Codice Civile art. 191 - Scioglimento della comunione (1).Scioglimento della comunione (1). [I]. La comunione si scioglie per la dichiarazione di assenza o di morte presunta di uno dei coniugi [48 ss., 58 ss.], per l'annullamento [117 ss.], per lo scioglimento o per la cessazione degli effetti civili del matrimonio [149], per la separazione personale [150, 151], per la separazione giudiziale dei beni [193], per mutamento convenzionale del regime patrimoniale [163], per il fallimento di uno dei coniugi. [II]. Nel caso di separazione personale, la comunione tra i coniugi si scioglie nel momento in cui il presidente del tribunale autorizza i coniugi a vivere separati, ovvero alla data di sottoscrizione del processo verbale di separazione consensuale dei coniugi dinanzi al presidente, purché omologato. L'ordinanza con la quale i coniugi sono autorizzati a vivere separati è comunicata all'ufficiale dello stato civile ai fini dell'annotazione dello scioglimento della comunione (2). [III]. Nel caso di azienda di cui alla lettera d) dell'articolo 177, lo scioglimento della comunione può essere deciso, per accordo dei coniugi, osservata la forma prevista dall'articolo 162. (1) Articolo così sostituito dall'art. 70 l. 19 maggio 1975, n. 151. L'art. 55 della stessa legge, ha modificato l'intitolazione di questa Sezione e soppresso la suddivisione in paragrafi. (2) Comma inserito dall'art. 2 l. 6 maggio 2015, n. 55. Ai sensi del successivo art. 3: «Le disposizioni ... si applicano ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della presente legge, anche nei casi in cui il procedimento di separazione che ne costituisce il presupposto risulti ancora pendente alla medesima data». InquadramentoDopo aver illustrato le regole che governano la formazione, l'amministrazione e la responsabilità della comunione legale, l'art. 191 ne prevede le cause di scioglimento. Il comma 2 della norma è stato inciso dalla l. n. 55/2015 che, con riferimento allo scioglimento per effetto della separazione personale, eliminando le certezze interpretative scaturite dalla versione originaria della norma, ne ha stabilito la decorrenza dall'ordinanza con cui il presidente del tribunale autorizza i coniugi a vivere separati ex art. 708 c.p.c., ovvero alla data di sottoscrizione del processo verbale di separazione consensuale dei coniugi dinanzi al presidente, purché omologato. Tale innovativa previsione per espressa previsione della l. n. 55/2015 trova applicazione anche ai giudizi di separazione pendenti al momento della sua entrata in vigore. La disciplina sullo scioglimento della comunione legale si applica anche alle unioni civili per effetto dell'art. 1 comma 13 l. n. 76/2016. Lo scioglimento della comunione legaleL'istituto è regolato dal codice civile negli art. da 191 a 197, ove gli artt. 191 e 193 trattano le cause dello scioglimento, l'art. 192 descrive le operazioni di rimborso e restituzione cui si dà luogo una volta intervenuta una causa di scioglimento, e le residue disposizioni disciplinano il procedimento di divisione dei beni. L'art. 191 parla di «scioglimento» della comunione legale, ma secondo la dottrina maggioritaria tale termine è inadeguato ed improprio, perché, con il sopraggiungere di una delle cause ivi descritte, infatti, la contitolarità dei coniugi sui beni comuni non cessa affatto, ma continua nella forma della comunione ordinaria e cesserà concretamente soltanto dopo la divisione dei beni (Cian, 33 ss.; De Rubertis, 14; Cattaneo, 476; Schlesinger, 438; Ravazzoni, 65; Corsi, 173; Santosuosso, 288; Dogliotti, 205; Finocchiaro A. e M., 1121; Gionfrida Daino, 192; Macrì, 49 ss.; Smiroldo, 952; Ingino, 317 ss.; Barbiera, 582; Morelli, 123; Lo Moro Biglia, 349; Bianca, 127; Gennari, 383; Ieva, 70; Galasso, 452; Russo, 15-19; Auletta, 163; Sesta, 218; Servetti, 576; Oberto, 1907 ss.); per tale motivo si è sostenuto che sarebbe stato più corretto che il legislatore adottasse diversi termini come «cessazione» (Schlesinger, 438; Corsi, 171) o «estinzione» (Barbiera, 581) della comunione legale. Accantonando ora i rilievi terminologici, i fautori dell'impostazione in esame precisano che lo scioglimento della comunione legale configura una fattispecie legale costitutiva della comunione ordinaria, al pari della successione mortis causa o di altre figure di comunione incidentale (in tal senso Guarino, 245-263), da cui consegue l'applicazione diretta delle norme contenute negli artt. 1100 – 1116 c.c. non sulla massa complessiva del patrimonio in comunione legale, come avviene in caso di contitolarità del patrimonio ereditario in capo ai coeredi ad es. (tesi sostenuta da Cattaneo, 476, Busnelli, 279; Alagna, 505; Carlucci, 30; Mastropaolo-Pitter, 288) ma sui singoli acquisti compiuti dai coniugi durante la vigenza del regime di comunione legale (Auletta, più altri). La configurazione della comunione ordinaria sui beni ricadenti in comunione legale comporta il diritto in capo a ciascun coniuge contitolare di alienare liberamente la propria quota anche a terzi (opinione largamente accolta in dottrina; cfr. Cian-Villani, 382 ss.; Gabrielli, 168; Morelli, 126; Mastropaolo- Pitter, 291). Un autore (Paladini, 602) nega tale ammissibilità, rilevando che con riferimento alle ipotesi di scioglimento della comunione legale c.d. reversibili (come la separazione dei coniugi o il fallimento di uno di essi), nel momento in cui il regime di comunione legale viene ripristinato (per riconciliazione dei coniugi o per effetto della revoca della sentenza dichiarativa di fallimento), si verrebbe a creare una situazione di comunione pro indiviso tra un coniuge ed un terzo (ossia l'acquirente della quota ceduta dall'altro coniuge durante il periodo in cui la comunione legale era cessata), che è incompatibile con il regime patrimoniale dei coniugi. Tale rilievo non è condivisibile, a parere dello scrivente, perché la negazione del potere di ciascun coniuge di alienare la propria quota di proprietà su uno o più beni di cui è contitolare in regime di comunione ordinaria incidentale, instauratasi con lo scioglimento della comunione legale, determinerebbe una evidente ed irragionevole limitazione dell'autonomia e libertà contrattuale che non trova riscontro nell'ordinamento giuridico e che anzi è ad esso contraria, dal momento che postulerebbe una disparità di trattamento rispetto a qualunque altro contitolare di diritti in comunione ordinaria incidentale. (Anche Oberto, 1913, evidenzia che l'alienabilità della quota da parte di un coniuge, in una situazione di comunione ordinaria a seguito dello scioglimento della comunione legale non contrasta coi principi fondamentali del diritto familiare). Correttamente, la dottrina maggioritaria nega la configurabilità di un diritto di prelazione all'acquisto della quota in favore dell'altro coniuge, che potrebbe discendere dall'applicazione analogica dell'art. 732 c.c. sul retratto successorio (Gabrielli, 168-69; Mastropaolo-Pitter, 292; Venditti, 270; Oberto, 1914). Altri autori ammettono l'applicazione analogica dell'art. 732 c.c. (Finocchiaro A. M., 1179; Lo Moro Biglia, 2000, 362 ss.; Galasso, 530). A parere dello scrivente, tale opinione non merita di essere condivisa; innanzitutto corre l'obbligo di evidenziare che l'art. 732 c.c. è una norma eccezionale, come tale di stretta interpretazione ed insuscettibile di applicazione analogica. In secondo luogo, si rileva che i motivi addotti a sostegno dell'applicazione analogica dell'art. 732 c.c., riconducibili essenzialmente all'intuitu personae dell'altro coniuge, da considerare quale miglior acquirente possibile del bene, perché ha contribuito originariamente alla sua acquisizione alla comunione legale, solo apparentemente possono apparire valide nella fattispecie esaminata. Va ricordato che alcune delle cause di scioglimento della comunione legale presuppongono la crisi irreversibile del rapporto coniugale, per cui la volontà comune dei coniugi di porre fine al proprio rapporto, spesso accompagnata da strascichi sentimentali e patrimoniali che possono accumulare acredine, potrebbe, diversamente, rappresentare l'argomento che comprova, al contrario, la inopportunità dell'alienazione della quota proprio alla persona con cui l'alienante si trova in una situazione di conflitto personale, che potrebbe ostacolare il proficuo e sereno dialogo sulle decisioni da adottare per l'amministrazione della res comune. Per completezza di trattazione, corre l'obbligo di sottolineare che una parte minoritaria della dottrina confuta la tesi sin qui esposta secondo cui con lo scioglimento della comunione legale si instaura un regime di comunione ordinaria tra i coniugi sugli acquisti compiuti in vigenza del regime legale, evidenziandone la contrarietà al disposto degli artt. 177 lett. b) e c) e 178 c.c. Com'è noto, tali disposizioni prevedono che i beni ivi elencati entrino a far parte della comunione de residuo al momento dello scioglimento della comunione legale, se sussistenti e non consumati. Si afferma, pertanto, che se al momento dello scioglimento della comunione legale si instaura tra i coniugi una comunione ordinaria, la comunione (legale) de residuo non potrebbe mai costituirsi. I fautori di quest'impostazione, pertanto, propugnano la diversa tesi della ultrattività della comunione legale tra i coniugi dopo lo scioglimento e fino alla divisione (Oppo, 1976, 105; Furgiuele, 187; Mastropaolo-Pitter, 289 ss.; Caravaglios, 1007). Secondo tale impostazione, anche dopo lo scioglimento della comunione legale, troverebbero applicazione, con riguardo ai beni che vi ricadono e su quelli che ne entreranno a far parte successivamente de residuo ai sensi degli artt. 177 lett. b) e c) e 178 c.c., le norme sull'amministrazione, sulla responsabilità (art. 186-190 c.c.) e finanche la disciplina sull'annullamento degli atti di alienazione compiuti da uno solo di essi senza il consenso dell'altro ex art. 184 c.c. (Mastropaolo-Pitter, 290; Gabrielli, 169-170; Gennari, 383). Quest'ultimo rilievo non merita credito, perché contrasta apertamente con il disposto dell'art. 184 comma 2 c.c. che ammette l'esperibilità dell'azione di annullamento in favore del coniuge pretermesso entro il termine di un anno dallo scioglimento della comunione legale. Tale disposizione costituisce l'argomento normativo principale atto a sconfessare la tesi della ultrattività della comunione legale. Pervero, tale tesi non coglie nel segno anche per quanto concerne le regole dell'amministrazione dei beni in comunione: è impensabile che possa continuare ad applicarsi dopo lo scioglimento della comunione la regola dell'amministrazione disgiunta per gli atti di ordinaria amministrazione, che presuppone la solidarietà familiare, scaturente dall'affectio maritalis, che però non può ritenersi più sussistente dopo lo scioglimento della comunione, laddove sia derivata dalla cessazione del vincolo coniugale e della comunione spirituale che lo caratterizza. Per quanto concerne la responsabilità patrimoniale, uno dei sostenitori della impostazione in esame (Mastropaolo-Pitter, 279 ss.) distingue tra debiti anteriori allo scioglimento e debiti successivi; per i primi continuerebbero a trovare applicazione le norme dettate negli artt. da 186 a 190 c.c., anche per ragioni di tutela dei terzi creditori, mentre le ragioni sostenute a favore della ultrattività di tale disciplina verrebbero meno una volta ultimate le formalità pubblicitarie relative allo scioglimento della comunione legale. Quest'opinione è fortemente criticata da un autore (Paladini, 606) che sottolinea come detta distinzione non solo è priva di riscontro sul piano normativo, ma appare, altresì, anche inattuabile in concreto; infatti, non tutte le cause di scioglimento della comunione legale si basano sulla cessazione del vincolo coniugale (si pensi al mutamento convenzionale oppure al fallimento di un coniuge), per cui anche dopo lo scioglimento della comunione potrebbe accadere che i coniugi congiuntamente, o uno di essi, contraggono con terzi obbligazioni nell'interesse della famiglia (art. 186 c.c.) ed allora diverrebbe del tutto irragionevole limitare l'ultrattività della disciplina sulla responsabilità della comunione legale ai soli debiti pregressi, escludendo i successivi. Va dato atto di altre due teorie minoritarie che spiegano gli effetti dello scioglimento della comunione legale in modo differente dalla tesi prevalente della costituzione di una comunione ordinaria. La prima sostiene che con lo scioglimento della comunione si apra una vera e propria fase liquidatoria del patrimonio comune similare a quella che scaturisce dallo scioglimento di enti ed associazioni (De Paola, 638 ss.). In particolare, intervenuta la causa di scioglimento, i coniugi devono formare un bilancio patrimoniale della comunione (in tal senso Barbiera, 514), provvedere ad estinguere i debiti verso terzi, poi a compensare i reciproci rapporti di debito-credito e divedersi, infine, il residuo in misura di metà ciascuno. Lo scioglimento della comunione sarebbe, pertanto, propedeutico esclusivamente alla divisione dei beni. Tale impostazione, ancorché più interessante e meritevole di credito della tesi della ultrattività delle norme sulla comunione legale, sconta un'aporia di fondo, ossia la configurazione della comunione legale quale soggetto giuridico autonomo e distinto dai coniugi, che è da sempre sconfessata dalla dottrina unanime, tranne qualche isolata opinione. Tra l'altro, la liquidazione del patrimonio comune è l'epilogo naturale della estinzione di una persona giuridica, mentre non sempre con lo scioglimento della comunione legale può sorgere l'interesse dei coniugi a liquidare i beni in precedenza acquistati se sono utilizzati ancora da alcuni componenti del nucleo familiare (come l'immobile adibito a residenza familiare); soprattutto l'esigenza di non liquidare uno o alcuni beni verrebbe avvertita quando la causa dello scioglimento non si collega alla cessazione del vincolo coniugale (come in caso di mutamento convenzionale del regime oppure di fallimento di uno dei coniugi). L'ultima tesi da indagare postula una soluzione differenziata a seconda delle varie cause di scioglimento; quindi, la soluzione della natura giuridica del patrimonio comune dopo lo scioglimento della comunione dipende dalla causa di estinzione di quest'ultima (Amagliani, 165; Amadio, 211) Tale tesi non è convincente perché, affermando l'applicabilità di discipline giuridiche diverse a seconda della causa di scioglimento, affiderebbe eccessiva discrezionalità al giudice nell'individuare della disciplina applicabile al caso concreto. Nella interessante sentenza, Cass. n. 8803/2017, la Corte di Cassazione si è occupata di alcune delle questioni affrontate in questo paragrafo; in particolare ha risposto ai seguenti quesiti di diritto:) «lo scioglimento della comunione legale, disciplinato dall'art. 191, deve essere inteso come scioglimento del (solo) regime patrimoniale dei coniugi, oppure come scioglimento del patrimonio, costituito dagli specifici beni acquistati, in precedenza, dai coniugi in comunione legale?»; b) «Verificatosi uno degli eventi ex art. 191, i beni in comunione legale sono assoggettati automaticamente al regime della comunione ordinaria o restano in comunione legale, fin tanto che non intervenga la loro separazione o la divisione (ex art. 194 c.c.)?»; c) «Verificatosi uno degli eventi ex art. 191, l'alienazione (o l'espropriazione) della quota di un bene, acquistato in comunione legale, presuppone la previa divisione?». Gli Ermellini rispondono a tali quesiti allineandosi alle tesi della dottrina maggioritaria su ognuna delle questioni affrontate, enunciando il principio di diritto secondo cui la natura di comunione senza quote della comunione legale dei coniugi permane sino al momento del suo scioglimento, di cui all'art. 191, prodottosi il quale effetto i beni cadono in comunione ordinaria e ciascun coniuge, che abbia conservato il potere di disporre della propria quota, può liberamente e separatamente alienarla. Motivano sul punto sottolineando che, una volta che sia stata sciolta la comunione legale (per una delle cause di cui all'art. 191), e le parti abbiano maturato diritti di credito riguardo ai beni relitti, ciascuno degli ex coniugi può, separatamente cedere (ad ogni titolo) la propria quota; lo scioglimento della comunione legale infatti comporta la possibilità che il ius in re venga separatamente alienato senza che si dia più la possibilità di apprezzare un ipotetico vulnus addebitabile all'acquisto del terzo estraneo poiché non è da confondere la persistenza del vincolo coniugale (come nel caso del fallimento) con il nuovo regime dei beni che un tempo erano in comunione. La pronuncia riprende parzialmente i principi già espressi nella precedente pronuncia in materia, resa con Cass. n. 6575/2013 ove la Cassazione la precisato che la natura di comunione senza quote della comunione legale dei coniugi comporta che l'espropriazione, per crediti personali di uno solo dei coniugi, di un bene (o di più beni) in comunione, abbia ad oggetto il bene nella sua interezza e non per la metà, con scioglimento della comunione legale limitatamente al bene staggito all'atto della sua vendita od assegnazione e diritto del coniuge non debitore alla metà della somma lorda ricavata dalla vendita del bene stesso o del valore di questo, in caso di assegnazione. La inapplicabilità dell'annullamento dell'atto compiuto da un solo coniuge ai sensi dell'art. 184 c.c. dopo lo scioglimento della comunione legale e la libera alienabilità della quota di cui ciascun coniuge è titolare sono affermati incidentalmente anche in sentenza Cass. n. 5972/2012. Anche in giurisprudenza di merito (Trib. Verona, 29 settembre 1987; Trib. Caltanissetta, 11 maggio 2002; Trib. Milano, 19 marzo 2007) si è affermata l'impostazione secondo cui lo scioglimento della comunione legale comporta in capo ai coniugi un fenomeno di comunione ordinaria incidentale sui beni che ne fanno parte con conseguente applicazione diretta delle norme dettate negli artt. 1100 ss. c.c. (contra App. Milano, 19 novembre 1993 che ha accordato preferenza alla tesi della ultrattività della disciplina della comunione legale fino alla divisione, negando, in particolare, che la presunzione di cui all'art. 1100 c.c. possa applicarsi alla contitolarità dei coniugi sui beni acquisti in regime legale dopo lo scioglimento della comunione).Alla luce di tale principio la Cass., n. 10264/2023 ha sottolineato che, una volta cessata la comunione legale ed instauratasi la comunione ordinaria tra i coniugi, se per la natura del bene o per qualunque altra circostanza non ne sia possibile, ai sensi dell'art. 1102 c.c., un godimento diretto con pari uso da parte dei comproprietari, essi possono deliberarne l'uso indiretto e, in mancanza di tale deliberazione, il comproprietario, che da solo ha goduto del bene, deve corrispondere agli altri partecipanti alla comunione i frutti civili con decorrenza dalla data in cui gli perviene la richiesta di uso turnario o comunque di partecipazione al godimento da parte degli altri comunisti. (In applicazione del principio, la S.C. ha affermato che, in caso di separazione dei coniugi, l'indennità di occupazione della casa coniugale acquistata in regime di comunione legale non va corrisposta dalla data della separazione, ma da quella in cui il coniuge non occupante manifesti all'altro la richiesta di uso turnario o comunque la volontà di godimento dell'immobile). Ed ancora, in linea con l'orientamento sin qui enunciato è stato ulteriormente precisato che tra i coniugi, già in regime di comunione legale dei beni, non diviene di proprietà comune l'immobile acquistato da uno solo di essi dopo la loro separazione personale, quest'ultima costituendo causa di scioglimento della comunione medesima con la decorrenza prevista dall'art. 191, comma 2, c.c. Per l'opponibilità ai terzi dei descritti effetti dello scioglimento della comunione legale derivante dalla separazione personale dei coniugi, relativamente all'acquisto di beni immobili o mobili registrati, avvenuto con dichiarazione del coniuge acquirente dello stato di separazione, deve considerarsi necessaria e sufficiente la sola trascrizione nei registri immobiliari recante la corrispondente indicazione (Cass., ord. n. 376/2021 confermata da Cass. , ord. n. 4492/2021). Effetti Il primo effetto giuridico dello scioglimento della comunione legale consiste nella caduta in comunione legale dei beni indicati negli artt. 177, lett. b) e c), e 178 c.c., che costituiscono la comunione de residuo, per la definitiva costituzione della massa patrimoniale oggetto di eventuale divisione ai sensi degli artt. 194-197 c.c. (Caravaglios, 1005). In altre parole, grazie a questo effetto, la consistenza attiva del patrimonio su cui compiere le operazioni di rimborso e restituzione (art. 192 c.c.) si estende ope legis, all'atto dello scioglimento, a quei frutti, beni ed incrementi che, in quanto non consumati, ancora sussistano nel patrimonio di ciascuno dei coniugi (cfr. commento agli artt. 177 e 178 c.c. per l'esatta individuazione dei beni che costituiscono la comunione de residuo). Parte della dottrina sottolinea che la comunione de residuo è solo una fictio iuris evidenziando che sui frutti e proventi percepiti e non consumati non si determina una contitolarità in capo ai coniugi ma un rapporto obbligatorio ope legis in virtù del quale ciascun coniuge può esigere dall'altro il versamento della metà di tali beni in sede di divisione (Mastropaolo-Pitter, 287; Oberto, 1916. Per una disamina completa della natura giuridica e degli effetti della comunione de residuo cfr. commenti agli artt. 177 e 178 c.c.). Il secondo effetto, quello più naturale ed ovvio, dello scioglimento della comunione consiste nel fatto che gli acquisti dei beni descritti nell'art. 177 lett. a) c.c. compiuti successivamente a tale momento non ricadono in comunione legale, con la conseguenza che se detti acquisti sono compiuti da un solo coniuge, costui ne sarà unico ed esclusivo titolare; se vengono compiuti congiuntamente dai coniugi, entrambi ne saranno contitolari ma in regime di comunione ordinaria. Nel caso in cui entrambi dovessero avviare un'attività commerciale, costituire un'azienda dopo lo scioglimento della comunione, questa sarà assoggettate alla disciplina codicistica in materia di società (CianVillani, 382; Corsi, 173; Gabrielli, 166). Un terzo effetto, che riguarderebbe solo le ipotesi di scioglimento della comunione che non si fondano sulla cessazione del vincolo coniugale (fallimento di un coniuge o mutamento convenzionale del regime patrimoniale), consiste, secondo parte della dottrina, nella automatica e sostitutiva instaurazione tra i coniugi del regime di separazione personale dei beni (Schlesinger, 443; Corsi, 172; Mastropaolo-Pitter, 286; Russo, 31). Tale assunto è confutato però con riferimento alle ipotesi di separazione personale e dichiarazione di assenza o di morte presunta di un coniuge ove, mancando i presupposti di fatto della convivenza coniugale e della solidarietà familiare, che parimenti fondano il regime di separazione dei beni, alla cessazione della comunione legale farebbe seguito una situazione di assenza di regime, nella quale troverebbe esclusiva applicazione la disciplina ordinaria. Tanto l'assenza quanto la separazione personale determinano infatti, secondo un'autorevole opinione, una mera sospensione temporanea dei rapporti patrimoniali e personali tra i coniugi (Cavallaro, 46 ss.). Ulteriori effetti scaturenti dallo scioglimento della comunione legale consistono nell'obbligo dei coniugi di rimborsare alla comunione legale le somme prelevate per fini individuali ed il valore dei beni escussi dai creditori per le obbligazioni previste dall'art. 189 c.c. e di restituzione al coniuge delle somme prelevate da quest'ultimo dal patrimonio personale ed impiegate in spese ed investimenti del patrimonio comune, nonché nell'insorgenza del diritto potestativo di ottenere la divisione dei beni acquisiti durante la vigenza del regime di comunione legale (Corsi, 174, Busnelli, 273). Un ultimo effetto concerne l'inizio della decorrenza annuale per la proposizione dell'azione di annullamento ex art. 184 c.c. da parte del coniuge pretermesso dalla stipula dell'atto di straordinaria amministrazione compiuto dall'altro senza il suo consenso. Anche la Corte di Cassazione (Cass. Ord. n. 18156/2020), in linea con l'orientamento della dottrina riportato nel paragrafo precedente, chiarisce che il fatto che la comunione legale sia cessata in corso di causa non comporta automaticamente la cessazione della proprietà comune dei coniugi e l'impossibilità di eseguire la prestazione in favore della comunione, trasformatasi, per effetto della cessazione del regime legale, in comunione ordinaria. Inoltre, a fronte di prelevamenti da parte di un coniuge, di somme di pertinenza della comunione, quali sono state ritenute quelle giacenti sul conto corrente intestato alla coppia, compete al coniuge che abbia effettuato le operazioni e che alleghi di aver impiegato gli importi prelevati nell'interesse della comunione o della famiglia, dimostrare quest'ultima circostanza atrimenti è tenuto a restituire le somme prelevate (Cass., n. 20457/ 2016; Trib. Roma 6 giugno 2017). Va anche ricordato che lo scioglimento della comunione legale per mutamento convenzionale del regime patrimoniale di cui all'art. 191 c.c. riguarda gli acquisti di beni futuri dei coniugi. Invece relativamente al patrimonio dei coniugi già precedentemente acquistato i beni permangono in regime di comunione legale, fermo restando il diritto di ciascun coniuge di fare valere nei rapporti con l'altro coniuge il mutato regime patrimoniale (voluto dagli stessi coniugi), disponendo della quota di sua pertinenza (Trib. Bergamo 19 agosto 2023). Le singole cause di scioglimento: la morte di un coniuge.La cessazione della comunione legale per scioglimento del matrimonio deriva, anzitutto — come stabilito nell'art. 149 c.c. — dalla morte di uno dei due coniugi. Lo scioglimento della comunione per morte di uno dei coniuge è opponibile ai terzi, che contraggano obbligazioni facendo affidamento sulla sussistenza del regime di comunione legale, dal momento dell'iscrizione dell'atto di morte nei registri dello stato civile (Galasso, 454; De Paola, 642; Venditti, 248). Da tale evento scaturiscono due effetti contestuali: l'estinzione della comunione legale e l'instaurazione della successione mortis causa del coniuge defunto. Nell'ambito della successione ereditaria vanno compresi i beni intestati esclusivamente al coniuge defunto, ancorchè ricadenti in comunione legale, perché, come più volte rilevato, essendo la comunione legale una comunione senza quote (Corte cost. n. 311/1988) non può cadere in successione ereditaria solo la quota di metà del bene di cui era titolare il de cuius. Se il coniuge è unico erede, la distinzione tra i beni personali e comuni, così come le operazioni di divisione dei beni comuni exartt. 194 ss. c.c. non avrebbe alcuna utilità pratica, giacchè si determinerebbe la confusione dei patrimoni; ed egli sarà tenuto, quale erede universale a pagare i creditori particolare del coniuge premorto. Se diversamente il coniuge superstite, unico erede, accetti l'eredità con beneficio di inventario, può comunque scegliere di non effettuare la divisione del patrimonio comune, pagare i creditori e legatari del de cuius ed acquisire il residuo attivo al suo patrimonio personale; se invece i beni della comunione legale, non siano inferiori alla metà del valore complessivo dei beni oggetto della comunione legale (tra i quali devono essere compresi, ovviamente, anche quelli intestati esclusivamente al coniuge superstite), oppure il valore dei beni personali del coniuge defunto si riveli sufficiente al soddisfacimento delle pretese creditorie e legatarie, potrebbe sorgere l'interesse anche dei creditori alla previa divisione dei beni in comunione legale, quando — essendo i beni, in- testati esclusivamente al coniuge superstite, di valore maggiore di quelli intestati al coniuge defunto, e non essendoci beni personali del defunto sufficienti alle prete- se — dallo scioglimento della comunione legale possa derivare l'incremento del patrimonio del loro debitore. Nell'ipotesi di comunione ereditaria tra coniuge ed altri eredi, se vi è prevalenza di valore dei beni della comunione caduti in successione, il coniuge avrebbe interesse alla divisione della comunione legale convenendo in giudizio gli altri eredi per procedere, dapprima, alla ripartizione ex art. 194 c.c. e, quindi alla divisione della comunione ereditaria. Nel caso opposto, di maggior valore dei beni della comunione legale intestati al coniuge erede, gli eredi del de cuius possono pretendere che il coniuge superstite conferisca nella comunione ereditaria beni della comunione legale, di valore tale da incrementare la parte di comunione legale, già caduta in successione ereditaria, fino alla quota della metà. Si sostiene che il coniuge superstite non ha il diritto di pretendere immediatamente iure proprio, nei confronti dei terzi, la metà di ogni somma di denaro residua di pertinenza del coniuge defunto, al momento dello scioglimento della comunione legale, in quanto l'individuazione del singolo bene o del cespite, oggetto del diritto del coniuge superstite, in comunione con gli altri eredi, può aversi soltanto nell'ambito dell'operazione di divisione dell'intera massa caduta in comunione, ovvero in seguito alla divisione del solo patrimonio già oggetto di comunione legale, cui potrebbe anche non seguire la divisione del compendio ereditario (Costanza, 355; Mastropaolo-Pitter, 297). In ambito tributario, la Cassazione con sentenza n. 19567/08 ha precisato che il saldo attivo di un conto corrente bancario, intestato — in regime di comunione legale dei beni — soltanto ad uno dei coniugi e nel quale siano affluiti proventi dell'attività separata svolta dallo stesso, se ancora sussistente entra a far parte della comunione legale dei beni, ai sensi dell'art. 177, primo comma, lett. c), c.c., al momento dello scioglimento della stessa, determinato dalla morte, con la conseguente insorgenza, solo da tale epoca, di una titolarità comune dei coniugi sul predetto saldo; lo scioglimento attribuisce invero al coniuge superstite una contitolarità propria sulla comunione e, attesa la presunzione di parità delle quote, un diritto proprio, e non ereditario, sulla metà dei frutti e dei proventi residui, già esclusivi del coniuge defunto. Alla luce del principio, la S.C. ha rigettato il ricorso dell'Agenzia delle entrate avverso la sentenza del giudice tributario che aveva ritenuto che l'imposta di successione fosse stata illegittimamente liquidata e corrisposta sull'intero asse ereditario mentre le attività relative ai conti correnti e titoli dovevano essere tassati al cinquanta per cento, con conseguente rimborso della maggiore imposta versata. In giurisprudenza di merito si segnala un'atavica pronuncia di Pret. Bari, 6 febbraio 1982, ove, con riguardo al caso del coniuge erede che aveva citato in giudizio l'amministrazione delle Poste, pretendendo che gli venisse rimessa la metà della somma depositata su di un conto corrente postale di cui era intestatario esclusivo un coniuge defunto, a fronte del mero invio di copia dell'estratto di matrimonio con annotazione a margine del regime di comunione legale dei beni, salvo il diritto degli altri eredi a percepire l'altra metà della somma, il pretore, nonostante l'adesione degli altri eredi alla richiesta del coniuge superstite, rigettava la domanda, argomentando che la tutela dei terzi creditori impone di riconoscere la legittimazione iure proprio a richiedere la somma di sua spettanza soltanto in seguito alla divisione dell'intero asse ereditario. Su questo argomento si è espressa la sentenza Cass.n. 13760/2015. Nel caso concreto una donna aveva convenuto in giudizio il cognato ed il Banco di Sicilia, chiedendo che, una volta dichiarata aperta la successione del suo ex coniuge, venisse accertato che gli importi relativi ai rapporti di credito relativi ai dossier titoli, al conto corrente e al libretto di deposito giacenti presso il predetto istituto bancario le appartenevano per la meta, in quanto oggetto di comunione de residuo ex art. 177 c.c., lett. b) e c). Il fratello del de cuius si era opposto affermando di essere l'unico erede della quota disponibile per disposizione testamentaria e di aver già richiesto in tale veste lo svincolo di tutti i depositi del Banco di Sicilia, invitando l'istituto ad astenersi dal riconoscere diritti ed attribuire somme a terzi. Confermando il proprio orientamento consolidato, la S.C. ha affermato che con riguardo ai beni che formano oggetto della comunione de residuo, tra i coniugi si instaura una comunione ordinaria, sicché il coniuge non titolare vanta un diritto reale di comproprietà e non un mero diritto di credito di entità corrispondente al metà del valore dei beni caduti in comunione. In applicazione di tale principio, il coniuge del de cuius è da considerarsi titolare effettivo dei beni caduti in comunione de residuo e può quindi vantare direttamente nei confronti del terzo depositario, nella specie, dell'istituto bancario), il diritto alla consegna di metà delle attività in questione; mentre è stata respinta la tesi secondo cui il coniuge del de cuius vanta unicamente un diritto di credito alla metà del valore nei confronti dell'erede. Il principio richiama la precedente pronuncia della medesima autorità giudiziaria, Cass. n. 4393/2011. La dichiarazione di assenza o di morte presunta di uno dei coniugi La dichiarazione di assenza o di morte presunta di un coniuge viene pronunciata con sentenza del Tribunale, in composizione collegiale con procedimento camerale (artt. 737 ss. c.p.c.), che diviene eseguibile solo con l'annotazione, sull'originale della pronuncia, a cura del cancelliere, delle pubblicazioni per estratto sulla Gazzetta Ufficiale e su due giornali; successivamente viene comunicata dal cancelliere all'ufficiale dello stato civile, che — a norma del- l'art. 69, lett. g), d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 — la annota in margine all'atto di matrimonio. La distinzione fondamentale tra le due ipotesi è che la dichiarazione di morte presunta di un coniuge restituisce lo stato libero all'altro coniuge, che può dunque contrarre nuovo matrimonio; in caso di assenza, invece, questo effetto non si produce; tuttavia, poiché la situazione di assenza del coniuge scomparso può prolungarsi sine die, il legislatore ha equiparato la disciplina giuridica delle due ipotesi in materia di regime patrimoniale, sancendo che entrambe siano cause di scioglimento della comunione legale, con la conseguenza che il coniuge presente risponderà esclusivamente quest'ultimo con il suo patrimonio per le obbligazioni contratte durante l'assenza o la morte presunta dell'altro (per questo motivo si asserisce in dottrina che lo scioglimento della comunione legale a causa della dichiarazione di assenza di un coniuge determina automaticamente l'instaurazione del regime di separazione legale; Russo, 31; contraCavallaro, 46 secondo cui dalla dichiarazione di assenza deriva una situazione di sospensione di regime, come già evidenziato supra). Secondo alcuni autori la declaratoria di assenza o di morte presunta produce effetti a far tempo dal giorno in cui risale l'ultima notizia, indicata dal giudice nella sentenza (Cian-Villani, 388; Barbiera, 496; Majello, 9; Rossi Carleo, 871; Ceccherini, 78). Altri autori sostengono invece che gli effetti decorrono soltanto nel momento in cui la sentenza diviene eseguibile (Schlesinger, 440; Corsi, 175; Santosuosso, 300; Finocchiaro A. e M., 1127; De Paola, 646). Altri autori ritengono, diversamente, che gli effetti retroagiscono al momento della presentazione della domanda di dichiarazione di assenza o morte presunta presentata in Tribunale dall'altro coniuge (Gabrielli, 200; Mastropaolo-Pitter, 315). La questione non è puramente teorica, presentando risvolti pratici notevoli, perché dall'individuazione del momento in cui la pronuncia in oggetto produce effetti, si configura la responsabilità patrimoniale esclusiva del coniuge non scomparso o assente per le obbligazioni da lui assunte. Per ragioni di certezza dei rapporti giuridici e di tutela dei terzi creditori, lo scrivente privilegia la seconda opinione proposta, secondo cui gli effetti si producono dal momento in cui la sentenza diviene eseguibile e viene quindi annotata nel registro degli atti di matrimonio, giacché è da tale momento che i terzi possono venire a conoscenza dello scioglimento della comunione legale. Il ritorno o la prova dell'esistenza in vita dell'assente o del dichiarato morto presunto (artt. 56 e 66 c.c.) fanno cessare gli effetti dell'emanata sentenza e, tra questi, anche la cessazione della comunione legale. Si discute in dottrina se la reviviscenza della comunione legale sia automatica, ovvero se sia necessaria l'adozione di una specifica convenzione matrimoniale. I fautori dell'impostazione secondo cui l'assenza o la morte presunta dei coniugi determina automaticamente l'instaurazione del regime di separazione dei beni, opta per la seconda soluzione, sostenendo che sia necessaria una convenzione matrimoniale adhoc da parte dei coniugi per il ripristino del regime di comunione (De Paola, 646; Ceccherini, 80; Rossi Carleo, 868, Mastropaolo-Pitter, 334). Coloro che propendono per la tesi della sospensione del regime durante l'assenza o morte presunta, ritengono che con il ritorno dell'assente o morto presunto riviva automaticamente il regime di comunione legale, con decorrenza dal momento dell'annotazione della revoca della sentenza di dichiarazione di assenza o morte presunta nel registro degli atti di matrimonio (Cavallaro, 46 ss. Barbiera, 496; Gabrielli, 204; Gennari, 388; Servetti, 591). Quest'ultima opinione è preferibile, non ravvisando lo scrivente ragioni giuridiche valide atte ad obbligare i coniugi al compimento di un atto formale per il ripristino della comunione legale, la cui efficacia è rimasta semplicemente sospesa nel periodo di assenza di uno dei coniugi. Con sentenza Cass. n. 12304/1992, la Cassazione, in materia previdenziale, ha enunciato il principio di diritto secondo cui il pensionato, del quale sia stata dichiarata la morte presunta e successivamente provata l'esistenza, ha diritto al ripristino dell'obbligazione pensionistica estintasi per effetto della dichiarazione di morte presunta, non rilevando in contrario che, nel periodo intermedio, l'INPS abbia erogato la pensione di reversibilità al coniuge superstite, attese la distinzione delle posizioni soggettive dei due coniugi e la titolarità «iure proprio» del diritto alla pensione di reversibilità spettante per legge al coniuge superstite. Si segnala tale pronuncia perché evidenzia la condivisione da parte della S.C. di Cassazione della tesi del ripristino automatico della comunione legale tra coniugi al momento del ritorno o della prova dell'esistenza in vita del coniuge destinatario di una sentenza ex art. 56 o 66 c.c. Con successiva sentenza, Cass. n. 17133/2016, pronunciata nuovamente in materia di prestazioni previdenziali spettanti al coniuge di cui sia dichiarata la assenza o la morte presunta, la S.C. ha incidentalmente enunciato il principio secondo cui gli effetti della sentenzaex art. 66 c.c. si producono dal momento della pubblicazione; si tratta della soluzione, proposta anche dallo scrivente, che appare più conforme ai principi generali dell'ordinamento, in quanto assicura la certezza dei rapporti giuridici. L'annullamento del matrimonio La nullità del matrimonio può essere dichiarata per una delle cause indicate negli artt. 117-124 c.c. In caso di pronuncia di nullità si pone il problema di stabilire se il regime di comunione legale si sia mai instaurato, in considerazione del vizio genetico del vincolo coniugale. Una risposta precisa proviene dal legislatore codicistico solo con riferimento al matrimonio putativo (art. 128 c.c.), ove si prevede che gli effetti del matrimonio valido si producono, in favore dei coniugi, fino alla sentenza che pronunzia la nullità. Il problema permane con riferimento alle ipotesi di nullità del matrimonio viziato geneticamente e non putativo (per incapacità di intendere e di volere di uno dei coniugi ad es.). L'impostazione dottrinale più convincente sul punto, secondo lo scrivente, è quella che equipara, in punto di effetti patrimoniali, il matrimonio putativo alle altre ipotesi di nullità del matrimonio non putativo. È il dato normativo che spinge a propendere per questa chiave di lettura. Infatti, l'art. 191 prevede lo scioglimento della comunione legale in caso di annullamento del matrimonio, senza specificarne le cause. Ne consegue che a prescindere dalla causa, l'annullamento del matrimonio produce sempre l'effetto dello scioglimento della comunione legale; ma lo scioglimento presuppone a sua volta la valida instaurazione del regime legale, che viene meno ex nunc, in conseguenza della pubblicazione della sentenza che pronuncia la nullità del matrimonio, e la successiva annotazione nel registro degli atti di matrimonio (Santosuosso; Gabrielli, 186; Finocchiaro A. e M., 1126; De Paola, 647; Bianca, 263; Anelli, 194; Lo Moro Biglia, 2000, 160 ss.; Gennari, 391; Servetti, 600; Oberto, 1865 ss.). Tale impostazione si lascia preferire perché tutela il legittimo affidamento dei terzi che siano entrati in contatto con i coniugi confidano sull'applicazione della disciplina della responsabilità per le obbligazioni contratte da uno di essi exartt. 189 e 190 c.c. La separazione personale. Analisi e rilievi critici sugli effetti della disciplina introdotta dalla legge 55 del 2015 È una delle cause più frequenti di scioglimento della comunione legale. Dottrina e giurisprudenza si sono da tempo occupate della spinosa questione dell'individuazione del dies a quo dell'estinzione del regime legale. Secondo le impostazioni dottrinali ataviche, tale effetto si produceva dalla data di presentazione del ricorso per separazione giudiziale presso la cancelleria del Tribunale (Schlesinger, 439; Corsi, 178; Barbiera, 498; Santosuosso, 299; Zatti-Mantovani, 293; Gionfrida Daino, 184; Majello, 9; Ingino, 321; Ceccherini, 90; Dogliotti, 265; Mastropaolo-Pitter, 309; Anelli, 195; Gennari, 394). Si riteneva che la presentazione del ricorso per separazione in cancelleria indicasse l'avvenuta cessazione della convivenza coniugale, e quindi della comunione spirituale tra i coniugi, motivo che rendeva irragionevole la persistenza della comunione materiale tra gli stessi anche durante il tempo necessario alla definizione del giudizio di separazione giudiziale. Un'altra impostazione riteneva che il regime di comunione legale si sciogliesse con la pronuncia, da parte del Presidente del Tribunale, dell'ordinanza ex art. 708 c.p.c., che autorizza i coniugi a vivere separati; ciò sia per la particolare incidenza dell'ordinanza presidenziale sugli effetti personali del matrimonio — disponendo in primis la cessazione del vincolo di coabitazione — a cui dovevano estendersi quelli patrimoniali; sia per la efficacia ultrattiva ad essa conferita dall'art. 189, disp. att. c.c. dopo l'estinzione del procedimento di separazione. Si tratta di un'idea che emerse già in sede di lavori preparatori della riforma del 1975, e precisamente nell'art. 47 cpv. del disegno di legge Falcucci, che collegava la cessazione del regime di comunione legale proprio all'ordinanza presidenziale ex art. 708 c.p.c.; ma poi tale previsione non fu confermata nel testo finale. L'orientamento prevalente in dottrina postulava che gli effetti dello scioglimento si producessero dalla data del passaggio in giudicato della sentenza di separazione giudiziale o da quella del decreto di omologazione dell'accordo di separazione consensuale (Bianca, 99; Finocchiaro A. e M., 1129; Bocchini, 255; Pajardi-Ortolan- Agostinelli M. e R., 945-46; De Paola, 650; Servetti, 618; Amagliani, 177; Oberto, 1785). Si evidenziava che tale soluzione fosse la più coerente con i principi generali dell'ordinamento, con particolare riferimento al sistema pubblicitario che caratterizza il diritto familiare, per le esigenze di certezza dei rapporti giuridici coi terzi, i quali sono in grado di essere posti a conoscenza della cessazione del regime patrimoniale legale tra i coniugi solo a seguito dell'annotazione della separazione personale nel registro degli atti di matrimonio. Tale impostazione ha ricevuto l'autorevole avallo della Corte cost. (cfr. il successivo sottoparagrafo relativo alla giurisprudenza) che ha sottolineato l'impraticabilità della soluzione di far decorrere lo scioglimento della comunione legale dall'ordinanza presidenziale ex art. 708 c.p.c., tenuto conto della provvisorietà ed interinalità di quest'ultima. L'impostazione in commento, per quanto corretta in linea teorica, presentava inconvenienti pratici di non poco conto: agevolava, infatti, la realizzazione di condotte fraudolente e pregiudizievoli di un coniuge in danno dell'altro. Difatti un coniuge poteva adoperarsi, approfittando del tempo necessario alla definizione del giudizio di separazione, per occultare i beni in sua disponibilità potenzialmente idonei ad entrare successivamente in comunione de residuo, frustrando la relativa aspettativa patrimoniale dell'altro coniuge. Queste motivazioni pratiche necessitavano di una risposta normativa chiarificatrice che si è avuta solo nel 2015, in occasione dell'emanazione della l. n. 55/2015, sul c.d. divorzio breve. Tralasciando le profonde innovazioni introdotte dal suddetto intervento legislativo, ciò che interessa in questa sede è che il legislatore ha inciso sull'art. 191 sostituendone il testo del comma 2 con la seguente formulazione: «Nel caso di separazione personale, la comunione tra i coniugi si scioglie nel momento in cui il presidente del tribunale autorizza i coniugi a vivere separati, ovvero alla data di sottoscrizione del processo verbale di separazione consensuale dei coniugi dinanzi al presidente, purché omologato. L'ordinanza con la quale i coniugi sono autorizzati a vivere separati è comunicata all'ufficiale dello stato civile ai fini dell'annotazione dello scioglimento della comunione». Il legislatore ha quindi sconfessato l'orientamento dottrinale e giurisprudenziale prevalente, preferendo l'impostazione che fa decorrere gli effetti dello scioglimento della comunione legale dal momento della sottoscrizione dell'accordo di separazione consensuale ovvero dall'ordinanza presidenziale ex art. 708 c.c. che autorizza i coniugi a vivere separati. La novella mira a far coincidere lo scioglimento del regime legale con il momento di insorgenza della crisi coniugale, allo scopo di evitare che gli effetti giuridici tipici della comunione legale si producano in relazione ai coniugi quando è venuta meno lo loro comunione spirituale che è il presupposto anche della comunione anche materiale (si pensi agli acquisti compiuti da un sol coniuge di beni che ricadrebbero in comunione legale dopo l'emanazione dell'ordinanza ex art. 708 c.p.c. oppure all'assoggettamento — ex art. 189 c.c. —dei beni della comunione legale all'azione dei creditori personali del coniuge per gli atti compiuti da questo all'insaputa dell'altro (in caso di incapienza del patrimonio personale del coniuge che ha agito). La novella tutela anche il coniuge potenziale creditore di metà dei beni che ricadrebbero in comunione de residuo dalle attività di occultamento che l'altro coniuge avrebbe interesse a realizzare quando i beni si trovano ancora nella sua disponibilità materiale appunto per evitare di doverli dividere con il consorte. Sebbene la novella deve essere accolta, da un lato, con grande favore, perché risolve inconvenienti che pratici, si caratterizza, dall'altro, per una infelice formulazione che presta il fianco ad ulteriori problemi interpretativi. Il primo riguarda l'inciso «purchè omologato», riferito all'accordo di separazione consensuale. Ci si chiede se gli effetti dello scioglimento della comunione legale decorrano dalla sottoscrizione del verbale dell'udienza presidenziale ove viene depositato l'accordo di separazione, a prescindere dal decreto di omologa che lo sussegue di alcuni mesi, ovvero proprio dal decreto di omologa dell'accordo emesso dal Tribunale in camera di consiglio. Il tenore letterale induce a propendere per la prima soluzione, ed a considerare la mancata omologa dell'accordo da parte del Tribunale come una condizione risolutiva degli effetti prodotti dall'accordo – sebbene tale ipotesi è solo teorica, essendo impossibile che si verifichi nella pratica, dal momento che durante l'udienza presidenziale il Presidente già effettua il vaglio della meritevolezza dell'assetto di interessi regolato nell'accordo, invitando i coniugi a modificarlo nei punti che non rispondono agli interessi dei figli. Una volta superato positivamente il vaglio Presidenziale, non vi sarebbe motivo perché il Tribunale in udienza camerale rifiuti di omologare l'accordo di separazione — (Tizi, 1082; Bugetti, 522 ss). Altro problema scaturente dalla riforma attiene al difetto di coordinamento dell'art. 191 comma 2 con le procedure di separazione e divorzio stragiudiziali, come la negoziazione assistita o le relative dichiarazioni dinanzi all'ufficiale di stato civile; il difetto di coordinamento consiste nel fatto che in queste procedure, attivabili su accordo delle parti sul contenuto della separazione, non è prevista alcuna comparizione delle parti in udienza dinanzi ad un giudice e pertanto si configura una lacuna normativa circa la decorrenza della produzione dell'effetto dello scioglimento della comunione legale. La dottrina propone, condivisibilmente secondo lo scrivente, la soluzione di ascrivere tale effetto al momento della sottoscrizione degli accordi di negoziazione assistita certificata dai difensori (ovvero alla dichiarazione della volontà di separarsi formulata dinanzi all'ufficiale di stato civile), che ex art. 6 d.l. n. 132/2014 sono equiparati ai relativi provvedimenti giudiziali, fermo l'operare della condizione risolutiva determinato dalla mancanza di nulla osta o autorizzazione (Tizi, 1082). La tesi della retrodatazione degli effetti dello scioglimento del regime patrimoniale al momento della notificazione del ricorso introduttivo del giudizio o del suo deposito in Cancelleria in caso di separazione consensuale richiesta congiuntamente dai coniugi è stata sostenuta in giurisprudenza di merito da App. Roma, 4 marzo 1991 e Trib. Milano, 20 luglio 1995. La differente tesi della retrodatazione al momento dell'emanazione del decreto di omologa dell'accordo di separazione consensuale ovvero dell'ordinanza presidenziale ex art. 708 c.p.c. — soluzione poi adottata dal legislatore della l. n. 55/2015 – fu postulata, sempre in giurisprudenza di merito, da Trib. Torino, 11 febbraio 1983; Trib. Milano, 22 maggio 1985; Trib. Milano, 20 luglio 1989; Trib. Genova, decr. 17 luglio 1986, Trib. Ravenna, 17 maggio 1990; Trib. Roma, 14 dicembre 1994 e App. Genova, 10 novembre 1997 e App. Genova, 1° ottobre 1998. La Corte di Cassazione, dal canto suo, ha sposato l'orientamento prevalente in dottrina secondo cui lo scioglimento della comunione legale decorre dal passaggio in giudicato della sentenza di separazione con relativa annotazione nel registro degli atti di matrimonio (Cass. n. 4757/2010; Cass. n. 14639/2008; Cass. n. 19447/2005; Cass. n. 2844/2001; Cass. n. 2652/95; Cass. n. 8469/1992; Cass. n. 560/1990; Cass. n. 8463/1992; Cass. n. 12523/1993; Cass. n. 4584/1997; Cass. n. 6234/1998; Cass. n. 11036/1999) e, tra i giudici di merito, in Trib. Bari, 20 novembre 2008; Trib. Nola, 7 ottobre 2008; Trib. S. Maria Capua Vetere, 10 ottobre 1996; Trib. Trani, ord. 25 luglio 1995; Trib. Vercelli, 27 maggio 1992; Trib. Genova, 16 gennaio 1986; Trib. Trieste, 24 luglio 1981. L'affermazione prevalente di tale orientamento fu favoriti dall'ordinanza della Corte cost. 7 luglio 1988, n. 795 ove è stata dichiarata manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 191 in relazione all'art. 3 Cost., nella parte in cui non sanciva — nella versione originaria — che lo scioglimento della comunione legale per la separazione personale dei coniugi retroagisse al momento dell'ordinanza presidenziale ex art. 708 c.p.c. o dell'omologa dell'accordo di separazione personale. Nella motivazione si evidenzia il carattere temporaneo dei provvedimenti di cui all'art. 708 c.p.c., e perciò la loro inidoneità a fondare lo scioglimento della comunione, mancando in tali provvedimenti un accertamento formale definitivo della cessazione dell'obbligo di convivenza e di reciproca collaborazione. In motivazione si sottolinea «che la ragione per cui, perdurando il rapporto di coniugio, non solo la separazione di fatto dei coniugi, ma nemmeno i provvedimenti temporanei ex art. 708 cod. proc. civ. non sono previsti dall'art. 191 come cause di scioglimento della comunione, è la mancanza in questi casi di un accertamento formale definitivo della cessazione dell'obbligo di convivenza e di reciproca collaborazione; che il carattere temporaneo del provvedimento presidenziale impedisce che la situazione dei coniugi provvisoriamente autorizzati a vivere separatamente nelle more del giudizio di separazione possa essere equiparata a quella dei coniugi legalmente separati, e dunque esclude che il perdurare per essi del regime di comunione dei beni possa costituire una violazione dell'art. 3 Cost.; che per configurare una simile violazione il giudice remittente si è riferito come a tertium comparationis non già all'effetto estintivo della comunione legale dei beni previsto dall'art. 191 (ai fini di una sentenza additiva che tale effetto estenda anche ai provvedimenti presidenziali ex art. 708 c.p.c.), bensì a un effetto giuridico non previsto da questo articolo, né da alcun'altra norma positiva, consistente nella «quiescenza temporanea» del regime di comunione, ossia nella provvisoria sospensione della vis adquisitiva ad esso attribuita dall'art. 177 c.c.; che, prospettata in questi termini, la questione, prima che infondata, è inammissibile, perché postula una sentenza che introduca nella disciplina della comunione legale dei beni un nuovo istituto normativo, in merito al quale lo stesso giudice a quo riconosce necessaria una valutazione di opportunità, anche per quanto riguarda le varie possibili modalità tecniche: una sentenza, cioè, che invaderebbe il campo delle scelte di politica del diritto riservate al legislatore». Quando era prevalente siffatto orientamento, la Cassazione aveva negato nell'ordinanza Cass. n. 2597/2006 l'ammissibilità del sequestro conservativo dei beni di un coniuge destinati a ricadere in comunione de residuo su istanza dell'altro coniuge, motivata sul periculum che il resistente potesse occultarli nelle more del giudizio di separazione appunto per evitare di doverli condividere con l'istante. Nel motivare l'inammissibilità dell'invocata misura cautelare, la Suprema Corte ha evidenziato che, prima dello scioglimento della comunione legale, ciascun coniuge ha solo un'aspettativa di fatto e non un diritto soggettivo in relazione ai beni dell'altro coniuge suscettibili di divenire comuni; ma ha indicato in successivi pronunciamenti, gli altri rimedi esperibili dal coniuge interessato per tutelare il suo credito dall'occultamento dei beni che poteva essere perpetrato in suo danno dall'altro coniuge, e precisamente: a) la facoltà di chiedere la separazione giudiziale dei beni (art. 193, comma 2, c.c.), nel caso in cui la condotta tenuta dall'altro nell'amministrandone dei beni mettesse in pericolo gli interessi personali o della comunione; b) il rimedio generale dell'azione per il risarcimento del danno ex art. 2043 c.c., contro l'abuso dell'altro coniuge faccia consistito nel disperdere i beni destinati a ricadere in comunione de residuo senza tenere conto delle esigenze proprie della famiglia; c) la possibilità, infine, di esperire l'azione revocatoria, accogliendo l'art. 2901 c.c. una nozione lata di credito, comprensiva della mera aspettativa (Cass. n. 2597/2006, cit., Cass. n. 13441/2003). Si è riportata questa rassegna giurisprudenziale per completezza di trattazione, e per comprendere più agevolmente le ragioni che hanno spinto il legislatore ad intervenire con la novella del 2015. Ne deriva che i rimedi indicati dalla Cassazione nell'obiter dictum richiamato possono ritenersi ancora attualmente utili ed esperibili solo nel caso in cui un coniuge dia avvio all'opera di occultamento dei suoi beni prima che si celebri l'udienza presidenziale ex art. 708 c.p.c., nel periodo di tempo intercorrente tra la notifica nei suoi confronti del ricorso per separazione giudiziale e la data in cui è fissata la predetta udienza o anche prima di ricevere la suddetta notifica, quando si rende conto che il rapporto coniugale è entrato in crisi irreversibile, tale da indurre uno dei due coniugi ad abbandonare la casa coniugale; e quindi, aspettandosi di ricevere a stretto giro la notifica del ricorso per separazione, cauteli il suo patrimonio, occultando beni che ricadrebbero in comunione de residuo dopo la celebrazione dell'udienza presidenziale di comparizione dei coniugi. In linea con quanto appena affermato la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che la disposizione transitoria di cui all'art. 3, l. n. 55/2015, legge con la quale è stato anche modificato il regime del momento di insorgenza della cessazione della comunione dei beni tra i coniugi, con introduzione del nuovo secondo comma dell'art. 191 c.c., laddove dispone l'applicazione della Novella "ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della presente legge", deve essere intesa, incidendo sul termine di prescrizione dell'azione, come non operante per il procedimento di divisione della comunione "de residuo" che sia già in corso al momento dell'entrata in vigore della Riforma 2015, in coerenza con il principio di irretroattività dettato dall'art. 11 preleggi (Cass., ord.n. 4492/2021). Il fallimento di uno dei coniugi La scelta del legislatore di prevedere l'automatico scioglimento del regime di comunione legale dei coniugi all'esito della dichiarazione di fallimento di uno di essi è funzionale ad assicurare il corretto svolgimento delle operazioni di individuazione della parte del patrimonio coniugale da comprendere nell'attivo fallimentare nell'interesse dei creditori del fallito ed evitare ogni possibile interferenza tra le norme sulla comunione legale e la disciplina della legge fallimentare (Barbiera, 506; Oppo, 297; Rossi Carleo, 907; De Paola, 666; Venditti, 262; Ravazzoni, 65 ss.; Ragusa Maggiore, 811 ss.; Quatraro, 250-66; Mancini, 569 ss. Sulla ratio della previsione cfr anche Servetti, 633 che ha sottolineato la necessità di procedere a una corretta formazione della massa fallimentare e di destinare al fallimento anche la quota di pertinenza del coniuge fallito). Lo scioglimento si verifica, quindi, sia quando il fallimento coinvolga uno dei coniugi in quanto imprenditore o socio illimitatamente responsabile, sia quando concerna entrambi i coniugi, ciascuno per ragioni individuali o perché esercenti in comune un'attività d'impresa ai sensi dell'art. 177, comma 1 lett. d) e comma 2, c.c. (Ravazzoni, 67; Lo Moro Biglia, 2000, 103). Naturalmente lo scioglimento della comunione legale produce effetti dal momento della pubblicazione della sentenza dichiarativa del fallimento ai sensi dell'art. 16, comma 2, l. fall. Una volta sciolto il regime, il curatore fallimentare nominato dal Giudice Delegato subentra nella titolarità solidale della massa patrimoniale oggetto di comunione, ed agisce in qualità di terzo per la ricostituzione del patrimonio del fallito partecipando alle operazioni divisionali previste dagli artt. 192-197 c.c. così da ricostituire la quota della comunione che spetterà al fallito, la quale, unitamente ai suoi beni personali, rappresenterà la massa fallimentare da liquidarsi, a cura del Curatore, per soddisfare i creditori. Nel caso in cui entrambi i coniugi vengano dichiarati falliti, in quanto gestori di un'azienda coniugale (art. 177, lett. d, c.c.), il Curatore dovrà preliminarmente valutare se la gestione di un'azienda da parte di entrambi i coniugi abbia dato luogo ad una società di fatto ovvero ad una comunione d'impresa: nel primo caso, sarà sufficiente la formazione di una massa comprendente i beni aziendali e di separate masse comprendenti i beni personali e la quota indivisa del patrimonio in comunione legale; nel secondo caso, invece, la massa principale sarà costituita dai beni della comunione legale (compresi i beni aziendali) e le masse dei singoli coniugi dai loro beni personali, con possibilità, per i creditori di entrambe le masse, di soddisfacimento sussidiario secondo le regole degli artt. 189-190 c.c. Considerato che l'azienda coniugale, gestita da entrambi i coniugi, è un bene che, a tutti gli effetti, fa parte della comunione legale, anche i creditori per l'attività d'impresa devono essere considerati creditori della comunione legale (Oppo, 13; ma anche Rago, 54-56,. Ragusa Maggiore, 835 ss.; Vittoria, 455). Devono ritenersi immediatamente compresi nell'ambito dell'attivo fallimentare, i beni intestati esclusivamente al coniuge fallito nei pubblici registri; per gli immobili e mobili registrati in comunione legale perché acquisiti ex art. 177 c.c. occorre tener conto del fatto che la metà del loro valore dovrà essere attribuita all'altro coniuge all'esito delle operazioni divisionali. In dottrina si distingue, per quanto concerne i beni mobili, tra: — quelli destinati all'esercizio dell'impresa costituita dopo il matrimonio e gestita unicamente dal coniuge fallito, i quali devono ritenersi nella titolarità del fallito e, pertanto, devono essere inventariati e considerati parte dell'attivo fallimentare; — e quelli che vengono rinvenuti, ad esempio, nell'abitazione o in altri luoghi di pertinenza del fallito, che potrebbero in astratto essere tanto oggetto di comunione legale tanto beni personali del fallito o addirittura dell'altro coniuge, ma in uso gratuito al consorte fallito; in quest'ultimo caso il Curatore può inserirli nella massa fallimentare valendosi della presunzione di cui all'art. 195 c.c., proprio perché si trovano nella disponibilità materiale del fallito, ma l'altro coniuge potrà proporre domanda di rivendicazione ex art. 103 l. fall. ove sia in grado di dimostrare che sono beni suoi personali o in comunione (Rago, 51). Non si può escludere, altresì, che il curatore e il coniuge non fallito addivengano alla divisione consensuale dei beni oppure, in caso di mancato accordo, a un giudizio contenzioso innanzi al Tribunale ordinario, sfuggendo secondo l'opinione più diffusa in dottrina, ala vis actrativa dell'art. 24 l. fall. (Ravazzoni, 92; Corsi, 182; De Paola, 673. Contra Oberto, 1742). Prima dell'abrogazione della presunzione muciana (art. 70 l. fall.) ad opera del d.l. n. 35/2005, la Cassazione ne aveva escluso l'applicabilità ai beni oggetto di comunione legale dei coniugi, in caso di fallimento di uno di essi, motivando che il suddetto regime di comunione non si esaurisce nei rapporti interni, ma ha anche rilevanza esterna, e che, inoltre, quella presunzione riposa su presupposti riscontrabili soltanto nella separazione dei beni. In detta ipotesi, pertanto, è acquisibile all'attivo solo la quota di pertinenza del fallito, salvi però restando, per la quota del coniuge, l'esperibilità degli altri rimedi accordati dall'ordinamento, quale la revocatoria ex art. 2901 primo comma n. 1 c.c., ovvero quello di cui all'art. 64 della l. fall., quando il curatore dimostri che il fallito abbia fatto una attribuzione patrimoniale al coniuge, impiegando per l'acquisto di un bene somme di appartenenza personale, senza fare quanto necessario per impedirne la caduta in comunione (Cass. n. 954/1989). La questione è oramai superata per effetto dell'abolizione dell'istituto. In giurisprudenza lo scioglimento della comunione legale per effetto del fallimento di uno dei coniugi è stato affrontato per lo più con riferimento alla comunione de residuo. In particolare, il caso esemplificativo e paradigmatico è quello del coniuge imprenditore, in regime di comunione legale, che destina i beni acquisiti all'azienda da lui esclusivamente gestita. Poiché i proventi dell'attività separata di un coniuge ricade in comunione de residuo ove esistenti e non consumati al momento dello scioglimento della comunione, legale si è affrontato in giurisprudenza la risoluzione del conflitto tra i creditori del fallito ad aggredire interamente i proventi residui dell'attività del coniuge imprenditore fino al momento della dichiarazione di fallimento ed il credito dell'altro coniuge a vederli confluire in comunione de residuo. Sulla questione la Cassazione ha statuito in sentenza, Cass. n. 2680/2000 il principio di diritto secondo cui la dichiarazione di fallimento determina l'automatico spossessamento del debitore dei beni facenti pare del suo patrimonio e la costituzione automatica di un vincolo di tutti i suoi beni, in forza di una sorta di pignoramento generale, al soddisfacimento dei creditori. Si tratta di due effetti tra loro antitetici, per i quali occorre individuare un criterio di priorità temporale. Precisa al riguardo la Corte di legittimità che lo spossessamento del fallito, «seppur contestuale da un punto di vista cronologico all'effetto dello scioglimento della comunione, è tuttavia, da un punto di vista logico, antecedente poiché concorre a costituire la ratio legis dello scioglimento della comunione». Tale conclusione è articolata su una duplice motivazione: a) i beni acquistati dal coniuge imprenditore, destinati all'esercizio dell'impresa, sono aggredibili per intero da parte dei creditori di quelli, prima dello scioglimento della comunione; pertanto, risulterebbe «irragionevole pensare che con la dichiarazione di fallimento la garanzia dei creditori possa dimezzarsi»; b) anche a prescindere dalla dichiarazione di fallimento, «lo stesso concetto di comunione de residuo non può avere riguardo ai beni destinati a confluirvi senza avere contemporaneamente riguardo alle passività che gravano su quei beni, anche solo in virtù della garanzia generica ex art. 2740 codice civile». Concludono pertanto gli Ermellini che a fronte dello spossessamento del patrimonio del fallito, i beni destinati all'esercizio di un'impresa costituita da uno dei coniugi dopo le nozze non cadono in comunione de residuo con il coniuge non imprenditore. Detta comunione potrà costituirsi soltanto su quei beni che dovessero risultare ancora sussistenti dopo la chiusura della procedura concorsuale. Tale principio di diritto è stato confermato in sentenza Cass. n. 7060/2004 della stessa Corte e recepito, in giurisprudenza di merito, da Trib. Modena 22 febbraio 2005. Si segnala anche la sentenza, Cass. n. 366/1996 in cui la Corte ha statuito che nel caso di bene immobile di proprietà comune dei coniugi concesso in locazione a terzi e di successivo fallimento di uno dei coniugi, l'inefficacia nei confronti dei creditori del vincolo locativo afferente la quota di pertinenza del fallito, produce bensì la caducazione dell'intero contratto, che non può sopravvivere al radicale mutamento del suo oggetto, ma non incide nella libera disponibilità da parte del suo titolare, della quota di pertinenza del coniuge del fallito, dato che la dichiarazione di fallimento ha prodotto lo scioglimento della comunione legale. Le ulteriori cause tipizzate di scioglimento Anche lo scioglimento del matrimonio civile o la cessazione degli effetti civili del matrimonio determina lo scioglimento della comunione legale ma è superfluo soffermarsi su tale causa dal momento che già la separazione personale dei coniugi — che è prodromica al divorzio — determina l'effetto estintivo del regime legale. Con la sentenza che pronuncia la separazione giudiziale dei beni si scioglie la comunione legale. Per l'esame della fattispecie si rinvia al commento dell'art. 193 c.c. I coniugi possono decidere di sostituire il regime di comunione legale con quello di separazione (questa volta convenzionale) dei beni, con una convenzione matrimoniale ex art. 162 c.c., da stipularsi in forma scritta a pena di nullità. Tale mutamento convenzionale determina lo scioglimento della comunione legale (a differenza di altri mutamenti convenzionali che non producono tale effetto, come la costituzione di un fondo patrimoniale, la costituzione di un'impresa familiare o il mutamento convenzionale del regime di comunione legale; in tal senso Corsi, 180; Gabrielli, 190; De Paola, 660; Finocchiaro A. e M., 1122; Mastropaolo-Pitter, 319). Il mutamento del regime patrimoniale in separazione dei beni ha effetto tra i coniugi dalla data della stipula dell'atto pubblico, mentre per i terzi è efficace dalla sua annotazione nel registro degli atti di matrimonio. La vexata queastio della tassatività delle cause di cessazione della comunione legale L'elenco delle cause di scioglimento del regime di comunione legale contenuto nell'art. 191 viene inteso dalla dottrina maggioritaria come tassativo: si nega la possibilità di modificare convenzionalmente il disposto dell'art. 191, aggiungendovi ulteriori cause di scioglimento, o modificandone gli effetti, o rinunziando alla loro operatività, posto che i predetti effetti scaturiscono da una norma imperativa (ex multis De Paola, 640; Gennari, 381). La dottrina moderna ed innovativa ritiene, diversamente, che l'autonomia privata dei coniugi può ampliare — ma non modificare o rendere inefficaci — le cause di scioglimento codificate – prevedendone ulteriori rispetto a quelle elencate nell'art. 191 (cfr. ex multis Galasso, 449), a patto che l'esercizio della suddetta autonomia superi il giudizio di liceità e meritevolezza degli interessi sancito dall'art. 1322 c.c., non pregiudichi i diritti dei terzi e rivesta la forma scritta richiesta per le convenzioni matrimoniali (Russo, 27; Barbiera, 609 ss.). Tale impostazione non contrasterebbe, peraltro, col principio di tassatività delle cause di scioglimento della comunione legale; infatti, tale principio vieta di estendere analogicamente la lista di ipotesi fornita dal legislatore nell'art. 191, ma non pregiudica l'ampiezza dei poteri delle parti di dar vita, di comune intesa, ad una disciplina divergente (Oberto, 1042 ss). Piuttosto l'autonomia negoziale subisce una compressione per effetto del disposto dell'art. 210 comma 3 c.c. che sancisce la inderogabilità delle norme della comunione legale relative all'amministrazione dei beni della comunione e all'uguaglianza delle quote limitatamente ai beni che formerebbero oggetto della comunione legale (Lo Moro Biglia, 2000, 102), a cui parte della dottrina aggiunge le disposizioni sulla responsabilità patrimoniale (artt. 186-190 c.c.) perché poste a tutela dei terzi creditori, sebbene non espressamente richiamate nell'art. 210 citato. Ulteriori cause convenzionali di scioglimento della comunione legale, secondo la dottrina evolutiva in commento, possono essere stipulate sia preventivamente alla celebrazione del matrimonio, sia successivamente, a patto che rivestano la forma scritta richiesta per le convenzioni matrimoniali, come detto. Si esclude però, come anticipato, che per via convenzionale i coniugi possano stabilire il mantenimento del regime della comunione legale nell'ipotesi in cui dovesse verificarsi una delle cause di scioglimento tipiche elencate nell'art. 191 c.c. (Carnevali, 20; De Paola, 188). La Suprema Corte di Cassazione ha sempre sostenuto la tesi della tassatività dell'elenco delle cause di separazione contenuto nell'art. 191 (Cass. n. 4235/1987 ove si afferma che il favor communionis che ha improntato tutta la riforma del regime patrimoniale porta inevitabilmente ad escludere che possano essere riconosciute altre cause di scioglimento legale tra i coniugi oltre quelle espressamente elencate nella disposizione in questione. Successivamente in senso conforme Cass. n. 3483/1988; Cass. n. 560/1990; Cass. n. 12098/1998; Cass. n. 18619/2003; Cass. n. 10896/2005). Ipotesi di ulteriori cause di scioglimento della comunione Riprendendo il discorso affrontato nel paragrafo precedente, si è discusso in dottrina se la separazione di fatto possa integrare una causa di scioglimento della comunione legale. Alcuni autori si sono espressi in senso affermativo (Schlesinger, 442, secondo cui la permanenza del regime di comunione legale in seguito a separazione di fatto esporrebbe i coniugi al rischio di assurde rivendicazioni economiche, anche a distanza di molti anni); ma la maggior parte degli autori risponde in senso negativo (Cian-Villani, 387; Corsi, 179; Gabrielli, 186; Finocchiaro A. e M., 1132; De Paola, 650; Santosuosso, 294) non solo per il principio di tassatività delle cause di scioglimento della comunione legale ex art. 191che non ammetterebbe applicazioni analogiche (Mastropaolo-Pitter, 311), ma anche per esigenze di tutela dei terzi che instaurino relazioni negoziali con uno dei due coniugi, dal momento che la separazione di fatto non è annotata nel registro degli atti di matrimonio ed il terzo non potrebbe pertanto conoscere l'esistenza dello scioglimento della comunione, confidando, quindi sul regime di responsabilità patrimoniale previsto negli artt. 189 e 190 c.c. (Franceschelli, 229 ss.; Barbiera, 499; RossiCarleo, 890), ed infine anche per la difficoltà pratica di individuare il momento preciso in cui si sarebbe verificata la separazione di fatto (allo scopo non sarebbe sufficiente un semplice allontanamento dalla casa coniugale per un periodo di tempo limitato) con conseguente scioglimento ex nunc della comunione (Finocchiaro A. e M., 1132). Secondo l'impostazione della dottrina moderna, tracciata nel paragrafo precedente, sarebbe possibile stipulare un patto, con atto pubblico, che preveda lo scioglimento della comunione legale in caso di separazione di fatto, o in ipotesi di allontanamento dalla casa coniugale, stabilendone la decorrenza con una modalità che garantisca certezza, come ad es. raccomandata con ricevuta di ritorno (Oberto, 271). Secondo parte della dottrina (Colussi, 173 ss.; Oppo, 368; Barbiera, 506; Gabrielli, 191 Oppo, 17 ss.) anche le altre procedure concorsuali disciplinate nella l. fall. determinerebbero, per identità di ratio, lo scioglimento della comunione legale, perché, al pari del fallimento, comportano la separazione del patrimonio del coniuge, che ne è destinatario, nell'interesse di terzi creditori estranei alla famiglia. Tale situazione, comune sia al concordato preventivo, con o senza cessione dei beni, che all'amministrazione controllata, sarebbe incompatibile con la prosecuzione del regime di comunione legale. Nell'ambito di questo filone dottrinale, si è affermata una corrente che, con motivazioni condivisibili, secondo lo scrivente, distingue tra procedure concorsuali che comportano per l'imprenditore la perdita del patrimonio e la formazione di una massa patrimoniale finalizzata al soddisfacimento dei creditori, per cui si determinerebbe lo scioglimento della comunione legale al pari del fallimento, e procedure nelle quali, invece, mancando la fase liquidatoria, non sussisterebbe alcuna in compatibilità col regime patrimoniale legale. Pertanto, dovrebbe optarsi per lo scioglimento nel caso di concordato preventivo con cessio bonorum mentre il concordato con garanzie non sarebbe incompatibile con il permanere della comunione legale (Vitucci, 473 ss.; Mastropaolo-Pitter, 318 ss.; Pajardi, 803). La tesi contraria, che nega che la sottoposizione del coniuge imprenditore ad una delle procedure concorsuali diverse dal fallimento costituisca una causa atipica di scioglimento della comunione legale, argomenta innanzitutto che il concordato presuppone una situazione di decozione finanziaria temporanea ma non irreversibile e, in secondo luogo, che il coniuge non imprenditore potrebbe addirittura acconsentire alla cessione dei beni ai creditori per favorire il risanamento e la ripresa dell'azienda gestita dal consorte, così come potrebbe stipulare con il suddetto, ancor prima della proposizione del ricorso di ammissione al concordato, una convenzione matrimoniale avente ad oggetto i beni che potrebbero essergli attribuiti per effetto dello scioglimento della comunione legale, al fine di escluderli dalla procedura concorsuale. (RossiCarleo, 912; De Paola, 670; Corsi, 197). Con un obiter dictum l'ordinanza Corte cost., 7 luglio 1988, n. 795 ha escluso che la separazione di fatto possa costituire causa di scioglimento della comunione legale dei coniugi. In tal senso si è espressa anche la Corte di Cassazione in Cass. n. 4235/1987 secondo cui la separazione di fatto non è idonea ad impedire l'insorgenza della comunione legale, neppure se esistente nel periodo transitorio 20 settembre 1975-15 gennaio 1978 (sia che abbia avuto inizio in data anteriore all'entrata in vigore della legge di riforma, sia che abbia avuto inizio dopo tale momento). Il principio è stato espresso in modo più chiaro nella successiva sentenza Cass. n. 3483/1988 ove la S.C. ha chiarito che in relazione alle famiglie già costituite alla data di entrata in vigore della l. 19 maggio 1975 n. 151 l'esclusione, ai sensi dell'art. 228 l. n. 151/1975, del regime della comunione legale, per i beni acquistati successivamente alla data predetta, postula una specifica dichiarazione negoziale che deve risultare da apposito atto (di cui deve farsi annotazione a margine dell'atto di matrimonio) ricevuto da notaio o dall'ufficiale di stato civile del luogo di celebrazione del matrimonio e, pertanto non può derivare da una mera enunciazione di inapplicabilità del regime della comunione che sia contenuta in un contratto di compravendita, ancorché stipulato per atto notarile. Si ricava da una lettura a contrario che la mera separazione di fatto non è idonea a sciogliere il regime legale. La stessa conclusione emerge anche dalla sentenza, Cass. n. 560/1990, ove si statuisce che lo scioglimento della comunione legale dei beni fra coniugi si verifica, «ex nunc», solo con il passaggio in giudicato della sentenza di separazione, ai sensi dell'art. 191 c.c. negando implicitamente tale effetto alla separazione di fatto. Lo scioglimento della comunione limitatamente all'azienda gestita congiuntamente.Il capoverso dell'art. 191 attribuisce ai coniugi il potere di sancire lo scioglimento della comunione legale limitatamente all'azienda gestita da entrambi e costituita dopo il matrimonio (art. 177, lett. d, c.c.), mediante un accordo stipulato con atto pubblico da annotare a margine dell'atto di matrimonio. In realtà, parte della dottrina evidenzia l'imprecisione terminologica del legislatore, sottolineando come la previsione in commento alluda soltanto al potere dei coniugi di estromettere dall'ambito della comunione legale l'azienda di cui all'art. 177, lett. d), c.c. (Mastropaolo-Pitter; Finocchiaro A. e M., 1152; De Paola, 662; Santosuosso, 297; Schlesinger, 443). Si rinvia al commento dell'art. 177 c.c. per l'esame delle teorie sulla natura giuridica dell'azienda costituita dopo il matrimonio e gestita da entrambi i coniugi. In questa sede è sufficiente rilevare che se si aderisce alla tesi secondo cui tale azienda, ove non incanalata in un modello societario tipico, costituisce un fenomeno associativo sui generis assoggettato integralmente alla disciplina giuridica della comunione legale dei coniugi, anche per quanto concerne le norme sull'amministrazione e la responsabilità, la previsione in oggetto spiegherebbe la sua utilità perché consente ai coniugi la possibilità di escludere le obbligazioni assunte per l'azienda dal regime di responsabilità patrimoniale «allargata» exartt. 186-190 c.c. (in tal senso Colussi, 609 ss.; Oppo, 355ss.; De Paola, 663; Di Martino, 114). La reviviscenza della comunione legaleLa prima ipotesi in cui può verificarsi la reviviscenza della comunione legale è rappresentata dalla sentenza che accerti e dichiari l'invalidità della convenzione matrimoniale di mutamento del regime di comunione legale in separazione. In tale ipotesi il ripristino del regime legale avviene con efficacia retroattiva come se il negozio tamquam non esset. Quest'effetto presenta risvolti pratici fondamentali in materia di responsabilità patrimoniale; infatti, per le obbligazioni assunte da un solo coniuge prima della pronuncia di invalidità della convenzione istitutiva della separazione dei beni, troveranno applicazione le disposizioni di cui agli artt. da 186 a 190 c.c. con la conseguenza che, ove si accerti che le predette obbligazioni sono state contratte nell'interesse della famiglia, ne risponderà in prima battuta il patrimonio in comunione legale e non i beni personali del coniuge contraente, come sarebbe accaduto se la convenzione matrimoniale istitutiva della separazione dei beni non fosse stata dichiarata invalida. La seconda ipotesi attiene al ritorno o alla prova dell'esistenza rispettivamente dell'assente o del dichiarato morto presunto (artt. 56 e 66 c.c.). Tali eventi determinano la cessazione degli effetti dell'emanata sentenza e determinano l'automatico ripristino – con efficacia ex nunc però — del regime di comunione legale, che sarà opponibile ai terzi dopo l'annotazione della revoca della sentenza nel registro degli atti di matrimonio. La terza ipotesi si verifica in caso di riconciliazione dei coniugi, che, come disposto dall'art. 157 c.c., si perfeziona mediante espressa dichiarazione resa dai coniugi o con un comportamento non equivoco che sia incompatibile con lo stato di separazione, e deve essere annotata nel registro degli atti di matrimonio (art. 69, lett. g, d.P.R. n. 396/2000). La dottrina tradizionale, formatasi prima dell'introduzione dell'art. 69 richiamato, escludeva il ripristino automatico della comunione legale per effetto della riconciliazione, in considerazione della difficoltà nello stabilire il momento esatto in cui si verificava, ritenendo che allo scopo fosse necessaria la stipula di una convenzione matrimoniale (Corsi, 175; Tamburello, 579 ss.; Finocchiaro A. e M., 1134; Rescigno, 513 ss.; Rossi Carleo, 892; Ceccherini, 102; Cattaneo, 421; Mastropaolo-Pitter, 333; Venditti, 258). Quest'orientamento era privo di riscontro normativo, in quanto alcuna norma giuridica prescrive quest'onere formale per la reviviscenza del regime di comunione legale, ma in ogni caso le esigenze pratiche che ne hanno indotto l'affermazione sono state risolte a monte dal legislatore con l'introduzione dell'art. 69 del d.P.R. n. 396/2000 che prescrive l'annotazione della riconciliazione dei coniugi nel registro degli atti di matrimonio. Infatti, grazie a questo intervento normativo, il ripristino della comunione legale, che produce effetti interni tra i coniugi dal momento della riconciliazione ( ex nunc ), può essere opposto ai terzi – producendo efficacia esterna quindi — soltanto dalla data della suddetta annotazione. Ne consegue che ciascun coniuge risponderà personalmente delle obbligazioni assunte durante il periodo di separazione; ove il creditore voglia avvalersi del regime di responsabilità patrimoniale più favorevole previsto dall'art. 189 c.c. dovrà dimostrare che si era già ripristinato il regime di comunione legale per effetto della riconciliazione tra i coniugi alla data dell'assunzione dell'obbligazione, a prescindere dell'annotazione formale nel registro degli atti di matrimonio. La quarta ed ultima ipotesi di reviviscenza del regime di comunione legale ricorre in caso di revoca della sentenza dichiarativa di fallimento con efficacia retroattiva (in tal senso Segni, 612; Barbiera, 506; Mastropaolo-Pitter, 334; Servetti, 638; Gabrielli-Cubeddu, 203; Ravazzoni, 92 ss). In senso contrario, altra parte della dottrina, mutuando l'impostazione già sostenuta con riferimento all'ipotesi di riconciliazione, ritiene che per consentire il ripristino del regime di comunione, i coniugi dovrebbero stipulare una convenzione matrimoniale ad hoc (Corsi, 175 ss.; De Paola, 667; Finocchiaro A. e M., 1137; Oppo, 16). Una dottrina minoritaria postula che la revoca della dichiarazione di fallimento determini il ripristino automatico retroattivo del regime legale limitatamente ai coniugi, ma non nei confronti dei terzi (Mastropaolo-Pitter, 335; Rossi Carleo, 913). La reviviscenza della comunione legale può incontrare, però, in questo caso, delle difficoltà pratiche, scaturite dal fatto che in pendenza del giudizio di revoca della sentenza dichiarativa di fallimento, il Curatore fallimentare avrà presumibilmente già iniziato le operazioni di formazione della massa fallimentare da liquidare per soddisfare i creditori del fallito. La preliminare di queste operazioni consiste ovviamente, nella divisione dei beni in comunione. Occorre chiedersi come il ripristino con efficacia retroattiva (secondo l'impostazione maggioritaria in dottrina) della comunione legale possa concretamente realizzarsi con riferimento ad un patrimonio comune che è stato interessato dalla suddetta divisione. Se per effetto della divisione e della formazione della massa fallimentare, si sia proceduto nell'ambito della procedura fallimentare alla alienazione di alcuni beni, deve ritenersi che il loro ricavato residuo (dopo il pagamento dei creditori) possa rientrare in comunione legale, se i beni alienati appartenevano in precedenza al patrimonio comune. Ove invece, invece, la divisione abbia comportato l'attribuzione di beni in via esclusiva al coniuge in bonis ovvero al fallito, senza che in tale ultimo caso gli organi della procedura fallimentare abbiano ancora proceduto alla vendita, la revoca della dichiarazione di fallimento consente ai coniugi di rimettere detti beni in comunione legale attraverso una convenzione matrimoniale. In senso diverso si ritiene che per effetto della retroattività della pronuncia di revoca della dichiarazione di fallimento detti beni non siano mai usciti dalla comunione legale (Mastropaolo-Pitter, 335); ma tale tesi non convince perché non considera che il negozio di divisione dei beni, stipulato in pendenza del giudizio è perfettamente valido ed efficace e non può essere travolto dalla pronuncia di revoca della dichiarazione di fallimento. Quindi in quest'ipotesi appare necessario, per ragioni pratiche insuperabili, che i coniugi ripristino la comunione legale sui beni che prima della procedura fallimentare ne facevano parte mediante una convenzione matrimoniale. Secondo un interessante rilievo di alcuni autori, nel caso in cui uno dei coniugi rifiuti di stipulare la convenzione matrimoniale per il ripristino della comunione legale, l'altro dovrà intentare un giudizio per la risoluzione del contratto divisorio dei beni, perché concluso sull'erronea convinzione della legittimità della dichiarazione di fallimento. In altre parole, si è proceduto alla divisione del patrimonio in comunione sul presupposto che uno dei coniugi fosse fallito; una volta venuta meno tale presupposizione, il negozio divisorio risulterebbe viziato geneticamente sotto il profilo causale (ex multis Bessone-D'Angelo, 326 ss). Ove invece i beni attribuiti al coniuge in bonis dopo la divisione siano da questi alienati a terzi, tali acquisti sono fatti salvi a norma dell'art. 1458,, comma 2, c.c., anche quando l'acquisto sia stato compiuto dal terzo dopo l'introduzione del giudizio di opposizione alla dichiarazione di fallimento. Per quanto concerne invece gli acquisti compiuti separatamente dal coniuge in bonis, dovrebbero ricadere automaticamente in comunione legale ai sensi dell'art. 177 c.c. per effetto dell'efficacia retroattiva della pronuncia di revoca del fallimento (Mastropaolo-Pitter, 335; Oberto, 1758) salva la possibilità del coniuge acquirente di dimostrare la natura personale del bene acquistato ex art. 179, lett. c), d) e f), c.c. La Cassazione ha preso posizione sulla vexata quaestio dottrinale sulla decorrenza degli effetti della riconciliazione. Si è visto come in dottrina si sono formate due posizioni che affermano, rispettivamente, l'efficacia ex nunc del ripristino della comunione legale tra coniugi dopo la riconciliazione o ex tunc. La S.C. aderisce decisamente alla prima impostazione, per ragioni di tutela dei terzi per gli acquisti compiuti in pendenza della separazione con uno dei coniugi, evidenziando che con la riconciliazione si ripristina automaticamente tra le parti il regime di comunione originariamente adottato, con esclusione di quegli acquisti effettuati durante il periodo della separazione (Cass. n. 11418/1998). Il principio è stato confermato ed arricchito nei contenuti motivazionali in sentenza Cass. n. 18619/2003 ove si è statuito che dalla riconciliazione dei coniugi deriva il ripristino del regime di comunione originariamente adottato; ma, in applicazione dei principi costituzionali di tutela della buona fede dei contraenti e della concorrenza del traffico giuridico (artt. 2 e 41, Cost.), occorre distinguere tra effetti interni ed esterni del ripristino della comunione legale e, conseguentemente, in mancanza di un regime di pubblicità della riconciliazione, la ricostituzione della comunione legale derivante dalla riconciliazione non può essere opposta al terzo in buona fede che abbia acquistato a titolo oneroso un immobile dal coniuge che risultava unico ed esclusivo del medesimo, benché lo avesse acquistato successivamente alla riconciliazione. Tale fattispecie fu resa prima dell'introduzione dell'art. 69, d.P.R. n. 396/2000, che ha previsto l'annotazione a margine dell'atto di matrimonio delle dichiarazioni con le quali i coniugi separati manifestano la loro riconciliazione. Ne consegue che il problema interpretativo è ora risolto, e gli effetti della riconciliazione saranno opponibili ai terzi dal momento dell'annotazione nel registro degli atti di matrimonio. A conferma di tale soluzione si pone da ultimo Cass. , ord. n. 6820/2021, che, nel ribadire che la comunione legale si ripristina automaticamente a seguito di riconciliazione (art 157 c.c.), ratifica l'opinione che in tal caso la comunione legale non comprende gli acquisti effettuati durante il periodo di separazione e fatta salva l'invocabilità, "ratione temporis", dell'effetto pubblicitario derivante dalla novella di cui all'art. 69, d.P.R. n. 396/2000, che ha previsto l'annotazione a margine dell'atto di matrimonio delle dichiarazioni rivelatrici della volontà riconciliativa. BibliografiaAlagna, Lo scioglimento della comunione legale: osservazioni e proposte, in Aa.Vv., Studi sulla riforma del diritto di famiglia, Milano, 1973, 505 ss.; Amadio, Lo scioglimento della comunione legale, in Auletta (cura di), Bilanci e prospettive del diritto di famiglia a trent'anni dalla riforma, a, Milano, 2007, 211; Amagliani, sub art. 191, in Comm. 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