Legge - 1/12/1970 - n. 898 art. 1

Giuseppe Pagliani
Francesco Maria Bartolini

 

1. Il giudice pronuncia lo scioglimento del matrimonio contratto a norma del codice civile, quando, esperito inutilmente il tentativo di conciliazione di cui al successivo art. 4, accerta che la comunione spirituale e materiale tra i coniugi non può essere mantenuta o ricostituita per l'esistenza di una delle cause previste dall'art. 3.

Inquadramento

L'art. 1 l. 1 dicembre 1970, n. 898, traccia le linee fondamentali dell'istituto poi comunemente denominato “divorzio” con riferimento al matrimonio celebrato con rito civile. Analoga disciplina è sancita dall'articolo successivo per quanto concerne il matrimonio concordatario. In entrambi i casi la legge prevede la fine del rapporto matrimoniale in presenza dei medesimi presupposti e per le medesime cause. Per il matrimonio civile il divorzio avviene con la pronuncia di scioglimento, per il matrimonio concordatario con la pronuncia di cessazione degli effetti civili (art. 2 legge citata).

La disposizione non è stata modificata dalla riforma del processo civile disposta dal d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, che pure ha introdotto innovazioni alle restanti parti della legge n. 898/1970. Non è stato aggiornato il rinvio all'art.4, che il detto decreto ha abrogato con effetto per le controversie instaurate a decorrere dal 28 febbraio 2023. La detta riforma ha conservato le disposizioni di diritto sostanziale della legge sul divorzio; ha soppresso la normativa processuale, trasferita nelle norme disciplinatrici del rito unificato per le controversie in materia di stato delle persone, di minori e di famiglia.

La normativa introdotta con la l. 1 dicembre 1970, n. 898

Il ns. ordinamento si conformava a una tradizione confessionale fortemente radicata che ravvisava nel matrimonio un istituto caratterizzato da elementi trascendenti il diritto positivo e indissolubile, in quanto a tutti gli effetti risolventesi in un sacramento, secondo i principi della religione cattolica. In questo contesto, anche dopo i Patti Lateranensi il codice civile italiano (art. 149) disponeva che tanto il matrimonio contratto secondo le regole da esso dettate quanto gli effetti del matrimonio cattolico regolarmente trascritto nei registri dello stato civile venivano a cessare unicamente con la morte di uno dei coniugi. La progressiva laicizzazione dei costumi e l'esempio di ordinamenti stranieri hanno posto in crisi gli aspetti di indissolubilità del vincolo coniugale e hanno condotto ad assegnare prevalente importanza all'elemento volontaristico del rapporto, considerato unico e vero fondamento del legame coniugale. Fu non senza aspri contrasti che la l. 1 dicembre 1970, n. 898, aprì la normativa a quello che fu chiamato divorzio, nelle due forme attraverso le quali può giungersi al medesimo risultato sostanziale.

La legge dovette affrontare le resistenze del mondo cattolico, che condussero a due pronunce della Corte costituzionale (Corte cost. n. 169/1971 e Corte cost. n. 176/1973) e a un referendum popolare (12 maggio 1975); e subì ripetuti aggiornamenti e adattamenti. La L. 6 marzo 1987, n. 74, rese più agevole il procedimento e rafforzò la tutela del contraente più debole per assicurargli una soddisfacente condizione post-matrimoniale. La norma transitoria dettata dall'art. 23 rese comuni al procedimento di separazione personale alcune delle norme previste per il giudizio di divorzio e per tale ragione si è ritenuto che tale norma valga ad accomunare le due procedure, secondo una ratio di semplificazione e reciproca integrazione.

Significative modifiche vennero apportate con il d.l. 14 marzo 2005, n. 35, conv. dalla l. 14 maggio 2005, n. 80; poi dalla l. 28 dicembre 2005, n. 263, e dal d.l. 30 dicembre 2005, n. 273, conv. dalla l. 23 febbraio 2006, n. 51. In particolare, il d.l. n. 35/2005 sostituì il testo degli artt. da 706 a 709 e aggiunse l'art. 709-bis al c.p.c., così inserendo una disciplina che veniva a porsi come autonoma rispetto a quella del divorzio.

Molto si è discusso, però, sulla effettiva natura di autonomia di questa disciplina, poiché si continuò nonostante l'innovazione a ritenere vigente il disposto del ricordato art. 23.

Importanti ritocchi sono stati apportati dalla l. 219/2012 e dal d.lgs. 28 dicembre 2013, n. 154, di attuazione delle norme sulla filiazione introdotte da tale legge, allo scopo di rendere sostanzialmente unitaria la normativa sul divorzio,  la disciplina dei rapporti in genere tra i coniugi e con la prole dettata dal codice civile per tutti i casi di cessazione del rapporto matrimoniale vero e proprio e della convivenza (artt. 337 bis ss. c.c.). Infine, la l. 6 maggio 2015, n. 55, ha innovato il regime del divorzio richiesto dopo la separazione (si è disposto essere sufficiente un anno di mancata convivenza, ufficialmente dichiarata, per il divorzio giudiziale; sei mesi nel caso di divorzio consensuale). Infine, il sopra citato d.lgs. n. 149/2022  e il successivo suo correttivo d.lgs. n. 164/2024 hanno ha profondamente mutato la normativa processuale (artt. 473-bis e seguenti c.p.c.).

Morte di un coniuge ed effetti sul procedimento di divorzio

La morte di un coniuge è evento estintivo naturale del vincolo che sorge con la celebrazione del matrimonio. Essa si pone come causa alternativa al divorzio, nel senso di escluderne di per sé la necessità e nel senso che il suo verificarsi nel corso del procedimento impedisce la pronuncia del divorzio. 

 La morte di uno dei coniugi produce lo scioglimento del matrimonio e, quindi, ove sopravvenuta nel corso del giudizio di divorzio, comporta il venir meno della materia del contendere e travolge le eventuali pronunce in precedenza emesse e non ancora passate in giudicato (Cass. I, n. 10065/2003). Il decesso di uno dei coniugi in pendenza del giudizio di divorzio in grado di appello , senza che sia passata in giudicato la sentenza che ha dichiarato lo scioglimento del matrimonio o la cessazione degli effetti civili del matrimonio , determina la cessazione della materia del contendere non solo con riferimento alla domanda di divorzio, in conseguenza del venir meno, per ragioni naturali, del rapporto di coniugio, ma anche in relazione alle domande volte a ottenere l'assegno di mantenimento per i figli e quello divorzile, non potendo più essere vantato alcuno dei corrispondenti diritti (Cass. I, ord. n. 37896/2022). La morte di uno dei coniugi, sopravvenuta in pendenza del giudizio di separazione personale o di divorzio, anche nella fase di legittimità, comporta la declaratoria di cessazione della materia del contendere, con riferimento al rapporto di coniugio ed a tutti i profili economici connessi; l'evento della morte cagiona l'effetto di travolgere ogni pronuncia in precedenza emessa e non ancora passata in giudicato (Cass. VI, ord. n.26489/2017). In tema di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, la morte del coniuge, anche nel corso del giudizio di legittimità, fa cessare la materia del contendere sia nel giudizio sullo status che in quello relativo alle domande accessorie, compreso il giudizio sulla richiesta di assegno divorzile, non assumendo alcun rilievo, in senso contrario, l'intervenuto passaggio in giudicato della sentenza non definitiva di divorzio, posto che l'obbligo di corresponsione di tale assegno è personalissimo e non trasmissibile agli eredi, trattandosi di posizione debitoria inscindibilmente legata a uno status personale, che può essere accertata solo in relazione alla persona cui detto status si riferisce (Cass. I, n.4092/2018).

Il principio tuttavia incontra alcuni limiti evidenziati dalla giurisprudenza per quanto riguarda effetti che il procedimento in corso può produrre nonostante il decesso di una delle parti.

Le sezioni unite hanno affermato che la morte dell'ex coniuge ricorrente nel corso del procedimento per la revisione dell'assegno divorzile, ai sensi dell'art. 9, comma 1, della l. n. 898 del 1970, non comporta la dichiarazione di improseguibilità dello stesso, ma gli eredi subentrano nella posizione del coniuge richiedente la revisione, al fine dell'accertamento della non debenza dell'assegno a decorrere dalla domanda sino al decesso, nonché nell'azione di ripetizione dell'indebito, ex art. 2033 c.c., per la restituzione delle somme non dovute (sent. n. 20495/2022; conforme Cass. n. 17041/2007). Le stesse Sezioni unite hanno ribadito che in tema di divorzio, nel caso di passaggio in giudicato della pronuncia parziale sullo status, con prosecuzione del giudizio al fine dell'attribuzione dell'assegno divorzile, il venir meno dell'ex coniuge nei confronti del quale la domanda era stata proposta nel corso del medesimo non ne comporta la declaratoria di improseguibilità, ma il giudizio può proseguire nei confronti degli eredi, per giungere all‘accertamento della debenza dell'assegno dovuto sino al momento del decesso (Cass. S.U. n. 20494/2022; conformi Cass. n. 8874/2013; Cass. S.U. n. 6094/1982).  Il decesso di uno dei coniugi in pendenza del giudizio di divorzio in grado di appello avverso la sentenza di divorzio non passata in giudicato determina la cessazione della materia del contendere sia con riferimento alla domanda di divorzio e sia in relazione alle domande volte ad ottenere l'assegno di mantenimento per i figli e l'assegno divorzile (Cass. I, ord. n. 37896/2022).

Avverso la sentenza dichiarativa della cessazione degli effetti civili del matrimonio, intervenuta successivamente alla morte di una delle parti, è ammissibile l'appello della parte superstite, al fine di ottenere una pronuncia di cessazione della materia del contendere, essendo gli effetti civili del matrimonio già venuti meno per la morte di uno dei coniugi, ai sensi dell'art. 149 c.c., sicchè nel giudizio di impugnazione sono legittimati processuali ex art. 110 c.p.c. gli eredi della parte deceduta in qualità di successori universali, ancorché ad essi non sia trasmissibile il diritto controverso (Cass. VI,ord. n.1079/2021).

Nozione e presupposti

La cessazione del vincolo matrimoniale per volontà dei coniugi nel nostro ordinamento non è rimessa esclusivamente alle loro intenzioni ma è subordinata a precisi requisiti. Uno di essi riguarda il venir meno dell'animus coniugale: al quale la normativa si riferisce con il richiedere l'accertamento concreto dell'impossibilità della prosecuzione della vita matrimoniale per essere cessata la comunione spirituale e materiale tra i coniugi. Per ovvie esigenze di riferire questa situazione eminentemente soggettiva a riscontri dimostrabili, la legge indica una serie di situazioni la cui verificazione fornisce oggettiva alla richiesta di divorzio. L'importanza degli effetti sullo status delle persone ha imposto il controllo del giudice, il quale si attua anche con l'opera di informazione e persuasione che dà corpo al tentativo di riportare i coniugi ad un accordo.

La descrizione normativa dei presupposti traccia la definizione dell'istituto: il divorzio è l'eliminazione del vincolo coniugale per effetto del venir meno della «comunione spirituale e materiale tra i coniugi», in presenza di ragioni espressamente indicate dalla legge, ossia delle «cause previste dall'art. motivazione3», e dell'accertato fallimento del «tentativo di conciliazione di cui al successivo art. 4», attualmente divenuto momento processuale della fase di comparizione davanti al presidente o al giudice da lui delegato (art. 473-bis.21 c.p.c.).

Comunione materiale e spirituale

Il venir meno della comunione materiale e spirituale impedisce la realizzazione delle finalità del matrimonio, quali intese dal nostro ordinamento. Quali siano queste finalità risulta per implicito dalle disposizioni dettate dall'art. 143, secondo comma, c.c., il quale indica il fine principale del matrimonio nell'assistenza morale e materiale e nella collaborazione nell'interesse della famiglia; individua il suo effetto nell'acquisto dei medesimi diritti e doveri per i coniugi; e sintetizza le responsabilità assunte nel dover contribuire ai bisogni della famiglia

Per quanto riguarda il presupposto dell'avvenuta cessazione della comunione materiale e spirituale tra i coniugi il primo compito demandato al giudice è costituito dall'accertamento di questa cessazione in presenza delle situazioni specificate dalla legge che ne forniscono un riscontro oggettivo. Occorre, inoltre, che si accerti l'impossibilità di recuperare o ricostituire quella comunione, e a tale scopo devono essere sentite le parti e di esse deve essere tentata la conciliazione. In proposito non si richiede, per far luogo alla domanda di divorzio, che entrambi i coniugi concordino nel volere gli effetti della dissoluzione del reciproco legame. È sufficiente la volontà contraria al vincolo di uno solo tra costoro, in presenza dei presupposti di legge indicati specificamente nell'art. 2 della legge n. 898/1970; e neppure è richiesto che sussista una qualche responsabilità, o colpa, nell'altro coniuge, in quanto la normativa assegna rilevanza all'oggettivo sussistere delle situazioni di fatto ritenute significative per desumerne la definitiva cessazione della comunione coniugale.

La giurisprudenza aveva da subito chiarito: “... non è necessario che entrambi i coniugi siano concordi nel volere, o nel ritenere avvenuta la dissoluzione della loro unione. Al contrario, proprio perché il mantenimento o la ricostituzione della comunione stessa richiede il concorso della volontà dei due coniugi, è sufficiente la contraria volontà di uno solo di essi perché il giudice di merito possa, in presenza di ogni altra circostanza all'uopo pertinente, ritenere sussistente il presupposto innanzi indicato. Né d'altra parte è necessario che la predetta contraria volontà manifestata da uno dei coniugi con il fatto di separarsi o di persistere nello stato di separazione sia giustificata da un fatto obiettivo o da colpa della controparte, in quanto la legge dà rilevanza a detto stato e al suo protrarsi per il tempo previsto in proposito indipendentemente dalla colpa del coniuge che si fa attore (Cass. n. 4178/1975). Si era anche avvertito: “… il divorzio non viene pronunciato sulla base della mera constatazione della ricorrenza di una delle ipotesi tassativamente previste dall'art. 3 della legge, occorrendo che il giudice accerti anche l'essenziale condizione della concreta impossibilità di mantenere o ricostituire il consorzio coniugale. Tale impossibilità può essere desunta dal giudice anche presuntivamente, oltre che dal fallimento del tentativo di conciliazione, dalla lunga durata della separazione di fatto e da altre circostanze, sempre che siffatto accertamento sia sorretto da motivazione immune da vizi logici e giuridici” (Cass. n. 3079/1976). La pronuncia di divorzio è il risultato dell'esercizio del potere-dovere del giudice di accertare, oltre l'esistenza in concreto delle ipotesi tassativamente elencate dalla legge, anche l'essenziale condizione dell'impossibilità di mantenere o ricostituire il consorzio coniugale (Cass. n. 3692/1975). La valutazione del giudice del merito è censurabile per quanto attiene alla rispondenza dei criteri seguiti alla concezione del matrimonio, non già contrattualistica ma comunitaria, di cui agli artt. 29 e 30 Costituzione, che comportano una convivenza caratterizzata da una certa organizzazione domestica, dal reciproco aiuto, dai rapporti sessuali (almeno normalmente) nonché dall'intenzione di riservare al coniuge la posizione di esclusivo compagno di vita, anche quando la solidarietà esiga sacrificio…” (Cass. n. 1595/1976). I principi espressi da queste risalenti decisioni sono tuttora ribaditi e validi.

La giurisprudenza di merito è molto pragmatica. Il Tribunale di Bari, ad esempio, ha con sentenza di divorzio non definitiva affermato: “La situazione di separazione protrattasi nel tempo, l'inutile esperimento del tentativo di conciliazione da parte del presidente all'udienza fissata per la comparizione delle parti, l'adesione alla domanda di scioglimento del vincolo proposta ex adverso sono, in definitiva, sicuri indici dell'impossibilità di ricostituzione di quella comunione materiale e spirituale tra i coniugi sulla quale il matrimonio si fonda” (sent. 23 marzo 2012, n. 1062, Giurisprudenzabarese.it 2012; conformemente, 18 giugno 2012, n. 2235). Si veda anche: “Se i coniugi, sentiti in camera di consiglio, hanno ribadito la volontà di ottenere il divorzio, si deve ritenere che la comunione spirituale e materiale tra loro sia definitivamente venuta meno e non possa più ricostituirsi” (Trib. Torre Annunziata 6 novembre 2012, n, 1052, sent. non definitiva). 

L'accertamento di tale condizione oggettiva è, pertanto, necessaria in ogni ipotesi di pronuncia giudiziale di divorzio: anche nel ricorso a domanda congiunta occorre accertare che non è ravvisabile alcuna possibilità di ricostruzione della comunione coniugale, e la sussistenza dei presupposti di cui agli art. 1 e 3 n. 2, lett. b), l. n. 898 del 1970 (Trib. Genova, IV, 11 luglio 2012, n. 2601, in Guida al diritto 2012, 38, 66).

Cenni processuali

 In attuazione della legge delega 26 novembre 2022, n. 206, il d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, di riforma del processo civile, ha modificato in modo rilevante la disciplina processuale dello scioglimento del matrimonio e della cessazione degli effetti civili del matrimonio. A decorrere dal 28 febbraio 2023 e per i procedimenti instaurati dopo tale data è abrogato l'art. 4 legge divorzio (che conteneva la disciplina processuale, attualmente in vigore soltanto per i procedimenti pendenti alla data citata) e il giudizio di divorzio segue le forme del rito unificato per le controversie in materia di stato delle persone, di minori e di famiglia, di cui agli artt. 473-bis e seguenti c.p.c. In primo grado la competenza spetta al tribunale del luogo di residenza del convenuto, del luogo di residenza dell'attore se il convenuto è irreperibile o residente all'estero ed a qualunque tribunale della Repubblica se l'attore risiede all'estero; tuttavia, se devono essere adottati provvedimenti che riguardano un minore, è competente per territorio il tribunale del luogo in cui il minore ha la residenza abituale. Se vi è stato trasferimento del minore non autorizzato e non è decorso un anno, è competente il tribunale del luogo della sua ultima residenza abituale prima del trasferimento. La domanda introduttiva è proposta con ricorso; il giudizio è deciso con sentenza. Gli artt. 473-bis.47 e seguenti, inseriti nel codice di procedura civile, apportano notevoli modifiche alle disposizioni processuali già dettate dalla l. 1 dicembre 1970, n. 898. Tra esse, la soppressione dell'udienza dinanzi al presidente del tribunale per il tentativo di conciliazione.

Può ancora ricordarsi quanto era stato affermato a proposito dell'unitarietà del procedimento sia per quanto riguarda lo scioglimento del matrimonio civile e sia relativamente alla cessazione degli effetti del matrimonio religioso.

 Dalla struttura sostanziale dell'istituto derivano conseguenze sul piano processuale, connesse al fatto che sia lo scioglimento che la cessazione degli effetti civili si fondano sui medesimi presupposti e producono gli stessi effetti; sicché l'erroneo riferimento, in ricorso, all'una causa di divorzio non preclude la pronuncia per l'altra formula, una volta riscontrata la sussistenza dei presupposti formali e sostanziali, risolvendosi in una mera specificazione della domanda originaria: la disciplina dello scioglimento del matrimonio contratto a norma del codice civile e quella della cessazione degli effetti civili conseguenti alla trascrizione del matrimonio celebrato con rito religioso è identica nei presupposti e negli effetti; non rileva, pertanto, ai fini della «mutatio libelli» che la domanda di divorzio sia presentata come scioglimento di matrimonio concordatario o come cessazione del matrimonio civile, dovendo il giudice fare riferimento al «petitum» ed alla «causa petendi» sostanziali ed effettivi; (Cass. I, n. 9236/2012, in Foro it. 2012, 11, 2956, con nota CASABURI; Cass. n. 12621/2012). In questo senso già Cass. S.U. n. 1332/1974. Per Cass. n. 9236/2012, non sarebbe legittimo il rifiuto da parte dell'ufficiale dello stato civile di effettuare la prescritta annotazione sull'atto di matrimonio se erroneamente nella sentenza si parlasse di scioglimento in caso di cessazione degli effetti civili o viceversa.

Bibliografia

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