Legge - 20/05/2016 - n. 76 art. 1

Anna Maria Fasano

Art. 1 (A)

1. La presente legge istituisce l'unione civile tra persone dello stesso sesso quale specifica formazione sociale ai sensi degli articoli 2 e 3 della Costituzione e reca la disciplina delle convivenze di fatto.

2. Due persone maggiorenni dello stesso sesso costituiscono un'unione civile mediante dichiarazione di fronte all'ufficiale di stato civile ed alla presenza di due testimoni.

3. L'ufficiale di stato civile provvede alla registrazione degli atti di unione civile tra persone dello stesso sesso nell'archivio dello stato civile.

4. Sono cause impeditive per la costituzione dell'unione civile tra persone dello stesso sesso:

a) la sussistenza, per una delle parti, di un vincolo matrimoniale o di un'unione civile tra persone dello stesso sesso;

b) l'interdizione di una delle parti per infermita' di mente; se l'istanza d'interdizione e' soltanto promossa, il pubblico ministero puo' chiedere che si sospenda la costituzione dell'unione civile; in tal caso il procedimento non puo' aver luogo finche' la sentenza che ha pronunziato sull'istanza non sia passata in giudicato;

c) la sussistenza tra le parti dei rapporti di cui all'articolo 87, primo comma, del codice civile; non possono altresi' contrarre unione civile tra persone dello stesso sesso lo zio e il nipote e la zia e la nipote; si applicano le disposizioni di cui al medesimo articolo 87;

d) la condanna definitiva di un contraente per omicidio consumato o tentato nei confronti di chi sia coniugato o unito civilmente con l'altra parte; se e' stato disposto soltanto rinvio a giudizio ovvero sentenza di condanna di primo o secondo grado ovvero una misura cautelare la costituzione dell'unione civile tra persone dello stesso sesso e' sospesa sino a quando non e' pronunziata sentenza di proscioglimento.

5. La sussistenza di una delle cause impeditive di cui al comma 4 comporta la nullita' dell'unione civile tra persone dello stesso sesso. All'unione civile tra persone dello stesso sesso si applicano gli articoli 65 e 68, nonche' le disposizioni di cui agli articoli 119, 120, 123, 125, 126, 127, 128, 129 e 129-bis del codice civile.

6. L'unione civile costituita in violazione di una delle cause impeditive di cui al comma 4, ovvero in violazione dell'articolo 68 del codice civile, puo' essere impugnata da ciascuna delle parti dell'unione civile, dagli ascendenti prossimi, dal pubblico ministero e da tutti coloro che abbiano per impugnarla un interesse legittimo e attuale. L'unione civile costituita da una parte durante l'assenza dell'altra non puo' essere impugnata finche' dura l'assenza.

7. L'unione civile puo' essere impugnata dalla parte il cui consenso e' stato estorto con violenza o determinato da timore di eccezionale gravita' determinato da cause esterne alla parte stessa. Puo' essere altresi' impugnata dalla parte il cui consenso e' stato dato per effetto di errore sull'identita' della persona o di errore essenziale su qualita' personali dell'altra parte. L'azione non puo' essere proposta se vi e' stata coabitazione per un anno dopo che e' cessata la violenza o le cause che hanno determinato il timore ovvero sia stato scoperto l'errore. L'errore sulle qualita' personali e' essenziale qualora, tenute presenti le condizioni dell'altra parte, si accerti che la stessa non avrebbe prestato il suo consenso se le avesse esattamente conosciute e purche' l'errore riguardi:

a) l'esistenza di una malattia fisica o psichica, tale da impedire lo svolgimento della vita comune;

b) le circostanze di cui all'articolo 122, terzo comma, numeri 2), 3) e 4), del codice civile.

8. La parte puo' in qualunque tempo impugnare il matrimonio o l'unione civile dell'altra parte. Se si oppone la nullita' della prima unione civile, tale questione deve essere preventivamente giudicata.

9. L'unione civile tra persone dello stesso sesso e' certificata dal relativo documento attestante la costituzione dell'unione, che deve contenere i dati anagrafici delle parti, l'indicazione del loro regime patrimoniale e della loro residenza, oltre ai dati anagrafici e alla residenza dei testimoni.

10. Mediante dichiarazione all'ufficiale di stato civile le parti possono stabilire di assumere, per la durata dell'unione civile tra persone dello stesso sesso, un cognome comune scegliendolo tra i loro cognomi. La parte puo' anteporre o posporre al cognome comune il proprio cognome, se diverso, facendone dichiarazione all'ufficiale di stato civile.

11. Con la costituzione dell'unione civile tra persone dello stesso sesso le parti acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri; dall'unione civile deriva l'obbligo reciproco all'assistenza morale e materiale e alla coabitazione. Entrambe le parti sono tenute, ciascuna in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacita' di lavoro professionale e casalingo, a contribuire ai bisogni comuni.

12. Le parti concordano tra loro l'indirizzo della vita familiare e fissano la residenza comune; a ciascuna delle parti spetta il potere di attuare l'indirizzo concordato.

13. Il regime patrimoniale dell'unione civile tra persone dello stesso sesso, in mancanza di diversa convenzione patrimoniale, e' costituito dalla comunione dei beni. In materia di forma, modifica, simulazione e capacita' per la stipula delle convenzioni patrimoniali si applicano gli articoli 162, 163, 164 e 166 del codice civile. Le parti non possono derogare ne' ai diritti ne' ai doveri previsti dalla legge per effetto dell'unione civile. Si applicano le disposizioni di cui alle sezioni II, III, IV, V e VI del capo VI del titolo VI del libro primo del codice civile.

14. Quando la condotta della parte dell'unione civile e' causa di grave pregiudizio all'integrita' fisica o morale ovvero alla liberta' dell'altra parte, il giudice, su istanza di parte, puo' adottare con decreto uno o piu' dei provvedimenti di cui all'articolo 342-ter del codice civile.

15. Nella scelta dell'amministratore di sostegno il giudice tutelare preferisce, ove possibile, la parte dell'unione civile tra persone dello stesso sesso. L'interdizione o l'inabilitazione possono essere promosse anche dalla parte dell'unione civile, la quale puo' presentare istanza di revoca quando ne cessa la causa.

16. La violenza e' causa di annullamento del contratto anche quando il male minacciato riguarda la persona o i beni dell'altra parte dell'unione civile costituita dal contraente o da un discendente o ascendente di lui.

17. In caso di morte del prestatore di lavoro, le indennita' indicate dagli articoli 2118 e 2120 del codice civile devono corrispondersi anche alla parte dell'unione civile.

18. La prescrizione rimane sospesa tra le parti dell'unione civile.

19. All'unione civile tra persone dello stesso sesso si applicano le disposizioni di cui al titolo XIII del libro primo del codice civile, nonche' gli articoli 116, primo comma, 146, 2647, 2653, primo comma, numero 4), e 2659 del codice civile.

20. Al solo fine di assicurare l'effettivita' della tutela dei diritti e il pieno adempimento degli obblighi derivanti dall'unione civile tra persone dello stesso sesso, le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenenti le parole «coniuge», «coniugi» o termini equivalenti, ovunque ricorrono nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti nonche' negli atti amministrativi e nei contratti collettivi, si applicano anche ad ognuna delle parti dell'unione civile tra persone dello stesso sesso. La disposizione di cui al periodo precedente non si applica alle norme del codice civile non richiamate espressamente nella presente legge, nonche' alle disposizioni di cui alla legge 4 maggio 1983, n. 184. Resta fermo quanto previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti.

21. Alle parti dell'unione civile tra persone dello stesso sesso si applicano le disposizioni previste dal capo III e dal capo X del titolo I, dal titolo II e dal capo II e dal capo V-bis del titolo IV del libro secondo del codice civile.

22. La morte o la dichiarazione di morte presunta di una delle parti dell'unione civile ne determina lo scioglimento.

23. L'unione civile si scioglie altresi' nei casi previsti dall'articolo 3, numero 1) e numero 2), lettere a), c), d) ed e), della legge 1° dicembre 1970, n. 898.

24. L'unione civile si scioglie, inoltre, quando le parti hanno manifestato anche disgiuntamente la volonta' di scioglimento dinanzi all'ufficiale dello stato civile. In tale caso la domanda di scioglimento dell'unione civile e' proposta decorsi tre mesi dalla data della manifestazione di volonta' di scioglimento dell'unione.

25. Si applicano, in quanto compatibili, gli articoli 4, 5, primo comma, e dal quinto all'undicesimo comma, 8, 9, 9-bis, 10, 12-bis, 12-ter, 12-quater, 12-quinquies e 12-sexies della legge 1° dicembre 1970, n. 898, nonche' le disposizioni di cui al Titolo II del libro quarto del codice di procedura civile ed agli articoli 6 e 12 del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 132, convertito, con modificazioni, dalla legge 10 novembre 2014, n. 1621.

26. La sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso determina lo scioglimento dell'unione civile tra persone dello stesso sesso 2.

27. Alla rettificazione anagrafica di sesso, ove i coniugi abbiano manifestato la volonta' di non sciogliere il matrimonio o di non cessarne gli effetti civili, consegue l'automatica instaurazione dell'unione civile tra persone dello stesso sesso.

28. Fatte salve le disposizioni di cui alla presente legge, il Governo e' delegato ad adottare, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, uno o piu' decreti legislativi in materia di unione civile tra persone dello stesso sesso nel rispetto dei seguenti principi e criteri direttivi:

a) adeguamento alle previsioni della presente legge delle disposizioni dell'ordinamento dello stato civile in materia di iscrizioni, trascrizioni e annotazioni3;

b) modifica e riordino delle norme in materia di diritto internazionale privato, prevedendo l'applicazione della disciplina dell'unione civile tra persone dello stesso sesso regolata dalle leggi italiane alle coppie formate da persone dello stesso sesso che abbiano contratto all'estero matrimonio, unione civile o altro istituto analogo4;

c) modificazioni ed integrazioni normative per il necessario coordinamento con la presente legge delle disposizioni contenute nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti e nei decreti5.

29. I decreti legislativi di cui al comma 28 sono adottati su proposta del Ministro della giustizia, di concerto con il Ministro dell'interno, il Ministro del lavoro e delle politiche sociali e il Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale.

30. Ciascuno schema di decreto legislativo di cui al comma 28, a seguito della deliberazione del Consiglio dei ministri, e' trasmesso alla Camera dei deputati e al Senato della Repubblica perche' su di esso siano espressi, entro sessanta giorni dalla trasmissione, i pareri delle Commissioni parlamentari competenti per materia. Decorso tale termine il decreto puo' essere comunque adottato, anche in mancanza dei pareri. Qualora il termine per l'espressione dei pareri parlamentari scada nei trenta giorni che precedono la scadenza del termine previsto dal comma 28, quest'ultimo termine e' prorogato di tre mesi. Il Governo, qualora non intenda conformarsi ai pareri parlamentari, trasmette nuovamente i testi alle Camere con le sue osservazioni e con eventuali modificazioni, corredate dei necessari elementi integrativi di informazione e motivazione. I pareri definitivi delle Commissioni competenti per materia sono espressi entro il termine di dieci giorni dalla data della nuova trasmissione. Decorso tale termine, i decreti possono essere comunque adottati.

31. Entro due anni dalla data di entrata in vigore di ciascun decreto legislativo adottato ai sensi del comma 28, il Governo puo' adottare disposizioni integrative e correttive del decreto medesimo, nel rispetto dei principi e criteri direttivi di cui al citato comma 28, con la procedura prevista nei commi 29 e 30.

32. All'articolo 86 del codice civile, dopo le parole: «da un matrimonio» sono inserite le seguenti: «o da un'unione civile tra persone dello stesso sesso».

33. All'articolo 124 del codice civile, dopo le parole: «impugnare il matrimonio» sono inserite le seguenti: «o l'unione civile tra persone dello stesso sesso».

34. Con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro dell'interno, da emanare entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, sono stabilite le disposizioni transitorie necessarie per la tenuta dei registri nell'archivio dello stato civile nelle more dell'entrata in vigore dei decreti legislativi adottati ai sensi del comma 28, lettera a)6.

35. Le disposizioni di cui ai commi da 1 a 34 acquistano efficacia a decorrere dalla data di entrata in vigore della presente legge.

36. Ai fini delle disposizioni di cui ai commi da 37 a 67 si intendono per «conviventi di fatto» due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinita' o adozione, da matrimonio o da un'unione civile.

37. Ferma restando la sussistenza dei presupposti di cui al comma 36, per l'accertamento della stabile convivenza si fa riferimento alla dichiarazione anagrafica di cui all'articolo 4 e alla lettera b) del comma 1 dell'articolo 13 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223.

38. I conviventi di fatto hanno gli stessi diritti spettanti al coniuge nei casi previsti dall'ordinamento penitenziario.

39. In caso di malattia o di ricovero, i conviventi di fatto hanno diritto reciproco di visita, di assistenza nonche' di accesso alle informazioni personali, secondo le regole di organizzazione delle strutture ospedaliere o di assistenza pubbliche, private o convenzionate, previste per i coniugi e i familiari.

40. Ciascun convivente di fatto puo' designare l'altro quale suo rappresentante con poteri pieni o limitati:

a) in caso di malattia che comporta incapacita' di intendere e di volere, per le decisioni in materia di salute;

b) in caso di morte, per quanto riguarda la donazione di organi, le modalita' di trattamento del corpo e le celebrazioni funerarie.

41. La designazione di cui al comma 40 e' effettuata in forma scritta e autografa oppure, in caso di impossibilita' di redigerla, alla presenza di un testimone.

42. Salvo quanto previsto dall'articolo 337-sexies del codice civile, in caso di morte del proprietario della casa di comune residenza il convivente di fatto superstite ha diritto di continuare ad abitare nella stessa per due anni o per un periodo pari alla convivenza se superiore a due anni e comunque non oltre i cinque anni. Ove nella stessa coabitino figli minori o figli disabili del convivente superstite, il medesimo ha diritto di continuare ad abitare nella casa di comune residenza per un periodo non inferiore a tre anni (B).

43. Il diritto di cui al comma 42 viene meno nel caso in cui il convivente superstite cessi di abitare stabilmente nella casa di comune residenza o in caso di matrimonio, di unione civile o di nuova convivenza di fatto.

44. Nei casi di morte del conduttore o di suo recesso dal contratto di locazione della casa di comune residenza, il convivente di fatto ha facolta' di succedergli nel contratto.

45. Nel caso in cui l'appartenenza ad un nucleo familiare costituisca titolo o causa di preferenza nelle graduatorie per l'assegnazione di alloggi di edilizia popolare, di tale titolo o causa di preferenza possono godere, a parita' di condizioni, i conviventi di fatto.

46. Nella sezione VI del capo VI del titolo VI del libro primo del codice civile, dopo l'articolo 230-bis e' aggiunto il seguente:

« Art. 230-ter (Diritti del convivente). - Al convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all'interno dell'impresa dell'altro convivente spetta una partecipazione agli utili dell'impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonche' agli incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento, commisurata al lavoro prestato. Il diritto di partecipazione non spetta qualora tra i conviventi esista un rapporto di societa' o di lavoro subordinato».

47. All'articolo 712, secondo comma, del codice di procedura civile, dopo le parole: «del coniuge» sono inserite le seguenti: «o del convivente di fatto».

48. Il convivente di fatto puo' essere nominato tutore, curatore o amministratore di sostegno, qualora l'altra parte sia dichiarata interdetta o inabilitata ai sensi delle norme vigenti ovvero ricorrano i presupposti di cui all'articolo 404 del codice civile.

49. In caso di decesso del convivente di fatto, derivante da fatto illecito di un terzo, nell'individuazione del danno risarcibile alla parte superstite si applicano i medesimi criteri individuati per il risarcimento del danno al coniuge superstite.

50. I conviventi di fatto possono disciplinare i rapporti patrimoniali relativi alla loro vita in comune con la sottoscrizione di un contratto di convivenza.

51. Il contratto di cui al comma 50, le sue modifiche e la sua risoluzione sono redatti in forma scritta, a pena di nullita', con atto pubblico o scrittura privata con sottoscrizione autenticata da un notaio o da un avvocato che ne attestano la conformita' alle norme imperative e all'ordine pubblico.

52. Ai fini dell'opponibilita' ai terzi, il professionista che ha ricevuto l'atto in forma pubblica o che ne ha autenticato la sottoscrizione ai sensi del comma 51 deve provvedere entro i successivi dieci giorni a trasmetterne copia al comune di residenza dei conviventi per l'iscrizione all'anagrafe ai sensi degli articoli 5 e 7 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223.

53. Il contratto di cui al comma 50 reca l'indicazione dell'indirizzo indicato da ciascuna parte al quale sono effettuate le comunicazioni inerenti al contratto medesimo. Il contratto puo' contenere:

a) l'indicazione della residenza;

b) le modalita' di contribuzione alle necessita' della vita in comune, in relazione alle sostanze di ciascuno e alla capacita' di lavoro professionale o casalingo;

c) il regime patrimoniale della comunione dei beni, di cui alla sezione III del capo VI del titolo VI del libro primo del codice civile.

54. Il regime patrimoniale scelto nel contratto di convivenza puo' essere modificato in qualunque momento nel corso della convivenza con le modalita' di cui al comma 51.

55. Il trattamento dei dati personali contenuti nelle certificazioni anagrafiche deve avvenire conformemente alla normativa prevista dal codice in materia di protezione dei dati personali, di cui al decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, garantendo il rispetto della dignita' degli appartenenti al contratto di convivenza. I dati personali contenuti nelle certificazioni anagrafiche non possono costituire elemento di discriminazione a carico delle parti del contratto di convivenza.

56. Il contratto di convivenza non puo' essere sottoposto a termine o condizione. Nel caso in cui le parti inseriscano termini o condizioni, questi si hanno per non apposti.

57. II contratto di convivenza e' affetto da nullita' insanabile che puo' essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse se concluso:

a) in presenza di un vincolo matrimoniale, di un'unione civile o di un altro contratto di convivenza;

b) in violazione del comma 36;

c) da persona minore di eta';

d) da persona interdetta giudizialmente;

e) in caso di condanna per il delitto di cui all'articolo 88 del codice civile.

58. Gli effetti del contratto di convivenza restano sospesi in pendenza del procedimento di interdizione giudiziale o nel caso di rinvio a giudizio o di misura cautelare disposti per il delitto di cui all'articolo 88 del codice civile, fino a quando non sia pronunciata sentenza di proscioglimento.

59. Il contratto di convivenza si risolve per:

a) accordo delle parti;

b) recesso unilaterale;

c) matrimonio o unione civile tra i conviventi o tra un convivente ed altra persona;

d) morte di uno dei contraenti.

60. La risoluzione del contratto di convivenza per accordo delle parti o per recesso unilaterale deve essere redatta nelle forme di cui al comma 51. Qualora il contratto di convivenza preveda, a norma del comma 53, lettera c), il regime patrimoniale della comunione dei beni, la sua risoluzione determina lo scioglimento della comunione medesima e si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni di cui alla sezione III del capo VI del titolo VI del libro primo del codice civile. Resta in ogni caso ferma la competenza del notaio per gli atti di trasferimento di diritti reali immobiliari comunque discendenti dal contratto di convivenza.

61. Nel caso di recesso unilaterale da un contratto di convivenza il professionista che riceve o che autentica l'atto e' tenuto, oltre che agli adempimenti di cui al comma 52, a notificarne copia all'altro contraente all'indirizzo risultante dal contratto. Nel caso in cui la casa familiare sia nella disponibilita' esclusiva del recedente, la dichiarazione di recesso, a pena di nullita', deve contenere il termine, non inferiore a novanta giorni, concesso al convivente per lasciare l'abitazione.

62. Nel caso di cui alla lettera c) del comma 59, il contraente che ha contratto matrimonio o unione civile deve notificare all'altro contraente, nonche' al professionista che ha ricevuto o autenticato il contratto di convivenza, l'estratto di matrimonio o di unione civile.

63. Nel caso di cui alla lettera d) del comma 59, il contraente superstite o gli eredi del contraente deceduto devono notificare al professionista che ha ricevuto o autenticato il contratto di convivenza l'estratto dell'atto di morte affinche' provveda ad annotare a margine del contratto di convivenza l'avvenuta risoluzione del contratto e a notificarlo all'anagrafe del comune di residenza.

64. Dopo l'articolo 30 della legge 31 maggio 1995, n. 218, e' inserito il seguente:

«Art. 30-bis (Contratti di convivenza). - 1. Ai contratti di convivenza si applica la legge nazionale comune dei contraenti. Ai contraenti di diversa cittadinanza si applica la legge del luogo in cui la convivenza e' prevalentemente localizzata.

2. Sono fatte salve le norme nazionali, europee ed internazionali che regolano il caso di cittadinanza plurima».

65. In caso di cessazione della convivenza di fatto, il giudice stabilisce il diritto del convivente di ricevere dall'altro convivente e gli alimenti qualora versi in stato di bisogno e non sia in grado di provvedere al proprio mantenimento. In tali casi, gli alimenti sono assegnati per un periodo proporzionale alla durata della convivenza e nella misura determinata ai sensi dell'articolo 438, secondo comma, del codice civile. Ai fini della determinazione dell'ordine degli obbligati ai sensi dell'articolo 433 del codice civile, l'obbligo alimentare del convivente di cui al presente comma e' adempiuto con precedenza sui fratelli e sorelle.

66. Agli oneri derivanti dall'attuazione dei commi da 1 a 35 del presente articolo, valutati complessivamente in 3,7 milioni di euro per l'anno 2016, in 6,7 milioni di euro per l'anno 2017, in 8 milioni di euro per l'anno 2018, in 9,8 milioni di euro per l'anno 2019, in 11,7 milioni di euro per l'anno 2020, in 13,7 milioni di euro per l'anno 2021, in 15,8 milioni di euro per l'anno 2022, in 17,9 milioni di euro per l'anno 2023, in 20,3 milioni di euro per l'anno 2024 e in 22,7 milioni di euro annui a decorrere dall'anno 2025, si provvede:

a) quanto a 3,7 milioni di euro per l'anno 2016, a 1,3 milioni di euro per l'anno 2018, a 3,1 milioni di euro per l'anno 2019, a 5 milioni di euro per l'anno 2020, a 7 milioni di euro per l'anno 2021, a 9,1 milioni di euro per l'anno 2022, a 11,2 milioni di euro per l'anno 2023, a 13,6 milioni di euro per l'anno 2024 e a 16 milioni di euro annui a decorrere dall'anno 2025, mediante riduzione del Fondo per interventi strutturali di politica economica, di cui all'articolo 10, comma 5, del decreto-legge 29 novembre 2004, n. 282, convertito, con modificazioni, dalla legge 27 dicembre 2004, n. 307;

b) quanto a 6,7 milioni di euro annui a decorrere dall'anno 2017, mediante corrispondente riduzione delle proiezioni, per gli anni 2017 e 2018, dello stanziamento del fondo speciale di parte corrente iscritto, ai fini del bilancio triennale 2016-2018, nell'ambito del programma «Fondi di riserva e speciali» della missione «Fondi da ripartire» dello stato di previsione del Ministero dell'economia e delle finanze per l'anno 2016, allo scopo parzialmente utilizzando l'accantonamento relativo al medesimo Ministero.

67. Ai sensi dell'articolo 17, comma 12, della legge 31 dicembre 2009, n. 196, il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, sulla base dei dati comunicati dall'INPS, provvede al monitoraggio degli oneri di natura previdenziale ed assistenziale di cui ai commi da 11 a 20 del presente articolo e riferisce in merito al Ministro dell'economia e delle finanze. Nel caso si verifichino o siano in procinto di verificarsi scostamenti rispetto alle previsioni di cui al comma 66, il Ministro dell'economia e delle finanze, sentito il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, provvede, con proprio decreto, alla riduzione, nella misura necessaria alla copertura finanziaria del maggior onere risultante dall'attivita' di monitoraggio, delle dotazioni finanziarie di parte corrente aventi la natura di spese rimodulabili, ai sensi dell'articolo 21, comma 5, lettera b), della legge 31 dicembre 2009, n. 196, nell'ambito dello stato di previsione del Ministero del lavoro e delle politiche sociali.

68. Il Ministro dell'economia e delle finanze riferisce senza ritardo alle Camere con apposita relazione in merito alle cause degli scostamenti e all'adozione delle misure di cui al comma 67.

69. Il Ministro dell'economia e delle finanze e' autorizzato ad apportare, con propri decreti, le occorrenti variazioni di bilancio.

La presente legge, munita del sigillo dello Stato, sara' inserita nella Raccolta ufficiale degli atti normativi della Repubblica italiana. E' fatto obbligo a chiunque spetti di osservarla e di farla osservare come legge dello Stato.

 

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(A) Vedi la Circolare del Ministero dell'Interno 1° giugno 2016 , n. 7 e la Circolare del Ministero dell'Interno 5 agosto 2016, n. 3511.

(B) In riferimento al presente comma vedi la Risposta Agenzia delle Entrate 12 ottobre 2018, n. 37.

- In riferimento alla Dichiarazione di successione e diritto di abitazione vedi: Risposta Agenzia delle Entrate 04/11/2019 n. 463.

[1] Comma sostituito dall'articolo 29, comma 6, del D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 149,  con effetto a decorrere dal 28 febbraio 2023, come stabilito dall'articolo 35, comma 1, del D.Lgs. 149/2022 medesimo, come modificato dall'articolo 1, comma 380, lettera a), della Legge 29 dicembre 2022, n. 197.

[2] La Corte Costituzionale, con sentenza 22 aprile 2024, n. 66, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del presente comma,  nella parte in cui stabilisce che la sentenza di rettificazione anagrafica di attribuzione di sesso determina lo scioglimento automatico dell’unione civile senza prevedere, laddove l’attore e l’altra parte dell’unione rappresentino personalmente e congiuntamente al giudice, fino all’udienza di precisazione delle conclusioni, l’intenzione di contrarre matrimonio, che il giudice disponga la sospensione degli effetti derivanti dallo scioglimento del vincolo fino alla celebrazione del matrimonio e comunque non oltre il termine di centottanta giorni dal passaggio in giudicato della sentenza di rettificazione.

[3] In riferimento alla presente lettera vedi il D.Lgs. 19 gennaio 2017, n. 5.

[4] In riferimento alla presente lettera vedi il D.Lgs. 19 gennaio 2017, n. 7.

[5] In riferimento alla presente lettera vedi i D.Lgs. 19 gennaio 2017, n. 5 e D.Lgs. 19 gennaio 2017, n. 6.

[6] Per il regolamento recante disposizioni transitorie necessarie per la tenuta dei registri nell'archivio dello stato civile, ai sensi del presente comma vedi il D.P.C.M. 23 luglio 2016, n. 144.

Inquadramento

Il rapporto di coniugio ha sempre costituito la base della famiglia e conseguentemente la base del vivere sociale. Nel nostro ordinamento per molti anni vi è stata una sostanziale coincidenza tra il rapporto di coniugio e famiglia. La famiglia come formazione sociale è una realtà che nasce dalla libera scelta delle persone e si basa su vincoli di affetto, solidarietà, il cui perdurare legittima lo stesso vincolo giuridico. L'evoluzione del costume sociale ha però portato all'ingresso di nuove formazioni sociali familiari non fondate sul matrimonio. Inoltre, il legislatore comunitario e la giurisprudenza delle Corti di Strasburgo e Lussemburgo hanno registrato rapporti di convivenza diversi dal modello coniugale. Le modalità di espressione dei rapporti non fondati sul matrimonio sono sostanzialmente quelle del patto sfaccettato in varie soluzioni.

In ambito nazionale, la giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 4184/2012) e costituzionale (Corte cost. n. 138/2010) avevano espresso delle aperture verso rapporti atipici di coniugio, e dando rilievo a forma di convivenza tra persone dello stesso sesso. La legge n. 76/ 2016 ha segnato una svolta epocale nel diritto di famiglia e ha, al contempo, allineato il nostro ordinamento alla gran parte degli altri Stati dell'Unione europea. La novella ha introdotto e regolamentato l'istituto dell'unione civile tra persone dello stesso sesso e, disciplinato, le convivenze di fatto. Con la legge sulle unioni civili il legislatore italiano ha colmato un anacronistico vuoto normativo in ambito di tutela delle unioni omoaffettive, recependo le reiterate sollecitazioni giunte negli anni dalla società civile, e gli inviti della Corte di legittimità e della Corte costituzionale e, non da ultimo, le spinte provenienti dall'UE e dal sistema della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo. La Corte EDU, anche recentemente, con la sentenza, Sez. I, del 14 dicembre 2017 (ric. n. 26431/12, 26742/12, 4405712, 60088/12) ha condannato l'Italia per non aver grantito alle coppie dello stesso sesso sposate all'estero “protezione o riconoscimento legale prima del 2016, anno in cui è entrata in vigore la legge sulle unioni civili”. Sebbene la sentenza riconosca l'ampio margine di discrezionalità di cui dispongono gli Stati per quanto riguarda la scelta di consentire o no la registrazione dei matrimonio omoessuali, si segnala la violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare. La Corte afferma che le coppie omosessuali “necessitino il riconoscimento legale e la protezione della loro relazione”, in modo che i Paesi debbano “offrire un quadro legale alle unioni di persone dello stesso sesso”, nonostante “il matrimonio sia aperto solo alle coppie eterosessuali”. Consapevole dei riflessi che la legge n. 76/ 2016 avrebbe avuto su altri settori dell'ordinamento il legislatore della novella ha delegato il Governo ad adottare, entro sei mesi dall'entrata in vigore della legge i decreti attuativi relativi all'adeguamento alle previsioni delle disposizioni dell'ordinamento dello Stato civile in materia di iscrizioni, trascrizioni e annotazioni, e relativi alla modifica e riordino delle norme in materia di diritto internazionale privato, e alle modificazioni ed integrazioni normative per il necessario coordinamento della legge con le altre disposizioni dell'ordinamento.Nella legge n. 76/2016 non si rinviene una definizione di unione civile, la quale viene semplicemente definita come una formazione sociale. Rispetto al testo iniziale, modificato nel corso dei lavori parlamentari, viene fatto un chiaro riferimento agli artt. 2 e 3 della Costituzione, proprio per rafforzare la distinzione tra l'unione civile ed il matrimonio disciplinato dagli artt. 29, 30 e 31 Cost. . L'unione civile è, quindi una formazione sociale composta da due persone maggiorenni dello stesso sesso, di natura affettiva, che si esplica in una comunanza di vita e di interessi e nella reciproca assistenza morale e materiale. Per formazione sociale deve intendersi ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del singolo secondo il modello indicato dall'art. 2 Cost. («la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove svolge la sua personalità...»). La scelta di formare un'unione civile costituisce aspetto della fondamentale libertà della persona mentre il richiamo all'art. 3 Cost. («Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali») esprime la totale eguaglianza tra i partner e soprattutto la finalità perseguita dal legislatore di creare un istituto senza alcuna discriminazione dipendente dall'orientamento sessuale. Il legislatore definisce l'unione civile una formazione sociale «specifica» volendo con ciò individuare una formazione sociale particolare, nella quale si esprime la vita familiare. Anche la famiglia fondata sul matrimonio è una formazione sociale specifica. Questa riflessione dovrebbe sfumare la distinzione tra i due istituti e, quindi, attribuire alle unioni civili la qualifica di consorzio “familiare”, secondo i principi espressi dal legislatore comunitario e dalla giurisprudenza delle Corti di Strasburgo e Lussemburgo. Il diritto vivente delle Corti europee ha impresso al “principio famiglia” una tale forza espansiva da determinare confini sempre più fluidi, tanto da sconfinare nel riconoscimento di consorzi familiari, latamente riferibili alla famiglia fondata sul matrimonio, in nuclei sociali strutturati semplicemente su vincoli affettivi. Numerose fonti internazionali riconoscono agli individui appartenenti a tali formazioni sociali, qualificabili come famiglia, “il diritto al rispetto della vita familiare”: l'art. 12 della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo; l'art. 8 della CEDU; l'art. 17 del Patto internazionale sui diritti civili e politici; gli artt. 7 (che ricalca l'art. 8 CEDU) e 33 (che protegge la famiglia sul piano giuridico, economico e sociale) della Carta di Nizza.

L'unione civile è una realtà che nasce dalla libera scelta delle persone e si basa su vincoli di affetto e di solidarietà, il cui perdurare legittima lo stesso vincolo giuridico.

Secondo la Corte di Cassazione «il processo di costituzionalizzazione delle unioni tra persone dello stesso sesso non si fonda sulla violazione del canone indiscriminatorio dettato dalla inaccessibilità al modello matrimoniale, ma sul riconoscimento di un nucleo comune di diritti e doveri di assistenza e solidarietà propri delle relazioni affettive di coppia e sulla riconducibilità di tali relazioni nell'alveo delle formazioni sociali dirette allo sviluppo, in forma primaria, della personalità umana» (Cass. n. 2400/2015). Le unioni civili sono una novità legislativa del nostro ordinamento e rappresentano una rivoluzione epocale nella cultura sociale e politica del Paese. La ratio della novella è stata, principalmente, quella di garantire la tutela dei diritti fondamentali delle persone che ne fanno parte. La necessità di introdurre nel sistema giuridico l'istituto, e di disciplinare le conseguenze legali della costituzione, è nata sulla spinta di un ampio consenso europeo, dimostrato anche dall'adozione, nell'ambito dell'Unione, di una legislazione che ha incluso il partner dello stesso sesso tra i familiari (Direttiva 2003/86 sul diritto al ricongiungimento familiare e 2004/38 sul diritto alla libera circolazione). La Corte di Strasburgo ha definito «artificiale» un approccio che continui ad escludere dal concetto di vita familiare le coppie dello stesso sesso stabilmente legate, con la conseguenza che i Governi sono tenuti ad assicurare il rispetto della vita familiare alle coppie omosessuali (Corte EDU, 22 luglio 2010, P.B. e J.S. c. Austria; Corte EDU, 28 settembre 2010, J.M. c. Regno Unito). Nell'Unione europea, le unioni civili sono riconosciute in Svizzera, Austria, Germania, Ungheria, Croazia, mentre sono 14 gli Stati membri che hanno legiferato per riconoscere il matrimonio per le coppie gay. Va comunque ribadito che il Legislatore con la creazione di questo nuovo status familiare ha voluto deliberatamente prendere le distanze dal rapporto di coniugio, omettendo volutamente ogni riferimento al concetto di famiglia e soprattutto all'art. 29 Cost. («La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio»). In tutta la legge, un'unica disposizione contiene l'aggettivo «familiare» (art. 1, comma 12: «Le parti concordano tra loro l'indirizzo della vita familiare e fissano la residenza comune; a ciascuna delle parti spetta il potere di attuare l'indirizzo concordato»). A quest''ultimo, è stata preferita l'espressione «comune» (residenza comune all'art. 1, comma 12 o cognome comune all'art. 1, comma 10) o «comuni» (bisogni comuni all'art. 1, comma 11). La ragione di questa politica legislativa è chiaramente attribuibile alle difficoltà riscontrate per arrivare all'approvazione della legge ed alle varie polemiche sollevate da alcune forze politiche, che hanno indotto anche ad utilizzare termini ad essa non riconducibili.Il tema dei diritti delle coppie omosessuali rappresentava già da tempo una delle questioni più dibattute degli ultimi anni. La legge Cirinnà nasce per dare voce alle istanze di riconoscimento affettivo delle persone dello stesso sesso che desiderano creare una “famiglia”. Il tema è sempre l'uomo e la sua valorizzazione, all'interno di un contesto pluralistico, secondo valori affettivi e di solidarietà sociale. Il legislatore internazionale ormai da tempo riconosceva il diritto dell'individuo alla libera espressione e manifestazione del proprio orientamento sessuale e, più in generale, della propria identità di genere, concetto elaborato in via giurisprudenziale dalla Corte europea dei diritti dell'uomo in applicazione dell'art. 8 CEDU. Dall'analisi della giurisprudenza di Strasburgo emerge che il diritto di ogni individuo alla libera espressione e manifestazione del proprio orientamento sessuale e della propria identità di genere deve essere tutelato fintanto che non ci sia lesione di vita privata altrui o di interessi generali. Occorre, infatti, effettuare un bilanciamento tra le diverse posizioni giuridiche soggettive coinvolte: l'interesse generale dello Stato alla protezione della famiglia intesa in senso tradizionale e l'interesse degli individui al rispetto della loro scelta di vita.

Non vi è dubbio che anche dal punto di vista sostanziale le unioni civili non possono essere assimilate al matrimonio, pur essendo per molti aspetti sovrapponibili. Come vedremo nel prosieguo della trattazione, tra le differenze più rilevanti emerge quella della mancanza tra gli uniti civilmente dell'obbligo di fedeltà, e dell'impossibilità per questi ultimi di adottare, perché gli uniti civilmente, secondo il legislatore, non possono essere genitori. Questa impostazione, come vedremo, dovrebbe subire un ripensamento, perché anche gli uniti civilmente possono allevare la prole, come recentemente riconosciuto dalla Suprema Corte con le sentenze Cass. n. 14878/2017; Cass. n. 12962/2016, e Cass. n. 19599/2016  e più di recente Cass. n. 8029/2020, Cass. n. 7668/2020. Le distanze tra le unioni civili ed il matrimonio si rinvengono anche nell'inciso della clausola di garanzia di cui all'art. 1, comma 20, con cui il legislatore ha voluto rimarcare che l'estensione alle unioni civili delle norme in tema di matrimonio è fatto «al solo fine di assicurare l'effettività delle tutela dei diritti e il pieno adempimento degli obblighi derivanti dall'unione civile tra persone dello stesso sesso».

Tuttavia non può non rilevarsi che, nonostante le differenze con il rapporto di coniugio, gli uniti civilmente costituiscono un consorzio familiare e l'unione civile rappresenta una vera e propria famiglia. Va precisato che, secondo la dottrina prevalente, per quanto la novella legislativa faccia rinvio, salvo eccezione, alla disciplina del rapporto di coniugio fondato sul matrimonio, va riconosciuta la differenza ontologica tra l'unione civile tra persone dello stesso sesso e l'istituto matrimoniale. È esclusa, infatti, qualsiasi assimilazione tra il regime matrimoniale e le unioni omo-affettive, in linea con quanto affermato dalla Corte costituzionale con le sentenze n. 138/2010 e Corte cost. n. 170/2014. Il matrimonio ha un forte valore simbolico, rappresentando l'unione tra persone di sesso diverso, legate da vincoli affettivi, in quanto rende socialmente rilevante un proprio modo di essere della coppia all'esterno del nucleo familiare, con conseguenze che coinvolgono gli aspetti giuridici del vivere civile. L'istituto, secondo la dottrina canonistica, si basa sulla diversità sessuale dei nubendi, da cui scaturisce l'unione fisica e la finalità procreativa. La procreazione è l'essenza del matrimonio canonico. Tale conclusione, oltre che obbedire ad una norma dello ius naturale, discende dai principi costituzionali, laddove si stabilisce che «la Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio» (art. 29 Cost.). Questa impostazione non vale per il matrimonio civile, che pur essendo inteso ad instaurare la comunione materiale e spirituale tra i coniugi, non orienta il rapporto alla generazione della prole, in ragione del fatto che la decisione di procreare è liberamente affidata all'autonomia dei coniugi. Le caratteristiche peculiari dell'istituto matrimoniale impedisce ogni assimilazione con altri istituti con cui gli individui strutturano nuclei familiari. Nonostante il riconoscimento di queste nuove “famiglie”, nel nostro Paese rimane fermo il principio secondo cui la famiglia legittima è fondata sul matrimonio.

Sulla problematica specifica del cognome d'uso comune della coppia unita civilmente, la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 212 del 2018 (in Ilfamiliarista.it, con nota di FASANO) – nel ritenere non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 3, lett. c), n. 2, d.lgs. 19 gennaio 2017 n. 5, che, novellando l'art. 20 d.P.R. 30 maggio 1989 n. 223, dispone che le schede anagrafiche, per le parti delle unioni civili, devono essere intestate al cognome posseduto prima dell'unione civile, escludendo pertanto la rilevanza anagrafica del cognome comune prescelto ai sensi dell'art. 1, comma 10, l. 20 maggio 2016 n. 76, in riferimento agli art. 2,3,11,76 e 117, comma 1, cost., quest'ultimo in relazione all'art. 8 Cedu, nonché agli art. 1 e 7 Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea – ha precisato che la funzione del cognome comune, come cognome d'uso, senza valenza anagrafica, non determina alcuna violazione dei diritti al nome, all'identità e alla dignità personale. Di qui la Corte Costituzionale ha chiarito che la disposizione di cui all'art. 3 d.lgs. n. 5/2017 deve, pertanto, ritenersi legittima nell'ipotesi in cui prevede che la scelta del cognome comune non modifica la scheda anagrafica individuale, nella quale rimane il cognome precedente alla costituzione dell'unione.

Unione civile e matrimonio

Come si è detto sopra la dottrina ha assunto posizioni diversificate con riferimento alla equiparabilità della unione civile e il matrimonio. Alcuni autori hanno parlato di sovrapponibilità tra gli istituti, per altri, al contrario, viene denunciata la sostanziale diversità tra le due discipline. La tesi che ritiene la sovrapponibilità tra gli istituti ritiene che l'obbiettivo di far coincidere le finalità dell'unione civile con quella del matrimonio emergerebbe in maniera univoca già dai lavori preparatori alla legge 76 ed, in particolare, dalla relazione introduttiva, nella quale si precisa che sono state compiute scelte, nel rispetto dell'art. 3 Cost., volte a “limitare al minimo le differenze tra le unioni civili ed il matrimonio .. (in quanto) alla base della scelta di una coppia omosesuale di formalizzare il rapporto di vita familiare pulsano gli stessi desideri e le stesse esigenze che animano la scelta di contrarre matrimonio”. La tecnica normativa, però, prende le distanze dall'istituto matrimoniale. Il testo legislativo esprime sotto il profilo lessicale e sostanziale le opposte istanze delle due correnti politiche che si sono scontrate nella fase di approvazione della novella. La legge è il risultato di un compromesso, non sempre coerente, tra queste correnti di pensiero. Nel d.d.l. S. 2081 erano state estese alle unioni civili molte delle disposizioni riguardanti il matrimonio, poi eliminate nel testo definitivo, come l'obbligo di fedeltà reciproco, l'adottabilità in casi particolari del figlio del partner, la separazione personale. La prima differenza si legge nell'incipit della legge. Con l'art. 1, comma 1, il legislatore usa la seguente espressione: « La presente legge istituisce l'unione civile tra persone dello stesso sesso», contrapponendosi in tal modo al dettato costituzionale in tema di matrimonio, ossia l'art. 29 Cost. che recita «la Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio». Si è già detto che il termine famiglia non è stato mai usato nella stesura della novella, proprio per mettere in evidenza la differenza ontologica tra gli istituti. La lettura della legge suggerisce poche differenze, posto che le unioni civili, come il matrimonio, sono improntate alla stabilità del rapporto e all'attribuzione di diritti e doveri, risultando una formazione familiare comprensiva di quei presupposti formali cui poter ricollegare la nascita di nuovi “status”.

Dopo aver definito gli ambiti entro i quali inquadrare l'istituto «unione civile», nasce spontaneo registrare la profonda trasformazione che, a seguito della riforma, si è verificata nell'ambito della famiglia italiana. Ormai da tempo la legislazione proveniente dai Paesi dell'UE e dalla giurisprudenza delle Corti di Strasburgo e Lussemburgo determinavano interrogativi sulla natura della «famiglia» come fondata sull'istituto matrimoniale. Le unioni civili sono espressione di un modello di famiglia variegato, diverso ormai da quello istituzionale fondato sul rapporto di coniugio e soprattutto sulla diversità di sesso dei partner. Il modello più diffuso resta quello della «famiglia eterosessuale monogamica fondata sul matrimonio», ma non sono pochi gli Stati membri dell'Unione che ammettono anche le convivenze non matrimoniali, sia registrate che di fatto, sia etero che omosessuali, come pure lo stesso matrimonio same sex, con discipline anche esse variamente diversificate, spesso similari a quelle della famiglia tradizionale, rimesse in larga misura alla determinazione pattizia (patti civili di solidarietà, contratti di convivenza, accordi di partenariato). La Corte EDU individua la nozione di famiglia, come contemplata dall'art. 8 CEDU, non solo nelle relazioni fondate sul matrimonio, ma in tutti gli altri legami familiari di fatto non fondati sul vincolo matrimoniale (Corte EDU, 23 maggio 1994, Keegan c. Irlanda). La «dimensione plurale» dell'istituzione familiare esclude la diversità di sesso come il presupposto fondamentale per il riconoscimento dell'istituto e conduce a ritenere «famiglia» tutte le unioni fondate su vincoli di solidarietà e legami affettivi, caratterizzate da continuità e stabilità. In questo contesto normativo e giurisprudenziale, la famiglia «europea», e quindi quella italiana, viene così disancorata dal matrimonio, e questo a sua volta scisso dal requisito della diversità di sesso, un tempo valutato come «l'unico presupposto veramente costante» dell'istituto. Per la Corte europea dei diritti dell'uomo il diritto al matrimonio spetta anche alle persone dello stesso sesso, anche se l'ammissibilità viene, comunque, riservata al potere legislativo dei singoli Stati (Corte EDU, 11 luglio 2002, Goodwin c. Regno Unito e, sulla scia di tale revirement si segnala anche la sentenza della CGUE, 7 gennaio 2004, C-117/2001; il principio è stato ribadito anche dalla pronuncia Corte europea dei diritti dell'uomo, 15 marzo 2012, Gas e Dubois c. Francia, che fa il punto anche sugli orientamenti della giurisprudenziali in materia). Sull'ammissibilità del matrimonio tra persone dello stesso sesso, la Corte di Giustizia non ha avuto ancora occasione di pronunciarsi in maniera definitiva, per il resto, essa è attestata sulle stesse posizioni della Corte EDU, della quale sino ad oggi non ha esitato a recepire tutti gli orientamenti, compreso quello della non automatica estensione alle unioni non matrimoniali degli stessi effetti discendenti dal matrimonio.

L'analisi delle sentenze di entrambe le Corti consente di rilevare un approccio prevalentemente casistico, con particolare riferimento a ben definite situazioni, nelle quali, in applicazione del principio di non discriminazione o in attuazione di diritti fondamentali, si è trattato di garantire anche ai partners di unioni non coniugali il godimento di taluni benefici invece legislativamente accordati alle tradizionali coppie coniugate (come, ad esempio, in materia pensionistiche o in tema di esercizio della funzione genitoriale).

La Corte di Cassazione, I, con sentenza n. 4184/2012, ha ammesso la rilevanza del matrimonio same sex anche nell'ordinamento italiano, ma ne ha negato l'efficacia, sostenendo che il matrimonio civile tra persone dello stesso sesso, celebrato all'estero, non è inesistente, ma soltanto inidoneo a produrre effetti giuridici, anche ai sensi dell'art. 12 CEDU, come evolutivamente interpretato dalla Corte di Strasburgo, secondo cui la diversità di sesso dei nubendi non costituisce presupposto «naturalistico» di esistenza del matrimonio. Secondo la Corte nel nostro ordinamento il matrimonio tra persone dello stesso sesso è inidoneo a produrre effetti perché non previsto tra le ipotesi legislative di unione coniugale. Il nucleo affettivo — relazionale che caratterizza l'unione omo-affettiva, invece, riceve un diretto riconoscimento costituzionale dall'art. 2 Cost. imposto dal rilievo costituzionale dei diritti in discussione e questa formazione può acquisire nel nostro ordinamento un grado di protezione e tutela equiparabile a quello matrimoniale.

Ne consegue che il matrimonio contratto all'estero tra persone dello stesso sesso non è contrario all'ordine pubblico interno, anche se allo stesso non possono essere riconosciuti gli stessi effetti del vincolo matrimoniale. L'operazione di omogeneizzazione può essere svolta dal giudice ordinario e non soltanto dalla Corte costituzionale, in quanto tenuto ad una interpretazione delle norme non soltanto costituzionalmente orientata, ma anche costituzionalmente orientata (Corte cost. n. 150/ 2012).

La Corte costituzionale italiana, 14 aprile 2010, n. 138, è stata chiamata a pronunciarsi sul matrimonio omosessuale, definendo tale unione come «stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone, nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge, il riconoscimento giuridico con connessi diritti e doveri». La decisione della Consulta si è espressa in termini di apertura verso il riconoscimento di vincoli improntati sulla base del principio della solidarietà familiare (art. 2 Cost.). È in questo contesto giuridico e sociale che nascono le unioni civili tra persone dello stesso sesso, espressione di un percorso evolutivo internazionale propenso a riconoscere tutela giuridica a tutti i vincoli tra persone, indipendentemente dal sesso, generati dall'affetto, dalla solidarietà, dalla comunanza di vita e di interessi.

Nonostante la declaratoria di inammissibilità, la Consulta ha esposto nelle motivazioni, in punto di diritto, la necessità di apprestare una qualche forma di tutela civile a favore delle unioni omosessuali, seppure allo stato attuale non necessariamente attraverso il rapporto di coniugio. La corte ha rilevato che l'istituto del matrimonio, per come disciplinato nella Costituzione, nel codice civile e nella legislazione speciale, si riferisce soltanto all'unione stabile tra un uomo e una donna. Successivamente, però, ha aggiunto che l'art. 2 Cost. ai sensi del quale «la repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità» deve essere letto in modo tale da tutelare «anche l'unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone — nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge — il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri». Anche l'unione omosessuale, pertanto, deve farsi rientrare in quelle formazioni sociali tutelate dalla costituzione come luogo di espressione della personalità.

La Consulta afferma che «l'art. 12 CEDU e l'art. 19 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea lasciano al legislatore nazionale di stabilire forme e disciplina giuridica delle unioni tra persone dello stesso sesso. Tali scelte rientrano pienamente nel margine di discrezionalità dei singoli Stati, dovendosi escludere, per questa specifica tipologia di unioni l'imposizione di un modello normativo unico da trarre dal paradigma matrimoniale». Secondo la Corte costituzionale «l'ulteriore riscontro di ciò si desume dall'esame di scelte e delle soluzioni adottate da numerosi Paesi che hanno introdotto, in alcuni casi, una vera e propria estensione alle unioni omosessuali della disciplina prevista per il matrimonio civile, oppure, più frequentemente, forme di tutela molto differenziate e che vanno dalla tendenziale assimilabilità al matrimonio delle dette unioni fino alla chiara distinzione, sul piano degli effetti, rispetto allo stesso».

La decisione della Consulta, espressa in termini di apertura verso il riconoscimento di vincoli improntati sulla base del principio della solidarietà familiare (art. 2 Cost.), si trova in linea con l'indirizzo delle Corti europee.

Dopo la sentenza del 2012, con la pronuncia del 9 febbraio 2015, n. 2400, la Corte di Cassazione ritorna sulla questione del diritto al matrimonio di una coppia omosessuale. Nella specie, viene rigettato il ricorso avverso la decisione della Corte di appello di Roma che, confermando la pronuncia di primo grado, non accoglie la domanda proposta da una coppia omosessuale finalizzata a poter procedere alle pubblicazioni di matrimonio da loro richieste e negate dall'Ufficiale di Stato civile. Si ribadisce il principio secondo il quale è legittima la mancata estensione del regime matrimoniale (nella specie, della possibilità di procedere alle pubblicazioni di matrimonio) alle unioni omoaffettive in linea con quanto affermato dalla sentenza Corte cost. n. 138/ 2010 e Corte cost. n. 170/2014 dell, il cui approdo non può ritenersi superato dalle successive decisioni della Corte di Strasburgo (sentenza Corte EDU 24 giugno 2010, Schalk e Kopf c.Austria e, recentemente, 16 luglio 2014, Hamalainem c. Finlandia) che non impongono una equiparazione, ancorchè il sicuro rilievo costituzionale ex art. 2 Cost. di tali formazioni sociali, e dal nucleo affettivo – relazionale che le caratterizza, comporta che queste unioni possano acquisire un rado di protezione e tutela, anche ad opera del giudice ordinario, tenuto ad una interpretazione della norma costituzionalmente e convenzionalmente orientata, equiparabile a quella matrimoniale in tutte le situazioni nelle quali la mancanza di una disciplina legislativa determini una lesione di diritti fondamentali. Secondo la Corte, la questione relativa alla legittimità e conformità costituzionale del diniego di procedere alle pubblicazioni matrimoniali relative ad un'unione tra due persone dello stesso sesso è identica a quella già affrontata dalla Corte cost. n. 138/2010, « è necessario, pertanto, richiamare preliminarmente i principi stabiliti in questa pronuncia al fine di accertare se siano intervenuti orientamenti successivi da parte della Corte Europea dei diritti umani o dalla stessa Corte costituzionale, in pronunce successive che possano determinare, anche alla luce di alcune opzioni dottrinali, soluzioni diverse».

Sulla base dei principi espressi nella pronuncia, la Cassazione conclude che deve escludersi, secondo la sentenza Cort. cost.. n. 138/2010, che la mancata estensione del modello matrimoniale alle unioni tra persone dello stesso sesso determini una lesione dei parametri integrati della dignità umana e dell'uguaglianza, i quali assumono pari rilievo nelle situazioni individuali e nelle situazioni relazionali rientranti nelle formazioni sociali costituzionalmente protette ex art. 2 e 3 Cost. Per formazione sociale secondo la Corte deve intendersi ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione di un modello pluralistico. Nell'ambito del concetto di formazione sociale, deve essere inclusa anche l'unione omosessuale. Si afferma infatti che «l'unione omosessuale, quale stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone, nei tempi e nei modi stabiliti dalla legge, il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri. Si deve escludere, tuttavia, che l'aspirazione a tale riconoscimento (che necessariamente postula una disciplina di carattere generale, finalizzata a regolare diritti e doveri dei componenti della coppia) possa essere realizzata soltanto attraverso una equiparazione delle unioni omosessuali al matrimonio». Il legislatore, pertanto, ha il compito «nell'esercizio della sua piena discrezionalità, di individuare le forme di garanzia e di riconoscimento delle unioni omosessuali». Si afferma, inoltre, che «il processo di costituzionalizzazione tra persone dello stesso sesso non si fonda, contrariamente a quanto sostenuto dai ricorrenti, sulla violazione del canone antidiscriminatorio di un nucleo comune di diritti e doveri di assistenza e solidarietà propri delle relazioni affettive di coppia e sulla riconducibilità di tali relazioni nell'alveo delle formazioni sociali dirette allo sviluppo, in forma primaria, della personalità umana. Di tale riconoscimento sorge l'esigenza di un trattamento omogeneo di tutte le situazioni che presentano un deficit o un'assenza di tutela dei diritti dei componenti l'unione, derivante dalla mancanza di uno statuto protettivo delle relazioni diverse da quelle matrimoniali nel nostro ordinamento». Quest'approdo, per la Corte di Cassazione, non risulta modificato dai principi elaborati nelle successive pronunce della CEDU e nella sentenza Corte cost. n. 170/2014.

La Consulta, infatti, è tornata a pronunciarsi con le sentenza sopra citata sulla questione delle unioni tra persone dello stesso sesso, dichiarando l'illegittimità costituzionale della disciplina normativa che fa conseguire in via automatica alla rettificazione di sesso lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio preesistente senza preoccuparsi di prevedere per l'unione divenuta omoaffettiva, un riconoscimento e uno statuto dei diritti e dei doveri che ne consenta la conservazione in una condizione coerente con l'art. 2 Cost. Un altro stimolo al legislatore italiano è stato fornito dalla sentenza n. 170 del 2014 della Corte Costituzionale sul tema del c.d. «divorzio d'ufficio», nella quale è stata dichiarata l'illegittimità costituzionale degli artt. 2 e 4 della legge 14 aprile 1982, n. 164 (Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso), nella parte in cui non prevedevano che la sentenza di rettificazione dell'attribuzione di sesso di uno dei coniugi, che provoca lo scioglimento del matrimonio o la cessazione degli effetti civili conseguenti alla trascrizione del matrimonio, consentisse, comunque, ove entrambi lo richiedevano, di mantenere in vita un rapporto di coppia giuridicamente regolato con altra forma di convivenza registrata, che tutelasse adeguatamente i diritti ed obblighi della coppia medesima, con le modalità da statuirsi dal legislatore. In altre parole, la Corte ha concluso che il divorzio imposto a seguito di sentenza di rettificazione di sesso era incostituzionale e che spettava al legislatore garantire che fosse prevista un'alternativa al matrimonio, che consentisse a tale coppia di evitare la trasformazione nella loro situazione, passando dalla massima protezione giuridica a una condizione di assoluta incertezza.

In tema di divorzio imposto si è, in seguito, pronunciata anche la Corte di Cassazione che, recependo il dictum della Corte Costituzionale, con sentenza n. 8097/2015, ha affermato il principio secondo cui: « La rettificazione di attribuzione di sesso di persona coniugata non può comportare, a seguito della declaratoria di illegittimità costituzionale degli artt. 2 e 4 della legge 14 aprile 1982, n. 164, operata con la sentenza, additiva di principio, n. 170 del 2014 della Corte costituzionale, la caducazione automatica del matrimonio, poiché non è costituzionalmente tollerabile, attesa la tutela di cui godono le unioni tra persone dello stesso sesso ai sensi dell'art. 2 Cost., una soluzione di continuità del rapporto, tale da determinare una situazione di massima indeterminatezza del nucleo affettivo già costituito, sicchè il vincolo deve proseguire, con conservazione ai coniugi del riconoscimento dei diritti e doveri conseguenti al matrimonio, sino a quando il legislatore non intervenga per consentire alla coppia di mantenere in vita il rapporto con altra forma di convivenza registrata che ne tuteli adeguatamente diritti ed obblighi». La Suprema Corte, pertanto, dichiara che deve essere conservato alla coppia unita in matrimonio, nel caso in cui ad uno dei coniugi sia stata riconosciuta la rettificazione di sesso, il riconoscimento dei diritti ed i doveri scaturenti dal vincolo matrimoniale, sino a quando il legislatore non consenta ad essi di mantenere in vita il rapporto di coppia giuridicamente regolato con altra forma di convivenza registrata. Per completezza si segnala che la Suprema Corte era intervenuta con la sentenza n. 15138 del 2015, stabilendo che: «Alla stregua di una interpretazione costituzionalmente orientata, e conforme alla giurisprudenza della CEDU, dell'art. 1 della l. n. 164 del 1982, nonché del successivo art. 3 della medesima legge, attualmente confluito nell'art. 31, comma 4, del d.lgs. n. 150/ 2011, per ottenere la rettificazione del sesso nei registri dello stato civile, deve ritenersi non obbligatorio l'intervento chirurgico demolitorio e/o modificativo dei caratteri sessuali anatomici primari. Invero, l'acquisizione di una nuova identità di genere può essere il frutto di un processo individuale che non ne postula la necessità, purchè la serietà ed univocità del percorso prescelto e la compiutezza dell'approdo finale sia oggetto, ove necessario, di accertamento tecnico in sede giudiziale».

Certamente più aperta a concreti riconoscimenti giuridici dei diritti delle coppie omosessuali si è mostrata la giurisprudenza di merito.

A tal fine si segnala il Tribunale di Reggio Emilia, con ordinanza del 13 febbraio 2012, ha ritenuto che il matrimonio contratto in Spagna da una coppia omosessuale fosse valido ai fini dell'ottenimento di un permesso di soggiorno in Italia, alla luce delle direttive dell'Unione europea e della loro trasposizione nella legislazione italiana, nonché della Carta europea dei diritti fondamentali. In tale ricorso, le parti non avevano chiesto al giudice di riconoscere il loro matrimonio, bensì di riconoscere il loro diritto alla vita familiare in Italia, in ragione del vincolo esistente tra loro.

Nella sentenza del 3 aprile 2014, il Tribunale di Grosseto ha dichiarato l'illegittimità del diniego di trascrizione del matrimonio contratto all'estero da una coppia omosessuale. Il Tribunale ha, di conseguenza, ordinato alla competente autorità pubblica di procedere alla trascrizione del matrimonio. In fase di esecuzione, il provvedimento è stato appellato dal P.M. e, con sentenza del 19 settembre 2014, la Corte di appello di Firenze, avendo rilevato un errore procedurale, ha annullato la decisione di primo grado e ha rimesso la causa al Tribunale di Grosseto.

Forti spinte al riconoscimento delle unioni same sex sono pervenute al legislatore italiano anche dalle istituzioni europee e dal sistema della Convenzione europea dei diritti dell'uomo.

Nel 2015, la Corte EDU (sentenza del 21 luglio 2015, causa Oliari c. Italia) ha condannato l'Italia per la violazione dell'art. 8 della CEDU, non avendo ottemperato all'obbligo positivo di garantire ai ricorrenti un quadro giuridico che prevedesse il riconoscimento e la tutela delle unioni omosessuali.

Questi i passaggi argomentativi più interessanti:

1) Benché il fine essenziale dell'articolo 8 CEDU sia la tutela delle persone dall'ingerenza arbitraria delle autorità pubbliche, attraverso l'imposizione di obblighi negativi sugli stati contraenti la Convenzione, esso può anche porre in capo allo Stato alcuni obblighi positivi.

2) I principi applicabili per valutare gli obblighi positivi e negativi dello Stato ai sensi della Convenzione sono simili. Si deve tener conto del giusto equilibrio da garantire tra gli interessi concorrenti dell'individuo e della collettività nel suo insieme.

3) La nozione di «rispetto» non è netta, specialmente per quanto riguarda gli obblighi positivi: vista la diversità delle prassi seguite e delle situazioni createsi negli Stati contraenti, i requisiti di tale nozione variano considerevolmente a seconda dei casi Ciononostante alcuni fattori sono stati considerati rilevanti ai fini della valutazione del contenuto di tali obblighi positivi degli Stati.

4) Nel caso di specie ha rilevanza l'effetto che ha per un ricorrente una situazione in cui vi è divergenza tra la realtà sociale e la legislazione, dato che la coerenza delle prassi amministrative e giuridiche del sistema interno è considerata un fattore importante nella valutazione effettuata ai sensi dell'articolo 8.

5) Le coppie omosessuali hanno la stessa capacita delle coppie eterosessuali di instaurare relazioni stabili e necessitano di riconoscimento giuridico e tutela della loro relazione.

La Corte di Strasburgo ha concluso affermando che «non avendo il Governo italiano dedotto un interesse collettivo prevalente in rapporto al quale bilanciare gli importantissimi interessi dei ricorrenti, così come individuati in precedenza, e alla luce del fatto che le conclusioni dei tribunali interni in materia sono rimaste lettera morta, la Corte conclude che il Governo italiano ha ecceduto il suo margine di discrezionalità e non ha ottemperato all'obbligo positivo di garantire che i ricorrenti disponessero di uno specifico quadro giuridico che prevedesse il riconoscimento e la tutela delle loro unioni omosessuali».

Prima della legge n. 76/2016: rapporti atipici di coniugio

Il diritto vivente registrava già da tempo l'utilizzo di schemi atipici del rapporto di coniugio, con tendenza dei singoli all'utilizzo di strumenti giuridici propri del matrimonio (diritti successori, strumenti sanzionatori ecc.), che consentivano la completa privatizzazione del rapporto. Addirittura si riteneva che l'apertura verso il riconoscimento dell'autonomia e verso i patti di convivenza, avrebbe consentitola possibilità di realizzare ipotesi di vincolo più intenso ed «eticamente più stringente» a confronto del modello coniugale del diritto di famiglia tradizionale. Con riferimento alla disciplina del rapporto, la giurisprudenza ha sempre ritenuto che pur non dovendosi in linea di massima applicare ai rapporti di fatto le norme relative al matrimonio, proprio perché gli stessi componenti scelgono tale forma di convivenza per non essere ad esse sottoposti, pur tuttavia tali principi, in virtù della loro rilevanza ed assolutezza a prescindere dal tipo di rapporto prescelto, possono per analogia essere applicati anche alla famiglia di fatto. L'evoluzione del diritto familiare e del costume sociale aveva portato l'ingresso di modalità di convivenza non fondata sul matrimonio. Nell'ambito dei rapporti di fatto, si faceva anche riferimento ad esperienze di vita comune di persone legate da vincoli di vario tipo, anche non assimilabili al rapporto coniugale, come parentela, amicizia, idealità, credenze. Anche oggi, dopo la legge Cirinnà, sotto il profilo della regolamentazione giuridica, le unioni non fondate sul matrimonio costituiscono rapporti provvisori, basati sostanzialmente sull''affectio, ma sempre liberamente revocabile dalle parti. I legami sono caratterizzati da un'accentuazione individualistica tendente ad assegnare preminenza alle ragioni del singolo rispetto alle esigenze proprie della coppia. Il rapporto di coniugio dà luogo, invece, ad una forma istituzionale stabile (la c.d. «famiglia legittima»), all'interno della quale deve essere ricondotto rilievo primario e prevalente alle esigenze del nucleo rispetto ai diritti e alle libertà personali del singolo componente Analogamente la legge sulle unioni civili regolamenta rapporti stabili, che hanno rilievo nel vivere civile, sotto il profilo degli effetti riconducibili alla famiglia fondata sul matrimonio, ma certamente differenti da unioni semplicemente di fatto.

Queste unioni, infatti, non regolamentate, tra persone dello stesso sesso, ovviamente non possono essere ricondotte all'istituto dell'unione civile. Esse rimangono fuori da ogni forma di disciplina in ragione della volontà dei singoli di non vedere inquadrato il proprio rapporto secondo regole precise, pur continuando ad essere riconosciute dall'ordinamento come consorzi familari, ovviamente laddove è possibile rinvenire in tali sodalizi tale assimilazione.

Le innovazioni legislative in Europa e le soluzioni giurisprudenziali registrano legami di convivenza diversi dal modello coniugale, di ampia estensione come il rapporto di convivenza omosessuale. L'Italia, fino a questo momento, aveva preso le distanze da altri Paesi europei dove, in anni recenti, si era già giunti ad una regolamentazione di tali unioni ed in molte democrazie contemporanee era da tempo diffuso il tentativo culturale di ampliare la portata del principio di uguaglianza, e quindi di estendere le caratteristiche del rapporto di coniugio anche a rapporto atipici di coniugio, interpretandolo come protettivo anche del c.d. «orientamento sessuale» dei singoli (sulla scia di questa interpretazione estensiva del principio di uguaglianza nello specifico settore delle unioni familiari, si cerca di assicurare tutela giuridica anche alle unioni stabili tra omossessuali e transessuali).

Con la legge n. 76 del 2016, lo schema iniziale e tradizionale che configurava le convivenze more uxorio come semplici unioni non formalizzate sul piano giuridico ed instaurate tra persone di sesso diverso o anche dello stesso sesso che non hanno intenzione di formalizzare il legale viene definitivamente superato, se i componenti lo richiedono espressamente, in caso contrario si continua a ritenere il legame un rapporto di fatto, non regolamentato, ossia un “rapporto atipico di coniugio”, a cui la giurisprudenza, ravvisandone i presupposti, può riconoscere le stesse tutele garantite per le unioni riconosciute. I rapporti familiari di fatto si distinguono e si qualificano per la loro spontaneità sociale e giuridica, per la loro libertà di forma e di obiettivi, per la loro capacità di auto organizzarsi, laddove nel matrimonio e adesso nell'unione civile è l'esistenza del vincolo a determinare gli effetti voluti dalla legge. Mentre nelle convivenze omosessuali (ed eterosessuali) prive di regolamentazione tali effetti sono spontaneamente recepiti dalle parti, che, accettando canoni e regole di tipo familiare, dimostrano all'esterno di essere una famiglia e, quindi, ad averne riconosciuti analogicamente i relativi diritti. Questa tendenza culturale, come vedremo nel prosieguo della trattazione, è stata avallata anche a livello di legislazione comunitaria. Si ricorda che l'Assemblea parlamentare europea si è occupata del problema approvando una Risoluzione (A3 — 0028/94), concernente la questione della parità dei «diritti degli omosessuali» all'interno della Comunità europea, che ha affermato l'esigenza di un eguale trattamento giuridico di tutti i cittadini comunitari a prescindere dalle loro rispettive tendenze sessuali. Il documento richiede l'abolizione da parte dei Governi di tutte le disposizioni di legge che criminalizzano e discriminano i rapporti sessuali tra persone dello stesso sesso, nonché l'eliminazione di eventuali norme giuridiche di carattere nazionale implicanti «una disparità di trattamento tra persone con orientamento omosessuale», insieme ad un parallelo impegno degli Stati «ad adottare misure e intraprendere campagne, in cooperazione con le organizzazioni nazionali degli omosessuali contro tutte le forme di discriminazione sociale nei confronti degli omosessuali».

Sulla base di tale premessa, la Risoluzione esprime un invito a rimuovere gli eventuali impedimenti legislativi ostativi al riconoscimento civile del matrimonio di coppie omosessuali, ovvero a un istituto giuridico equivalente, garantendo pienamente diritti e vantaggi del matrimonio e consentendo la registrazione delle unioni.

Come si è visto la legge n. 76 del 2016 ha evitato ogni esplicito riferimento al concetto di famiglia e soprattutto al rilievo costituzionale del matrimonio (art. 29 Cost.), tuttavia individuare le unioni civili solo come “formazioni sociali” è certamente molto riduttivo,    in quanto con l'istituzione di una unione civile i  partners  acquistano un nuovo status sociale, anzi un vero e proprio status  familiae , da cui derivano, come abbiamo visto, specifici diritti    e doveri.

Come si è detto sopra, la giurisprudenza di legittimità e di merito aveva espresso aperture, garantendo tutela giuridica a rapporti atipici di coniugio e dando rilievo giuridico anche a forme di convivenza tra persone dello stesso sesso. È molto forte la tendenza dell'ordinamento verso la giuridicizzazione di tale rapporti, basati sostanzialmente su valori affettivi soprattutto in presenza di prole. La convivenza “more uxorio” è stata sempre considerato una formazione sociale che dava vita ad un autentico consorzio familiare (Cass. n. 20062/2021; Cass. n. 10377/2017; Cass. n. 7/2014). La dottrina tradizionale per lungo tempo non ha condiviso questo entusiasmo, posto che il riconoscimento di rapporti atipici di coniugio, spesso inseriti nella plurivoca espressione di «famiglia di fatto», quale gruppo formato fuori dal matrimonio, e l'adeguarsi a questa forte evoluzione di costume, avrebbe significato manifestare un'inversione di tendenza rispetto allo schema rigido impostato legislativamente. Il termine «famiglia di fatto» è stato spesso usato in modo equivoco, in quanto riferito a diverse esperienze di gruppi sociali non omogenei e molto differenziati quanto ai criteri di appartenenza, alle funzioni svolte, ed alle loro stesse dimensioni. Il matrimonio determina effetti tipici, sottratti all'autonomia dei coniugi, in quanto determinati per legge. Secondo le posizioni dottrinali più resistenti al cambiamento, ormai superate, appariva problematico il riconoscimento giuridico di comunioni di vita, quali rapporti atipici di coniugio, in quanto ciò avrebbe significato una diminuzione della tutela della famiglia all'interno del sistema. Al contrario, invece, l'evoluzione sociale e culturale è partita proprio da questa espressione del costume sociale per valorizzare maggiormente il ruolo dell'autonomia degli individuiall'interno del rapporto, che non può rimanere circoscritta ai rapporti matrimoniali. L'autonomia dovrebbe riguardare i rapporti nuovi, anche tra persone dello stesso sesso, verso una determinazione concordata dei diritti e dei doveri legati al rapporto, come modalità di attuazione del principio di uguaglianza e come regole di identità e reciprocità dei diritti e dei doveri dei componenti di questi nuovi nuclei familiari. La Suprema Corte, recentemente ha precisato che: “ Quanto ai diritti delle coppie di egual seso, vanno ricordati, in particolare, l'art. 12 della Convenzione europea dei Diritti dell'Uomo, predetta, circa il diritto di sposarsi e formare una famiglia, nonché gli artt. 8 e 14, riguardo al rispetto della vita privata e familiare e al divieto di ogni discriminazione fondata sul sesso e su ogni altra condizione. Va pure richiamata la Cara europea dei diritti fondamentali (all'orgine Carta di Nizza del 2001): l'art. 9 sancisce il diritto, per ogni individuo, di sposarsi e costituire una famiglia, garnatio dalle leggi dei singoli Stati; l'art. 21 vieta le discriminazioni: non solo quella del sesso ( e si intende in genere la discriminazione della donna rispetto all'uomo), ma anche per “orientamento sessuale”. Relativamente alla nostra Costituzione, può ricordarsi il principio di uguaglianza, indipendentemente dal sesso (e dunque anche dall'orientamento sessuale) (art. 3) e la protezione dei diritti fondamentali nelle formazioni sociali in cui si svolge la personalità dell'individuo (art. 2) (e tra esse possono sicuramente annoverarsi tipologie familiari, diverse dalla famiglia fondata sul matrimonio, garantita dall'art. 29). E, ancora, l'impegno ad eliminare gli ostacoli che impediscono lo sviluppo della persona umana, riguardante ogni individuo, in particolare quelli soggetti a discriminazione tra cui storicamente possono considerarsi le coppie omosessuali (art. 3).” (Cass. n. 14878/2017; Cass. n. 32871/2018).

Per i rapporti non regolamentati dall'ordinamento, il patto consentirebbe la disciplina della convivenza. Secondo un indirizzo della dottrina, infatti, esisterebbe nel nostro ordinamento lo strumento dell'art. 144 c.c. che non è stato pienamente valorizzato per ragioni di costume, ma può prestarsi efficacemente a fornire lo strumento di determinazioni negoziali se il costume si orientasse verso pratiche di contratto coniugale nel senso della norma (Zatti, 1999).

Il consenso, l'accordo, assumerebbero rilievo sia al momento della costituzione del rapporto di fatto, sia al momento del suo scioglimento, così rappresentando una regola del governo della famiglia non regolamentata. Ne consegue che ogni decisione dai partner presa nell'interesse della famiglia viene demandata all'accordo, secondo una gestione paritaria degli affari familiari.. Valorizzando meglio il ruolo del consenso potrebbe trovare completamento quel processo di privatizzazione già in corso, giungendosi così a limitare in maniera decisiva l'intervento pubblico nell'ambito delle relazioni familiari, relegandone gli effetti solo a funzioni certificative o ricognitive. Questo processo è avvenuto con la legge Cirinnà che prevede espressamente i contratti di convivenza, riferibili alle unioni eterosessuali ed a quella omosessuali. Ma il patto, inteso come accordo, come consenso, pur non espressamente formalizzato, è certamente un valido ausilio anche per le unioni non regolamentate dall'ordinamento. Rimane fermo il principio, largamente sostenuto, secondo cui che le unioni di fatto non possono essere in alcun modo assimilate al «rapporto di coniugio», rimanendo una semplice manifestazione di consuetudini di vita, qualificabile per la sua spontaneità sociale e giuridica.

La Corte costituzionale, con la sentenza, n. 166/1998, aveva affermato che «la convivenza more uxorio rappresenta l'effetto di una scelta di libertà dalle regole costruite dal legislatore per il matrimonio, donde l'impossibilità, pena la violazione della libera determinazione delle parti, di estendere alla famiglia di fatto, per la diversità di situazioni raffrontate, le regole anche processuali connesse all'istituto matrimoniale».Secondo la Consulta (Corte cost. n. 352/2000) «la convivenza more uxorio è diversa dal vincolo coniugale, e a questo non meccanicamente assimilabile, al fine di desumere l'esigenza costituzionale di una parificazione di trattamento, essa, infatti, manca dei caratteri di stabilità e certezza propri del vincolo coniugale, essendo basata sull'affectio coniugali quotidiana, liberamente ed in ogni istante revocabile». Oggi nel nostro Paese possiamo registrate la presenza di quattro tipi di consorzi familiari: le unioni civili, le convivenze di fatto disciplinate da accordi di convivenza, le unioni non regolamentate ( o convivenza “more uxorio”) e il matrimonio.

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