario alle eccezioni sostanziali, atteso che, da un lato, il contribuente si limita a prospettare vizi dell'atto impugnato e, quindi, a proporre domande e, dall'altro, la parte pubblica a formulare semplici difese e non eccezioni, salvi i giudizi di rimborso (Pistolesi, L'appello nel processo tributario, Torino, 2002, 300, il quale osserva che «mentre non vi sarebbero ostacoli ad individuare delle eccezioni di merito suscettibili di essere dedotte dall'ufficio fiscale o dall'ente locale nel contesto delle azioni di rimborso», «le eccezioni di merito opponibili alla pretese — impositive — ... assolvono ... la funzione ed hanno nel contempo la veste dei motivi spesi a fondamento delle domande fatte valere dal contribuente nel proprio ricorso introduttivo», per cui «il divieto di introdurre nuove domande e, quindi, nuovi motivi in appello ... varrebbe già di per sé ad escludere la deduzione di nuove eccezioni»).

Il divieto riguarda, comunque, solo le eccezioni riservate alla parte, a cui si riconducono, ad esempio, quella di decadenza dell'azione impositiva, di prescrizione del credito tributario o del diritto del contribuente al rimborso, mentre non si estende né a quelle rilevabili di ufficio né alle mere difese.

Tra le eccezioni processuali deve qualificarsi come eccezione in senso stretto, preclusa in appello, quella di incompetenza della commissione tributaria provinciale, in virtù dell'art. 5, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992, ai sensi del quale l'incompetenza della commissione tributaria è rilevabile, anche d'ufficio, soltanto nel grado al quale il vizio si riferisce (Gianoncelli, Sub art. 57, in AA.VV., Codice commentato del processo tributario, a cura di Tesauro, 2016, 806).

La conseguenza della proposizione in appello di una nuova eccezione vietata, pur non essendo esplicitata, consiste nella sua inammissibilità, rilevabile di ufficio anche in sede di legittimità, in considerazione di un'esigenza di parità delle parti, che trova il suo fondamento nell'art. 3 della Cost. (Pistolesi, 306, secondo cui «pare ... equo riservare alle eccezioni illegittimamente introdotte in appello lo stesso regime riservato, dal comma 1 dell' art. 57, alle domande nuove»).

Sintomatiche dell'incerta ricostruzione dell'oggetto del giudizio tributario e della conseguente confusa distinzione tra domande ed eccezioni sono le seguenti sentenze, in cui l'introduzione di una censura, da parte del contribuente, relativa all'atto impugnato, che si traduce nella proposizione di una nuova domanda, viene, invece, qualificata in termini di formulazione di una nuova eccezione: Cass. VI n. 15769/2017, secondo cui, in tema di contenzioso tributario, il giudice d'appello, attesa la particolare natura del giudizio, non può decidere la controversia sulla base di un'eccezione (nella specie, relativa alla mancanza di qualifica dirigenziale del sottoscrittore dell'atto impositivo) non ritualmente dedotta con l'originario ricorso introduttivo; Cass. V, n. 13126/2016 e Cass. V, n. 10802/2010, secondo cui, nel processo tributario, la nullità dell'avviso di accertamento non è rilevabile d'ufficio e la relativa eccezione, se non formulata nel giudizio di primo grado, non è ammissibile qualora venga proposta nelle successive fasi del giudizio; (così anche Cass. V, n. 24669/2021, con riferimento alla lamentata sottoscrizione dell’avviso di accertamento da persona diversa da quelle indicate nel primo comma dell'art. 42 del d.P.R. n. 600 del 1973); Cass. V, n. 19414/2015, secondo cui, in tema di contenzioso tributario, è inammissibile, ove proposta per la prima volta in appello, la censura di nullità del provvedimento impugnato per mancato espletamento del contraddittorio anticipato con il contribuente, atteso che si tratta un'eccezione in senso stretto, categoria che ricomprende tutti i vizi d'invalidità dell'atto impositivo per difetto di elementi formali essenziali, incompetenza o violazione di norme sul procedimento, mentre solo la contestazione dei fatti costitutivi della pretesa tributaria si risolve in una mera difesa, estranea al divieto di cui all'art. 57 del d.lgs. n. 546/1992; Cass. V, n. 17645/2014, secondo cui il contribuente che, avendo impugnato l'avviso di accertamento per motivi di merito, in secondo grado ne lamenti l'illegittimità per intervenuta presentazione dell'istanza ex art. 7 della legge 27 dicembre 2002, n. 289, deduce un fatto estintivo dell'obbligazione tributaria e propone un'eccezione non rilevabile d'ufficio, che è inammissibile, in quanto ricade nel divieto di proporre nuove eccezioni in appello, posto dall'art. 57, comma 2, del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546.

Secondo Cass. VI, n. 171/2015, il termine di decadenza stabilito, a carico dell'ufficio tributario ed in favore del contribuente, per l'esercizio del potere impositivo, ha natura sostanziale e non appartiene a materia sottratta alla disponibilità delle parti, in quanto tale decadenza non concerne diritti indisponibili dello Stato alla percezione di tributi, ma incide unicamente sul diritto del contribuente a non vedere esposto il proprio patrimonio, oltre un certo limite di tempo, alle pretese del fisco, sicché è riservata alla valutazione del contribuente stesso la scelta di avvalersi o no della relativa eccezione, che ha natura di eccezione in senso proprio e non è, quindi, rilevabile d'ufficio, né proponibile per la prima volta in grado d'appello. Si tratta di orientamento consolidato, di cui sono espressione pure Cass. V, n. 1157/2012 (la decadenza dell'Amministrazione finanziaria dall'esercizio di un potere nei confronti del contribuente, in quanto stabilita in favore e nell'interesse esclusivo di quest'ultimo in materia di diritti da esso disponibili, configura un'eccezione in senso proprio che, in sede giudiziale, deve essere dedotta dal contribuente e, qualora sia respinta, deve essere riproposta con i motivi di appello, anche incidentale, non potendo essere rilevata d'ufficio dal giudice) e Cass. V, n. 14028/2011 (il termine di decadenza stabilito, a carico dell'ufficio tributario ed in favore del contribuente, per l'esercizio del potere impositivo, ha natura sostanziale e non appartiene a materia sottratta alla disponibilità delle parti, in quanto tale decadenza non concerne diritti indisponibili dello Stato alla percezione di tributi, ma incide unicamente sul diritto del contribuente a non vedere esposto il proprio patrimonio, oltre un certo limite di tempo, alle pretese del fisco, sicché è riservata alla valutazione del contribuente stesso la scelta di avvalersi o meno della relativa eccezione, da ritenersi, pertanto, eccezione in senso proprio, non rilevabile d'ufficio né proponibile per la prima volta in grado d'appello, ne discende, in tema di riscossione delle imposte sui redditi, la validità della cartella di pagamento emessa sulla base di un avviso di accertamento notificato dopo la scadenza del termine di decadenza di cui all'art. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973, qualora la decadenza dell'Amministrazione dalla pretesa fiscale non sia stata ritualmente dedotta dal contribuente).

Cass. V, n. 8177/2011 ha affermato che allorché il contribuente nel ricorso introduttivo eccepisca la decadenza ai sensi dell'art. 13 del d.P.R. n. 641 del 1972, costituisce questione nuova, e come tale inammissibile, la successiva richiesta, avanzata nella memoria di cui all'art. 24 del d.lgs. n. 546 del 1992 o nel giudizio di appello, volta all'accertamento della decadenza dell'Amministrazione finanziaria ai sensi dell'art. 43 del d.P.R. n. 602 del 1973, essendo diverse le fattispecie cui la legge ricollega la decadenza dell'Amministrazione, la prima riguardante il potere di accertamento dell'Ufficio con riferimento al momento in cui è stata commessa la violazione e la seconda concernente la tempestività dell'iscrizione a ruolo in relazione al momento in cui il rimborso è stato eseguito. Così, anche secondo Cass. V, n. 6150/2009, è inammissibile, nel giudizio d'appello davanti alla Commissione Tributaria Regionale, la prospettazione della violazione del termine per la notifica della cartella esattoriale, stabilito nell'art. 25 del d.P.R. n. 602 del 1973, se in primo grado sia stata fatta valere esclusivamente la violazione dei termini per l'iscrizione a ruolo di cui all'art. 9, comma 1, della legge n. 448 del 1998, trattandosi di nuovo motivo di gravame, vietato dall'art. 57 del d.lgs. n. 546 del 1992.

Va, però, segnalato che, in presenza di un'eccezione del contribuente di decadenza per il mancato rispetto del termine per l'esercizio della potestà impositiva previsto dall'art. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973, grava sull'amministrazione finanziaria l'onere di dimostrare di avere rispettato tale termine ovvero di allegare e dimostrare la ricorrenza dei presupposti per l'applicazione di un diverso termine decandenziale, di guisa che la prospettazione, da parte dello stesso contribuente in sede di appello, dell'insussistenza dei presupposti per l'applicazione del termine raddoppiato di accertamento sulla base di considerazioni fattuali e giuridiche diverse da quelle prospettate nel ricorso introduttivo non costituisce un ampliamento del thema decidendum cristallizzatosi sulla base delle contestazioni inizialmente mosse all'atto impositivo - e, quindi, una domanda nuova, inammissibile ai sensi dell'art. 57 del d.lgs. n. 546 del 1992 - ma si risolve nell'illustrazione delle tesi giuridiche e dei fatti che le sostengono già rientranti nell'ambito delle questioni devolute al sindacato del giudice (Cass. V n. 1291/2020).

In tema di contenzioso tributario, non è rilevabile di ufficio, né deducibile per la prima volta in appello la prescrizione per decorso del termine triennale di cui all'art. 221 del regolamento CEE n. 2913 del 1992, adottato dal Consiglio in data 12 ottobre 1992, posto che, a norma degli artt. 2938 e 2969 c.c., sia l'eccezione di prescrizione dell'obbligazione tributaria sia l'eccezione di decadenza dell'Amministrazione finanziaria dal potere di chiedere al contribuente l'adempimento di tale obbligazione non sono rilevabili d'ufficio, e che in ordine a tale profilo nulla dispone la normativa comunitaria, così da rimettere lo stesso alla legislazione nazionale a condizione che, come costantemente sottolineato dalla Corte di Giustizia dell'Unione europea, il regime processuale adottato non sia deteriore rispetto a quello previsto dalla legge nazionale e non sia tale da rendere eccessivamente difficile l'esercizio delle pretese fondate sul diritto comunitario (Cass. V, n. 15740/2012).

In modo speculare si è pure affermato che il diritto al credito IVA rientra nella libera disponibilità del contribuente sicché, presentata tempestivamente l'istanza di rimborso, la prescrizione dello stesso, derivante dalle regole generali e non prevista specificamente a favore dell'Amministrazione finanziaria, non è rilevabile d'ufficio, né, di conseguenza, deducibile per la prima volta nel giudizio di legittimità ovvero in appello, ostandovi il disposto di cui all'art. 57 del d.lgs. n. 546 del 1992 (Cass. V, n. 24478/2018). Parimenti Sez. 5, n. 20605/2022 ha ritenuto che, rientrando il diritto al rimborso di un credito Ilor nella libera disponibilità del contribuente, una volta presentata tempestivamente l'istanza di rimborso, la prescrizione di tale diritto, derivante dalle regole generali e non prevista specificamente a favore dell'Amministrazione finanziaria, non è rilevabile d'ufficio né deducibile per la prima volta nel giudizio di appello, ostandovi il disposto di cui all'art. 57 del d.lgs. n. 546 del 1992.

La Cass. VI, n. 11223/2016 ha ritenuto inammissibile in appello l'eccezione di utilizzazione edificatoria dell'area, da parte della contribuente, prima della rivendita ad altra società, essendo diretta a far valere un fatto estintivo della pretesa fiscale diverso da quello azionato in primo grado, limitato alla mancata precisazione, nell'art. 33 della l. n. 388 del 2000, del soggetto cui incombeva l'obbligo di edificare. Ad avviso di Cass. V, n. 14231/2015, in tema di contenzioso tributario relativo al diniego di rimborso IVA, non è ammissibile per la prima volta in appello la deduzione, da parte dell'Ufficio resistente, della circostanza che la somma versata a titolo d'imposta sia stata o doveva essere assoggettata al meccanismo del «pro rata», trattandosi di un'eccezione in senso tecnico, soggetta al divieto di cui all'art. 57, che incide (modificandola, impedendola o estinguendola) sulla pretesa creditoria della parte attrice. Si registra, invece, un contrasto relativamente alla possibilità.

Cass. V, n. 27562/2018 ha escluso che l'errore nella compilazione della dichiarazione IVA potesse essere dedotto dal contribuente per la prima volta nel giudizio di appello, in applicazione del principio secondo cui il divieto di nova in appello, ai sensi dell'art. 57 del d.lgs. n. 546 del 1992, si applica, oltre che alle domande, alle eccezioni in senso proprio, intese come lo strumento processuale con cui il contribuente, in qualità di convenuto in senso sostanziale nel giudizio di impugnazione di cartella esattoriale, fa valere un fatto giuridico avente efficacia impeditiva, modificativa o estintiva della pretesa fiscale, da cui derivano il mutamento degli elementi materiali del fatto costitutivo della pretesa ed il conseguente ampliamento del tema della decisione, implicando la deduzione di fatti che richiedono una specifica indagine, non effettuabile per la prima volta in appello.

Cass. V, n. 22549/2022 ha chiarito che il vizio dell'avviso di accertamento derivante dall'inosservanza del termine dilatorio di cui all'art. 12, comma 7, della l. n. 212 del 2000 non è rilevabile d'ufficio e deve essere contestato dal contribuente nel ricorso introduttivo, riguardando la violazione di una norma posta a difesa del diritto dello stesso contribuente al pieno dispiegarsi del contraddittorio con l'Amministrazione finanziaria e considerata la natura recettizia dell'atto impositivo tributario da porsi in relazione con il suo duplice scopo di impedire la decadenza dell'Amministrazione predetta dalle potestà di accertamento e di riscossione dei tributi e di porre la parte in grado di contestare, anche in sede giudiziaria, la pretesa tributaria. Ne consegue che, poichè il tema dei vizi delle notificazioni degli atti impositivi risulta strettamente correlato a quello del tempestivo e regolare esercizio dell'azione tributaria entro i termini decadenziali previsti dalla legge, e che l'inutile decorso di tali termini non estingue il potere impositivo ma obbliga l'Amministrazione finanziaria a non esercitarlo, il vizio dell'atto impositivo non è rilevabile d'ufficio ma deve essere eccepito dal contribuente.

Cass VI, n. 31224/2017  ha qualificato eccezione in senso proprio l'allegazione dell'inefficacia della dichiarazione integrativa per la presenza di una causa ostativa, prevista dall'art. 9, comma 14, della l. n. 289 del 2002.

La Cass. V, n. 8398/2013, ha precisato che la proposizione della mera «eccezione di inesistenza» della notifica (nella specie, dell'avviso di accertamento costituente il presupposto della cartella impugnata) non può far ritenere acquisito al thema decidendum l'esame di qualsiasi vizio di invalidità del procedimento notificatorio, non ravvisandosi una relazione di continenza tra l'inesistenza ed i vizi di nullità di tale procedimento, altrimenti derivandone un'inammissibile scissione tra il tipo di invalidità denunciato con la formulata eccezione di merito e la specifica deduzione dei fatti sui quali essa si fonda, il cui onere di allegazione ricade esclusivamente sulla parte qualora si facciano valere eccezioni in senso stretto. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha confermato l'inammissibilità della deduzione, per la prima volta in appello, di asseriti vizi di nullità della notifica del suddetto atto presupposto, benché quest'ultimo fosse stato in primo grado prodotto, unitamente al suo avviso di ricevimento pervenuto alla destinataria, dall'Agenzia fiscale a fronte dell'originaria eccezione di sua omessa notifica sollevata dalla ricorrente).

Cass. V, n. 5493/2020, ha affermato che l'irripetibilità delle imposte versate, in quanto fatto impeditivo della domanda di rimborso, costituisce un'eccezione in senso stretto e non può pertanto essere dedotta per la prima volta in appello.

Cass. V, n. 24220/2020, ha ritenuto che i principi generali enunciati dall'art. 1242, comma 1, c.c., circa l'efficacia estintiva dei due debiti da essa derivante e circa la non rilevabilità d'ufficio della compensazione, da parte del giudice, sono applicabili anche al giudizio tributario, con la conseguenza che la relativa eccezione non può essere sollevata neppure dall'Amministrazione finanziaria in grado di appello ai sensi dell'art. 57 trattandosi di eccezione in senso proprio o stretto.

Le nuove eccezioni consentite

Non ricadono nel divieto di cui all'art. 57, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992 né le eccezioni rilevabili di ufficio né le mere difese.

Invero, secondo l'orientamento prevalente, la rilevabilità d'ufficio dell'eccezione è la regola, essendo necessaria la previsione normativa, anche implicita, per subordinare l'efficacia giuridica di un determinato fatto all'iniziativa di parte (Pistolesi, 306). Ad ogni modo, a titolo esemplificativo, sono reputate eccezioni in senso lato, sul piano sostanziale, la decadenza del contribuente dal diritto di rimborso e sul piano processuale quella di giurisdizione.

Le difese, a differenza delle eccezioni, non si traducono nelle deduzioni di un fatto (impeditivo, modificativo, estintivo), ma nella mera contestazione del fatto allegato dall'avversario o in una mera argomentazione in fatto o in diritto. Per quanto concerne la contestazione dei fatti allegati dalla controparte in primo grado, va evidenziato che la sua ammissibilità in appello nel rito civile è alquanto discussa, configurandosi, da un lato, una progressiva cristallizzazione del thema decidendum ac probandum in considerazione dell'esaurimento della fase di trattazione e del maturare delle preclusioni e, dall'altro, facendosi discendere dagli artt. 163 e 183 c.p.c. l'onere di specifica contestazione dei fatti allegati dalla controparte nel primo atto difensivo successivo. L'applicabilità di tale orientamento nel contenzioso tributario non risulta ancora oggetto di approfondimento.

Parimenti si ritengono consentite anche in appello, in virtù della dialettica processuale ed in ossequio al diritto di difesa di cui all'art. 24 Cost., quelle eccezioni la cui esigenza sia sorta in conseguenza della proposizione di nuove domande o della formulazione di nuove eccezioni da parte dell'avversario, ovviamente consentita in base alla disciplina in esame, oppure in conseguenza della soluzione data alla controversia dal giudice di prime cure, ove non riconducibile a quella prospettata dalle parti. La proposizione o il rilievo di ufficio di una nuova eccezione in senso lato esige, in ossequio ai principi del giusto processo e del contraddittorio, che entrambe le parti possano adeguare la propria difesa sul punto (Gianoncelli, 808).

Quanto alle tempistica, le eccezioni consentite, stante il silenzio sul punto del legislatore, possono essere sollevate sia negli atti introduttivi sia nelle memorie successive sia in occasione della discussione della controversia in pubblica udienza (Dalla Bontà, 707)

Nel processo tributario,il divieto di ultrapetizione e quello di proporre in appello nuove eccezioni (non rilevabili d'ufficio) posto dall'art. 57, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992 riguardano eccezioni in senso tecnico e non le mere argomentazioni difensive, tendenti ad inficiare la sentenza sotto un profilo logico ulteriore rispetto a quello esposto in primo grado, atteso che le difese, le argomentazione e le prospettazioni con cui l'Amministrazione si difende dalle contestazioni già dedotte in giudizio non costituiscono, a loro volta, eccezioni in senso stretto (così Cass. V n. 2413/2021); v. anche Cass. V, n. 30227/2022, nel giudizio tributario, il divieto di proporre nuove eccezioni in appello, previsto all'art. 57, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992, riguarda le eccezioni sostanziali in senso stretto, ovvero quelle per cui la legge riserva espressamente alla parte il potere di rilevazione o quelle in cui si fa valere un fatto modificativo, estintivo o impeditivo della pretesa fiscale, ma non le eccezioni in senso improprio, tra le quali rientra l'eccezione di intempestività del ricorso che, integrando una mera sollecitazione difensiva in replica, è rilevabile d'ufficio, anche in sede di legittimità).  Pertanto,  la parte resistente la quale, in primo grado, si sia limitata ad una contestazione generica del ricorso può rendere specifica la stessa in sede di gravame poiché il divieto di proporre nuove eccezioni in appello, posto dall'art. 57, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992, riguarda solo le eccezioni in senso stretto e non anche le mere difese, che non introducono nuovi temi di indagine (Cass. VI, n. 12651/2018). Difatti, il giudizio tributario è caratterizzato da un meccanismo di instaurazione di tipo impugnatorio, circoscritto alla verifica della legittimità della pretesa effettivamente avanzata con l'atto impugnato, alla stregua dei presupposti di fatto e di diritto in esso indicati, ed avente un oggetto rigidamente delimitato dalle contestazioni mosse dal contribuente con i motivi specificamente dedotti nel ricorso introduttivo in primo grado, sicché in sede di gravame le parti non possono proporre nuove eccezioni in senso stretto, mentre sono sempre deducibili le eccezioni improprie o le mere difese: Cass. V, n. 25756/2014 ha, pertanto, ritenuto ammissibile la deduzione dell'Ufficio di elementi di fatto meramente volti ad integrare il quadro probatorio fondante la pretesa fiscale, senza immutare i fatti costitutivi della stessa, per come indicati nell'atto di accertamento.

Parimenti, la contestazione in ordine alla valenza probatoria della documentazione prodotta dall'altra parte in primo grado non può essere considerata un'eccezione in senso stretto rientrante nel divieto posto dall'art. 57, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992, in quanto si tratta di una mera difesa, che non amplia l'oggetto del giudizio (Cass. VI, n. 12614/2018; v. anche Cass. V, n. 22105/2017, che ha ritenuto ammissibile in grado di appello la contestazione delle deduzioni documentali del contribuente, effettuata dall'Agenzia delle Entrate per la prima volta in grado di appello).

In effetti, ai sensi dell'art. 57, comma 2, sono precluse in appello esclusivamente le nuove eccezioni in senso tecnico, dalle quali deriva un mutamento degli elementi materiali del fatto costitutivo della pretesa ed il conseguente ampliamento del tema della decisione, sicché, a fronte dell'impugnazione, da parte del contribuente, del silenzio rifiuto su di un'istanza di rimborso d'imposta, l'Amministrazione finanziaria può difendersi dalla pretesa azionata eccependo, anche in appello, il mancato versamento degli importi richiesti o la loro utilizzazione in compensazione, integrando tale attività una mera difesa o un'eccezione in senso improprio, pienamente ammissibile in quanto mera contestazione delle censure mosse con il ricorso, senza introduzione di alcun elemento nuovo d'indagine (Cass. VI, n. 23587/2016). Ad esempio, in tema di rimborso dell'Iva versata in eccesso, il divieto di proporre nuove eccezioni in appello, posto dall'art. 57, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992 a carico di entrambe le parti, non è violato dalle argomentazioni con cui l'Amministrazione finanziaria, soccombente in primo grado, neghi la sussistenza dei fatti costitutivi del diritto dedotto dal contribuente, o la qualificazione ad essi attribuita, trattandosi di mere difese e, come tali, non soggette ad alcuna preclusione processuale  (così Cass. V, n. 35042/2023 ha cassato la pronuncia impugnata, poiché aveva erroneamente dichiarato inammissibili le affermazioni dell'Amministrazione che, avendo in primo grado contestato in generale i fatti costitutivi del diritto al rimborso, aveva eccepito solo in appello che la richiesta di restituzione doveva limitarsi alle annualità oggetto di ripresa).

In tema di contenzioso tributario, il divieto di proporre nuove eccezioni in appello, posto dall'art. 57, comma 2, riguarda l'eccezione in senso tecnico, ossia lo strumento processuale con cui il contribuente, in qualità di convenuto in senso sostanziale, fa valere un fatto giuridico avente efficacia modificativa o estintiva della pretesa fiscale, ma non limita la possibilità dell'Amministrazione di difendersi dalle contestazioni già dedotte in giudizio, perché le difese, le argomentazioni e le prospettazioni dirette a contestare la fondatezza di un'eccezione non costituiscono, a loro volta, eccezione in senso tecnico - in applicazione del principio, Cass. V, n. 14486/2013 ha ritenuto contrastante con il disposto della citata norma la declaratoria di inammissibilità del motivo di appello con cui l'Ufficio, impugnando la sentenza di primo grado che aveva annullato una iscrizione ipotecaria per mancata notifica delle cartelle presupposte, aveva dedotto per la prima volta che tali cartelle non erano state regolarmente notificate, producendo la relativa documentazione; Cass. V, n. 3338/2011 ha cassato la sentenza della Commissione tributaria regionale che aveva dichiarato inammissibile l'appello dell'Amministrazione con cui era stato contestato il riconoscimento, da parte del giudice di primo grado, della disciplina della compensazione, concessa agli autotrasportatori per conto terzi dall'art. 13 del d.l. n. 90 del 1990, conv. in l. n. 165 del 1990, per annullare una cartella di pagamento relativa al mancato versamento di ritenute alla fonte. Va, inoltre, segnalata la recente Cass. VI, n. 8073/2019, che ha affermato che la contestazione del diritto ad un'esenzione (nella specie, quella di cui all'art. 7, comma 1, lett. i) d.lgs. n. 504 del 1992), costituisce una mera difesa, poiché mediante la stessa è negata l'esistenza dei fatti costitutivi dedotti in giudizio, sicché può essere formulata per la prima volta in appello non incorrendo nel divieto di cui all'art. 57, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992.

In tema di contenzioso tributario, il contribuente che impugni il rigetto dell'istanza di rimborso di un tributo riveste la qualità di attore in senso sostanziale, con la duplice conseguenza che grava su di lui l'onere di allegare e provare i fatti a cui la legge ricollega il trattamento impositivo rivendicato nella domanda e che le argomentazioni con cui l'Ufficio nega la sussistenza di detti fatti, o la qualificazione ad essi attribuita dal contribuente, costituiscono mere difese, come tali non soggette ad alcuna preclusione processuale, salva la formazione del giudicato interno (così espressamente Cass., VI, n. 1906/2020, secondo cui, in tema di contenzioso tributario, ove la controversia abbia ad oggetto l'impugnazione del rigetto dell'istanza di rimborso di un tributo, il contribuente è attore in senso non solo formale ma anche sostanziale, con la duplice conseguenza che grava su di lui l'onere di allegare e provare i fatti a cui la legge ricollega il trattamento impositivo rivendicato e che le argomentazioni con cui l'Ufficio nega la sussistenza di detti fatti, o la qualificazione ad essi attribuita, costituiscono mere difese, non soggette ad alcuna preclusione processuale, sicché l'esclusione del diritto al rimborso, derivante dall'adesione del contribuente al condono, può essere dedotta per la prima volta anche in appello dall'Amministrazione finanziaria, trattandosi di questione che, pur non esclusivamente processuale, partecipa di tale natura ed è, dunque, rilevabile d'ufficio; v. anche più recentemente Cass. V, n. 11284/2023, secondo cui, in tema di contenzioso tributario, l'art. 57, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992 preclude in appello esclusivamente le nuove eccezioni "in senso tecnico" dalle quali, cioè, deriva un mutamento degli elementi materiali del fatto costitutivo della pretesa ed il conseguente ampliamento del "thema decidendum"; conseguentemente, l'Amministrazione finanziaria può difendersi dall'impugnazione, da parte del contribuente, del silenzio-rifiuto su un'istanza di rimborso d'imposta eccependo, anche in appello, il mancato versamento degli importi richiesti o la loro utilizzazione in compensazione, poiché il rilievo integra una mera difesa o un'eccezione "in senso improprio", ammissibile in quanto mera contestazione delle censure avanzate col ricorso, non introduttiva di nuovi elementi d'indagine).

In applicazione di tale principio, Cass. V, n. 15026/2014 ha affermato che la necessità della notificazione della cessione del credito anche al concessionario della riscossione, ai fini della sua efficacia, integra una mera difesa, traducendosi nella contestazione della sussistenza, in tutti i suoi elementi, del fatto costitutivo del diritto al rimborso del credito ceduto, deducibile dall'Amministrazione per la prima volta in appello e Cass. V, n. 29613/2011 ha escluso che la mancata specifica contestazione dei contenuti della certificazione rilasciata dal sostituto d'imposta implicasse ammissione della determinazione del rendimento finanziario operata in detta certificazione e funzionale alla quantificazione del credito oggetto della pretesa dell'attore, da parte dell'Amministrazione che contestava in radice il credito. Cass. V, n. 31626/2018 ha, infine, specificato che, quando il contribuente impugni il silenzio-rifiuto formatosi su una istanza di rimborso, deve dimostrare che, in punto di fatto, non sussiste nessuna delle ipotesi che legittimano il rifiuto, e l'Amministrazione finanziaria può, dal canto suo, difendersi "a tutto campo", non essendo vincolata ad una specifica motivazione di rigetto, con la conseguenza che le eventuali "falle" del ricorso introduttivo possono essere eccepite in appello dall'Amministrazione a prescindere dalla preclusione posta dall'art. 57 del d.lgs. n. 546 del 1992, in quanto, comunque, attengono all'originario thema decidendum (sussistenza o insussistenza dei presupposti che legittimano il rifiuto del rimborso), fatto salvo il limite del giudicato.

Ad ogni modo, la decadenza del contribuente per il mancato rispetto dei termini fissati per chiedere il rimborso del tributo indebitamente versato, essendo prevista in favore dell'amministrazione finanziaria ed attenendo a situazione non disponibile, può essere rilevata d'ufficio anche in secondo grado, purché emerga dagli elementi comunque acquisiti agli atti del giudizio; sicché essa è sottratta al regime delle eccezioni nuove, a maggior ragione con riguardo ai tributi armonizzati per i quali il profilo di indisponibilità è maggiormente accentuato, costituendo risorse proprie dell'Unione europea (Cass VI, n. 22399/2017).

Il divieto di nuove eccezioni in appello, introdotto per il giudizio contenzioso ordinario con la legge 26 novembre 1990, n. 353, tramite la riforma dell'art. 345 c.p.c., e successivamente esteso al giudizio tributario dall'art. 57, si riferisce esclusivamente alle eccezioni in senso stretto o proprio, rappresentate da quelle ragioni delle parti sulle quali il giudice non può esprimersi se manchi l'allegazione ad opera delle stesse, con la richiesta di pronunciarsi al riguardo. Detto divieto non può mai riguardare, pertanto, i fatti e le argomentazioni posti dalle parti medesime a fondamento della domanda, che costituiscono oggetto di accertamento, esame e valutazione da parte del giudice di secondo grado, il quale, per effetto dell'impugnazione, deve a sua volta pronunciarsi sulla domanda accolta dal primo giudice, riesaminando perciò fatti, allegazioni probatorie e argomentazioni giuridiche che rilevino per la decisione. (In applicazione del principio, la Cass. VI, n. 6391/2013, ha ritenuto non costituire domanda nuova la censura proposta in appello dall'Agenzia delle Entrate che aveva prospettato la necessità di fare corretta applicazione del trattamento tributario applicabile «alla previdenza integrativa erogata in forma di capitale», contestando l'assimilazione delle somme, dovute dal datore di lavoro al lavoratore a titolo di conversione del trattamento integrativo aziendale, al prelievo previsto dall'art. 6 della l. n. 482 del 1985, applicabile ratione temporis). Cass. V, n. 31816/2019 ha precisato che, nel processo tributario, pur essendo l'oggetto del giudizio delimitato dalle ragioni poste a fondamento dell'atto di accertamento, il tema relativo all'esistenza, alla validità e all'opponibilità all'Amministrazione finanziaria del negozio da cui si assume che originino determinati costi o crediti deve ritenersi acquisito al giudizio per effetto dell'allegazione da parte del contribuente, il quale è gravato dell'onere di provare i presupposti di fatto per l'applicazione delle norme da cui discendono i costi ed i crediti vantati, per cui, anche in ragione dell'indisponibilità della pretesa tributaria, la rilevabilità d'ufficio delle eventuali cause di invalidità o di inopponibilità del negozio stesso, sempre che ciò non sia precluso, nella fase di impugnazione, dal giudicato interno eventualmente già formatosi sul punto o, nel giudizio di legittimità, dalla necessità di indagini di fatto - nella specie, la S.C. ha escluso la contrarietà al divieto di cui all'art. 57, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992 della prospettazione dell'Ufficio, svolta per la prima volta in appello, delle finalità elusive e del carattere abusivo di operazioni negoziali generanti crediti IVA, di cui in primo grado era stata dedotta l'inesistenza, sul presupposto che, secondo la disciplina anteriore all'introduzione dell'art. 10-bis della l. n. 212 del 2000, applicabile ratione temporis, l'abusività di tali condotte fosse comunque rilevabile d'ufficio.

In tema di sanzioni amministrative per violazione di norme tributarie, la deduzione dell'Ufficio relativa all'inapplicabilità dell'esimente del fatto del terzo, di cui all'art. 6, comma 3, del d.lgs. n. 472 del 1997, costituisce una mera difesa — non soggetta alle preclusioni processuali operanti per le eccezioni — trattandosi della semplice negazione dell'applicabilità di una disciplina giuridica alla fattispecie concreta (Cass. V, n. 20113/2012).

Relativamente alla categoria delle eccezioni in senso lato va in via preliminare richiamato il consolidato orientamento giurisprudenziale, secondo cui In relazione all'opzione difensiva del convenuto consistente nel contrapporre alla pretesa attorea fatti ai quali la legge attribuisce autonoma idoneità modificativa, impeditiva o estintiva degli effetti del rapporto sul quale la predetta pretesa si fonda, occorre distinguere il potere di allegazione da quello di rilevazione, posto che il primo compete esclusivamente alla parte e va esercitato nei tempi e nei modi previsti dal rito in concreto applicabile (pertanto sempre soggiacendo alle relative preclusioni e decadenze), mentre il secondo compete alla parte (e soggiace perciò alle preclusioni previste per le attività di parte) solo nei casi in cui la manifestazione della volontà della parte sia strutturalmente prevista quale elemento integrativo della fattispecie difensiva (come nel caso di eccezioni corrispondenti alla titolarità di un'azione costitutiva), ovvero quando singole disposizioni espressamente prevedano come indispensabile l'iniziativa di parte, dovendosi in ogni altro caso ritenere la rilevabilità d'ufficio dei fatti modificativi, impeditivi o estintivi risultanti dal materiale probatorio legittimamente acquisito, senza che, peraltro, ciò comporti un superamento del divieto di scienza privata del giudice o delle preclusioni e decadenze previste, atteso che il generale potere — dovere di rilievo d'ufficio delle eccezioni facente capo al giudice si traduce solo nell'attribuzione di rilevanza, ai fini della decisione di merito, a determinati fatti, sempre che la richiesta della parte in tal senso non sia strutturalmente necessaria o espressamente prevista, essendo però in entrambi i casi necessario che i predetti fatti modificativi, impeditivi o estintivi risultino legittimamente acquisiti al processo e provati alla stregua della specifica disciplina processuale in concreto applicabile (così Cass. S.U., n. 1099/1998; v. anche Cass. V n. 34311/2021, ove l'opzione difensiva della parte contribuente consista nel contrapporre alla pretesa dell'Ufficio fatti cui la legge attribuisce autonoma idoneità modificativa, impeditiva o estintiva degli effetti del rapporto sostanziale dedotto in causa -nella specie l'insussistenza della soglia legale di iscrivibilità dell'ipoteca sulla prima casa e la sua impignorabilità, quale vizio dell'atto riscossivo sopravvenuto allo sgravio disposto nelle more del giudizio di merito - occorre distinguere il relativo potere di allegazione, che compete esclusivamente alla parte e va esercitato nei tempi e nei modi previsti dal rito in concreto applicabile, da quello di rilevazione, che spetta alla parte, nel rispetto delle preclusioni per questa stabilite, solo qualora la manifestazione della sua volontà sia strutturalmente prevista quale elemento integrativo della fattispecie difensiva, ovvero quando singole disposizioni espressamente ne indichino come indispensabile l'iniziativa, dovendosi, in ogni altro caso, ritenere la rilevabilità d'ufficio dei fatti risultanti dal materiale probatorio legittimamente acquisito.  In base a tale assunto sono state qualificate eccezioni in senso lato, tra le tante, il giudicato esterno (Cass. S.U., n. 226/2001, secondo cui poiché nel nostro ordinamento vige il principio della rilevabilità di ufficio delle eccezioni, derivando invece la necessità dell'istanza di parte solo dall'esistenza di una eventuale specifica previsione normativa, l'esistenza di un giudicato esterno, è, al pari di quella del giudicato interno, rilevabile d'ufficio, ed il giudice è tenuto a pronunciare sulla stessa qualora essa emerga da atti comunque prodotti nel corso del giudizio di merito. Del resto, il giudicato interno e quello esterno, non solo hanno la medesima autorità che è quella prevista dall'art. 2909 c.c., ma corrispondono entrambi all'unica finalità rappresentata dall'eliminazione dell'incertezza delle situazioni giuridiche e dalla stabilità delle decisioni, le quali non interessano soltanto le parti in causa, risultando l'autorità del giudicato riconosciuta non nell'interesse del singolo soggetto che lo ha provocato, ma nell'interesse pubblico, essendo essa destinata a esprimersi — nei limiti in cui ciò sia concretamente possibile — per l'intera comunità); recentemente v. Cass. V, n. 34662/2021, secondo cui il motivo di appello con cui l'ente impositore contesti l'efficacia del giudicato esterno eccepito in primo grado dal contribuente appartiene al profilo normativo, e non a quello fattuale, del giudizio, atteso che il giudicato esterno è assimilabile ad un elemento normativo astratto, essendo destinato a fissare la regola del caso concreto, e la relativa eccezione, prescindendo da qualsiasi volontà dispositiva della parte ed avendo rilievo pubblicistico, è rilevabile anche d'ufficio; pertanto, la contestazione in appello di tale eccezione introduce nel processo una mera argomentazione difensiva, tendente ad evidenziare un vizio logico della sentenza, che non determina un mutamento del "thema decidendum" originario, e che non soggiace alla preclusione prevista dall'art. 57, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992, la quale concerne esclusivamente le nuove eccezioni in senso stretto); l'interruzione e la sospensione della prescrizione (da ultimo, Cass. III, n. 18602/2013, conforme a Cass. S.U., n. 15661/2005, secondo cui poiché nel nostro ordinamento le eccezioni in senso stretto, cioè quelle rilevabili soltanto ad istanza di parte, si identificano o in quelle per le quali la legge espressamente riservi il potere di rilevazione alla parte o in quelle in cui il fatto integratore dell'eccezione corrisponde all'esercizio di un diritto potestativo azionabile in giudizio da parte del titolare e, quindi, per svolgere l'efficacia modificativa, impeditiva od estintiva di un rapporto giuridico suppone il tramite di una manifestazione di volontà della parte, da sola o realizzabile attraverso un accertamento giudiziale, l'eccezione di interruzione della prescrizione integra un'eccezione in senso lato e non in senso stretto e, pertanto, può essere rilevata d'ufficio dal giudice sulla base di elementi probatori ritualmente acquisiti agli atti, dovendosi escludere, altresì, che la rilevabilità ad istanza di parte possa giustificarsi in ragione della normale rilevabilità soltanto ad istanza di parte dell'eccezione di prescrizione, giacché non ha fondamento di diritto positivo assimilare al regime di rilevazione di una eccezione in senso stretto quello di una controeccezione, qual è l'interruzione della prescrizione, e Cass. III, n. 24680/2009, secondo cui nel nostro ordinamento le eccezioni in senso stretto si identificano o in quelle per le quali la legge espressamente riservi il potere di rilevazione alla parte, ovvero in quelle in cui il fatto costitutivo dell'eccezione, corrispondendo alla titolarità di un'azione costitutiva, richiede, per svolgere l'efficacia modificativa, impeditiva od estintiva di un rapporto giuridico, il tramite di una manifestazione di volontà della parte da sola o realizzabile attraverso un accertamento giudiziale. Ne consegue che l'eccezione di sospensione della prescrizione del diritto al risarcimento del danno nei confronti del vettore internazionale per perdita della merce, ai sensi dell'art. 32 della Convenzione sul trasporto internazionale di merci su strada, stipulata a Ginevra il 19 maggio 1956, e resa esecutiva con legge 6 dicembre 1960, n. 1621, al pari dell'eccezione di sospensione ex artt. 2941 e 2942 c.c., integra un'eccezione in senso lato e, pertanto, può essere rilevata d'ufficio dal giudice, purché sulla base di prove ritualmente acquisite agli atti), l'accettazione con beneficio d'inventario (Cass. S.U., n. 10531/2013, secondo cui l'accettazione dell'eredità con beneficio d'inventario integra una eccezione in senso lato, in quanto il legislatore non ne ha espressamente escluso la rilevabilità d'ufficio e tale condizione non corrisponde all'esercizio di un diritto potestativo, ma rileva quale fatto da solo sufficiente ad impedire la confusione del patrimonio dell'erede con quello del defunto. Ne consegue che, ove tale fatto sia già documentato in atti, il beneficio è liberamente invocabile dalla parte — anche in assenza di specifica allegazione e con forme diverse da quelle previste dall'art. 484 c.c. — pure nel giudizio d'appello ed è rilevabile d'ufficio dal giudice a favore degli altri chiamati all'eredità, senza che rilevi l'eventuale contumacia degli stessi, operando l'effetto espansivo previsto dall'art. 510 c.c. fino a quando essi non abbiano manifestato una accettazione pura e semplice ovvero siano decaduti dal beneficio, salva la facoltà di accettare avvalendosi espressamente del beneficio, ovvero di rinunciare all'eredità).

Costituisce eccezione in senso lato, rilevabile di ufficio, quella relativa all'avvenuto pagamento del debito tributario, in quanto correlata al fatto estintivo tipico dell'obbligazione pecuniaria e non implicante la deduzione di situazioni giuridiche nuove, tanto più che le eccezioni in senso stretto sono ravvisabili solo quando vi sia un'espressa previsione di legge in tal senso e che nella materia tributaria è necessario tener conto anche della derivazione legale dell'obbligazione e del connesso principio di capacità contributiva (Cass. V, n. 9610/2012).

L'esistenza del giudicato esterno è rilevabile d'ufficio in ogni stato e grado del procedimento, anche in sede di legittimità; a tale riguardo, pertanto, non si applicano le limitazioni imposte dall'art. 57 d.lgs. n. 546 del 1992, concernenti il divieto di proposizione di questioni nuove nel giudizio tributario di secondo grado, e pertanto la relativa eccezione può essere validamente proposta per la prima volta dalla parte interessata con l'atto di appello (Cass. V, n. 16675/2011).

L'estinzione del giudizio per cessazione della materia del contendere a seguito di sanatoria fiscale, ai sensi dell'art. 15 della l. n. 289 del 2002, intervenuta nelle more del giudizio di primo grado può essere fatta valere per la prima volta anche in grado di appello, dovendosi ritenere che la deduzione degli effetti del condono, per il rilievo pubblicistico dell'originario rapporto sostanziale e processuale col fisco, integri una eccezione in senso improprio, non soggetta alle preclusioni di cui all'art. 57 del d.lgs. n. 546 del 1992 e rilevabile d'ufficio dal giudice, ove risulti dagli atti di causa anche a seguito di nuova produzione ex art. 58 del d.lgs. n. 546/1992 cit. (Cass. S.U., n. 1518/2016). In senso analogo risulta orientata la precedente Cass. V, n. 20650/2015 e Cass. n. 7661/2020, secondo cui, ove il contribuente abbia impugnato il silenzio rifiuto su un'istanza di rimborso d'imposta, l'Amministrazione finanziaria può proporre per la prima volta anche in appello l'eccezione inerente l'adesione del contribuente al condono previsto dalla legge n. 289 del 2002, da cui derivano la preclusione del diritto al rimborso e l'effetto estintivo del relativo giudizio, trattandosi di una questione di ordine pubblico, rilevabile d'ufficio dal giudice, senza che occorra una specifica deduzione ad opera della parte interessata a farla valere (così anche Cass. V, n. 21197/2014, secondo cui, ove la controversia abbia ad oggetto l'impugnazione del rigetto dell'istanza di rimborso di un tributo, il contribuente è attore in senso non solo formale ma anche sostanziale, con la duplice conseguenza che grava su di lui l'onere di allegare e provare i fatti a cui la legge ricollega il trattamento impositivo rivendicato e che le argomentazioni con cui l'Ufficio nega la sussistenza di detti fatti, o la qualificazione ad essi attribuita, costituiscono mere difese, non soggette ad alcuna preclusione processuale. Ne consegue che l'esclusione del diritto al rimborso, derivante dall'adesione del contribuente al condono, può essere dedotta per la prima volta anche in appello dall'Amministrazione finanziaria, trattandosi di questione che, pur non esclusivamente processuale, partecipa a tale natura ed è, dunque, rilevabile d'ufficio).

In modo speculare, allorché sia stato impugnato l'avviso di rettifica e, in assenza di contestazioni dell'Amministrazione, sia stata dichiarata la cessazione della materia del contendere in considerazione dell'intervenuto condono, allegato dall'attore, il successivo appello proposto dall'ufficio finanziario, per contestare il «fatto» del condono e la sua valutazione, è ammissibile, non trattandosi di una nuova eccezione, per la quale opera il divieto di cui all'art. 57, ma di mera argomentazione difensiva (Cass. V, n. 3558/2009).

Bibliografia

Becalli, La nullità dell'avviso di accertamento non è rilevabile dal giudice d'ufficio, in Il Fisco 2010, 331; Borgoglio, La motivazione dell'accertamento non può essere modificata nel corso del processo tributario, in Il Fisco 2014, 2309; Dalla Bontà, Sub art. 57, in AAVV., Commentario breve alle leggi del processo tributario, a cura di Consolo – Glendi, Padova, 2012, 680; Falsitta, Manuale di diritto tributario, Padova, 2015; Glendi, Sulla rilevabilità in appello della cessazione della materia del contendere sopravvenuta in primo grado, in Corr. trib. 2016, 1423; Gianoncelli, Sub art. 57, in AA.VV., Codice commentato del processo tributario, a cura di Tesauro, 2016, 796; Pistolesi, L'appello nel processo tributario, Torino, 2002; Tesauro, Manuale del processo tributario, Torino, 2014.

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