Legge - 27/07/2000 - n. 212 art. 14 - Contribuenti non residenti.

Andrea Antonio Salemme

Contribuenti non residenti.

1. Al contribuente residente all'estero sono assicurate le informazioni sulle modalità di applicazione delle imposte, la utilizzazione di moduli semplificati nonchè agevolazioni relativamente all'attribuzione del codice fiscale e alle modalità di presentazione delle dichiarazioni e di pagamento delle imposte.

2. Con decreto del Ministro delle finanze, adottato ai sensi dell'art. 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, relativo ai poteri regolamentari dei Ministri nelle materie di loro competenza, sono emanate le disposizioni di attuazione del presente articolo1

Inquadramento

L'art. 14, comma 1, dello Statuto dei diritti del contribuente prevede che al contribuente residente all'estero siano assicurate le informazioni sulle modalità di applicazione delle imposte, l'utilizzazione di moduli semplificati nonché agevolazioni relativamente all'attribuzione del codice fiscale e alle modalità di presentazione delle dichiarazioni e di pagamento delle imposte. In buona sostanza, il contribuente residente all'estero deve essere facilitato, di modo che la sua residenza non lo ponga nella comoda condizione di avere una scusa per non assolvere gli obblighi tributari. Ne deriva che i rapporti con detto contribuente rappresentano il terreno di massima estrinsecazione del principio di collaborazione di un'interessata A.F.

Per essere considerati residenti all'estero e dunque «non residenti» in Italia bisogna trovarsi nelle seguenti condizioni: non essere stati iscritti all' anagrafe delle persone residenti in Italia per più della metà dell'anno (e cioè per 183 giorni negli anni normali, 184 in quelli bisestili); non avere avuto il domicilio in Italia per più della metà dell'anno; non aver avuto dimora abituale in Italia per più della metà dell'anno.

Al contribuente residente all'estero sono assicurate le informazioni fiscali attraverso: a) i siti Internet del Ministero dell'Economia e delle Finanze e dell'Agenzia delle Entrate; b) gli sportelli self-service situati presso alcuni consolati; c) le pubblicazioni, le guide e le istruzioni disponibili in formato cartaceo ma anche digitale.

Sono pubblicati dalla Agenzia delle Entrate i modelli dichiarativi e la guida per la compilazione, con una parte specificamente dedicata alle istruzioni per le persone non residenti, le quali, tuttavia, sono tenute a presentare la dichiarazione dei redditi in Italia.

Domicilio fiscale e residenza fiscale

L'istituto del domicilio fiscale è proprio del diritto tributario ed esprime quella relazione spaziale tra contribuente ed ente impositore che è necessaria ai fini della certezza dello svolgimento dei rapporti giuridici. La funzione principale del domicilio fiscale è quella di radicare la competenza territoriale dell'Ufficio tributario e con essa la nazionalità dell'imposizione.

Il domicilio fiscale individua, inoltre, il luogo in cui devono eseguirsi le notificazioni dei provvedimenti impositivi (Boletto).

L'attuale disciplina del domicilio fiscale è contenuta nel d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, recante Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi, agli artt. 58 e 59: il primo ne stabilisce ambito di applicabilità e criteri di individuazione, il secondo disciplina l'ipotesi di domicilio fiscale stabilito autoritativamente dall'Amministrazione o assegnato in base ad una richiesta motivata del contribuente.

L'art. 58 dispone, al primo comma, che «agli effetti dell'applicazione delle imposte sui redditi ogni soggetto si intende domiciliato in un comune dello Stato, giusta le disposizioni seguenti». Dalla lettera della Legge si evince che il domicilio fiscale, in primo luogo, riguarda i soggetti passivi delle imposte sui redditi (anche se esso rileva anche ai fini di alcune imposte indirette); in secondo luogo, è altro rispetto al domicilio civilistico. A differenza del domicilio civilistico (art. 43 c.c.), che individua il centro degli affari ed interessi liberamente prescelto da tutti i soggetti capaci di essere titolari di situazioni giuridiche soggettive, il domicilio fiscale è un luogo predeterminato dalla Legge secondo criteri certi ed obiettivi, in cui i soggetti passivi vengono giuridicamente collocati; se, dunque, il domicilio civilistico integra una manifestazione dell'autonomia della volontà individuale, il domicilio fiscale rappresenta una limitazione di tale autonomia, che la Legge impone per agevolare l'applicazione delle imposte (in tal senso già Berliri, 22). Diverso è, inoltre, l'ambito di applicazione dei due istituti: il domicilio civilistico si applica, ai sensi dell'art. 43 c.c., alle sole persone fisiche, il domicilio fiscale è espressamente previsto anche per i soggetti diversi dalle persone fisiche.

La nozione di domicilio fiscale, inoltre, differisce, per natura e funzione, da quella di residenza fiscale, definita, per le persone fisiche, dall'art. 2, comma 2, del d.P.R. 22 dicembre1986, n. 917 (di seguito TUIR), ai sensi del quale «una persona fisica è considerata fiscalmente residente se, per la maggior parte del periodo di imposta è iscritta nelle anagrafi della popolazione residente o se ha nel territorio dello Stato il domicilio o la residenza ai sensi del codice civile».

La residenza fiscale è, infatti, un istituto di diritto sostanziale che esprime il collegamento personale con il territorio dello Stato, in ragione del quale si determina l'ambito di efficacia della norma impositiva; consente, in altri termini, di individuare coloro (i residenti, appunto) cui estendere il prelievo sui redditi ovunque prodotti e coloro (i non residenti) cui circoscrivere la tassazione al solo reddito prodotto nel territorio dello Stato; il domicilio fiscale attiene, viceversa, al diritto formale e serve a garantire una più semplice ed efficace attuazione del prelievo.

L'art. 2, comma 2, TUIR, ai fini delle imposte sui redditi, ricollega la residenza ad una delle seguenti fattispecie: a) iscrizione nelle anagrafi della popolazione residente; b) domicilio nel territorio dello Stato ai sensi del codice civile; c) residenza parimenti nel territorio dello Stato ai sensi del codice civile (Marini).

L'art. 2, comma 2, TUIR provvede, poi, a specificare ulteriori requisiti di ordine temporale e territoriale necessari per l'acquisto della residenza fiscale, disponendo che l'iscrizione nelle anagrafi della popolazione residente, il domicilio e la residenza devono riferirsi alla «maggior parte del periodo d'imposta» (requisito temporale), mentre la residenza e il domicilio devono restare circoscritti al «territorio dello Stato» (requisito territoriale). L'attuale formulazione della norma ha risolto, quanto al primo aspetto, i problemi di natura applicativa originati dal d.P.R. 29 settembre 1973, n. 597, il cui art. 2, comma 2, considerava «residenti, oltre alle persone iscritte nelle anagrafi della popolazione residente, coloro che hanno nel territorio dello Stato la sede principale dei loro affari ed interessi o vi dimorano per più di sei mesi dell'anno». Il Legislatore ha, infatti, disposto che il requisito temporale sia esteso anche alla iscrizione anagrafica e non sia, pertanto, limitato, come avveniva sotto il vigore della norma abrogata, al domicilio e alla residenza. A ciò si aggiunga che il riferimento al criterio temporale della «maggior parte del periodo d'imposta» contenuto nella norma vigente, in luogo di quello («per più di sei mesi dell'anno») fissato dall'art. 2, comma 2, d.P.R. n. 597/1973, evita i dubbi sorti a causa della differente durata dei mesi dell'anno nell'ipotesi in cui occorresse procedere al computo dei mesi. Il «territorio dello Stato» va, infine, inteso nel senso di territorio politico, ovvero di territorio sul quale lo Stato esercita la propria sovranità (Marino, 257).

In tema d'imposte sui redditi, ai sensi del combinato disposto degli art. 2 T.U.I.R. e art. 43 c.c., deve considerarsi soggetto passivo il cittadino italiano che, pur risiedendo all'estero, stabilisca in Italia, per la maggior parte del periodo d'imposta, il suo domicilio, inteso come la sede principale degli affari ed interessi economici nonché delle relazioni personali, come desumibile da elementi presuntivi ed a prescindere dalla sua iscrizione nell'AIRE (Cass. V, n. 20140/2021Cass. V, n. 21694/2020).L'art. 2, comma 2-bis del TUIR, ai fini della individuazione del luogo di residenza del cittadino che si è trasferito all'estero presso Stati aventi regimi fiscali privilegiati, individua tre presupposti, in via alternativa: il primo, formale, rappresentato dall'iscrizione nelle anagrafi della popolazione residente per la maggior parte del periodo d'imposta; gli altri due, di fatto, costituiti dal domicilio o dalla residenza nello Stato ai sensi del codice civile (sempre per lo stesso arco temporale minimo). Il comma 2-bis, poi, stabilisce (nel testo vigente ratione temporis) che "si considerano altresì residenti, salvo prova contraria, i cittadini italiani cancellati dalle anagrafi della popolazione residente ed emigrati in Stati o territori aventi un regime fiscale privilegiato", individuati con D.M. delle finanze del 4 maggio 1999 (c.d. paesi black list). 

Con decisione del 5 ottobre 2021 il Consiglio ECONFIN, invece, ha aggiornato la black list dell’Unione Europea, individuati sulla base delle indagini portate avanti dalla Commissione UE. La scelta della nuova lista dei paradisi fiscali è stata stilata esaminando la posizione di 92 Paesi alla luce dei seguenti criteri: trasparenza fiscale e scambio di informazioni; presenza di regimi fiscali privilegiati e non necessità dei requisiti di sostanza economica delle attività; sistemi con imposizione inconsistente o uguale a zero. Facendo seguito all’attività d’indagine della Commissione UE, 9 Paesi sono contenuti nella black list dell’Unione Europea,  quali American Samoa, Fiji, Guam, Palau, Panama, Samoa, Trinidad e Tobago, US Virgin Islands e Vanuatu, i quali non si sono impegnati ad adottare alcuna misura per migliorare la loro posizione di paradisi fiscali. A questi si aggiungono 15 Paesi nella grey list sulla base degli impegni assunti in termini di maggiore trasparenza fiscale e di tassazione equa: Anguilla, Bardados, Botswana, Costa Rica, Dominica, Giamaica, Giordania, Hong Kong, Macedonia del Nord, Malesia, Qatar, Seychelles, Tailandia, Turchia e Uruguay.

La residenza in Italia va, quindi, accertata alla stregua della disposizione ora indicata, che costituisce la sedes materiae, la quale prevede una presunzione relativa di residenza in Italia che può essere vinta dall'interessato fornendo la prova contraria (Cass. V, n. 6081/2019).

A rendere maggiormente problematica la questione della residenza fiscale era intervenuta anche Cass. V, n. 19410/2018, sottolineando l'essenzialità degli elementi sostanziali forniti dal contribuente che, nel caso sottoposto all'esame della Corte, erano risultati idonei a vincere la prova: “ al fine di superare la presunzione legale di residenza in Italia, il contribuente deve produrre in giudizio documenti a riprova che il centro principale dei suoi interessi economici e personali debba essere collocato all'estero ”. [Nella fattispecie, il contribuente, sportivo professionista, aveva dimostrato il pagamento di varie utenze legate all'abitazione locata all'estero, nonché di effettuare in tale paese straniero i propri allenamenti e di trovare abitualmente base in esso, in partenza e in arrivo, nei viaggi che lo portavano in giro per il mondo nel normale espletamento della sua attività agonistica. La Corte, rilevato che la Commissione Tributaria Regionale non aveva preso posizione su tali documenti, omettendo di indicare gli elementi ritenuti dirimenti nel senso del mancato superamento della presunzione di residenza in Italia, ha cassato per difetto di motivazione la sentenza della CTR che aveva ritenuto fondato il recupero fiscale delle imposte asseritamente sottratte al fisco italiano.].

Con la precisazione che, nel determinare la residenza fiscale, devono prevalere le relazioni economiche rispetto a quelle affettive-familiari, dando quindi prevalenza al “centro degli affari” e degli “interessi vitali” del contribuente, cioè al luogo in cui la gestione di questi interessi è esercitata abitualmente in modo riconoscibile dai terzi. La stessa Corte aveva in precedenza valorizzato gli interessi lavorativi, rispetto alla sostanziale instabilità nel tempo di quelli affettivi (Cass. V, ord., n. 32992/2018).

Residenza fiscale all'estero

I sistemi tributari dei paesi più industrializzati non sottopongono a tassazione unicamente i redditi prodotti dal contribuente nel territorio dello Stato, ma anche quelli prodotti all'estero. Questo principio è noto come «tassazione mondiale», o worldwide taxation, e si contrappone alla c.d. «tassazione territoriale» (Centore, 2570), che contraddistingue i meccanismi di prelievo fiscale che sottopongono a tassazione solamente i redditi prodotti dal contribuente entro i confini dello Stato (Marino, 257).

Spesso, nella loro applicazione pratica, i ridetti principi sono presenti contemporaneamente, anche se con bilanciamenti notevolmente diversi.

È tale anche il caso del nostro paese, che adotta un sistema ibrido misto semiterritoriale: dal punto di vista legislativo, il bilanciamento è ben delineato dall'art. 3, comma 1, TUIR, che, nel regolare la base imponibile, prevede che l'imposta si applica sul reddito complessivo del soggetto, formato per i residenti da tutti i redditi posseduti al netto degli oneri deducibili indicati nell'articolo 10 e per i non residenti soltanto da quelli prodotti nel territorio dello Stato (Piantavigna, 275).

La norma di riferimento in tema di residenza fiscale è dettata dall'art. 2, comma 2, TUIR, già citato, che contiene una serie di criteri alternativi, soggettivi e oggettivi. Più in particolare, vi figurano un requisito formale, rappresentato dall'iscrizione nelle anagrafi della popolazione residente, che determina una presunzione assoluta di residenza in Italia non suscettibile di prova contraria, e due sostanziali, il domicilio e la residenza ai sensi del codice civile, che danno invece luogo a presunzioni relative, dunque vincibili da prova contraria.

I criteri alternativi vanno aggiunti all'elemento temporale: per essere considerato fiscalmente residente, il soggetto deve soddisfare uno dei suddetti requisiti per la maggior parte del periodo d'imposta e quindi per un periodo pari ad almeno 183 giorni (Marino, 257).

Aspetti probatori della residenza in Italia o all'estero

Per quanto concerne gli aspetti probatori, è l'Amministrazione che normalmente deve dimostrare, in fase di accertamento, la residenza italiana dei contribuenti che si dichiarano fiscalmente residenti all'estero (Marino, 257). Detto principio è però derogato dal comma 2-bis dell'art. 2 TUIR, introdotto dall'art. 10 l. n. 448/1998, il quale inverte l'onere della prova, stabilendo una presunzione relativa di residenza in Italia per coloro i quali, dopo essersi cancellati dalle anagrafi della popolazione residente, si sono trasferiti in Stati o territori aventi un regime fiscale privilegiato (Melis, 1077).

Come anticipato, la nozione di residenza fiscale è più ampia di quella di residenza civilistica. A termini dell'art. 43 c.c., se il domicilio di una persona è nel luogo in cui essa ha stabilito la sede principale dei suoi affari ed interessi, La residenza è nel luogo in cui la persona ha la dimora abituale. La residenza civilistica si fonda dunque su due presupposti: quello oggettivo del vincolo con il territorio da una parte espresso dal vocabolo «dimora» e quello soggettivo dell'animus permanendi (cfr. Cass. II, n. 4518/1998, in Mass. Giur. It., 1998). Dalla loro combinazione emerge che può essere considerata «residente» in un dato luogo la persona che abitualmente e volontariamente vi dimora. Tale situazione non è interrotta neanche qualora il soggetto lavori o svolga altre attività in un luogo estero, purché conservi in Italia l'abitazione e vi ritorni quando possibile, mostrando così l'intenzione di mantenervi il centro delle proprie relazioni familiari e sociali.

La centralità del luogo viene in rilievo anche quanto al domicilio civilistico, che, a differenza della residenza, si stabilisce nel luogo costituente il «centro degli affari» del soggetto, senza però tener conto della sua effettiva presenza in esso. Si tratta di una situazione giuridica fortemente condizionata dall'elemento soggettivo, rappresentato dalla volontà di «stabilirsi» in un certo posto. Per tale ragione, la presenza della famiglia di un soggetto in Italia assume la valenza di indizio fortemente significativo della sua volontà di conservarvi la sede principale dei propri affari ed interessi, indipendentemente da ogni sua contraria «dichiarazione di volontà» a riguardo, o dal fatto che egli trascorra lunghi periodi altrove.

Sul piano tributario, tradizionalmente, l'Agenzia ha adottato un'interpretazione molto ampia della nozione di domicilio, ed in particolare della locuzione relativa sede alla principale di affari ed interessi, costruendola come nucleo centrale sussistendo il quale sussiste anche la residenza, sul presupposto che il centro di affari ed interessi normalmente individui il centro di un fascio di relazioni che sono anche familiari e soprattutto sociali.

La prassi amministrativa, infatti, non comprende solo i rapporti di natura economica, ma anche quelli c.d. «morali», sociali e familiari, cosicché la valutazione di ogni caso specifico deve tener conto tutti gli elementi che più o meno direttamente provino la presenza nel luogo di tale complesso di rapporti (Falconi-Marianetti, 2168). Indici significativi della «presenza tributaria», che prescinde dalla presenza fisica, possono essere la presenza della famiglia, il possesso di beni mobiliari, la disponibilità di un'abitazione in modo permanente, la partecipazione ad attività pubbliche, la titolarità di cariche sociali e l'iscrizione a circoli, finanche una pagina italiana di Facebook (cfr. Circ. min. n. 304/E del 2 dicembre 1997, in Corr. trib., 1997, 3685; cfr. anche Ris. Ag. Entrate n. 351/E del 7 agosto 2008, reperibile sul sito internet www.agenziaentrate.gov.it, Sez. Documenti). Tutti gli elencati elementi possono concorrere a soddisfare il requisito della principalità di cui all'art. 43 del c.c., che deve essere ponderato effettuando un attento esame degli elementi fattuali del caso specifico, sia da un punto di vista qualitativo che quantitativo. Incertezze sorgono quando il centro degli interessi «personali» non coincide con quello degli interessi economici, perché l'interessato si reca all'estero per svolgere la propria attività lavorativa mantenendo nel contempo la famiglia in Italia. In tali situazioni, prassi e giurisprudenza paiono orientate a considerare preponderanti gli interessi personali, che mettono così in secondo piano l'effettività della presenza fisica del soggetto nel luogo del domicilio e, per l'estensione poc'anzi rilevata, della residenza.

Da quanto detto sinora emerge una sovrapposizione parziale della residenza fiscale a quella civilistica. Anche in siffatto ambito di sovrapposizione, occorre comunque rammentare l'estrema complessità che caratterizza la relazione tra i due concetti di residenza, attesa l'impossibilità di trasporre automaticamente il significato che i due poli dell'abitualità e dell'obiettiva individuazione della sede principale degli affari ed interessi vitali assumono nell'ambito civilistico all'ambito tributario (Cerrato, 3). La correlazione tra detti poli è infatti differente nei due ambiti, dal momento che in ambito civilistico essi costituiscono due criteri separati, utili ad individuare rispettivamente la residenza ed il domicilio, che possono anche non coincidere, ed anzi spesso non coincidono; mentre in ambito tributario rappresentano criteri alternativi atti a stabilire la residenza fiscale del contribuente. Ciò spiega in ambito tributario l'esistenza di una sorta di «gerarchia» tra legami personali ed interessi economici e patrimoniali nella definizione del domicilio e per estensione della residenza quale legame con un determinato territorio, rispetto alla quale i relativi concetti hanno valore e peso diversi, (Marino, 1368), ancorché unidirezionati.

Il centro degli interessi vitali del soggetto va individuato dando prevalenza al luogo in cui la gestione di detti interessi viene esercitata abitualmente in modo riconoscibile dai terzi. Le relazioni affettive e familiari non hanno una rilevanza prioritaria ai fini probatori della residenza fiscale, venendo in rilievo solo ad altri probanti criteri, che univocamente attestino il luogo col quale il soggetto ha il più stretto collegamento (Cass. V, ord. n. 31085/2021Cass. V, ord., n. 32992/2018) .

L'anagrafe della popolazione italiana residente all'estero

L' Anagrafe degli Italiani Residenti all'Estero ( A.I.R.E.) è stata istituita con la legge 27 ottobre 1988, n. 470, e contiene i dati dei cittadini italiani che risiedono all'estero per un periodo superiore ai dodici mesi. Essa è gestita dai comuni sulla base dei dati e delle informazioni provenienti dalle rappresentanze consolari all'estero.

L'iscrizione all' A.I.R.E. è un diritto-dovere del cittadino (art. 6) e costituisce il presupposto per usufruire di una serie di servizi forniti dalle rappresentanze consolari all'estero, funzionali all'esercizio di diritti fondamentali, quali, da un lato, la possibilità di votare per le elezioni politiche e referendarie per corrispondenza nel Paese di residenza e per le elezioni dei rappresentanti italiani al Parlamento Europeo nei seggi istituiti dalla rete diplomatico-consolare nei Paesi appartenenti all'U.E. e, dall'altro, di ottenere il rilascio o rinnovo diretto di documenti e certificazioni.

Devono iscriversi all'A.I.R.E.: i cittadini che trasferiscono la propria residenza all'estero per periodi superiori a 12 mesi; quelli che già vi risiedono, sia perché nati all'estero che per successivo acquisto della cittadinanza italiana a qualsiasi titolo. Non devono iscriversi all'A.I.R.E. invece le persone che si recano all'estero per un periodo di tempo inferiore ad un anno; i lavoratori stagionali; i dipendenti di ruolo dello Stato in servizio all'estero, che siano notificati ai sensi delle Convenzioni di Vienna sulle relazioni diplomatiche e sulle relazioni consolari rispettivamente del 1961 e del 1963; i militari italiani in servizio presso gli uffici e le strutture della NATO dislocate all'estero. 

L'iscrizione all'A.I.R.E. è effettuata a seguito di dichiarazione resa dall'interessato all'Ufficio consolare competente per territorio entro 90 giorni dal trasferimento della residenza e comporta la contestuale cancellazione dall' Anagrafe della Popolazione Residente (A.P.R.) del comune di provenienza.

L'iscrizione può anche avvenire d'ufficio, sulla base di informazioni di cui il consolato sia venuto a conoscenza.

La cancellazione dall' A.I.R.E. avviene: per iscrizione nell' Anagrafe della Popolazione Residente (A.P.R.) di un Comune italiano a seguito di trasferimento dall'estero o rimpatrio; per morte, compresa la morte presunta giudizialmente dichiarata; per irreperibilità presunta, salvo prova contraria, trascorsi cento anni dalla nascita o dopo la effettuazione di due successive rilevazioni, oppure quando risulti non più valido l'indirizzo all'estero comunicato in precedenza e non sia possibile acquisire quello nuovo; per perdita della cittadinanza italiana.

L'iscrizione all' A.I.R.E. rappresenta una presunzione forte della sua residenza fiscale in uno Stato estero se la sua durata supera i 183 giorni nell'anno. Peraltro l'inversione dell'onere della prova non ha mancato di suscitare critiche in dottrina (Dante-Vaccarino, Trasferimenti fittizi di residenza fiscale, in Corr. trib., 2002, 4360).

Tuttavia, in maniera del tutto asimmetrica rispetto a quanto accade per l'iscrizione nell' anagrafe della popolazione residente, che costituisce una presunzione assoluta di residenza fiscale in Italia qualora sia soddisfatto il suddetto requisito temporale (Cass. V, n. 21970/2015), l'iscrizione all'A.I.R.E. non esclude del tutto l'assoggettamento all'imposizione fiscale nel nostro Paese, dal momento che la cancellazione dagli elenchi della popolazione residente non esclude di per sé il permanente domicilio nello Stato (Marino, La geometria variabile, cit., 257). Ecco che l'intreccio visto poc'anzi tra normativa civilistica e fiscale appare in uno dei suoi più rilevanti risvolti pratici: la fissazione della residenza «civilistica» all'estero non preclude di per sé una contestuale indagine volta a stabilire il domicilio del soggetto, e quindi per derivazione la sua residenza fiscale, in Italia. In ogni caso la giurisprudenza di legittimità opina per la prevalenza della sostanza sulla formale iscrizione all'A.I.R.E. (Cass. I, n. 1215/1998,). In sostanza, l'iscrizione all'A.I.R.E. è uno dei presupposti necessari per fissare la residenza fiscale all'estero, ma di per sé non sufficiente dal momento, che essa ha valore di pubblicità «solo» dichiarativa (Cfr. C.t.p. Roma, 23 maggio 2006, n. 149, e C.t.p. Modena, 9 febbraio 1999, n. 195; sul punto, anche la Circ min. n. 304/E del 1997, nella quale l'Agenzia delle entrate ribadisce che, di converso, «la cancellazione dall'AIRE non costituisce un elemento determinante per stabilire se un soggetto sia residente nello Stato, essendo per di più ammesso ogni mezzo di prova idoneo a trarre conclusioni opposte a quelle che emergono dalle sole risultanze anagrafiche»).

Posto che in base all'art. 2, comma 2, T.U.I.R., "ai fini delle imposte sui redditi si considerano residenti le persone che per la maggior parte del periodo di imposta sono iscritte nelle anagrafi della popolazione residente o hanno nel territorio dello Stato il domicilio o la residenza ai sensi del codice civile", è onere del contribuente superare la presunzione di residenza in Italia, ex art. 2 cit., fornendo la prova che, in tale annualità, il centro principale dei suoi affari ed interessi si collocasse effettivamente altrove, e non in Italia (Cass. V, ord., n. 19410/2018).

Trasferimento della residenza nei c.d. «paradisi fiscali»

In Italia non sfugge all'attenzione del Fisco il fenomeno dei «falsi non residenti», cioè di persone che, pur conservando in Italia la residenza o il domicilio in senso sia fiscale sia finanche civilistico, trasferiscono fittiziamente la residenza anagrafica nei c.d. paradisi fiscali (Fregni, La residenza fiscale delle persone fisiche, in Giur. it., 2009, 11). In genere, il profilo formale viene rispettato; si effettua infatti in primo luogo la cancellazione dall'anagrafe tributaria e il corrispondente inserimento nell' A.I.R.E., fissando poi la residenza in un Paese più conveniente sotto il profilo della tassazione diretta. L'operazione, di per sé, è ineccepibile risponde al diritto – rilevante nell'ordinamento dell'UE sotto il profilo della libera circolazione delle persone – di scegliere il luogo in cui vivere. Se il trasferimento di residenza è effettivo, nulla quaestio. Non può essere infatti stigmatizzata la scelta di risiedere in un Paese estero, quand'anche le ragioni del trasferimento siano meramente fiscali. Il vero problema emerge, al di là della ritrosia dello Stato italiano a perdere quote anche rilevanti di gettito imponibile, nel caso di persone che formalmente risultano residenti in un altro Paese, sia esso considerato paradiso fiscale o meno, ma nei fatti continuano a risiedere in Italia. Il vantaggio per esse è notevole, giacché sono debitrici verso il Fisco dei soli redditi eventualmente prodotti in Italia (Fregni, op. loc. cit.).

Il legislatore è intervenuto con una norma che riguarda i soli cittadini italiani e che incide sull'onere della prova. Nell'art. 2 TUIR è stato infatti introdotto, ad opera dell'art. 10 della l. n. 448/1998, il comma 2-bis, che recitava: «Si considerano altresì residenti, salvo prova contraria, i cittadini italiani cancellati dalle anagrafi della popolazione residente ed emigrati in Stati o territori aventi un regime fiscale privilegiato, individuati con decreto del Ministro delle finanze da pubblicare nella Gazzetta Ufficiale». Ai sensi dell'art. 1, comma 83, l. n. 344/2007, il comma 2 bis è stato sostituito con il testo seguente: «Si considerano altresì residenti, salvo prova contraria, i cittadini italiani cancellati dalle anagrafi della popolazione residente e trasferiti in Stati o territori diversi da quelli individuati con decreto del Ministro dell'economia e delle finanze da pubblicare nella Gazzetta Ufficiale». Il passaggio dal sistema della black list (da cui espungere comunque Malta e Cipro, a partire dalla loro inclusione nell'UE) a quello della white list non è stato ancora compiuto, mancando tuttora il decreto di attuazione che individua i Paesi «virtuosi».

Per regola, l'onere di provare i presupposti di fatto, che determinano la residenza fiscale di un soggetto in Italia, è a carico dell'A.F., sia perché essa ha in generale l'onere di dimostrare le circostanze addotte a fondamento dei suoi provvedimenti, sia perché — se un soggetto non è iscritto all'anagrafe dei residenti — è onere di chi vuol far valere alcunché di diverso dalle risultanze documentali vincere la presunzione che le assiste. Ciò equivale a dire che normalmente l'A.F. deve dare la prova dei fatti costitutivi della residenza fiscale. Quando però ricorre l'ipotesi considerata nel comma 2 bis dell'art. 2 TUIR, l'onere della prova è invertito, perché spetta al cittadino italiano, che si sia trasferito in un paese paradisiaco, l'onere di fornire la prova di essere divenuto «non residente» in Italia perché effettivamente residente in tale paese.

Un primo ordine di considerazioni concerne il fatto che il comma 2 bis non riguarda, indistintamente, tutti i soggetti che intendono perdere la residenza fiscale, ma solo i cittadini italiani. La norma discrimina dunque tra italiani e stranieri; uno straniero che si insedia in Italia, e che ha, dunque, in Italia, residenza e domicilio, trasferendosi in seguito in un paradiso fiscale, non ha gli oneri di prova che ha invece il cittadino italiano. Altri ordinamenti, che hanno una norma analoga a quella in esame, presentano più intelligentemente un diverso ambito soggettivo di applicazione; ad esempio, l'analoga norma tedesca non è applicabile nei confronti di tutti i contribuenti che abbiano trasferito la loro residenza all'estero, ma solo di quelli che siano stati soggetti all'imposizione tedesca sul reddito mondiale per almeno cinque negli ultimi dieci anni antecedenti il trasferimento di residenza all'estero (Fregni, op. loc. cit.). La legislazione italiana, come quella spagnola, si rivolge in modo indistinto a tutti i cittadini. In queste legislazioni, pur dinanzi alla volatilità quantomeno degli spostamenti intraunionali, la cittadinanza riacquista un ruolo fiscalmente dirimente, segnando un'inversione di tendenza rispetto all'evolvere del diritto tributario, da tempo aduso a considerare la cittadinanza non fiscalmente significativa. Poiché si versa in un caso esemplare di «discriminazione a rovescio», che pone a carico dei cittadini oneri non addossati anche ai residenti non aventi la cittadinanza, si potrebbe dubitare della conformità del comma 2 bis – che dal punto di vista contenutistico, in quanto norma antievasiva fondata sul buon senso (rule of reason), non è in contrasto con le libertà fondamentali garantite dai Trattati europei – al principio di non discriminazione in base alla cittadinanza, dotato di autonoma rilevanza nella giurisprudenza della Corte di Giustizia dell'Unione Europea (cfr. tra le altre su tali punti vedi le sentenze della Corte di Giustizia, Avoir fiscal, del 16 ottobre 1986, causa 270/83, Biehl, del 08.05.1990, causa C-175/88 e Wielockx del 11.08.1995, causa C-80/94).

Il comma 2 bis introduce una presunzione che opera quando un cittadino italiano si cancella dall'anagrafe italiana e si iscrive in quella di un Paese «fiscalmente privilegiato», demandandone interamente l'elencazione (e, in sostanza, anche i criteri di individuazione) ad un decreto ministeriale. Fino ad oggi si è seguito, dunque, il c.d. designated jurisdiction approach, e non il transactional approach. Con quest'ultimo sistema, applicato da Canada ed USA, la tassazione con aliquote ridotte rileva indipendentemente dal Paese in cui essa venga applicata, rendendo pertanto inutili le liste di Paesi a fiscalità ridotta.

Oggetto di presunzione del comma 2 bis è la sussistenza dei fatti che attribuiscono la residenza fiscale in Italia; si presume, pertanto, che chi si trasferisce in un paradiso fiscale conservi comunque in Italia la residenza o il domicilio. Per vincere tale presunzione, l'onerato deve fornire anzitutto la prova di non aver conservato in Italia né la residenza, né il domicilio. La prova negativa (ossia di non avere in Italia né il domicilio né la residenza) può essere data fornendo, in positivo, la prova di fatti incompatibili con la residenza e con il domicilio in Italia. dimostrando, cioè, che la dimora abituale ed il domicilio sono nel Paese di emigrazione. Se l'emigrazione avviene in un Paese con il quale l'Italia ha stipulato una convenzione contro le doppie imposizioni (ma che è stato incluso nella black list, come, ad esempio, la Svizzera), il comma 2-bis è «bloccato» dalle norme convenzionali che disciplinano la medesima fattispecie.

La «prova contraria» della residenza fiscale nella giurisprudenza più recente

La presunzione di residenza in Italia, contenuta nel comma 2-bis dell'art. 2 del T.U.I.R., può essere superata dalla prova contraria fornita dal contribuente. La norma non fornisce alcun dettaglio riguardo alle caratteristiche di tale prova, limitandosi a porla a carico del contribuente. Ciò porta ad una serie di incertezze applicative, a partire dall'oggetto stesso di tale prova: al contribuente sarà sufficiente provare l'effettività del suo trasferimento? Oppure dovrà anche provare la perdita di ogni «collegamento» con il territorio italiano? (Antonini-Piantavigna, 1491).

In giurisprudenza è frequente che la prova «negativa» – proprio perché tale – di «non-residenza» in Italia sia fornita attraverso elementi «positivi» di residenza all'estero, quali ad esempio contratti di acquisto o locazione di immobili residenziali, fatture relative ad utenze telefoniche, luce, gas, etc., ovvero un'attività lavorativa nello Stato estero.

La Corte – in specie ove si confrontino le pronunce relative a trasferimenti in paesi paradisiaci e non (Cass. V, ord. n. 18702/2021; Cass. V, n. 21694/2020; Cass. V, ord., n. 19410/2018; Cass. V, n. 6501/2015; Cass. V, n. 9723/2015, in Corr. Trib., 2015, 31, 2419, con nota di Roccatagliata, 2419) – sembra quindi porgere l'invito ad effettuare una valutazione globale che tenga conto della generalità degli affari ed interessi del contribuente impegnato in più rapporti in Stati diversi, al fine di individuare quale sia nello specifico la «sede principale» dei suoi interessi complessivamente considerati: nel caso di trasferimenti in paesi paradisiaci, ciò comporta, rispetto a trasferimenti in paesi non tali, quasi un declassamento dei legami familiari rispetto a quelli economico-patrimoniali, i quali ultimi assurgono pertanto alla ribalta al pari dei primi; in effetti, la natura paradisiaca dei paesi appartenenti alla black list rende ragionevole che si attribuisca importanza, al di là dei legami familiari e personali, al profilo prettamente economico delle attività svolte.

Di recente, un contributo alla problematica in rassegna è stato fornito dalla stessa Amministrazione finanziaria, la quale si è posta apertamente in contrasto con il restrittivo orientamento della Cassazione.

Il caso esaminato dall'Agenzia delle Entrate riguardava un'italiana che, per motivi di lavoro, si era trasferita in Danimarca dove aveva sottoscritto un contratto di locazione e nel 2017 aveva conseguito reddito di lavoro dipendente in base a contratto di lavoro con una società diritto danese. In base alla Convezione contro le doppie imposizioni sottoscritta con la Danimarca, il reddito percepito a fronte di un'attività di lavoro dipendente, prestata, per la maggior parte dell'anno, in Danimarca alle dipendenze di una società di tale Stato, è assoggettato ad imposizione concorrente in entrambi i Paesi: in Italia, Stato di residenza ed in Danimarca, Stato di svolgimento dell'attività lavorativa. In tal caso, la conseguente doppia imposizione sul reddito viene eliminata sulla base della Convezione, che stabilisce: “Se un residente dell'Italia possiede elementi di reddito che sono imponibili in Danimarca, l'Italia, nel calcolare le proprie imposte sul reddito … può includere nella base imponibile di tali imposte detti elementi di reddito, a meno che espresse disposizioni della presente Convenzione non stabiliscano diversamente. In tal caso, l'Italia deve detrarre dalle imposte così calcolate l'imposta sui redditi pagata in Danimarca, ma l'ammontare della detrazione non può eccedere la quota di imposta italiana attribuibile ai predetti elementi di reddito nella proporzione in cui gli stessi concorrono alla formazione del reddito complessivo”.

L'Agenzia delle entrate, con la risposta n. 203 del 2019, ha fornito un parere costituzionalmente orientato. Essa, ha in particolare precisato che una persona fisica che risulti residente in entrambi gli Stati contraenti è considerato, innanzitutto, residente nello Stato in cui dispone di un'abitazione permanente; in subordine, laddove disponga di un'abitazione permanente in entrambi gli Stati, la residenza di una persona fisica deve essere determinata secondo i seguenti criteri residuali disposti in ordine decrescente:

• ubicazione del centro degli interessi vitali: la persona fisica che dispone di un'abitazione principale in entrambi gli Stati sarà considerata residente nel Paese nel quale le sue relazioni personali ed economiche sono più strette;

• dimora abituale: ove non sia possibile individuare la residenza del contribuente in base ai due criteri sopra citati, una persona fisica sarà considerata residente dello Stato in cui soggiorna abitualmente;

• nazionalità della persona fisica: quando i primi tre criteri non sono dirimenti, il contribuente sarà considerato residente dello Stato contraente la Convenzione di cui possiede la nazionalità.

Quando, infine, una persona fisica ha la nazionalità di entrambi i Paesi o di nessuno di essi, gli Stati contraenti la Convenzione risolveranno la questione di comune accordo. La riprodotta risposta assume rilevante importanza ai fini dell'individuazione della residenza fiscale in quanto l'Agenzia delle entrate ha chiarito che l'iscrizione nell'anagrafe della popolazione residente non costituisce, di per sé, una prova assoluta di residenza, ma deve essere accertata sulla base degli elementi oggettivi appena indicati che si basino, dunque, sull'esistenza di circostanze di fatto e non, quindi, di atti meramente formali.

La residenza nel diritto dell'Unione Europea

Pur non rientrando le imposte dirette – a differenza dell'IVA – tra le materie di competenza dell'Unione Europea, gli Stati membri non possono non tener conto degli obblighi derivanti dal diritto eurounitario nell'ambito del rapporto con il contribuente.

Vale quindi la pena di soffermarsi sulla residenza fiscale così come è stata elaborata dalla Corte di Giustizia dell'Unione Europea, che si è pronunciata sul relativo concetto numerose volte, in particolare con riguardo all'applicazione del Reg. 1408/71/CEE sulla sicurezza sociale dei lavoratori transfrontalieri, ed alla Dir. n. 1983/102/CEE su alcune esenzioni per i mezzi di trasporto importati temporaneamente (Cittadini, 4; Scarioni, Change of Individual's Residence within the EU: The «Tax Residence» Issueas a Possible Obstacle from an Italian Perspective, in Intertax, 39, 5, 266). In tali contesti, pur se riferita a normative settoriali, la Corte ha ambiziosamente cercato di elaborare una nozione di residenza «unica», o meglio, per utilizzare le sue stesse parole, di portata comunitaria, anche se deve essere rilevato fin da subito che essa non ha mai esplicitato l'intenzione che la corrispondente nozione fosse estesa viepiù a tutta la platea delle imposte dirette.

Ad ogni modo, nel caso Swaddling (CGUE, sent. in causa C-90/97, 25 febbraio 1999, Robin Swaddling, ECLI:EU:C:1999:96, punto 28), la Corte afferma che «... la nozione di «Stato membro nel quale esse [le persone interessate] risiedono» di cui all'art. 10-bis del regolamento n. 1408 del 1971 si riferisce allo Stato in cui [dette persone] risiedono abitualmente ed in cui si trova altresì il centro principale dei loro interessi», dovendosi a tal fine essere presi in considerazione «in modo particolare»: la situazione familiare del lavoratore; i motivi che lo hanno indotto a trasferirsi, la durata e la continuità della residenza, il fatto di disporre eventualmente di un posto di lavoro stabile e l'intenzione del lavoratore quale si può desumere da tutte queste circostanze.

Successivamente, nel caso Louloudakis (CGUE, sent. in causa C-262/99, 12 luglio 2001, Louloudakis, ECLI:EU:C:2001:407, punto 60), la Corte afferma che nel caso in cui una persona abbia legami, sia personali, sia professionali, in due Stati membri, il luogo della sua “normale residenza”, stabilito nell'ambito di una valutazione globale in funzione di tutti gli elementi di fatto rilevanti, è quello in cui viene individuato il centro permanente degli interessi di tale persona e che, nell'ipotesi in cui tale valutazione globale non permetta siffatta valutazione, occorre dichiarare la preminenza dei legami personali.

Come osservato in dottrina (Scarioni, op. cit., 270), questa nozione «unitaria» di residenza fiscale è molto simile, se non addirittura identica, a quella di «domicilio» nel nostro ordinamento. Tuttavia, l'obbligo degli Stati membri di uniformarsi al diritto eurounitario anche nel regolare situazioni «puramente nazionali» può contribuire a scomporre ulteriormente il già frammentario quadro delineato poc'anzi.

Già alla fine degli anni '90, nella sentenza Leur-Bloem, la Corte sottolineava la necessità per le Corti nazionali di conformarsi al diritto eurounitario anche per la soluzione di questioni «puramente nazionali» (CGUE, sent. in causa C-28/95, 17 luglio 1997, Leur-Bloem, ECLI:EU:C:1997:369, punto 32). Il risultato è una tensione tra l'indiscussa competenza dell'ordinamento nazionale nello stabilire i criteri rilevanti per determinare la residenza del contribuente, in svolgimento di una delle maggiori espressioni della sovranità dello Stato, ed il vincolo imposto dal diritto eurounitario di conformarsi alle interpretazioni fornite dalla Corte di Giustizia.

Notificazioni all'estero, processo tributario e statuto del contribuente

La disciplina delle notificazioni in generale, ed in particolar modo di quelle in ambito tributario, è da alcuni anni in continua evoluzione. Le repentine trasformazioni discendono non solo dagli interventi messi in atto da un legislatore in vena di complicazioni sotto l'ombrello della semplificazione, ma anche (e soprattutto) dai notevoli apporti giurisprudenziali, che hanno limato le asperità legislative, o sopperito ai vuoti normativi, delineando nuovi percorsi interpretativi, come ad esempio in materia di vizi delle operazioni di notifica (Diodati, 2007).

L'argomento — come non ha mancato di rimarcare la Corte cost. n. 366/2007, in Il Fisco, 2007, 6299, ha ritenuto la parziale illegittimità degli artt. 58 e 60 d.P.R. n. 600/1973 e 26 d.P.R. n. 602/1973 quanto alle notifiche estere — ha rilievo costituzionale, giacché attiene all'effettiva possibilità di conoscenza dell'atto da parte del destinatario, senza alcuna disparità di trattamento tra contribuenti (art. 3 Cost.), in funzione del pieno esercizio, ovviamente in Italia, del diritto di difesa (art. 24 Cost.).

L'impianto di base in tema di notifiche tributarie prevede tutt'oggi una disciplina di carattere speciale, regolata dall'art. 58 cit. ed imperniata, per coerenza sistemica, sulla notificazione nel territorio dello Stato, da intendersi quale Stato ove si è prodotto il reddito. In virtù di esso, e fino alla riforma operata dal legislatore nel 2006, la situazione del contribuente residente all'estero e iscritto all'A.I.R.E. era parificata a quella del contribuente che non ha abitazione, ufficio o azienda nel domicilio fiscale. Pertanto si imponeva di eseguire la notifica a lui destinata solo mediante il deposito di copia dell'atto nella casa comunale (del luogo in cui si era prodotto il reddito) e l'affissione dell'avviso di deposito nell'albo dello stesso comune [art. 60, comma 1, lett. e)]. La chiusura del sistema era garantita dalla previsione per cui «le disposizioni contenute negli articoli 142, 143, 146, 150 e 151 del codice di procedura civile non si applicano» [lett. f)]. L'esclusione delle forme civilistiche era talmente imperativa, da far ritenere dalla giurisprudenza «inesistente», e dunque, insanabile, una notifica effettuata secondo il c.p.c. (Cass. V, n. 25095/2006, in Dir. e prat. trib., 2007, 2, 2, 327). A fronte di tanto rigore, l'esigenza di assicurare l'effettiva conoscenza degli atti tributari ai destinatari anche esteri degli stessi si è imposta prepotentemente con l'entrata in vigore della l. n. 212/2000, giacché la conoscenza è il presupposto fattuale della partecipazione al procedimento amministrativo-tributario. Ciò spiega perché la Direzione Centrale Riscossione del MEF, nell'imminenza della rivoluzione normativa, con la circ. n. 16 del 27 gennaio 2000, fosse corsa al riparo, invitando gli uffici che avevano emanato gli atti «a darne comunicazione al destinatario medesimo all'indirizzo del paese estero di residenza, con avviso da inoltrare con posta ordinaria», in considerazione dell'«esigenza di assicurare in modo tempestivo ai soggetti non residenti nel territorio dello Stato una conoscenza effettiva, e non solo legale, degli atti tributari ad essa diretti». Peraltro la comunicazione suggerita dalla DCR non poteva che avere mere finalità informative, in quanto priva di effetti legali, che discendevano, invece, esclusivamente dal compimento delle formalità di cui all'art. 60 cit.

Con il d.l. 4 luglio 2006, n. 223, meglio conosciuto come decreto Visco-Bersani, conv. con modif. nella legge 4 agosto 2006, n. 248, sono state introdotte rilevanti modifiche, tra le quali la cristallizzazione del principio — che ormai si era fatto strada — della notifica estera degli atti tributari presso la residenza estera nota del contribuente. L'art. 37, comma 27, d.l. n. 223/2006 ha dunque aggiunto al comma 1 dell'art. 60 d.P.R. n. 600/1973 la lettera e-bis, intesa ad attribuire al contribuente la facoltà di comunicare al competente ufficio locale l'indirizzo estero dove intende ricevere la notifica degli atti tributari che lo riguardano. La possibilità di avvalersi di siffatta facoltà presuppone che il contribuente non abbia la residenza in Italia, non vi abbia eletto domicilio ai sensi della lett. d) e non vi abbia costituito un rappresentante legittimato a ricevere, in sua vece, la notifica degli avvisi e degli altri atti che lo riguardano. Qualora il contribuente si avvalga della facoltà stessa, la notificazione degli atti tributari va effettuata con «spedizione a mezzo lettera raccomandata con avviso di ricevimento» all'indirizzo estero comunicato, fatta sempre salva la possibilità che l'atto venga consegnato in mani proprie del destinatario. Balza agli occhi come l'intervento normativo di cui si tratta mantenesse pur sempre ferma l'inapplicabilità al rito tributario dell'art. 142 del c.p.c., introducendo una forma snella di notifica ai contribuenti residenti all'estero avente come presupposto e perciò anche come giustificazione l'avvalimento da parte di costoro della facoltà di comunicare il proprio indirizzo estero (Diodati, cit.). Conseguentemente, in tutti gli altri casi, l'Ufficio era – sino alla sent. n. 366/2007 della Corte costituzionale – legittimato a seguire sic et simpliciter le procedure di cui all'art. 60 comma 1 lett. e), d.P.R. n. 600/1973, ossia il deposito nella casa comunale e successiva affissione all'albo.

Con la sent. Corte cost. n. 366/2007, la Corte costituzionale trovandosi a dover scrutinare le norme tributarie nell'assetto precedente alla novella introdotta dal d.l. n. 223/2006, ha stabilito che l'esigenza di garantire al destinatario dell'atto da notificare l'effettiva possibilità di una tempestiva conoscenza dell' accertamento notificato e, quindi, l'esercizio del suo diritto di difesa, costituisce un limite inderogabile alla discrezionalità del legislatore. Gli artt. 58, commi 1 e 2, secondo periodo, e 60, comma 1, lett. c), e) ed f), d.P.R. n. 600/1973 violavano detto limite, perché, «...equiparando la situazione del contribuente residente all'estero e iscritto nell'A.I.R.E. a quella del contribuente che non ha abitazione, ufficio o azienda nel comune del domicilio fiscale, impon[eva]no di eseguire le notificazioni a lui destinate solo mediante il deposito di copia dell'atto nella casa comunale e l'affissione dell'avviso di deposito nell'albo dello stesso comune». Secondo la Corte, il sistema normativo non garantiva «... al notificatario non più residente in Italia l'effettiva conoscenza degli atti a lui destinati, senza che a tale diminuita garanzia corrispond[esse] un apprezzabile interesse dell'amministrazione finanziaria notificante a non subire eccessivi aggravi nell'espletamento della procedura notificatoria». Invece, le modalità di notificazione previste in via generale dall'art. 142 c.p.c. – continua la Corte – assicurano al notificatario l'effettiva conoscenza dell'atto a lui destinato, imponendo all'A.F. di espletare la procedura, di per sé non gravosa, di notifica presso la residenza estera risultante dall'A.I.R.E. Conseguentemente la Corte – la quale incidentalmente osserva che il legislatore del 2006 ha inteso «limitare» l'inconveniente, modificando il regime della notifica degli atti tributari ai cittadini italiani residenti all'estero – dichiara l'illegittimità costituzionale della normativa denunciata «... nella parte in cui prevede, nel caso di notificazione a cittadino italiano avente all'estero una residenza conoscibile dall'amministrazione finanziaria in base all'iscrizione all'AIRE, che le disposizioni contenute nell'art. 142 del codice di procedura civile non si applicano».

Peraltro la pronuncia resta circoscritta ai soli contribuenti iscritti all'AIRE che non si sono avvalsi della facoltà di comunicare l'indirizzo estero. In sostanza gli Uffici, secondo il quadro risultante dopo l'intervento della Corte, dovranno avvalersi obbligatoriamente dell'art. 142 c.p.c. in tutti i casi in cui il contribuente iscritto all'AIRE sia rimasto «silente» nei confronti dell'AF; laddove, invece, abbia dichiarato la propria residenza estera, agli Uffici basterà spedire l' accertamento con una mera raccomandata con avviso di ricevimento ex art. 60 primo commRimuovi tuttea lett. e-bis.

Da ultimo, si deve ricordare che l'efficacia delle sentenze dichiarative della illegittimità costituzionale di una norma incontra il limite dei rapporti esauriti in modo definitivo ed irrevocabile per avvenuta formazione del giudicato o per essersi comunque verificato altro evento cui l'ordinamento ricollega il consolidamento del rapporto, mentre si estende a tutti gli altri rapporti.

Pertanto, la inoperatività della norma processuale dichiarata incostituzionale, a partire dal giorno successivo alla pubblicazione della relativa sentenza della Corte Costituzionale nella Gazzetta Ufficiale, va affermata con riguardo sia ad atti processuali successivi, sia ad atti processuali compiuti in precedenza, ma la cui validità ed efficacia sia ancora oggetto di sindacato dopo la predetta sentenza (Cass. I, n. 5039/2001; Cass. III, n. 9329/2010). Sono rapporti ormai esauriti in modo definitivo quelli in cui è avvenuta la formazione del giudicato o si è verificato altro evento cui l'ordinamento collega il consolidamento del rapporto medesimo, ovvero si sono verificate preclusioni processuali, o decadenze e prescrizioni non direttamente investite, nei loro presupposti normativi, dalla pronuncia d'incostituzionalità (Cass. I, n. 20381/2012). Il consolidamento degli atti, pertanto, può derivare da ragioni tanto sostanziali (decorso dei termini prescrizionali o decadenziali, atti negoziali che rendano le vicende da essi disciplinate insensibili alle sopravvenute pronunzie di incostituzionalità, al pari delle modifiche normative) quanto processuali (formazione del giudicato) (Cass. II, n. 22413/2004).

La sentenza della Corte costituzionale n. 366 del 2007, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale degli artt. 58, commi 1 e 2, e 60, comma 1, lett. c), e) ed f), d.P.R. n. 600/1973 nella parte in cui escludono l'applicazione dell'art. 142 c.p.c. in caso di notificazione dell'avviso di accertamento a soggetti residenti all'estero, iscritti all'A.I.R.E., ha valenza retroattiva, determinando la nullità della notificazione eseguita in precedenza, senza che il rapporto giuridico possa ritenersi "esaurito" per il decorso dei termini per proporre ricorso contro l'atto di accertamento, impugnabile dal contribuente unitamente alla cartella di pagamento, facendo valere proprio il vizio della notifica dell'atto presupposto, come si desume dall'art. 19, comma 3, d.lgs. n. 546/1992(Cass. V, ord., n. 618/2018).

Il comma 2

Con d.m. del Ministero delle finanze, 17 maggio 2001, n. 281 (pubblicato in GURI, 13 luglio 2001, n. 161), è stato emanato il regolamento contenente le norme in materia di agevolazioni relativamente all'attribuzione del codice fiscale ed alle modalità di presentazione delle dichiarazioni e di pagamento delle imposte per i contribuenti residenti all'estero, in attuazione del comma 2 dell'art. 14 in commento.

In particolare, per quanto attiene all'attribuzione del codice fiscale, l'art. 1 prevede che il codice fiscale richiesto dai contribuenti residenti all'estero è attribuito dall'Agenzia delle entrate anche per il tramite dell'autorità consolare territorialmente competente.

Per la presentazione delle dichiarazioni e per il pagamento delle imposte, l'art. 2 prevede che i contribuenti residenti all'estero possono presentare le dichiarazioni ed effettuare i pagamenti delle imposte avvalendosi, banalmente, del servizio Internet. A tal fine, a seguito di apposita richiesta inoltrata via Internet all'Agenzia delle entrate, è assegnato loro un pin code composto di due parti da integrarsi reciprocamente, che consente all'Agenzia medesima di verificare l'identità del soggetto e di garantire l'integrità delle informazioni trasmesse. Una parte del pin code è trasmessa via Internet, la rimanente parte è inoltrata dall'Autorità consolare territorialmente competente. Per effettuare i versamenti via Internet, i contribuenti residenti all'estero devono essere titolari di un conto corrente aperto presso una delle banche convenzionate con l'Agenzia delle entrate. Essi in ogni caso possono effettuare i versamenti mediante bonifico a favore dell'Agenzia delle entrate, utilizzando la procedura dei bonifici transfrontalieri denominati «Target». Infine, per quanto non espressamente previsto dall'art. 2 cit., si applica il d.m. 31 luglio 1998 (in GURI, 12 agosto 1998, n. 187), concernente le modalità tecniche di trasmissione telematica delle dichiarazioni e dei contratti di locazione e di affitto da sottoporre a registrazione, nonché di esecuzione telematica dei pagamenti, come modificato dal d.m. 24 dicembre 1999 (in GURI, 31 dicembre 1999, n. 306) nonché dal d.m. 29 marzo 2000 (in GURI, 3 aprile 2000, n. 78).

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