Codice Civile art. 180 - Amministrazione dei beni della comunione (1).

Gustavo Danise
aggiornato da Francesco Bartolini

Amministrazione dei beni della comunione (1).

[I]. L'amministrazione dei beni della comunione e la rappresentanza in giudizio per gli atti ad essa relativi spettano disgiuntamente ad entrambi i coniugi [210 3, 1105].

[II]. Il compimento degli atti eccedenti l'ordinaria amministrazione, nonché la stipula dei contratti con i quali si concedono o si acquistano diritti personali di godimento e la rappresentanza in giudizio per le relative azioni spettano congiuntamente ad entrambi i coniugi [182; 102 c.p.c.].

(1) Articolo così sostituito dall'art. 59 l. 19 maggio 1975, n. 151. L'art. 55 della stessa legge, ha modificato l'intitolazione di questa Sezione e soppresso la suddivisione in paragrafi.

Inquadramento

Dopo aver indicato negli artt. da 177 a 179 c.c. i beni ed acquisti che ricadono in comunione legale, e quelli che ne rimangono esclusi, il legislatore prevede nell'art. 180 le regole che governano l'amministrazione dei beni in comunione. La disposizione in commento affida all'accordo dei coniugi le decisioni più importanti inerenti al patrimonio in comunione — atti di straordinaria amministrazione —, privilegiando, diversamente, il modello più celere dell'amministrazione disgiunta per gli atti rientranti nel menage familiare quotidiano — atti di ordinaria amministrazione —. La norma pone, però, problemi interpretativi per quanto concerne la distinzione tra atti di amministrazione ordinaria e straordinaria, non offrendo alcun criterio discretivo. Tale compito è affidato agli interpreti; ma si tratta di una questione di estrema importanza, perché da essa discende una diversa modalità di amministrazione, con ricadute pratiche evidenti per quanto concerne la legittimazione sostanziale e processuale di un coniuge, la tutela spettante al coniuge pretermesso dal compimento di un atto ed il potere di veto esercitabile da ciascun coniuge sugli atti che l'altro si accinge a compiere. Le norme codicistiche sulla comunione legale si applicano anche alle unioni civili se non disposto diversamente dai costituenti con convenzione matrimoniale come sancito dall'art. 1 comma 13 l. n. 76/2016; per cui la trattazione si estende anche alle unioni civili. Il regime patrimoniale nelle convivenze di fatto è invece regolato dai conviventi con un contratto di convivenza ex art. 1 comma 50 ss. della medesima legge.

Considerazioni generali sull'amministrazione dei beni in comunione legale

Le norme sull'amministrazione della comunione legale sono inderogabili (art. 210 comma 3 c.c.). Il rapporto fra il comma 1 ed il comma 2 sintetizza le contrapposte esigenze di garantire celerità e snellezza nell'assunzione delle decisioni concernenti lo svolgimento quotidiano della vita familiare, da un lato, e di tutelare, dall'altro, mediante l'amministrazione congiunta, la sfera patrimoniale di entrambi i coniugi nel compimento di atti che incidono in maniera incisiva sul patrimonio comune (Barbiera, 527; Busnelli, 40). In dottrina vi è chi evidenzia (Paladini, 79) come il legislatore abbia utilizzato in maniera impropria il termine «amministrazione», giacchè il bene o il complesso patrimoniale ricadente in comunione non risulta preordinato al soddisfacimento di un interesse superiore a quello dei singoli contitolari (in senso contrario, De Paola, 267 ss. sostiene la tesi che configura la comunione legale come un patrimonio destinato al soddisfacimento dei bisogni della famiglia; ma si tratta di una tesi isolata, smentita da alcuni dati normativi, come la mancata inclusione tra i beni oggetto della comunione legale, dei proventi dell'attività separata di ciascun coniuge, nonché l'espressa previsione [art. 186, lett. d), c.c.] della responsabilità dei beni della comunione per le obbligazioni contratte congiuntamente dai coniugi per cause anche estranee alle esigenze della famiglia), bensì si sostanzia nell'esercizio delle normali facoltà di conservazione, godimento e disposizione dei singoli beni che ne fanno parte (in tal senso Corsi, 121 ss.; Cian-Villani, 337 ss.; Barbiera, 448 ss.; Santosuosso, 230 ss.; Finocchiaro A. e M., 1029 ss.; Giusti, 1989; Schlesinger, 162 ss.; De Paola, 513 ss.; Di Martino, 1998, 165 ss.; Bruscuglia, 243 ss.; Anelli, 235 ss.; Saporito, 275 ss.; Valignani, 463 ss.). D'altra parte, va rimarcato che la comunione legale tra coniugi non configura una forma di contitolarità dei singoli beni che la compongono (Furgiuele, 186 sosteneva che la comunione legale determinasse una contitolarità dei coniugi sui beni, ma tale tesi isolata è stata abbandonata dalla dottrina maggioritaria, oltre che sconfessata dalla giurisprudenza della sentenza C orte c ost. n. 311/ 1988), alla stregua della comunione ordinaria, ma una forma di «proprietà solidale» in forza della quale sussiste piena corrispondenza tra «titolarità (comune o esclusiva) del diritto» e «legittimazione (disgiunta o congiunta) all'esercizio delle facoltà» costituenti il contenuto di quel medesimo diritto, l'amministrazione della comunione non si risolve in un'attività meramente conservativa o funzionale dei beni, ma designa la legittimazione di ciascun coniuge al compimento di atti materiali e giuridici sui medesimi come se ne fosse pieno ed esclusivo proprietario, senza che assuma alcuna rilevanza l'acquisto congiunto o separato, e, di conseguenza, il profilo della formale «intestazione» dei singoli cespiti (Bruscaglia, 245 ss). Quest'ultima osservazione trae le mosse dalla considerazione che la comunione legale è senza quote, a differenza di quella ordinaria, per cui nessun coniuge può avanzare autonomamente istanza di divisione, se non vi è il consenso dell'altro alla cessazione della comunione, mentre ciascun coniuge può legittimamente disporre dei beni in comunione, salva la ratifica che deve essere prestata dall'altro ove l'atto dispositivo rientra nell'ambito della straordinaria amministrazione.

In giurisprudenza di legittimità è consolidato l'orientamento secondo cui la comunione legale tra coniugi, a differenza da quella ordinaria, è una comunione senza quote, nella quale i coniugi non sono individualmente titolari di un diritto di quota, bensì solidalmente titolari, in quanto tali, di un diritto avente per oggetto i beni della comunione (Cass. n. 10653/2015). Da questo principio basilare consegue che, mentre nei rapporti con i terzi ciascun coniuge non ha diritto di disporre della propria quota, può tuttavia disporre dell'intero bene comune, ponendosi il consenso dell'altro coniuge come negozio unilaterale autorizzativo diretto alla rimozione di un limite all'esercizio del diritto dispositivo sul bene (Cass. n. 14093/2010; Cass. n. 21058/2007; Cass.S.U.n. 17952/2007; Corte cost. n. 311/1988), la cui mancanza, ove si tratti di bene immobile o mobile registrato, si traduce in un vizio del negozio.

Gli ermellini hanno precisato che in tema di regime patrimoniale della famiglia, la disciplina dell'amministrazione dei beni oggetto della comunione legale, di cui agli artt. 180 e ss. c.c., presuppone, per la sua operatività, che il bene sia già oggetto della comunione. Pertanto, l'annullamento dell'atto, per violazione della regola dell'operare congiunto dei coniugi - la cui osservanza è necessaria ai fini della validità degli atti eccedenti l'ordinaria amministrazione - può essere chiesto dal coniuge che non ha dato il necessario consenso, quando si tratta di negozi ad efficacia reale od obbligatoria diretti all'alienazione o alla costituzione di diritti reali su beni immobili o su beni mobili registrati, mentre non colpisce gli atti di acquisto. (Cass., ord.n. 21650/2019); principio espresso anche in giurisprudenza di merito con riferimento ad una donazione di un bene in comunione stipulata da un solo coniuge senza il consenso dell'altro (Trib. Crotone sentenza del 12.05.2020).

Amministrazione ordinaria e straordinaria: distinzione

Come si è anticipato nel § 1, il legislatore non offre una tipizzazione degli atti di ordinaria e straordinaria amministrazione, rimettendo all'interprete il problema della loro individuazione. Sulla distinzione tra i due tipi di atti, fondamentale perché da essa discendono due diversi modelli di amministrazione, sono stati elaborati in dottrina diversi criteri. Una corrente di pensiero, rimasta minoritaria, ritiene applicabili per analogia i criteri elaborati con riguardo ai patrimoni dei minori e degli interdetti(artt. 320,374,375 c.c.), ritenendo, pertanto, che si versi nell'ambito della straordinaria amministrazione in presenza di atti in grado di alterare la consistenza del patrimonio (Barbiera, 449; Majello, 6). Tale opinione è confutata da altri autori che rilevano come, nell'amministrazione dei beni in comunione legale, difetti l'esigenza della conservazione dell'integrità patrimoniale, che caratterizza, invece, l'amministrazione dei patrimoni di minori ed incapaci. Pertanto, tali autori privilegiano il criterio di qualificazione fondato sull'«essenzialità dell'affare», in relazione alle esigenze dell'economia e della vita familiare (Bianca, 79 ss.; Giusti, 92 ss.; De Paola, 534 ss., secondo cui sono di ordinaria amministrazione «tutti gli atti che, a priori, secondo la comune valutazione sociale, senza intaccare l'integrità del patrimonio e senza riguardare gli affari essenziali della famiglia, sono compiuti per la normale conservazione, manutenzione e recupero dei beni della comunione o per soddisfare le normali, quotidiane e minute esigenze della vita familiare; sono di straordinaria amministrazione e rientrano nella competenza congiunta dei coniugi gli atti di maggior importanza economica-sociale, suscettibili di alterare l'integrità del patrimonio o di trascendere l'ambito della normale gestione dell'economia familiare e, quindi, tali da comportare scelte decisionali di fondo, in grado di alterare la consistenza del patrimonio o le condizioni di vita della famiglia»). Tale impostazione, che si fonda sull'equiparazione tra atti di straordinaria amministrazione ed atti dispositivi di beni immobili o beni mobili registrati (art. 184 c.c.), appare superata dall'evoluzione della moderna economia, che ha fatto registrare una progressiva «mobilizzazione» della ricchezza, con la diffusione tra i risparmiatori degli investimenti finanziari ed il contestuale decremento del valore degli immobili. Sotto il profilo della rilevanza economica, dunque, non si può affermare che l'atto riguardante beni mobili debba essere considerato, in ogni caso, di ordinaria amministrazione; né che, correlativamente, ogni atto concernente beni immobili richieda comunque il compimento congiuntivo da parte di entrambi i coniugi in quanto atto di straordinaria amministrazione. Pertanto, la dottrina moderna, ritiene di annoverare tra gli atti di straordinaria amministrazione quelli di alienazione, a prescindere della natura, immobiliare o mobiliare e dal valore della res alienata (Ricca, 480). Tale soluzione è osteggiata da un pregevole autore, che evidenzia come essa ostacolerebbe sia la gestione della famiglia sia la circolazione dei beni mobili (Cendon, 230 ss.); ed ha proposto, pertanto, un correttivo, secondo cui, nell'ambito delle alienazioni mobiliari, occorre distinguere tra i beni pertinenti all'abitazione familiare o destinati alle esigenze quotidiane dei componenti della famiglia, per i quali l'esigenza della loro conservazione giustifica la legittimazione congiuntiva all'atto di alienazione, e i beni strumentali in modo soltanto indiretto ai bisogni familiari (ad esempio, obbligazioni, titoli di Stato), per i quali l'esigenza della rapida commerciabilità e circolazione sul mercato induce a consentire la legittimazione disgiuntiva di ciascuno dei coniugi, al quale l'art. 144, comma 2, c.c., riserva l'attuazione dell'indirizzo della vita familiare (Cendon, 300 ss.). Tale ultima impostazione risulta, pervero, poco praticabile nella sua attuazione concreta; infatti, posto che l'amministrazione disgiunta attribuisce legittimazione a disporre a ciascuno coniuge, il discendente potere di amministrazione sconta un'oggettiva limitazione nelle ipotesi in cui il bene mobile da alienare è sottoposto ad un mezzo di iscrizione, registrazione o altro mezzo di pubblicità da cui risulti che il formale intestatario del predetto bene è l'altro coniuge. In tali ipotesi, il terzo contraente potrebbe rifiutarsi di acquistare i valori mobiliari, sulla scorta dell'evidente iato tra il disponente e colui che risulta intestatario formale del bene. In pratica, l'amministrazione disgiunta su beni mobili è praticabile proficuamente solo per le alienazioni di beni mobili non soggetti a particolari oneri pubblicitari e per titoli di credito al portatore; per i titoli nominativi ricadenti in comunione legale, sarebbe opportuno che il coniuge intestatario formale del bene rilasci al coniuge amministratore una formale procura ad alienare il bene per assicurare la proficua conclusione dell'atto dismissivo. Tale modus operandi deroga ai principi dell'amministrazione disgiuntiva ex art. 180 comma 1, ma si rende necessario a cagione dell'interferenza con la disciplina normativa speciale dettata per la circolazione di determinati beni e valori mobiliari soggetti ad un peculiare sistema di pubblicità. In dottrina si discute, altresì, dell'ammissibilità della alienazione della quota sui singoli beni della comunione legale. La tesi che ammette tale alienazione sottolinea come non si configuri, in tale ipotesi, uno scioglimento della comunione legale relativamente al bene oggetto dell'atto di alienazione, bensì un atto di alienazione, riguardante un bene della comunione, non già per l'intero ma nei limiti di una quota. A sostegno di tale conclusione milita altresì il dato normativo dell'art. 184 c.c. che riconosce la validità ed efficacia dell'atto di disposizione compiuto da un solo coniuge, se non impugnato entro il termine annuale previsto da tale articolo, per cui appare incoerente sostenere l'opposta testi dell'inefficacia dell'alienazione di una quota di quello stesso bene. Nulla impedisce, inoltre, ai coniugi di essere comproprietari di beni insieme a terzi, con applicazione del regime di comunione legale limitatamente alla quota posseduta (contra, però,Trib. Bergamo, sez. II, n. 1716/2023: Nella comunione legale dei coniugi, a differenza di quella ordinaria, non è ammessa la partecipazione di terzi alla comunione e quindi, nei rapporti con i terzi, ciascun coniuge può disporre dell'intero bene, anche se non ha diritto di disporre della propria quota, ponendosi il consenso del coniuge come negozio unilaterale autorizzativo che rimuove un limite all'esercizio dispositivo del bene). Nel caso in cui l'alienazione della quota sia compiuta da uno dei coniugi separatamente, valgono le conseguenze stabilite dall'art. 184 c.c. I rapporti giuridici tra i coniugi ed il terzo comproprietario saranno regolati, a loro volta, dalle norme sulla comunione ordinaria, restando operante, invece, il regime di comunione legale quanto alla quota ancora appartenente ai coniugi (Bruscaglia, 247 ss).

A proposito della  distinzione tra atti di ordinaria e straordinaria amministrazione in genere  la Corte di Cassazione (Cass. n. 1562/1999 e Cass. n. 5244/1991) aveva affermato che atti di straordinaria amministrazione sono certamente gli atti di disposizione e che essi richiedono quindi il consenso di entrambi i coniugi. La stessa Suprema Corte di Cassazione ha ritenuto che il conseguimento di una somma di denaro a titolo di risarcimento dei dannipatiti da entrambi i coniugi rientrasse nell'ordinaria amministrazione; di conseguenza ciascun coniuge possiede la legittimazione processuale ad agire disgiuntamente in giudizio per la rivendicazione della predetta somma. Tale soluzione è stata offerta anche con riferimento al corrispettivo per il godimento del bene, cui può essere equiparata, a tale limitato profilo, l'indennità per la requisizione e quella per l'espropriazione (Cass. n. 5526/2005). Sono stati annoverati dalla Cassazione tra gli atti di ordinaria amministrazione anche le spese sostenute per la conservazione ed il godimento della cosa comune, i contributi condominiali, le spese per le innovazioni e per i miglioramenti dei beni in comunione legale (Cass. n. 1038/1995). Alla luce di tale impostazione, in presenza di unità immobiliari in regime di comunione legale tra coniugi, la legittimazione ad impugnare le delibere assembleari spetta a ciascun coniuge separatamente, trovando applicazione l'art. 180, comma 1, c.c., secondo cui la rappresentanza in giudizio per gli atti relativi all'amministrazione dei beni della comunione spetta ad entrambi; ne consegue che, in caso di partecipazione all'assemblea di uno solo dei coniugi, ove vengano deliberati argomenti non inseriti all'ordine del giorno, il coniuge non presente può impugnare la delibera ai sensi dell'art. 1137, comma 2, c.c. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha affermato l'irrilevanza, ai fini dell'ammissibilità e della fondatezza dell'impugnazione proposta da un coniuge, della presenza all'assemblea dell'altro coniuge comproprietario; Cass. n. 27772/2023 e n. 19435/2021). Per quanto concerne gli atti di straordinaria amministrazione, vi rientrano gli atti di disposizioni di beni immobili, mobili registrati, cessione di azienda commerciale in comunione, ecc. (Cass. n. 14093/2010; Cass. n. 4890/2006; Cass. n. 4033/2003), nonché, certamente, l'atto di divisione del bene comune (Cass. n. 648/2000). L'amministrazione congiunta impone che vi sia il consenso di entrambi i coniugi al compimento dell'atto dispositivo; ne consegue che non è annullabile l'atto di acquisto o vendita di beni immobili o mobili registrati sottoscritto da un solo coniuge, se vi era il consenso dell'altro al suo compimento; ai fini della proposizione della domanda di annullabilità del contratto ex art. 184 c.c. da parte del coniuge pretermesso, occorrono pertanto due requisiti: che l'atto sia stato compiuto e sottoscritto esclusivamente dall'altro coniuge; che il coniuge pretermesso non abbia mai espresso il consenso al compimento dell'atto (Cass. n. 12923/2012). In particolare, si è precisato che l'alienazione di un bene immobile in comunione legale, ancorchè finalizzata a reperire le risorse per estinguere beni gravanti sulla comunione medesima, non può considerarsi atto di ordinaria amministrazione, rimesso all'iniziativa di un solo coniuge, tenuto conto della sua attitudine ad incidere su profondamente sulla consistenza del patrimonio comune (Cass. n. 20296/2008, ove gli Ermellini hanno dimostrato di aderire all'impostazione della dottrina classica secondo cui la distinzione tra atti di ordinaria e straordinaria amministrazione riposa sulla «essenzialità dell'atto» rispetto alla consistenza del patrimonio comune). Nell'interessantissima pronuncia Cass. n. 17216/2003, la S.C. di Cassazione affronta la tematica dell'inclusione o meno tra gli atti di straordinaria amministrazione del contratto preliminare di compravendita immobiliare stipulato da un solo coniuge. Sul punto gli Ermellini precisato che la disciplina dell'amministrazione dei beni in comunione legale presuppone che il bene sia già oggetto della comunione, e pertanto non è applicabile alla fase pregressa all'acquisto del bene; conseguendone che la regola della compartecipazione di entrambi i coniugi all'atto di disposizione, che rientra tra gli atti di straordinaria amministrazione, ex art. 180 cpv c.c., non vale per la stipulazione di un contratto preliminare di acquisto di un bene immobile (ancorché questo sia poi destinato a cadere in comunione, una volta completatosi l'effetto reale con la conclusione del definitivo o con la sentenza «ex» art. 2932 c.c.), stipulazione alla quale può bene quindi partecipare, in veste di promissario acquirente, un solo coniuge, senza ed a prescindere dal consenso dell'altro coniuge; ed aggiungono che tale disciplina non si pone in contrasto con gli artt. 3 e 29 Cost., in relazione all'espressa inclusione (art. 180, comma 2, c.c.), nell'ambito di operatività dell'amministrazione dei beni della comunione legale, degli atti di acquisto di diritti personali di godimento, e ciò attesa, per un verso, la natura eccezionale della norma, assunta a «tertium comparationis», di equiparazione degli atti di acquisto di diritti personali di godimento agli atti di straordinaria amministrazione di beni della comunione, e considerato, per l'altro verso, che la tutela della famiglia non viene meno per effetto della acquisizione «ope legis» alla comunione del bene acquistato da uno soltanto dei coniugi. Cass. III, ord. n. 18707/2021 ha poi affermato che nel giudizio intrapreso ex art. 2901 c.c., verso uno dei coniugi in regime di comunione legale e riguardante un atto dispositivo compiuto da entrambi, non sussiste il litisconsorzio necessario dell'altro, atteso che l'eventuale accoglimento di tale azione non determinerebbe alcun effetto restitutorio, né traslativo, destinato a modificare la sfera giuridica di quest'ultimo, ma comporterebbe esclusivamente l'inefficacia relativa dell'atto in riferimento alla sola posizione del coniuge debitore e nei confronti, unicamente, del creditore che ha promosso il processo, senza caducare, ad ogni altro effetto, l'atto di disposizione (Conf.Cass. n. 17021/2015).

In sentenza Cass. n. 15177/2000, inoltre, la S.C. sottolinea che l'atto di disposizione del bene in comunione, posto in essere da uno solo dei coniugi, esplica i suoi effetti anche in relazione alla «quota» di comunione spettante al coniuge che sia eventualmente fallito, successivamente al compimento del menzionato atto, senza avere proposto l'azione d'annullamento prevista dal comma 2 dell'art. 184 c.c.

La locazione e gli acquisti di diritti personali di godimento

 Gli atti di locazione e gli acquisti di diritti personali di godimento sono sottoposti ad amministrazione congiunta ex art. 180 comma 2 c.c. È stato notato che la formulazione letterale della seconda parte dell'art. 180 comma 2 c.c. è tale da far ritenere necessario il consenso di entrambi i coniugi anche per la stipula di contratti di locazione di scarso valore, come la locazione di un box garage. Per tale motivo, la dottrina maggioritaria offre una lettura del testo congiunta con la prima parte della disposizione («Il compimento degli atti eccedenti l'ordinaria amministrazione, nonché la stipula dei contratti con i quali si concedono o si acquistano diritti personali di godimento ...»), per effetto della quale, grazie alla proposizione correlativa «nonché», perviene ad un'interpretazione secondo cui l'amministrazione congiunta dei coniugi è richiesta solo per i contratti con i quali si concedono o si acquistano diritti personali di godimento che configurano atti di straordinaria amministrazione,  quali sono, ad esempio, le locazioni ultranovennali ex art. 1572 c.c. (per un commento a tale disposizione cfr. Cian-Villani, 363; Schlesinger, 178-189; Di Martino, 1980, 142 ss.).  Secondo questa impostazione, la stipula di un contratto di locazione ad uso abitativo di un immobile in comunione legale rientra nell'ambito degli atti di ordinaria amministrazione e può essere compiuta da ciascun coniuge disgiuntamente; viceversa, la stipula di un contratto di locazione di durata ultranovennale, essendo atto di straordinaria amministrazione, richiede il consenso di entrambi, salvi, ovviamente, gli effetti dell'art. 184 c.c. nel caso in cui l'atto sia compiuto da un solo coniuge. In altre parole, la ratio della norma è di riservare al consenso di entrambi i coniugi la stipulazione degli atti riguardanti la residenza familiare, per cui l'ambito applicativo della norma deve essere limitato ai soli diritti personali di godimento relativi a beni immobili. In tal modo, la norma assume il significato di mera «tipizzazione» di una categoria di atti di straordinaria amministrazione (in un momento storico in cui le locazioni immobiliari già avevano assunto una notevole rilevanza economica), al fine di sottoporre la stipulazione separata di contratti relativi a diritti personali su beni immobili al rimedio dell'annullabilità ex art. 184, comma 1, c.c. (Schlesinger, 413-415; Bessone-Roppo, 1977; Bruscuglia, 257-258). Alcuni autori ritengono che laddove un contratto di concessione di un diritto personale di godimento sia compiuto da un solo coniuge, le relative obbligazioni debbano ricadere esclusivamente su di lui e non sulla comunione legale (Gabrielli, 120; Finocchiaro M., 137 ss.; Luiso, 1215); ma tale opzione pone il rischio di accollare sul terzo concedente del diritto le conseguenze della violazione dell'art. 180, comma 2, anche quando sia palese che l'obbligazione è stata contratta nell'interesse della famiglia (si pensi alla locazione di un'autorimessa per l'autovettura di famiglia) (Paladini, 85).

La Cassazione precisa che il recesso dal contratto di locazione configura atto di ordinaria amministrazione che può essere esercitato da uno solo dei coniugi comproprietari dell'immobile locato (Cass. n. 8379/1990). In tale fattispecie, si segnala anche una sentenza del Trib. Cremona 15 febbraio 2013, ove si evidenzia che solo gli atti di disposizione dei beni comuni sono di straordinaria amministrazione, non quelli di gestione e conservazione che rientrano nell'ordinaria amministrazione. Sulla base di tale premessa, i giudici cremonesi hanno concluso che il contratto di locazione di un immobile in comunione stipulato da un solo coniuge, senza la previa comunicazione e senza il consenso dell'altro, è perfettamente valido e legittimo, rientrando nell'amministrazione disgiunta ex art. 180 comma 1; ma il coniuge pretermesso può agire in separata sede nei confronti del coniuge che ha stipulato il contratto per conseguire il risarcimento danni in caso di mala gestio o di atto concluso in conflitto di interessi o comunque in suo danno. Tali fattispecie attengono a locazioni di beni immobili di scarso valore, rientranti nell'ordinaria amministrazione e quindi sottoposti ad amministrazione disgiunta. Diversamente, secondo la S.C. il riscatto di locazioni di immobili adibiti ad uso non abitativo, previsto dall'art. 39 della legge 27 luglio 1978, n. 392, configura atto di straordinaria amministrazione, per cui la prelazione deve essere tempestivamente esercitata dall'avente diritto anche nei confronti del coniuge dell'acquirente, che sia in regime di comunione legale al momento dell'acquisto (Cass. n. 10846/2014 che conferma Cass. S.U.,n. 9523/2010, ove si specifica che nel giudizio instaurato per il riscatto della locazione dell'immobile ex art. 39 in commento l'altro coniuge è litisconsorte necessario. In tal senso anche Cass. n. 7271/ 2008). Da segnalare la sentenza Cass. n. 15754/2014 in cui la Cassazione, dopo aver premesso che nella comunione legale tra coniugi non vi è potere di rappresentanza reciproca in capo a ciascuno di essi, mancando ogni previsione normativa in tal senso, ha evidenziato che in ipotesi di alienazione di un fondo agricolo, la « denuntiatio »ex art. 8, della legge 26 maggio 1965, n. 590, ad uno solo dei coniugi coltivatori in regime di comunione non ha effetto nei confronti dell'altro ai fini del decorso del termine di esercizio del diritto di prelazione.

Il problema del veto del coniuge non disponente.

Nel caso in cui sorga un contrasto tra i coniugi circa il compimento di un atto di straordinaria amministrazione, il conflitto è risolvibile secondo la disciplina prevista dall'art. 181 c.c.; ed in ogni caso, il coniuge pretermesso è tutelato con l'azione di annullamento dell'atto compiuto autonomamente dall'altro coniuge ex art. 184 c.c., nel caso in cui non sia stato informato o abbia opposto rifiuto. Ci si è chiesti in dottrina se sia ammissibile un potere di veto in favore di ciascun coniuge anche con riferimento al compimento di un atto di ordinaria amministrazione, assoggettato all'amministrazione disgiunta ex art. 180 comma 1 c.c. Sul punto parte minoritaria della dottrina riconosce questo potere di veto (Cendon, 323), ma la gran parte degli autori lo nega (Corsi, 125; Ricca, 478) sul rilievo che non è previsto, nell'ambito della disciplina normativa dedicata all'amministrazione disgiuntiva, uno strumento di risoluzione dei conflitti tra le parti, a differenza della disciplina in tema di amministrazione disgiuntiva della società semplice. Si osserva, altresì, che, ove si riconoscesse il potere di veto al coniuge pretermesso, si rischierebbe di paralizzare, in caso di contrasto tra coniugi, la gestione ordinaria del patrimonio comune e di diffondere incertezza nei rapporti coi terzi contraenti, che nutrirebbero fondati timori sulla validità dell'atto che si accingono a compiere con il coniuge contraente, senza conoscere preventivamente se l'altro coniuge vi abbia assentito (Schlesinger, 166). Un attento autore ha anche sottolineato che, in mancanza di norme che regolino espressamente il disaccordo tra coniugi in merito al compimento di un atto di ordinaria amministrazione, il conflitto deve rimanere relegato nell'ambito dei rapporti interni, con la conseguenza che il coniuge non disponente e dissenziente al compimento dell'atto, potrà, ferma restando la incontestabilità di quest'ultimo, agire in separata sede nei confronti del coniuge per chiederne la condanna al risarcimento dei danni causati alla famiglia ed al patrimonio comune dal compimento dell'atto non divisato (Giusti, 87).

La legittimazione processuale

L'art. 180 comma 1 prevede la «rappresentanza in giudizio» disgiunta; tale espressione è considerata atecnica da parte della dottrina che esclude che ciascun coniuge possa agire o essere convenuto in nome e per conto della comunione legale, in quanto priva di soggettività giuridica (Attardi, 946; Gabrielli, 136 ss.; Schlesinger, 180); più correttamente deve parlarsi di legittimazione processuale. Sul punto, si sottolinea come la legittimazione processuale corrisponde a quella negoziale e segue, pertanto, le regole dell'amministrazione dei beni in comunione dettate nei due commi dell'art. 180. Ne consegue che per gli atti di ordinaria amministrazione può agire o essere convenuto in giudizio il coniuge che ha compiuto autonomamente l'atto, mentre per quelli di straordinaria amministrazione, entrambi devono stare in giudizio, sebbene si  sia osservato che, in quest'ultimo caso, non si è in presenza di una vera e propria ipotesi di litisconsorzio necessario (Attardi, 946 ss.  il quale evidenzia  che nel litisconsorzio necessario è sufficiente la mera integrazione del contraddittorio mentre nella fattispecie della proposizione congiunta di domanda giudiziale da parte di coniugi in comunione legale, è necessario che essi svolgano, con lo stesso atto o con atti separati, una domanda di identico contenuto). Poiché la legittimazione processuale segue quella sostanziale, ci si è posti il problema di stabilire se sussiste litisconsorzio processuale del coniuge pretermesso dall'atto compiuto esclusivamente dall'altro in dispregio della regola dell'amministrazione congiunta ex art. 180 comma 2 c.c. Il problema si  sorge dalla necessità di contemperare le contrapposte esigenze di rispettare, da un lato, il principio di relatività degli effetti del contratto (art. 1372 c.c.) nonchè di non gravare il terzo contraente dell'onere di verificare il regime coniugale della controparte ai fini dell'instaurazione del giudizio; e, dall'altro, di tutelare il diritto di difesa del coniuge pretermesso. Accorta dottrina risolve la questione  con il proporre una distinzione tra le azioni concernenti la sussistenza e la titolarità di un determinato diritto riferibile al compendio comune, nelle quali è necessaria la presenza in giudizio di entrambi i coniugi, con conseguente onere di integrare il contraddittorio nei confronti del coniuge pretermesso dal compimento dell'atto, e quelle riguardanti la validità, l'esecuzione e l'efficacia di contratti aventi per oggetto l'acquisto e la disposizione di diritti ricadenti nel patrimonio comune, ove è legittimato ad agire e a resistere in giudizio esclusivamente il coniuge che ha compiuto l'atto, indipendentemente dalle conseguenze della sentenza sui diritti facenti parte della comunione (Anelli,320 ss.). Ovviamente in quest'ultimo caso, il coniuge pretermesso può autonomamente intervenire in giudizio e promuovere opposizione di terzo ex art. 404 c.c. avverso la sentenza pronunciata nei confronti del coniuge in comunione legale e del terzo contraente.

La giurisprudenza di legittimità ha accolto il criterio discretivo teorizzato dalla dottrina da ultimo citata. Con riferimento alle azioni di accertamento della titolarità di un determinato diritto riferibile al patrimonio in comunione legale, la S.C. ha chiarito che, essendo la comunione legale riconducibile al modello della «proprietà solidale», si deve riconoscere a ciascun coniuge l'interesse a interloquire in ogni giudizio nel quale si controverta della possibile sottrazione di un cespite dalla massa comune; conseguentemente, nell'azione  ex  art. 2932 c.c., promossa dal promissario acquirente, per l'adempimento in forma specifica o per i danni da inadempimento precontrattuale, nei confronti del promittente venditore che, coniugato in regime di comunione, abbia stipulato senza il consenso dell'altro coniuge, quest'ultimo è litisconsorte necessario e nei suoi confronti deve essere integrato il contraddittorio, a pena di nullità dell'intero giudizio (Cass. S.U., n. 17952/2007). Con riguardo, invece, alle azioni che concernono esclusivamente il contratto (simulazione, validità, efficacia, ecc.), senza incidere direttamente e immediatamente sul diritto, il litisconsorzio è stato escluso: in particolare, tale principio è stato espresso dalle Sezioni Unite in sentenza Cass. S.U., n. 9660/2009, ove nell'ambito di un'azione revocatoria promossa dal curatore fallimentare nei confronti dell'acquisto compiuto separatamente dal fallito in regime di comunione, il litisconsorzio dell'altro coniuge è stato escluso, in considerazione del fatto che l'accoglimento della domanda non avrebbe determinato alcun effetto restitutorio né, tantomeno, «traslativo» a favore della massa dei creditori, ma avrebbe comportato la mera inefficacia relativa dell'atto rispetto alla procedura, rendendo il bene trasferito assoggettabile all'esecuzione concorsuale. Parimenti il litisconsorzio è stato escluso dalla S.C. nei giudizi riguardanti contratti, la cui esecuzione può condurre a un acquisto in favore della comunione legale, come nel caso dell'actio ex art. 2932 c.c. promossa esclusivamente dal coniuge che aveva stipulato il contratto preliminare rimasto inadempiuto dal promissario venditore (Cass. n. 17216/2003 già citata supra; ma anche Cass. n. 1548/2008 e Cass. n. 4823/2006). Per quanto concerne le azioni a difesa della proprietà, la Cassazione ha escluso il litisconsorzio nel giudizio di rivendicazione del bene, instaurato nei confronti del convenuto possessore in regime di comunione legale (Cass. n. 2983/1991; principio successivamente confermato da Cass. n. 4856/2009), ma lo ha affermato nell'azione di regolamento di confini a condizione che in essa sia presente una richiesta di rilascio o di riduzione in pristino della parte di fondo che si ritenga usurpata in conseguenza dell'incertezza oggettiva o soggettiva dei confini (Cass. n. 3082/2006), nel giudizio relativo alla natura giuridica, l'efficacia e l'esecuzione di un contratto, definito «compromesso divisionale», relativo ad immobili appartenenti in comproprietà con terzi all'altro coniuge (Cass. n. 12849/2008); nel giudizio incardinato dalla domanda di demolizione di corpi di fabbrica abusivamente costruiti su un immobile in comunione legale (Cass. n. 9902/2010).

In ordine alla legittimazione passiva, il Consiglio di Stato (sez. VI, n. 10101/2023 ha affermato che per i beni in comunione sussiste la legittimazione di ciascuno dei coniugi ad essere destinatario o a ricevere notificazioni di provvedimenti, quali quelli sanzionatori in materia edilizia, con effetti anche nei confronti dell'altro coniuge (Conf. TAR Sicilia, sez, IV, Palermo, n. 1158/2024).

Bibliografia

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