Codice Civile art. 269 - Dichiarazione giudiziale di paternità e maternità 1 2 .

Valeria Montaruli
Francesco Bartolini

Dichiarazione giudiziale di paternità e maternità 1  2.

[I]. La paternità e la maternità  3 possono essere giudizialmente dichiarate nei casi in cui il riconoscimento è ammesso [250 ss., 253].

[II]. La prova della paternità e della maternità può essere data con ogni mezzo [30 4 Cost.].

[III]. La maternità è dimostrata provando l'identità di colui che si pretende essere figlio e di colui che fu partorito dalla donna, la quale si assume essere madre.

[IV]. La sola dichiarazione della madre e la sola esistenza di rapporti tra la madre e il preteso padre all'epoca del concepimento non costituiscono prova della paternità4 .

 

[1] L’art. 7, d.lg. 28 dicembre 2013, n. 154, ha sostituito il Titolo, modificando la rubrica del Titolo (la precedente era «Della filiazione»), e sostituendo la rubrica del paragrafo 2 della sezione I del capo II del libro primo del codice civile «Della dichiarazione giudiziale della paternità e della maternità naturale», con: «Capo V. "Della dichiarazione giudiziale della paternità e della maternità"»

[2] Articolo così sostituito dall'art. 113 l. 19 maggio 1975, n. 151.

[3] L'art. 30, d.lg. 28 dicembre 2013, n. 154, ha soppresso la parola «naturale». Ai sensi dell’art. 108, d.lg. n. 154 del 2013, la modifica è entrata in vigore a partire dal 7 febbraio 2014.

[4] L'art. 30, d.lg. 28 dicembre 2013, n. 154, ha soppresso la parola «naturale». Ai sensi dell’art. 108, d.lg. n. 154 del 2013, la modifica è entrata in vigore a partire dal 7 febbraio 2014.

Inquadramento

La disciplina della dichiarazione giudiziale di paternità e di maternità di cui agli artt. 269 e ss. c.c., non ha subito nel tempo rilevanti modifiche, al di là di quelle terminologiche imposte dalla riforma di cui al d.lgs. n. 154/2013. L'unica innovazione da citare è costituita dalla possibilità, ai sensi dell'art. 276 c.c., in mancanza di eredi del figlio di genitori non coniugati, di esperire la stessa azione nei confronti di un curatore speciale nominato dal giudice davanti al quale il giudizio deve essere promosso. È anche prevista dall'art. 273 c.c., la possibilità per il giudice di nominare un curatore speciale per l'esperimento dell'azione nell'interesse del minore. In generale, anche con riferimento alle altre azioni di stato, è prevista la possibilità di nomina di un curatore speciale per il caso di conflitto di interessi tra rappresentante e rappresentato. Su questa linea ha poi proceduto la riforma del processo civile dovuta alla legge delega 26 novembre 2001, n. 206, e al d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, con la modifica degli artt. 78 e 80 c.p.c. e l'introduzione del rito unificato familiare di cui agli artt. 473 e ss. c.p.c.

Già con la riforma del diritto di famiglia del 1975, era stato ampliato l'ambito di esperibilità dell'azione, sopprimendo le limitazioni che essa incontrava, e limitandola a casi tassativi previsti dalla legge, corrispondenti alla notoria convivenza more uxorio dei presunti genitori all'epoca del concepimento, ovvero all'indiretta risultanza della paternità da sentenza pronunciata ad altri fini, non equivoca dichiarazione scritta della propria paternità, o altre circostanze della generazione. In altri termini, con la riforma del 1975, il legislatore ha equiparato la sfera di applicazione della dichiarazione di paternità a quella del riconoscimento, determinando la scomparsa della categoria dei figli riconoscibili, ma non dichiarabili (Zaccaria, 2016, 627).

L'unico limite all'esperimento di quest'azione ricorre quando essa si ponga in contrasto con lo stato di figlio nel quale la persona si trova: in questo caso occorre preliminarmente che lo stato di figlio risultante dall'atto di nascita venga rimosso attraverso l'azione di disconoscimento della paternità, ovvero l'impugnazione del riconoscimento, o l'azione di contestazione dello stato di figlio (Sesta, 2015, 63). Sul punto, però, la Corte europea dei diritti dell'uomo (sez. I, n. 8790/2022) ha individuato un limite cui sottoporre il principio. Essa ha affermato che il divieto, previsto dalla legge italiana, di promuovere il giudizio di dichiarazione giudiziale della paternità nei confronti del proprio padre biologico fino a quando sia divenuta definitiva la pronuncia di disconoscimento del padre anagrafico si pone in contrasto con l'art. 8 della convenzione se il giudizio si protrae per un periodo di tempo eccessivo (dodici anni, nella specie) perché pone il figlio in stato di prolungata incertezza circa il suo status e lede il suo diritto all'identità personale.

Assume particolare rilevanza, come in tutta la materia dei rapporti giuridici familiari, la tutela degli interessi del minore, quando l'azione esercitata riguarda un soggetto minorenne.  In linea di principio si ritiene che la contrarietà all'interesse del minore sussiste in caso di concreto accertamento di una condotta del preteso padre che sarebbe tale da giustificare una dichiarazione di decadenza dalla responsabilità genitoriale, ovvero della prova dell'esistenza di gravi rischi per l'equilibrio affettivo e psicologico del minore e per la sua collocazione sociale, risultanti da fatti oggettivi, emergenti dalla pregressa condotta del padre; in mancanza di tali elementi l'interesse del minore all'accertamento della paternità deve essere ritenuto di regola sussistente (Cass. I, n. 16356/2018).

L'art. 269 rimanda alle fattispecie disciplinate dagli artt. 250 e 251 per quanto concerne i casi di ammissibilità dell'adozione. Una di queste fattispecie riguarda i figli incestuosi, un tempo dichiarati non riconoscibili.

In parallelo alle previsioni in materia di riconoscimento del figlio nato da genitori non coniugati, il nuovo art. 278 c.c., nella formulazione introdotta dal d.lgs. 28 dicembre 2013, n. 154, stabilisce che, quando il figlio sia nato da persone tra le quali esiste un vincolo di parentela in linea retta all'infinito o in linea collaterale nel secondo grado, ovvero un vincolo di affinità in linea retta (i cosiddetti figli incestuosi), l'azione per ottenere che sia giudizialmente dichiarata la paternità o la maternità non possa essere promossa senza previa autorizzazione ai sensi dell'art. 251 c.c. Nell'ipotesi in cui la predetta autorizzazione venga negata sulla base della ritenuta contrarietà all'interesse del figlio dell'accertamento giudiziale dello status, resterà la possibilità di agire a norma dell'art. 279 c.c., che, a tutt'oggi, continua a prevedere una tutela residuale invocabile in ogni caso in cui non può proporsi l'azione per la dichiarazione giudiziale di paternità e maternità; e poiché tale ultima azione trova il suo presupposto nell'ammissibilità del riconoscimento, la predetta tutela potrà senz'altro essere invocata anche qualora l'autorizzazione al riconoscimento del figlio nato da incesto non sia stata accordata (Ferrando, 2006, 228). Cass. I, n. 9222/2025 ha incidentalmente affrontato la questione di illegittimità costituzionale dell'art. 269 c.c. che crea una siffatta disparità di trattamento, denunciata come ingiusta e irrazionale. Nel dichiararla irrilevante per il caso di specie, la Corte ha osservato che l'asserita diversità si fonda sulla concreta differenza di situazioni di fatto.

Peraltro, pur dopo la riforma, continua a sussistere una differenza in relazione alle modalità di attribuzione dello stato di filiazione, atteso che il matrimonio comporta l'automatica attribuzione dello stato di figlio di entrambi i coniugi, qualora invece i figli siano stati concepiti fuori dal matrimonio, l'accertamento della filiazione, anche successivamente alla riforma, avviene attraverso un atto volontario di riconoscimento, ovvero in mancanza, attraverso un accertamento giudiziale, sicché il matrimonio mantiene la sua attitudine all'automatica attribuzione dello stato di filiazione (Sesta, 2014, 1).

Con riferimento alla procreazione medicalmente assistita, la l. 19 febbraio 2004, n. 40, prevede che i nati a seguito dell'applicazione di quelle tecniche hanno lo stato di figli nati nel matrimonio o di figli riconosciuti della coppia che ha espresso la volontà di ricorrere alle tecniche medesime (art. 9 comma 3), dall'altro che in caso di applicazione di tecniche di tipo eterologo, il donatore di gameti non acquisisce alcuna relazione giuridica parentale con il nato (art. 4 comma 3). L'ipotesi di fecondazione eterologa rappresenta l'unico caso in cui il legame biologico non è idoneo ai fini della dichiarazione di genitorialità (Sesta, 2015, 363).

Lo stesso riconoscimento di figlio naturale di un minore concepito mediante il ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo da parte di una donna legata da unione civile con quella che lo ha partorito ma non avente alcun legame biologico con il minore si pone in contrasto con l'art. 4 l. n. 40/2020 (Cass. I n. 8029/2020).

A proposito del riconoscimento dell'efficacia di un provvedimento giurisdizionale straniero con il quale era stato accertato il rapporto di filiazione tra un minore nato all'estero mediante il ricorso alla maternità surrogata e il genitore d'intenzione munito della cittadinanza italiana, le Sezioni unite della Corte di cassazione (Cass. S.U. n. 12193/2019) hanno affermato che esso trova ostacolo nel divieto di surrogazione di maternità previsto dall'art. 12, comma 6, della l. n. 40/2004, qualificabile come principio di ordine pubblico, in quanto posto a tutela di valori fondamentali quali la dignità della gestante e l'istituto dell'adozione; la tutela di tali valori, non irragionevolmente ritenuti prevalenti sull'interesse del minore, nell'ambito di un bilanciamento effettuato direttamente dal legislatore, al quale il giudice non può sostituire la propria valutazione, non esclude peraltro la possibilità di conferire comunque rilievo al rapporto genitoriale mediante il ricorso ad altri strumenti giuridici, quali l'adozione in casi particolari, prevista dall'art. 44, comma 1, lett. d), della l. n. 184 del 1983. Nella vicenda esaminata, l'ufficiale di stato civile aveva rifiutato la trascrizione nei registri del provvedimento giurisdizionale straniero. Le Sezioni unite hanno precisato che tale rifiuto dava luogo, se non determinato da vizi formali, ad una controversia sullo stato personale, da risolversi mediante il procedimento disciplinato dall'art. 67 della l. n. 218 del 1995 in contraddittorio con il sindaco, nella sua qualità di ufficiale dello stato civile destinatario della richiesta di trascrizione, litisconsorte necessario il Pubblico ministero, ed eventualmente con il Ministero dell'interno, legittimato a spiegare intervento in causa e ad impugnare la decisione in virtù della competenza attribuitagli in materia di tenuta dei registri di stato civile.

A proposito dell'applicabilità delle norme sul riconoscimento disposta dall'art. 269, la Corte costituzionale, già prima della riforma del 2012 e 2013, aveva dichiarato costituzionalmente illegittimo l'art. 278 comma 1 c.c, nella parte in cui escludeva la dichiarazione giudiziale della paternità e della maternità naturali e le relative indagini, nei casi in cui, a norma dell'art. 251 comma 1 c.c., era vietato il riconoscimento dei figli incestuosi (Corte cost. n. 494/2002). La Corte argomentava che, seguito della riforma del diritto di famiglia del 1975, mentre veniva eliminata la discriminazione nei confronti dei figli nati da una relazione extraconiugale, estendendo senza limiti la portata dell'art. 252 c.c che aveva introdotto il riconoscimento dei figli allora denominati «adulterini», ma solo da parte del genitore che, all'epoca del concepimento, fosse libero da vincoli matrimoniale, permaneva tuttavia l'esclusione dal riconoscimento e dalla dichiarazione giudiziale di paternità e maternità dei figli incestuosi. La Corte riteneva discriminatoria tale limitazione, argomentando che dalla disciplina testé indicata derivava, in danno della prole nata da genitori legati dai rapporti familiari indicati dall'art. 251 c.c., una capitis deminutio perpetua e irrimediabile, come conseguenza oggettiva di comportamenti di terzi soggetti; una discriminazione compendiata, anche nel lessico del legislatore, nell'espressione ‘figli incestuosi', espressione scomparsa a seguito della riforma del 2013.

Il regime di tassatività dei casi cui era esperibile l'azione di dichiarazione giudiziale della paternità, sempre per effetto del richiamo alle norme sul riconoscimento, è stato caducato dalla Corte costituzionale, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 274 c.c., che prevedeva un preventivo giudizio di delibazione in ordine all'ammissibilità dell'azione per la dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale, per violazione degli art. 3, comma 2, 24 e 111 Cost. (Corte cost. n. 50/2006).

La Corte costituzionale aveva già in precedenza dichiarato l'illegittimità costituzionale parziale dell'art. 274 c.c. Analiticamente, devono ricordarsi:

- Corte cost. n. 70/1965 che aveva deciso che l'art. 274 c.c. è illegittimo costituzionalmente per la parte del comma 2 in cui esclude la necessità che la decisione abbia luogo in contraddittorio e con assistenza dei difensori; per la parte del comma 3 in cui dispone la segretezza della inchiesta nei confronti delle parti;

- Corte cost. n. 341/1990 secondo cui, una volta trasferita al tribunale per i minorenni la competenza a giudicare sull'azione di dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale, per effetto dell'art. 38 disp. att. c.c. modificato dall'art. 68 l. 4 maggio 1983 n. 184, non sussisteva ragionevole motivo per non consentire al giudice di valutare l'interesse del minore alla richiesta del genitore esercente la potestà (oggi responsabilità genitoriale) alla dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale, come è invece previsto nell'omologo caso in cui il genitore, che per primo ha riconosciuto il figlio naturale, si opponga al riconoscimento dell'altro coniuge, ai sensi dell'art. 250 c.c.; pertanto, dichiarava l'art. 274, comma 1, c.c. incostituzionale per violazione dell'art. 3 Cost., nella parte in cui, nel caso di genitore esercente la potestà, che proponga azione di dichiarazione giudiziale di paternità o maternità dell'altro genitore, nell'interesse del figlio infrasedicenne, non stabilisce che il giudice debba valutare se l'azione proposta risponda all'interesse del minore.

Da ultimo, quanto ai rapporti tra azione di disconoscimento della paternità e azione di dichiarazione giudiziale di paternità intercorrenti tra diversi soggetti, Cass. S.U., n. 8268/2023 ha confermato l'orientamento secondo cui l'accertamento con il quale viene rimosso (o mantenuto) lo stato di figlio legittimo è pregiudiziale rispetto a quello con cui è rivendicato altra paternità: detto accertamento ha efficacia ultra partes e retroattiva e non può non riverberarsi sul giudizio di accertamento pendente determinando, nel caso di vittorioso esperimento dell'azione di disconoscimento, il definitivo venir meno di quella condizione (di figlio legittimo) che era originariamente ostativa all'accoglimento della domanda di dichiarazione giudiziale di paternità. Tra le due cause è dato quindi di ravvisare un nesso di pregiudizialità in senso tecnico-giuridico: ciò in corrispondenza della ratio dell'istituto della sospensione per pregiudizialità, che è quella di evitare il rischio di un conflitto tra giudicati (per tutte: Cass. VI, n, 17392/2018; Cass. I, n. 5229/2016). Infatti, la nominata sospensione è idonea proprio ad evitare che la domanda di dichiarazione giudiziale di paternità sia, in ipotesi, accolta laddove, per effetto del rigetto dell'azione di disconoscimento, non potrebbe esserlo: e cioè proprio ad escludere, in una tale ipotesi, pronunce contrastanti. Sul piano dei rapporti tra i due giudizi, va escluso che la rimozione dello status di figlio legittimo costituisca un presupposto processuale della domanda, insuscettibile, come tale, di sopravvenire nel corso del giudizio, e tale da imporre, in conseguenza, una pronuncia di inammissibilità della domanda stessa pur in pendenza del giudizio diretto al disconoscimento della paternità. Si era anche chiarito che chi afferma di essere il padre biologico di un figlio nato in costanza di matrimonio non può agire per l'accertamento della propria paternità se prima non viene rimosso lo status di figlio matrimoniale con una statuizione che abbia efficacia erga omnes, non essendo consentito un accertamento in via incidentale su una questione di stato della persona e – pur non essendo legittimato a proporre l'azione di disconoscimento di paternità né potendo intervenire in tale giudizio o promuovere l'opposizione di terzo contro la decisione ivi assunta – in qualità di «altro genitore», può comunque chiedere, ai sensi dell'art. 244, comma 6, la nomina di un curatore speciale che eserciti la relativa azione nell'interesse del presunto figlio infraquattordicenne (Cass. I, n.27560/2021).

Si era anche chiarito che chi afferma di essere il padre biologico di un figlio nato in costanza di matrimonio non può agire per l'accertamento della propria paternità se prima non viene rimosso lo status di figlio matrimoniale con una statuizione che abbia efficacia erga omnes, non essendo consentito un accertamento in via incidentale su una questione di stato della persona e – pur non essendo legittimato a proporre l'azione di disconoscimento di paternità né potendo intervenire in tale giudizio o promuovere l'opposizione di terzo contro la decisione ivi assunta – in qualità di «altro genitore», può comunque chiedere, ai sensi dell'art. 244, comma 6, la nomina di un curatore speciale che eserciti la relativa azione nell'interesse del presunto figlio infraquattordicenne (Cass. I, ord. n.27560/2021). Si è poi precisato che le azioni per il disconoscimento della paternità e per la dichiarazione giudiziale di paternità, pur connotate da un rapporto di pregiudizialità sostanziale, mantengono una loro autonomia in relazione alle disposizioni cha affidano la rappresentanza processuale del minore, parte sostanziale in entrambi i procedimenti, a soggetti differenti e distinti, con la conseguenza che nei confronti di ciascuno di essi maturano gli effetti processuali dei due distinti giudizi, in ragione del diverso atteggiarsi dell'interesse del minore (Cass. I, ord. n. 29843/2024). La Corte europea dei diritti dell'uomo (sez. I, 6/12/2022, n. 8790) ha avvertito: “.. il divieto, previsto dalla legge italiana, di promuovere il giudizio di dichiarazione giudiziale della paternità nei confronti del proprio padre biologico fino a quando sia divenuta definitiva la pronuncia di disconoscimento del padre anagrafico, allorchè tale ultimo giudizio si protragga per un periodo di tempo eccessivo (nella specie, dodici anni), in assenza di misure volte all'accelerazione di tale procedimento, pone il figlio in stato di prolungata incertezza circa lo status e, ledendo il diritto alla propria identità personale, e quindi al rispetto della sua vita familiare, si pone in contrasto con l'art. 8 della Convenzione.

La Corte di cassazione aveva già in epoca risalente respinto ogni dubbio di legittimità costituzionale della disposizione in esame, sotto il profilo delle ampliate possibilità di accertamento della filiazione e dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 269, comma secondo, c.c. in riferimento all'art. 30, ultimo comma Cost.; infatti, essa aveva affermato, il principio della libertà della prova nella ricerca della paternità naturale, di cui all'art. 269, comma 2, c.c. non si pone in contrasto con la l'art. 30 Cost, Questa disposizione fa carico al legislatore ordinario di fissare limiti all'indagine suddetta, atteso che questa disposizione costituzionale trova adeguata attuazione, per quanto riguarda le limitazioni attinenti al regime probatorio, nell'ultimo comma del citato art. 269 c.c., il quale sottrae al giudice la possibilità di fondare il suo convincimento sulla sola dichiarazione della madre o sulla sola esistenza di rapporti fra la madre ed il preteso padre all'epoca del concepimento (Cass I, n. 5141/1992). In senso analogo, la Cassazione aveva altresì stabilito che in tema di dichiarazione giudiziale della paternità naturale, l'art. 269 comma 2 c.c. (nuovo testo), il quale ammette ogni mezzo di prova, manifestamente non contrasta con l'art. 30, comma 4, Cost., che, nell'affidare al legislatore ordinario la fissazione di limiti sulla ricerca della paternità, non pone in proposito canoni predeterminati (Cass. I, n. 3298/1988). Analoga affermazione di manifesta infondatezza è stata pronunciata da Cass. I, n. 32308/2018 in relazione all'art. 269 nella parte in cui attribuisce la paternità naturale in base al mero dato biologico senza alcun riguardo alla volontà contraria alla procreazione del presunto padre: sull'assunto della disparità di trattamento che ne risulterebbe in danno dell'uomo rispetto alla donna, alla quale la l. sull'interruzione della gestazione attribuisce la responsabilità esclusiva di interrompere la gravidanza ove ne ricorrano le condizioni giustificative. E ciò in quanto le situazioni poste a confronto non sono comparabili, non potendo l'interesse della donna all'interruzione della gravidanza essere assimilato all'interesse di chi, rispetto alla avvenuta nascita del figlio fuori dal matrimonio, pretenda di sottrarsi, negando la propria volontà diretta alla procreazione, alla responsabilità di genitore, in contrasto con la tutela che la Costituzione all'art. 30 riconosce alla filiazione naturale.

La prova della paternità

 

Libertà della prova

Qualora i genitori siano uniti in matrimonio, il rapporto di filiazione, sia nei confronti della madre, sia nei confronti del di lei marito, reputandosi il matrimonio idoneo ad attribuire al marito della madre la qualità giuridica di padre ( art. 231 c.c. ), si costituisce infatti in modo pressoché automatico; automaticità che può essere esclusa nel solo caso in cui la madre abbia deciso di avvalersi della facoltà di non essere nominata, così come consentito dall' art. 30, comma 1, d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 . Per contro, qualora i genitori non siano uniti in matrimonio, il rapporto di filiazione si instaura in maniera distinta e autonoma nei confronti di ciascuno di essi, in forza di un atto spontaneo e volontario, il riconoscimento ( art. 250 c.c .), che potrà provenire da entrambi o da uno solo, ovvero in forza del positivo accertamento in sede giudiziale del rapporto di paternità o di maternità, e comunque solo dopo la previa rimozione dello stato di figlio legittimo già costituito (Bianca C.M., 2014, 389).

Con riferimento alla prova della paternità, l' art. 269, comma 2, c.c. , non toccato dalla riforma della filiazione del 2013 e neppure dalla riforma del processo civile di cui l d.lgs. n. 149/2022 , prevede che tale prova, così come quella della maternità, può essere data con ogni mezzo. In assenza di limitazioni, giusta quanto previsto dal citato art. 269, comma secondo, c.c ., tale prova può essere anche indiretta e indiziaria ed essere raggiunta attraverso una serie di elementi presuntivi che, valutati nel loro complesso e sulla base del canone dell'id quod plerumque accidit, risultino idonei, per la loro attendibilità e concludenza, a fornire la dimostrazione completa e rigorosa della paternità (Di Nardo, 2002, 120). Con riguardo alla prova della paternità, l'attenzione degli interpreti si è particolarmente concentrata sulle prove ematologiche e genetiche, che, grazie ai progressi conseguiti in ambito scientifico, consentono ormai da tempo di addivenire a risultati connotati da un alto grado di probabilità anche in positivo (Ferrando, 1996, 725; Tucci, 2004, 453); oggigiorno è possibile individuare l'autore del concepimento con un grado di probabilità pressoché equivalente alla certezza assoluta (Sesta, 2011, 284). Si è dunque superata, a seguito dell'evoluzione giurisprudenziale sul punto, la tradizionale diffidenza che accompagnava le prove ematologiche e scientifiche (Dogliotti, 2015, 406). Si rimanda, in proposito, al commento relativo alle norme sul disconoscimento del figlio. In questa sede è sufficiente ricordare le pronunce di Cass. I, ord. n. 22498/2021 (“ … la consulenza tecnica ematologica è lo strumento officioso indefettibilmente finalizzato a compiere la sola indagine decisiva in punto accertamento della verità del rapporto di filiazione; la sua richiesta non può, pertanto, essere ritenuta esplorativa, dovendosi intendere come tale soltanto l'istanza volta a supplire le deficienze allegatorie ed istruttorie di parte così da aggirare il regime dell'onere della prova sul piano sostanziale o i tempi di formulazione delle richieste istruttorie sul piano processuale”); di Cass. I, n. 14916/2020 («In materia di paternità e maternità, la consulenza tecnica ha funzione di mezzo oggettivo di prova e costituisce lo strumento più idoneo, avente margini di sicurezza elevatissimi, per l'accertamento del rapporto di filiazione; non è un mezzo per valutare elementi di prova offerti dalle parti ma costituisce strumento per l'acquisizione della conoscenza del rapporto di filiazione»), diCass. I, ord. n. 22498/2021 (“… la richiesta non può essere ritenuta esplorativa, dovendosi intendere come tale soltanto l'istanza rivolta a supplire le deficienze allegative ed istruttorie di parte, così da aggirare il regime dell'onere della prova sul piano sostanziale o i tempi di formulazione delle richieste istruttorie sul piano processuale”)  e di Cass. I, n. 16128/2019 («L'accertamento immuno-ematologico per l'accertamento della paternità non è subordinato alla prova dell'esistenza di una relazione; e il rifiuto ingiustificato a sottoporvisi, ai sensi dell' art. 116 c.p.c. è suscettibile di essere valutato come ammissione»).

La prova della filiazione è comunque libera e non sopporta né limitazioni, né gerarchie. Ciò significa che l'indagine del giudice non è più limitata ad accertare le singole ipotesi tassativamente indicate dalla legge e può avvalersi di qualunque mezzo probatorio, come la testimonianza o le presunzioni (Ferrando, 2009, 431).

La disciplina del nuovo rito unificato in materia di stato delle persone, di famiglia e di minori introdotto dal d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149 (applicabile ai procedimenti instaurati dopo il 28 febbraio 2023, data della sua entrata in vigore) ha attribuito al giudice, a tutela del minore, il potere d'ufficio di adottare i provvedimenti opportuni in deroga all'art. 112 c.p.c., e di disporre mezzi di prova al di fuori dei limiti di ammissibilità previsti dal codice civile, nel rispetto del contraddittorio e della prova contraria.

La Corte di Cassazione (v. Cass. I, n. 11887/2015;Cass. I, n. 21980/2012) è in linea con la giurisprudenza costituzionale, la quale ha evidenziato la crescente considerazione del favor veritatis, la cui ricerca risulta agevolata dalle avanzate acquisizioni scientifiche nel campo della genetica e dall'elevatissimo grado di attendibilità dei risultati delle indagini (Corte cost. n.50/2006. e Corte cost. n.266/2006): la verità biologica della procreazione costituisce una componente essenziale dell'interesse della persona, che si traduce nella esigenza di garantire ad essa il diritto alla propria identità e, segnatamente, alla affermazione di un rapporto di filiazione veridico (Corte cost. n. 7/2012 e Corte cost. n. 322/2011). Il diritto del figlio ad uno status filiale corrispondente alla verità biologica costituisce una delle componenti più rilevanti del diritto all'identità personale che accompagna senza soluzione di continuità la vita individuale e relazionale, non soltanto nella minore età, ma in tutto il suo svolgersi.

L'attitudine delle prove genetiche ad offrire un valido contributo ai fini del positivo accertamento del rapporto di paternità o maternità, pur in combinazione con tutti gli altri elementi extrascientifici acquisiti attraverso le prove testimoniali e documentali, fu affermato per la prima volta da Cass. I, n. 6400/1980.

La suprema Corte, peraltro, in ragione dell'elevato livello di affidabilità raggiunto dalle prove tecniche, giustifica senz'altro l'ammissione delle stesse anche in assenza di una prova certa circa la reale natura dei rapporti intercorrenti tra le parti (Cass. I, n. 10377/1997; Cass. I, n. 6550/1995) ed afferma a chiare lettere, nelle pronunce più recenti, che deve escludersi qualsiasi subordinazione dell'ammissione degli accertamenti immuno-ematologici all'esito della prova storica sull'esistenza di un rapporto sessuale tra il presunto padre e la madre di quest'ultimo. In particolare, l'accertamento immuno-ematologico non è subordinato alla prova dell'esistenza di una relazione (sul punto Cass. I, ord. n. ha avvertito che l'ammissione degli accertamenti immuno-ematologici non è subordinata all'esito della prova storica dell'esistenza di un rapporto sessuale tra il presunto padre e la madre, giacché il principio della libertà di prova, sancito, in materia, dall'art. 269, comma 2, c.c., non tollera surrettizie limitazioni, né mediante la fissazione di una gerarchia assiologica tra i mezzi istruttori idonei a dimostrare quella paternità, né, conseguentemente, mediante l'imposizione, al giudice, di una sorta di "ordine cronologico" nella loro ammissione ed assunzione, avendo, per converso, tutti i mezzi di prova pari valore per espressa disposizione di legge, e risolvendosi una diversa interpretazione in un sostanziale impedimento all'esercizio del diritto di azione in relazione alla tutela di diritti fondamentali attinenti allo status); e il rifiuto a sottoporvisi è suscettibile di essere valutato come ammissione, ai sensi dell'art. 116 c.p.c. (Cass. I, n. 16128/2019). Il principio della libertà di prova, sancito in materia dall'art. 269, secondo comma, c.c., non tollera invero surrettizie limitazioni, né mediante la fissazione di una sorta di gerarchia tra i mezzi di prova idonei a dimostrare la paternità naturale, né, conseguentemente, mediante l'imposizione al giudice di una sorta di  ordine cronologico nella loro ammissione ed assunzione, a seconda del tipo di prova dedotta, avendo, per converso, tutti i mezzi di prova pari valore per espressa disposizione di legge (Cass. I, n. 14976/2007). Una diversa interpretazione si risolverebbe in un sostanziale impedimento all'esercizio del diritto di azione garantito dall'art. 24 Cost., in relazione ad un'azione volta alla tutela di diritti fondamentali attinenti allo status (Cass. I, n. 6694/2006; Cass. I n. 13655/2004; Cass. I n. 12194/2014). La consulenza tecnica avente ad oggetto l'accertamento della compatibilità immunogenetica tra figlio e preteso padre ha funzione di mezzo oggettivo di prova e costituisce lo strumento più idoneo, avente margine di sicurezza elevatissimi, per l'accertamento del rapporto di filiazione (Cass. I, n. 14916/2020); e  può essere disposta dal giudice anche d'ufficio, ove ritenuta indispensabile al raggiungimento della prova (Cass. I, n. 3479 /2016 e Cass. I n. 15157/2012, ove si legge che, sebbene  in linea generale, la consulenza tecnica di ufficio non possa essere disposta al fine di esonerare la parte dal relativo onere probatorio, quando non vi sia altro mezzo per giungere all'accertamento richiesto che quello di demandarlo a chi sia dotato di speciali competenze tecniche, il giudice può incaricare il consulente non solo di valutare i fatti accertati o dati per esistenti (consulenza deducente), ma anche di accertare i fatti stessi (consulenza percipiente). Anche la compatibilità immunogenetica costituisce possibile elemento di prova della procreazione, che però esula dalla disponibilità della parte e che non può essere acquisito se non attraverso l'espletamento di una ctu. Si tratta, oltretutto, di elemento d'indagine implicitamente e necessariamente connesso alla proposizione della domanda, non essendo possibile che fra padre e figlio non via sia compatibilità. Ne consegue che la mancata, esplicita allegazione del tema non preclude al giudice di affidare d'ufficio l'indagine al ctu, qualora la ritenga indispensabile al raggiungimento della prova (che, ai sensi dell'art. 269 c.c., può essere data con ogni mezzo).

Gli elementi presuntivi desumibili dal comportamento della parte

L'art. 269, comma quarto, c.c. — secondo il quale la sola dichiarazione della madre e la sola esistenza di rapporti tra questa ed il preteso padre all'epoca del concepimento non costituiscono prova della paternità naturale — non esclude che tali circostanze, nel concorso di altri elementi, anche presuntivi, possano essere utilizzate a sostegno del proprio convincimento dal giudice del merito (Cass. I, n. 12646/2012).

La Cassazione, anche da ultimo, ha affermato che nel giudizio promosso per l'accertamento della paternità, il rifiuto di sottoporsi all'esame ematologico costituisce un comportamento valutabile dal giudice, ex art. 116, secondo comma, c.p.c., di così elevato valore indiziario da poter da solo consentire la dimostrazione della fondatezza della domanda (Cass. VI, ord. n. 28886/2019; Cass. I, n. 24694/2016; Cass. I n. 6025/2015). La valutazione circa il carattere ingiustificato del rifiuto di sottoporsi a tale esame costituisce un apprezzamento di fatto non censurabile in sede di legittimità. Conseguentemente, il suddetto rifiuto non può ritenersi giustificato da possibili violazioni della normativa a tutela della privacy, tenuto conto sia del fatto che l'uso dei dati nell'ambito del giudizio è rivolto a fini di giustizia, sia del fatto che il sanitario che procede all'accertamento è tenuto al segreto professionale e al rispetto dell'anzidetta legge (Cass. I, n. 3479/2016, e Cass. I, n. 13766/2001). D'altra parte, il mero rifiuto di sottoporsi all'esame del DNA non può ritenersi comportamento idoneo ad integrare dolo processuale tale da sviare la difesa avversaria ed impedire al giudice l'accertamento della verità (Cass. I, n. 25317/2015). Resta fermo che in tema di indagini genetiche disposte nell'ambito dei procedimenti di status, nella specie di dichiarazione giudiziale di paternità, il consulente tecnico d'ufficio deve osservare le linee guida in materia predisposte dalle principali associazioni internazionali e condivise dalla comunità tecnico- scientifica dei genetisti forensi, in quanto volte ad assicurare risultati attendibili e verificabili (Cass. I, n. 16229/2015).

In senso conforme, la Cassazione ha dichiarato altresì manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale - per violazione degli artt. 13152430 e 32 Cost. - del combinato disposto degli artt. 269 c.c. e 116 e 118 c.p.c., ove interpretato nel senso della possibilità di dedurre argomenti di prova dal rifiuto del preteso padre di sottoporsi a prelievi ematici al fine dell'espletamento dell'esame del DNA. Invero, dall'art. 269 c.c. non deriva una restrizione della libertà personale, avendo il soggetto piena facoltà di determinazione in merito all'assoggettamento o meno ai prelievi, mentre il trarre argomenti di prova dai comportamenti della parte costituisce applicazione del principio della libera valutazione della prova da parte del giudice, senza che ne resti pregiudicato il diritto di difesa, e, inoltre, il rifiuto aprioristico della parte di sottoporsi ai prelievi non può ritenersi giustificato nemmeno con esigenze di tutela della riservatezza, tenuto conto sia del fatto che l'uso dei dati nell'ambito del giudizio non può che essere rivolto a fini di giustizia, sia del fatto che il sanitario chiamato dal giudice a compiere l'accertamento è tenuto tanto al segreto professionale che al rispetto della legge 31 dicembre 1996, n. 675 (Cass. VI, n. 14458/2018).

Sempre in applicazione del principio della libertà di acquisizione e valutazione dei mezzi di prova, si è affermato che nel giudizio promosso per la dichiarazione giudiziale di paternità naturale, l'efficacia delle indagini ematologiche ed immunogenetiche sul DNA non può essere esclusa perché esse sono suscettibili di utilizzazione solo per compiere valutazioni meramente probabilistiche, in quanto tutte le asserzioni delle scienze fisiche e naturalistiche hanno questa natura anche se espresse in termini di “leggi”, e tutte le misurazioni, anche quelle condotte con gli strumenti più sofisticati, sono ineluttabilmente soggette ad errore, sia per ragioni intrinseche (cosiddetto errore statistico), che per ragioni legate al soggetto che esegue o legge le misurazioni (cosiddetto errore sistematico), spettando al giudice di merito, nell'esercizio del suo potere discrezionale, la valutazione dell'opportunità di disporre indagini suppletive o integrative di quelle già espletate, di sentire a chiarimenti il consulente tecnico di ufficio, ovvero di disporre la rinnovazione delle indagini (Cass. I, n. 6025/2015).

Altro profilo esaminato dalla giurisprudenza riguarda l'ammissibilità delle prove biologiche qualora il presunto genitore sia deceduto. In contrasto con un orientamento più risalente, la Cassazione ha stabilito che le indagini genetiche hanno un valore decisivo nei giudizi di filiazione e non solo meramente integrativo di risultanze acquisite altrimenti, anche in un caso in cui il decesso del presunto padre si era verificato molti anni prima (Cass. I n. 10007/2008). È stato altresì affermato che deve escludersi la necessità del consenso dei congiunti per l'espletamento della consulenza tecnica sul DNA della persona deceduta, non essendo configurabile un loro diritto soggettivo sul corpo di quest'ultima, in quanto non è previsto da alcuna disposizione normativa il loro consenso per accertamenti da eseguire per finalità di giustizia (Cass. I, n. 12549/2012).

Le prove indirette

Con riferimento alle prove indirette, poiché il legislatore consente di raggiungere la prova con ogni mezzo, implicitamente autorizza il giudice a ritenerla raggiunta non solo quando si faccia ricorso alle prove scientifiche, bensì ogni qualvolta si dimostri una delle ipotesi previste dalla legge antecedentemente alla riforma del 1975; tuttavia, mentre all'epoca dette fattispecie, ovvero la convivenza tra i presunti genitori al momento del concepimento, la paternità o la maternità risultante da sentenza definitiva civile o penale, l'esistenza di una inequivoca dichiarazione scritta del presunto padre, il ratto o la violenza carnale all'epoca del concepimento, assumevano un carattere tassativo, oggi rappresentano solo circostanze sulla base delle quali il giudice può fondare il proprio convincimento, soprattutto quando non ricorrono eccezioni da parte del convenuto. Peraltro, anche ulteriori circostanze non tipizzate sono idonee a fondare il convincimento del giudice circa la paternità del presunto genitore (Farolfi, 2015, 1063). L'unico limite introdotto dall'art. 269 comma quarto c.c. è costituito dal divieto di provare la paternità esclusivamente sulla base delle dichiarazioni della madre, ovvero dalla mera esistenza di rapporti tra la madre e il preteso padre all'epoca del concepimento, dovendosi escludere che tali elementi, anche congiuntamente, esauriscano l'onere della prova (Majello, 1982, 179).

In definitiva, le nuove frontiere della prova nell'azione di reclamo sono segnate dal trattamento processuale dell'indagine biologica, che è stata elevata a elemento tendenzialmente risolutivo della controversia, alla luce del suo carattere di quasi certezza (Zaccaria, 2016, 269).

La giurisprudenza è consolidata nel ritenere l'insufficienza della sola dichiarazione della madre o della sola esistenza di rapporti tra la madre ed il presunto padre all'epoca del concepimento. Il giudice è dotato di ampio potere e può legittimamente basare il proprio apprezzamento in ordine all'esistenza del rapporto di filiazione, anche su risultanze probatorie indirette e indiziarie, facendole desumere altresì da elementi presuntivi. In particolare, il giudice può fondare il proprio convincimento sulla effettiva sussistenza di un rapporto di filiazione anche su risultanze istruttorie dotate di valore puramente indiziario, senza che assuma carattere di indefettibilità neppure la dimostrazione dell'esistenza di rapporti sessuali tra la madre ed il preteso padre durante il periodo del concepimento.  Sul punto si è affermato che la prova dell'esistenza di rapporti sessuali tra il presunto padre e la madre, nel periodo di concepimento del bambino, assume un elevato rilievo indiziario ma, ai sensi del disposto di cui all'art. 269, comma 4, c.c., non è sufficiente a provare la paternità, occorrendo anche l'accertamento almeno di un ulteriore dato indiziario che sia stato correttamente declinato dal giudice di merito nel suo nucleo essenziale, individuato senza decontestualizzazioni per una complessiva ed univoca lettura (Cass. I, ord. n. 7197/2019; nella specie, il giudice di merito non aveva tenuto conto del versamento di somme cospicue effettuato dal presunto padre alla madre né della dichiarazione di costui di essere pronto a sottoporsi all’indagine ematica. In particolare, sono stati ritenuti apprezzabili elementi presuntivi: (a) le lettere scritte dall'uomo alla madre del bambino, alcune delle quali indicanti l'inequivocabile convincimento di essere il padre del fanciullo; (b) le informazioni raccolte dai Carabinieri in sede di arruolamento del giovane, riferenti come dato notorio ed indiscusso nel piccolo paese che questi era figlio naturale del presunto padre, all'epoca già legato da vincolo matrimoniale; (c) la scomparsa della salma del presunto padre, avvenuta in pendenza del giudizio di dichiarazione giudiziale della paternità naturale, allorché era stata già disposta consulenza tecnica volta a conseguire le prove genetiche del DNA (Cass. I, n. 12656/2005). In particolare, si è ammesso anche il ricorso ad elementi presuntivi che, valutati nel loro complesso e sulla base del canone dell'id quod plerumque accidit, risultino idonei, per attendibilità e concludenza, a fornire la dimostrazione completa e rigorosa della paternità, sicché risultano utilizzabili, raccordando tra loro le relative circostanze indiziarie, sia l'accertato comportamento del preteso genitore che abbia trattato come figlio la persona a cui favore si chiede la dichiarazione di paternità (cd. «tractatus»), sia la manifestazione esterna di tale rapporto nelle relazioni sociali (cd. «fama»), sia, infine, le risultanze di una consulenza immuno-ematologica eseguita su campioni biologici di stretti parenti (nella specie, madre e fratello) del preteso genitore (Cass. I, n. 12166/2005).

Favorevole alla prova indiziaria in tema di mezzi utilizzabili per provare la paternità naturale, è pure, negli stessi termini, Cass. I. n. 1279/2014, ai sensi della quale l'art. 269 c.c. ammette anche il ricorso agli elementi presuntivi a cui si è fatto sopra riferimento (v. anche Cass. I, n. 7193/1997 e Cass. n. 110007/2008).

Per contro, la prova dell'esistenza di rapporti sessuali della madre con persona diversa dal convenuto non costituisce un'eccezione in senso proprio, ma solo un'allegazione difensiva volta a infirmare l'efficacia probatoria della relazione intima tra i pretesi genitori, sicché non si determina un'inversione dell'onere della prova, né è aggravato l'onere probatorio della parte attrice (Cass. I, n 24929/2007).

La dichiarazione di maternità

Con riferimento all'accertamento giudiziale della maternità, il legislatore afferma che la maternità è provata dimostrando l'identità di colui che pretende essere figlio e di colui che fu partorito dalla donna, la quale si assume essere sua madre (art. 239-terzo comma c.c.). Tuttavia, tale prova non costituisce l'unica ammissibile, potendosi dimostrare la maternità con ogni mezzo, così come accade con riferimento alla prova della paternità (Di Nardo, 2002, 440). Si afferma tuttavia che l'azione di dichiarazione della maternità non assume una grande rilevanza pratica, atteso che, qualora la madre non proceda al riconoscimento, detta circostanza comporta l'abbandono del figlio, sicché, ai sensi dell'art. 11 della l. 4 maggio 1983, n. 184, mancando il riconoscimento o la dichiarazione giudiziale di genitorialità in capo entrambi i genitori, il tribunale per i minorenni provvede immediatamente alla dichiarazione di adottabilità del minore e, a seguito di affidamento preadottivo e comunque una volta avvenuta l'adozione, è preclusa in maniera definitiva la dichiarazione di maternità. Una volta intervenuti la dichiarazione di adottabilità e l’affidamento preadottivo, il giudizio per la dichiarazione di paternità o maternità è sospeso di diritto e si estingue ove segua la pronuncia di adozione divenuta definitiva (Cass. VI, n. 11208/2020).

L'attribuzione alla madre biologica della facoltà di non essere nominata nell'atto di nascita, ai sensi dell'art. 28 l. 4 maggio 1983, n. 184, va raccordata con la previsione di cui all'art. 30 comma 1, d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, Nuovo ordinamento dello stato civile, ai sensi del quale la dichiarazione di nascita è resa da uno dei genitori, da un procuratore speciale, ovvero dal medico o dalla ostetrica o da altra persona che ha assistito al parto, rispettando l'eventuale volontà della madre di non essere nominata. Il d.m. 16 luglio 2001, n. 349 prevede che in caso di donna che vuole partorire in anonimato (figlio non riconosciuto o di filiazione ignota) sia indicato nel certificato di assistenza al parto, il codice 999 per «Donna che non vuole essere nominata».

Deve essere comunque assicurato un raccordo tra il certificato di assistenza al parto privo dei dati idonei a identificare la donna che non consente di essere nominata, con la cartella clinica custodita presso il luogo dove è avvenuto il parto. Ciò rende sempre tecnicamente possibile l'individuazione della madre biologica.

Sussiste una discrasia rispetto alla previsione contenuta nell'art. 9 l. 11 febbraio 2004, n. 40 sulla procreazione assistita, ai sensi del quale la madre del nato, a seguito dell'applicazione di tecniche di procreazione medicalmente assistita, non può manifestare la volontà di non essere nominata. Tale difformità non appare irragionevole, ma frutto dell'intento di responsabilizzare chi opera l'anzidetta scelta procreativa.

Permane la previsione contenuta nell'art. 93 del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196 (codice in materia di trattazione dei dati personali), secondo cui il diritto all'anonimato si conserva per cento anni dalla formazione del certificato di assistenza al parto o della cartella clinica, sicché tali documenti possono essere rilasciati in copia integrale a chi vi abbia interesse, in conformità alla legge, solo decorso tale periodo di tempo.

Con riferimento alla prova della maternità, si osserva che gli altri mezzi di prova diversi dal fatto storico del parto —compresi gli strumenti probatori scientifici —assumono rilievo secondario e ciò, in particolare, quando non sia possibile la prova dell'identità di colui che pretende di essere il figlio e di colui che fu partorito da donna che assume essere la madre, alla luce del fatto che, con l'evoluzione delle tecniche di fecondazione assistita, si è verificata una scissione tra la maternità genetica e la maternità «gestazionale» (Lena — Magli, 2015, 1066).

La tutela del diritto alla riservatezza della madre che abbia dichiarato di voler rimanere anonima, secondo gli sviluppi della giurisprudenza nazionale e sovranazionale, va contemperata con il diritto del figlio di accedere alle informazioni relative alle proprie origini. Il diritto alla conoscenza delle proprie origini biologiche e delle circostanze della propria nascita trova un sempre più ampio riconoscimento a livello internazionale e sovranazionale, essendo espressamente riconosciuto dalla Convenzione di New York del 20 novembre 1989 delle Nazioni Unite in materia di diritti dei minori dove, all'art. 7, si afferma che il minore ha diritto, nella misura del possibile, a conoscere i propri genitori sin dalla sua nascita. La Convenzione de L'Aja del 29 maggio 1993, relativa alla protezione dei minori e alla cooperazione in materia di adozione internazionale prevede, all'art. 30, che le autorità competenti s'impegnano a conservare le informazioni che detengono sulle origini del minore, specificamente quelle relative all'identità della madre e del padre, così come i dati sulla storia sanitaria del minore e della sua famiglia e assicurano l'accesso del minore o del suo rappresentante a queste informazioni nella misura prevista dalla legge del loro Stato. La Corte di cassazione (Cass. n. 19824/2020) ha affermato che in base ad una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 269 c.c. deve essere consentito al figlio biologico di donna che ha dichiarato di non voler essere nominata al momento del parto di promuovere l’azione volta all’accertamento dello status; diritto che prevale sulla tutela degli eredi, in particolare ove la donna abbia dimostrato nei fatti di aver superato l’originaria scelta dell’anonimato.

In proposito, si ricorda che gli artt. 60,76 e art. 85, comma 2, d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196 (Codice della privacy), a norma dei quali, ove il trattamento dei dati personali idonei a rivelare lo stato di salute riguardi dati e operazioni indispensabili per perseguire una finalità di tutela della salute o dell'incolumità fisica di un terzo, e manchi il consenso dell'interessato, può intervenire l'autorizzazione del Garante. La rigida applicazione del divieto di cui all'art. 28, comma 7, nel precludere l'accesso su richiesta dell'adottato maggiorenne o dei genitori adottivi motivata da gravi e comprovati motivi attinenti alla salute psicofisica dell'adottato (art. 28, commi quarto e quinto), e quella formulata dal responsabile di una struttura ospedaliera in presenza di un grave pericolo per la salute del minore (art. 28, comma quarto), contraddittoriamente rinuncia a tale presidio, in nome della riservatezza materna, cui sacrifica la salute e la vita stessa del figlio adottato, senza possibilità di apprezzamento di tali ragioni, né da parte dell'autorità amministrativa che conserva i documenti, né da quella giudiziaria chiamata a decidere sulla legittimità del relativo provvedimento. Deve tuttavia osservarsi che il rigore del principio espresso dall'art. 28 l. 4 maggio 1983, n. 184 sembra essere temperato dall'eccezione prevista dall'art. 93 comma 3 del codice della privacy, laddove si dice che, prima del decorso dei 100 anni, la richiesta di accesso al certificato o alla cartella può essere accolta relativamente ai dati relativi alla madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata, osservando le opportune cautele per evitare che quest'ultima sia identificabile (Stefanelli, 2010, 496).

Relativamente all'affermazione per cui anche nella dichiarazione giudiziale di maternità opera il principio della libertà delle prove, la giurisprudenza di legittimità ha affermato che, in tema di dichiarazione giudiziale di maternità naturale, se è vero che la prova derivante dalla risultanza indiretta della maternità da altra sentenza civile o penale costituisce una prova indiziaria, da rivalutarsi autonomamente e contro la quale è sempre possibile la prova contraria, non è necessario, tuttavia, che essa sia integrata da ulteriori elementi di prova, ove quelle risultanze, nell'insindacabile apprezzamento del giudice del merito, siano ritenute sufficienti a dimostrare il rapporto di filiazione naturale (Cass. I, n. 1465 /1983).

In relazione all'art. 269 c.c., che attribuisce la paternità naturale in base al mero dato biologico, senza alcun riguardo alla volontà contraria alla procreazione del presunto padre, è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata in riferimento all'art. 3 Cost., in ragione della disparità di trattamento che ne risulterebbe in danno dell'uomo rispetto alla donna, alla quale la l. n. 194 del 1978  attribuisce la responsabilità esclusiva di interrompere la gravidanza ove ne ricorrano le condizioni giustificative, e ciò in quanto le situazioni poste a confronto non sono comparabili, non potendo. l'interesse della donna alla interruzione della gravidanza, essere assimilato all'interesse di chi, rispetto alla avvenuta nascita del figlio fuori del matrimonio, pretenda di sottrarsi, negando la propria volontà diretta alla procreazione, alla responsabilità di genitore, in contrasto con la tutela che la Costituzione, all'art. 30, riconosce alla filiazione naturale (Cass.I n. 32308/2018, Conf. Cass. I n. 3793/2002).

Sul tema della scissione tra maternità genetica e gestazione, è intervenuta la nota sentenza Trib. Roma 8 agosto 2014, che ha stabilito che, nell'ipotesi di scambio di embrioni avvenuto nell'ambito di una fecondazione assistita omologa, lo stato del nato viene determinato sulla base del principio per il quale madre è colei che l'ha partorito, così che non potrebbe fondarsi un'azione di dichiarazione della maternità sulla base della mera prova genetica, sicché il figlio è stato attribuito a colei che l'ha partorito, piuttosto che alla madre che ha fornito il patrimonio genetico.

Con riferimento alla questione del parto anonimo, nella giurisprudenza costituzionale, la facoltà della donna di dichiarare nell'atto di nascita di non voler essere nominata è stata riconosciuta da Corte cost. n. 171/1994 e da Corte cost. n. 425/2005, che hanno dichiarato manifestamente infondata la questione di costituzionalità relativa alla previsione dell'intangibilità della volontà di anonimato della madre biologica. Successivamente, con sentenza Corte cost. n. 278/2013, è stata dichiarata l'illegittimità dell'art. 28 l. 4 agosto 1983, n. 183, in quanto non prevede la possibilità per il giudice di interpellare, con riservatezza, la madre non nominata nell'atto di nascita, per l'eventuale assunzione di rapporti personali e non giuridici con il figlio. In particolare, la Corte ha riconosciuto all'adottato il diritto a conoscere le proprie origini e ha rilevato i profili di irragionevolezza nell'irreversibilità dell'anonimato della madre biologica, prevedendo la possibilità di un interpello di questa da attuarsi all'interno di un procedimento caratterizzato dalla massima riservatezza. Viene operata anche dalla nostra Corte la riferita operazione di bilanciamento tra il diritto della madre all'anonimato, che si fonda «sull'esigenza di salvaguardare madre e neonato da qualsiasi perturbamento, connesso alla più eterogenea gamma di situazioni, personali, ambientali, culturali, sociali, tale da generare l'emergenza di pericoli per la salute psico-fisica o la stessa incolumità di entrambi», e il diritto del figlio a conoscere le proprie origini — e ad accedere alla propria storia parentale — atteso che tale «bisogno di conoscenza rappresenta uno di quegli aspetti della personalità che possono condizionare l'intimo atteggiamento e la stessa vita di relazione di una persona in quanto tale».

La Cassazione civile per la prima volta si è occupata della tematica del parto anonimo con due pronunce del 2016, con le quali ha affermato che il diritto dell'adottato — nato da donna che abbia dichiarato alla nascita di non voler essere nominata ai sensi del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, art. 30, comma 1 — ad accedere alle informazioni concernenti la propria origine e l'identità della madre biologica sussiste e può essere concretamente esercitato, anche se la stessa sia morta e non sia possibile procedere alla verifica della perdurante attualità della scelta di conservare il segreto, non rilevando nella fattispecie il mancato decorso del termine di cento anni dalla formazione del certificato di assistenza al parto o della cartella clinica di cui al d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 93, commi 2 e 3, a condizione che i dati personali della defunta siano trattati lecitamente ed in modo tale da non arrecare un danno all'immagine, alla reputazione o ad altri beni di primario rilievo costituzionale, ad eventuali terzi interessati» (Cass. I, n. 22838 e Cass. I, 15024/2016).

Una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 269, ha affermato Cass. I, n. 19824/2020, impone di ritenere consentita l’azione di accertamento dello status, dopo il decesso della donna che aveva espresso la volontà di non essere nominata al momento del parto, dovendo a tale azione cedere la tutela degli eredi.

Va ancora ricordata l'importante pronuncia Cass. S.U., n. 1946/2017, che afferma il principio di diritto per cui, ancorché il legislatore non sia ad oggi intervenuto in adeguamento al principio espresso nella sentenza della Corte cost. n. 278/2013, sussiste la possibilità per il giudice, su richiesta del figlio desideroso di conoscere le proprie origini, di interpellare la madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata, con modalità procedimentali tratte dal quadro normativo e dal principio somministrato dalla Corte costituzionale, idonee a garantire la massima riservatezza e il massimo rispetto della dignità della donna, fermo restando che il diritto del figlio trova un limite insuperabile allorché la dichiarazione iniziale per l'anonimato non sia rimossa in seguito all'interpello e persista il diniego della madre di svelare la propria identità.

Profili relativi alla competenza e al rito applicabile

A seguito della modifica dell' art. 38 disp. att. c.c. , introdotta dalla legge 10 dicembre 2012, n. 219 , la competenza sull'azione di dichiarazione giudiziale della paternità e della maternità è transitata dal tribunale per i minorenni al tribunale ordinario (Proto Pisani, 2013, 126). Essa si radica in capo al tribunale ordinario, anche se il giudizio concerne un minore (Bianca, 2013, 391). La disposizione citata ha subito successive modifiche (anche ad opera del d.lgs. n. 149/2022, di riforma del processo civile) ma la disciplina della competenza , sul punto che qui interessa,  non è stata mutata. Il tribunale giudica in composizione collegiale (art. 473-bis.1 c.p.c.).

La competenza per territorio va determinata secondo i principi del foro generale delle persone fisiche, in capo al tribunale del luogo in cui il presunto genitore convenuto nel procedimento ha la residenza o il domicilio e, se questi sono sconosciuti, quello del luogo in cui ha la dimora. La disposizione in tal senso è stata conservata dalla riforma del processo civile dovuta al d.lgs. n. 149/2022 che ha tuttavia disposto diversamente per il caso in cui nel procedimento devono essere assunti provvedimenti riguardanti minori. La competenza spetta, allora, al tribunale del luogo di residenza abituale del minore; se vi è stato trasferimento non autorizzato del minore, la competenza, entro l'anno dal trasferimento, è attribuita al tribunale di ultima residenza abituale del minore (art. 473-bis.11 c.p.c.).

La domanda è proposta con ricorso, disciplinato dagli artt. 125 e 473-bis.12 c.p.c. Il giudizio si svolge attraverso una fase antecedente all’udienza di comparizione fissata con decreto dal presidente del tribunale; in essa le parti, ove vi sia costituzione di un controinteressato, hanno termini per costituirsi con comparsa di risposta (il convenuto), per  replicare (il ricorrente), per precisare e dedurre (il convenuto) e per dedurre prova contraria (il ricorrente); all’udienza di comparizione il giudice relatore designato assume i provvedimenti occorrenti al processo e quelli temporanei e urgenti per le parti e per l’eventuale prole; compita l’istruttoria, il giudice fissa davanti a sé l’udienza di rimessione della causa in decisione e assegna alle parti termini successivi, di scadenza anteriore all’udienza, per depositare le rispettive conclusioni, depositare le comparse conclusionali e depositare le note di replica; all’udienza la causa è rimessa in decisione e il giudice si riserva di riferire al collegio.

Bibliografia

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