Codice Civile art. 1138 - Regolamento di condominio

Mauro Di Marzio

Regolamento di condominio

[I]. Quando in un edificio il numero dei condomini è superiore a dieci, deve essere formato un regolamento, il quale contenga le norme circa l'uso delle cose comuni e la ripartizione delle spese, secondo i diritti e gli obblighi spettanti a ciascun condomino, nonché le norme per la tutela del decoro dell'edificio e quelle relative all'amministrazione [68 ss. att.; 155 trans.].

[II]. Ciascun condomino può prendere l'iniziativa per la formazione del regolamento di condominio o per la revisione di quello esistente.

[III]. Il regolamento deve essere approvato dall'assemblea con la maggioranza stabilita dal secondo comma dell'articolo 1136 ed allegato al registro indicato dal numero 7) dell'articolo 1130. Esso può essere impugnato a norma dell'articolo 1107 (1).

[IV]. Le norme del regolamento non possono in alcun modo menomare i diritti di ciascun condomino, quali risultano dagli atti di acquisto e dalle convenzioni, e in nessun caso possono derogare alle disposizioni degli articoli 1118, secondo comma, 1119, 1120, 1129, 1131, 1132, 1136 e 1137 [72 att.; 155 trans.].

[V]. Le norme del regolamento non possono vietare di possedere o detenere animali domestici (2).

(1) Comma modificato dall'art. 16, l. 11 dicembre 2012, n. 220. La modifica è entrata in vigore il 18 giugno 2013. Il testo recitava: «Il regolamento deve essere approvato dall'assemblea con la maggioranza stabilita dal secondo comma dell'articolo 1136 e trascritto nel registro indicato dall'ultimo comma dell'articolo 1129. Esso può essere impugnato a norma dell'articolo 1107».

(2) Comma aggiunto dall'art. 16, l. 11 dicembre 2012, n. 220. La modifica è entrata in vigore il 18 giugno 2013.

Inquadramento

Quantunque l'art. 1138 c.c. sia preceduto dalla rubrica: «Regolamento di condominio», occorre subito chiarire che si deve piuttosto discorrere, non al singolare ma al plurale, di regolamenti di condominio, giacché gli statuti ai quali esso è sottoposto possono avere natura profondamente diversa, e diversa efficacia, a seconda che si tratti di regolamenti assembleari, deliberati cioè dall'assemblea condominiale nel rispetto delle maggioranze normativamente previste, ovvero di regolamenti contrattuali, i quali si fondano non già su una deliberazione maggioritaria, bensì su una volontà direttamente riconducibile, sia pure secondo congegni diversi, alla totalità dei singoli condomini.

Nell'introdurre le prime necessarie precisazioni sull'argomento, che richiederanno successivo approfondimento, si può dire per ora che i regolamenti di condominio si distinguono essenzialmente in forza di due criteri: l'uno collocato dal versante soggettivo, attinente cioè alle modalità di formazione dell'atto, l'altro dal versante oggettivo, concernente invece la latitudine dei precetti che ciascuno dei due regolamenti possono contenere.

Sotto il primo profilo, il regolamento può essere di origine «interna», ossia adottato dai condomini in sede di auto-organizzazione (il che può accadere sia attraverso l'impiego del meccanismo deliberativo previsto dall'art. 1138 c.c., sia attraverso un accordo totalitario di natura contrattuale), o di origine «esterna», cioè proveniente da un terzo, che lo ha adottato prima ancora che la situazione di condominio sia sorta, come nel caso ricorrente del regolamento formato dal costruttore dell'edificio ed inserito negli atti di vendita delle singole unità immobiliari di cui lo stabile si compone.

[*DOTT*]  Sotto il secondo aspetto, il regolamento può avere natura «contrattuale», se ha attitudine ad incidere sui diritti soggettivi e sulle obbligazioni dei singoli condomini sulle cose comuni e sulle proprietà individuali, o «regolamentare», se si limita a disciplinare la gestione e l'amministrazione degli impianti e dei servizi comuni (Corona 2004, 4; Corona 2001, 984; Cuffaro, 829; Salvati 987; Girino 1999, 678; Maglia, 257; Salis 1964, Regolamento c.d. contrattuale, 414).

Va qui in apertura precisato che la previsione, nel regolamento, della riserva di proprietà di un piano da parte della venditrice del complesso, con esclusione dalle tabelle millesimali, non ha natura contrattuale, poiché non si tratta di clausola limitatrice dei diritti dei condomini sulle proprietà esclusive o comuni, o attributiva ad alcuni condomini di maggiori diritti rispetto agli altri; ne consegue che tale clausola può essere modificata mediante una deliberazione adottata con la maggioranza prescritta dall'art. 1136, comma 2, c.c. (Cass. n. 23582/2023, che  ha confermato la pronuncia di merito che aveva rigettato la domanda di nullità della deliberazione assembleare di modificazione dei criteri di ripartizione delle spese condominiali ed aveva negato la natura contrattuale del regolamento condominiale che escludeva dal computo dei millesimi e dalle spese l'immobile di cui la venditrice del complesso si era riservata la proprietà).

 

Il regolamento «assembleare» in generale

Il regolamento cui si riferisce la norma in commento – rimasta pressoché inalterata dopo la insufficiente, secondo Ruscello 2012, «Nuovo» condominio, 413, riforma di cui alla l. 11 dicembre 2012, n. 220, se non per la modifica concernente gli adempimenti pubblicitari e l'introduzione dell'ultimo comma sul possesso di animali domestici – è quello c.d. assembleare, quello, cioè, deliberato dall'assemblea condominiale con la maggioranza prevista dall'art. 1136, comma 2, c.c., regolamento – espressamente volto a disciplinare l'uso della cosa comune la ripartizione delle spese, la tutela del decoro dell'edificio, l'amministrazione del condominio – il quale non può incidere sui diritti di ciascun condomino (per il che occorre il regolamento «contrattuale», al quale si è già accennato e di cui si discorrerà diffusamente più avanti), né può derogare ad un ampio numero di disposizioni codicistiche ed altresì dettate dalle disposizioni di attuazione al codice civile.

È ricorrente, nella letteratura sulla materia, la definizione del regolamento previsto dall'art. 1138 c.c. quale legge interna della compagine condominiale (Branca 1972, 660; più di recente tra gli altri E. V. Napoli–E. G. Napoli, 3; Viganò, 495; Redivo, 814): complesso di norme giuridiche (al contenuto costituito da «norme» fa esplicito riferimento il comma 1) dirette alla «regolamentazione generale ed astratta di rapporti ipotizzabili e suscettibili il più delle volte di ripetersi nel tempo» (Rovelli-Caviglione, Il condominio negli edifici, Padova 1978, 759).

  Per la Suprema Corte, parimenti, «il regolamento di condominio, quali ne siano l'origine ed il procedimento di formazione (accettazione da parte dei singoli acquirenti delle unità immobiliari condominiali del regolamento predisposto dall'originario unico proprietario dell'intero edificio; deliberazione dell'assemblea dei condòmini votata con la maggioranza di cui all'art. 1136 c.c., comma 2) si configura, in relazione alla sua specifica funzione di costituire una sorta di statuto convenzionale del condominio, che ne disciplina la vita e l'attività come ente di gestione (ferma l'inderogabilità di alcune norme concernenti specifici aspetti della disciplina legislativa), come atto volto ad incidere su di un rapporto plurisoggettivo concettualmente unico con un complesso di regole giuridicamente vincolanti per tutti i condomini» (Cass. II, n. 2590/1990; analogamente Cass. II, n. 12342/1995). La disciplina dettata dal codice civile per il condominio di edifici, d'altronde, ivi compresa quella dettata per il regolamento, trova applicazione anche in caso di condominio minimo, cioè di condominio composto da due soli partecipanti (Cass. S.U., n. 2046/2006).

Ciò detto, è tuttavia ampiamente controverso quale sia la natura giuridica del regolamento di condominio c.d. assembleare (quello c.d. contrattuale, ha per definizione, ovviamente, natura di vero e proprio contratto, idoneo ad incidere sul contenuto dei diritti di proprietà, comune ed esclusiva, dei singoli condomini). In dottrina sono state prospettate diverse teorie, riconducibili essenzialmente a due principali aree: la prima qualifica il regolamento come atto normativo espressione di potestà normativa privata (Fragali, 384; Marina–Giacobbe, 821, che mettono a raffronto l'art. 1138 c.c. con l'art. 1106 c.c., sul regolamento di comunione, sottolineando che la seconda disposizione prevede il regolamento solo come facoltativo, mentre la prima lo qualifica espressamente come obbligatorio, impiegando, come accennato, il termine «norme»; per la qualificazione del regolamento quale atto normativo, Rovelli-Caviglione, Il condominio negli edifici, cit., 757; Napoli 1991, 1101. Si distingue l'approfondita analisi di Del Prato 1988, 45, il quale discorre di atto autoritativo privato, osservando che «la normativa regolamentare viene a porsi su un piano descrittivamente intermedio tra l'ambito del negozio giuridico e quello del diritto obiettivo. Essa, vagliata dal profilo dell'atto che la pone, costituisce una modalità dell'atto autoritativo privato – caratterizzata dalla attinenza dei precetti ad una compagine di persone, la quale ne determina delle connotazioni di generalità ed astrattezza, nei limiti della dimensione collettiva della materia regolata – contrapposta al comando particolare»); la seconda qualifica tale regolamento come atto di natura negoziale; in quest'ambito, alcuni autori hanno parlato di accordo tra i diversi proprietari (Salis 1959, 357, il quale afferma che il regolamento di condominio è il risultato di un accordo tra i diversi proprietari interessati con cui essi mirano «a regolare interessi comuni per assicurare a se stessi...il miglior godimento delle cose proprie»); altri di negozio normativo (Andreoli, 12, che, qualificato il regolamento di condominio, sul piano funzionale, quale negozio normativo, ne individua poi, su quello strutturale, la natura di atto collettivo, essendo il prodotto della concorrente volizione di uguale contenuto da parte di più persone intesa al perseguimento di interessi comuni; la definizione di negozio normativo si ritrova in Bianca, 460 e 505; Cervelli 2001, 287; G. De Paola–F. De Paola, 3); altri di negozio regolamentare (Ruscello 1980, 187 ss.; lo stesso autore ha successivamente riproposto la propria opinione, scrutinando le critiche rivolte alla precedente opera, in Ruscello 2012, 76; ma v. già Branca 1972, 199, 220, il quale ravvisa nel regolamento di condominio l'espressione di una «potestà regolamentare» conferita al condominio); altri, più genericamente, di contratto (Barassi, 692; Peretti Griva, 516; Fedele, 16, secondo cui il regolamento condominiale costituirebbe speciale ipotesi di contratto idoneo a dispiegare effetti nella sfera giuridica dei condòmini dissenzienti; Guidi, 306, secondo cui gli effetti nei confronti di questi ultimi si spiegherebbero attraverso la mancata impugnazione del regolamento da parte loro o, alternativamente, del passaggio in giudicato della sentenza che abbia respinto l'impugnazione).

Pur nell'opinabilità delle soluzioni, sembra tuttavia che la ricostruzione del regolamento condominiale assembleare in termini contrattuali vada ad infrangersi contro due principali obiezioni non agevolmente superabili: per un verso il regolamento contrattuale non è l'accordo di due o più parti, secondo la definizione dell'art. 1321 c.c., ma il prodotto di un atto unilaterale, qual è l'atto collegiale che esprime il regolamento; per altro verso il contratto ha forza di legge solo tra le parti, mentre il regolamento condominiale è obbligatorio anche per i dissenzienti ed altresì – il che è parimenti eccentrico rispetto alla previsione dell'art. 1372 c.c. – per i successori a titolo particolare dei condòmini che abbiano partecipato alla deliberazione (per una ricostruzione delle obiezioni alla qualificazione del regolamento come contratto v. Triola 2013, 419). Quest'ultimo rilievo – e si tratta di un punto di evidente rilievo – esclude inoltre che possa riconoscersi natura di accordo contrattuale anche al regolamento assembleare che fosse per avventura deliberato all'unanimità (Triola 2013 420). Con particolare riguardo alla tesi che ravvisa nel regolamento condominiale un negozio normativo si osserva che il negozio normativo è il contratto con il quale le parti determinano preventivamente la disciplina a cui assoggettare i loro futuri rapporti giuridici, se e quando sorgeranno, mentre il regolamento di condominio non regola rapporti futuri ed eventuali, ma lo stesso rapporto di condominio (Triola 2013, 423; sul punto si tornerà più avanti con riguardo al regolamento «contrattuale»).

Sul piano operativo, si può ricordare per ora che la violazione o falsa applicazione delle norme dettate dal regolamento di condominio, quale atto di produzione privata, può essere denunciata con il ricorso per cassazione ai sensi non dell'art. 360, comma 1, n. 3), c.p.c., ma solo come vizio di motivazione ai sensi del n. 5) del medesimo art. 360 (Cass. II, n. 12291/2011).

Il regolamento «contrattuale» in generale

Il regolamento contrattuale non è espressamente disciplinato dalla legge (ed anzi afferma icasticamente Triola 2013, 466, che il regolamento contrattuale «non esiste»), ma la sua nozione può secondo alcuni essere desunta indirettamente dall'art. 1138, penultimo comma, c.c., che, nello stabilire che le norme del regolamento ivi disciplinato, ossia quello «assembleare», non possono menomare i diritti di ciascun condomino, quali risultano dagli atti di acquisto e dalle convenzioni, implicitamente ammette che tali diritti possano essere oggetto di disposizione mediante regolamento per l'appunto «contrattuale». La stessa conclusione, del resto, potrebbe trarsi già dall'art. 1108, comma 3, c.c., dettato per la comunione (ed applicabile al condominio per il tramite dell'art. 1139 c.c.), secondo il quale «è necessario il consenso di tutti i partecipanti per gli atti di alienazione o di costituzione di diritti reali sul fondo comune e per le locazioni di durata superiore ai nove anni».

I due regolamenti – sembra potersi riassuntivamente dire – si differenziano per una combinazione di fattori tra loro intrecciati. Anzitutto, sul piano delle modalità di formazione, il regolamento assembleare può essere adottato e modificato dall'assemblea con la maggioranza di cui all'art. 1136 c.c.; viceversa il regolamento contrattuale può essere adottato dai condòmini solo con l'unanimità dei consensi, sia perché esso sia stato predisposto dall'unico originario proprietario dell'intero edificio, e successivamente inserito o richiamato nei singoli atti di acquisto (regolamento contrattuale esterno), sia che sorga direttamente dalla volontà della compagine condominiale (regolamento contrattuale interno).

D'altro canto, una clausola regolamentare, volta cioè a disciplinare secondo l'art. 1138 c.c. l'uso delle cose comuni, la ripartizione delle spese, la tutela del decoro dell'edificio, l'amministrazione, non cessa di essere tale sol perché inserita in un regolamento contrattuale (la centralità del criterio contenutistico ai fini della distinzione, all'interno del regolamento, tra clausole contrattuali e regolamentari è ampiamente riconosciuta in dottrina: Andreoli, 87; Branca 1972, 663; Branca 1958, 72; Costantino, 302; Del Prato 1988, 112; Fragali, 467; Rovelli-Caviglione,Il condominio negli edifici, cit., 813; Salis 1964, Erroredi calcolo, 1825).

La Suprema Corte ha parimenti chiarito che: «Le clausole dei regolamenti condominiali predisposti dall'originario proprietario dell'edificio condominiale ed allegati ai contratti di acquisto delle singole unità immobiliari, nonché quelle dei regolamenti condominiali formati con il consenso unanime di tutti i condomini, hanno natura contrattuale soltanto qualora si tratti di clausole limitatrici dei diritti dei condòmini sulle proprietà esclusive o comuni ovvero attributive ad alcuni condòmini di maggiori diritti rispetto agli altri, mentre, qualora si limitino a disciplinare l'uso dei beni comuni, hanno natura regolamentare. Ne consegue che, mentre le clausole di natura contrattuale possono essere modificate soltanto dall'unanimità dei condòmini e non da una deliberazione assembleare maggioritaria, avendo la modificazione la medesima natura contrattuale, le clausole di natura regolamentare sono modificabili anche da una deliberazione adottata con la maggioranza prescritta dall'art. 1136, comma 2, c.c.» (Cass. S.U., n. 943/1999; in seguito Cass. II, n. 5626/2002; Cass. II, n. 1314/2004; prima della pronuncia delle Sezioni Unite, nello stesso senso, Cass. II, n. 208/1985; Cass. II, n. 3733/1987; Cass. II, n. 12173/1991; Cass. II, n. 4632/1994; Cass. II, n. 1057/1999).

Le clausole «regolamentari», dunque, possono essere modificate a maggioranza anche se contenute in un regolamento «contrattuale» adottato dalla totalità dei condomini. Per determinare la natura contrattuale o regolamentare delle clausole di un regolamento condominiale occorre allora scrutinare non tanto le modalità della sua formazione – se all'unanimità o meno – ma essenzialmente il suo contenuto: hanno cioè natura contrattuale, e richiedono perciò l'unanime deliberazione dei condomini, le clausole che incidano sui loro diritti immobiliari in ordine alle proprietà esclusive o alle parti comuni, ovvero attribuiscano ad alcuni condòmini diritti maggiori di quelli degli altri; hanno natura regolamentare, e possono perciò essere approvate a maggioranza, secondo la previsione della norma in commento, le clausole che si limitino a disciplinare l'uso dei beni comuni ed in generale l'organizzazione ed il funzionamento dei servizi condominiali.

Con riguardo alla modificazione a maggioranza di una clausola «regolamentare» contenuta in un regolamento «contrattuale», può farsi l'esempio dei giochi dei bambini. La disciplina dei giochi dei bambini nei viali del cortile-giardino condominiale – è stato stabilito – non integra un'occupazione degli stessi né un'alterazione della destinazione della cosa comune, con impedimento del pari uso degli altri condomini, risolvendosi in una forma di utilizzazione diversa da quella normale ma non illegittima, essendo compatibile con la destinazione del bene; essa può di conseguenza essere disposta dall'assemblea con deliberazione adottata con la maggioranza prevista dall'art. 1136 c.c., ancorché il regolamento di condominio di natura contrattuale vieti l'occupazione delle parti comuni da parte dei condòmini (Cass. II, n. 4479/1981).

Nella stessa prospettiva è stato affermato che, in tema di comunione, non ha natura contrattuale il regolamento che, avendo ad oggetto l'ordinaria amministrazione e il miglior godimento della cosa comune (art. 1106 c.c.), rientra nelle attribuzioni dell'assemblea e, come tale, seppure sia stato approvato con il consenso di tutti i partecipanti alla comunione, può essere modificato dalla maggioranza dei comunisti; ha invece natura di contratto, che deve essere approvato e modificato con il consenso unanime dei comunisti, il regolamento quando – contenendo disposizioni che incidono sui diritti del comproprietario ovvero stabiliscono obblighi o limitazioni a carico del medesimo o ancora determinano criteri di ripartizione delle spese relative alla manutenzione diversi da quelli legali – lo stesso esorbita dalla potestà di gestione delle cose comuni attribuita all'assemblea (Cass. II, n. 13632/2010). La Suprema Corte ha così ribadito il principio, valido anche per il condominio negli edifici in forza del rinvio dell'art. 1139 c.c., secondo cui non è l'unanimità dei consensi ovvero la provenienza esterna del regolamento a comportare la natura contrattuale dello stesso, perché questa discende dalla limitazione dei diritti dei partecipanti alla comunione o al condominio disposta dalle clausole contenute nel regolamento. Indirizzo interpretativo coerente con la disposizione dell'art. 1321 c.c., secondo cui il contratto è l'accordo delle parti volto a costituire, modificare o estinguere un rapporto giuridico patrimoniale, e con il rilievo che il regolamento, pur essendo tipicamente diretto a contenere le regole per l'ordinaria amministrazione e il miglior godimento della cosa comune (art. 1106 c.c.), senza pregiudicare assolutamente l'interesse di alcuno dei partecipanti (art. 1108 c.c.), secondo i diritti e gli obblighi spettanti a ciascuno (art. 1138 c.c.), può, tuttavia, contenere, eccezionalmente, clausole limitative dei diritti dei partecipanti alla comunione o al condominio che, trovando la loro fonte giuridica nella volontà dei comunisti o dei condomini, devono, in tal caso, essere approvate all'unanimità dei partecipanti. D'altronde, la mera circostanza dell'unanimità dei consensi risulta del tutto inconferente per la semplice ragione che essa rappresenta l'estensione massima della maggioranza, prevista per il c.d. regolamento assembleare, che, dunque, non può determinare la natura contrattuale che consegue soltanto alla consapevole volontà dei singoli partecipanti di adottare una disciplina in deroga a quella stabilita, in via ordinaria, dal codice, tale da comportare limitazioni dei diritti dei singoli che la disciplina codicistica vieta.

È stato nella stessa prospettiva sottolineato che «è necessaria l'unanimità dei consensi dei condomini per modificare il regolamento convenzionale, avendo questo la medesima efficacia vincolante del contratto, mentre è invece sufficiente una deliberazione maggioritaria dell'assemblea dei partecipanti alla comunione per apportare variazioni al regolamento che non abbia tale natura. E poiché solo alcune clausole di un regolamento possono essere di carattere contrattuale, l'unanimità dei consensi è richiesta per la modifica di esse e non delle altre clausole per la cui variazione è sufficiente la delibera assembleare adottata con la maggioranza prescritta dall'art. 1136, comma 2, c.c.» (Cass. II, n. 17694/2007). Conseguenzialmente, l'interpretazione del regolamento, nel suo complesso ed in particolare delle sue clausole, non può che essere restrittiva. E cioè, i divieti ed i limiti di destinazione alle facoltà di godimento dei condomini sulle unità immobiliari in proprietà esclusiva devono risultare da espressioni incontrovertibilmente rivelatrici di un intento chiaro ed esplicito, non suscettibile di dar luogo ad incertezze; pertanto, l'individuazione della regola dettata dal regolamento condominiale di origine contrattuale, nella parte in cui impone detti limiti e divieti, va svolta rifuggendo da interpretazioni di carattere estensivo, sia per quanto concerne l'ambito delle limitazioni imposte alla proprietà individuale, sia per quanto attiene ai beni alle stesse soggetti (Cass. II, n. 14377/2024, che ha escluso che dalla previsione nel regolamento condominiale del generale divieto di eseguire lavori rumorosi e arrecare molestia alle parti comuni del condominio potesse trarsi l'esistenza di una limitazione temporale allo svolgimento di lavori di ordinaria e straordinaria manutenzione nelle singole porzioni di proprietà esclusiva; v. CELESTE, Regolamento di condominio: esclusa l'interpretazione estensiva delle disposizioni sui limiti di utilizzo delle proprietà individuali, in IUS CONDOMINIO E LOCAZIONE). È stato pure precisato, poi, che «i divieti e i limiti, previsti da norme di natura contrattuale contenute nel regolamento condominiale, in quanto comprimono le facoltà normalmente inerenti alle proprietà esclusive dei singoli condomini, devono risultare da espressioni incontrovertibilmente rivelatrici di un intento chiaro, non suscettibile di dar luogo a incertezze e non possono, quindi, dar luogo ad un'interpretazione estensiva delle relative norme che, ad esempio, comprenda l'uso di osteria in quello vietato di locanda» (Cass. II, n. 16832/2009).

Ha osservato la Suprema Corte come la corte territoriale, in effetti, per fondare il proprio convincimento favorevole alla tesi del condominio, avesse dato particolare risalto all'art. 8 del regolamento condominiale, che poneva dei limiti all'uso ed al godimento sia dei beni comuni che delle proprietà esclusive allo scopo di garantire le condizioni di tranquillità di tutti i partecipanti al condominio. Aveva osservato che detta norma aveva indicato «in via ovviamente esemplificativa» una serie di attività vietate e tra esse le destinazioni dei singoli beni ad uso diverso dell'abitazione e dell'ufficio professionale privato se non debitamente consentito dall'assemblea. Inoltre aveva vietato espressamente di destinare i locati «... ad uso ufficio pubblico, sanatorio, gabinetto di cura.., pensione, locanda albergo o in genere a qualsiasi altro uso che possa turbare la tranquillità dei condomini o sia contrario all'igiene o al decoro dell'edificio....». Aveva poi ritenuto che il termine «locanda» menzionato nella disposizione in esame, avesse il significato, più pertinente di semplice «trattoria» (.....il «termine locanda, oltre a significare un albergo economico di categoria assai modesta, è usualmente utilizzato per indicare trattoria con alloggio ovvero osteria»...), per poi concludere che l'attività di ristorazione svolta nel locale in questione, fosse espressamente vietata dalla norma regolamentare in esame. Ha viceversa ritenuto Suprema Corte che il giudice di merito – a parte l'evidente opinabilità dell'equiparazione da lui propugnata dei termine locanda a quello di semplice osteria – avesse in qualche modo forzato l'interpretazione la norma regolamentare in esame, dando ad essa una connotazione indubbiamente estensiva ponendosi in contrasto con la consolidata giurisprudenza di legittimità in tema di esegesi della disposizione di tale natura. Invero le restrizioni alle facoltà inerenti alla proprietà esclusiva contenute nel regolamento di condominio di natura contrattuale, devono essere formulate in modo espresso o comunque non equivoco in modo da non lasciare alcun margine d'incertezza sul contenuto e la portata delle relative disposizioni. Trattandosi di materia che attiene alla compressione di facoltà normalmente inerenti alle proprietà esclusive dei singoli condomini, i divieti ed i limiti devono risultare da espressioni incontrovertibilmente rivelatrici di un intento chiaro, non suscettibile di dar luogo a incertezze e non possono quindi dar luogo ad un'interpretazione estensiva delle relative norme. Nel caso in esame la Suprema Corte ha ritenuto indubbio che la il giudice di merito avesse fondato il proprio convincimento interpretando la norma regolamentare – che non poneva alcun espresso divieto all'utilizzo de locale a ristorazione – in modo estensivo, comprimendo ulteriormente in modo arbitrario le facoltà di utilizzo del locale da parte del proprietario.

Sul tema dell'interpretazione del regolamento condominiale per utile riportare le considerazioni di una accreditata dottrina (Izzo, Nota a Cass., 20 luglio 2009, n. 16832, in Giust. civ., 2010, I, 1099), la quale ha complessivamente ricostruito i termini del problema rilevando anzitutto che la menzionata sentenza, unitamente ad altri, esprimeva l'indirizzo uniforme e consolidato della giurisprudenza di legittimità in merito all'interpretazione del regolamento di condominio e perciò risultava di particolare interesse giuridico laddove evidenziava che le norme di natura contrattuale rinvenibili nel regolamento di condominio sono soggette alle norme dettate per l'interpretazione dei contratti (art. 1362 c.c.). Regola che – a una prima e sommaria disamina – non pare circoscritta alla sola interpretazione, bensì estensibile, in ragione della pacifica natura contrattale delle clausole o del regolamento condominiale, all'intera disciplina dei contratti nel suo continuo divenire e, conseguentemente, anche alle innovative norme di tutela dei contraenti consumatori, tra i quali la giurisprudenza di legittimità ricomprende anche i condomini (Cass. n. 452/2005; Cass. n. 10086/2001 per il foro competente delle liti relative alla manutenzione degli ascensori condominiali, ma anche Cass. n. 6802/2010 relativa a un contratto di ristrutturazione di un immobile di una persona fisica da parte della società cooperativa).

In proposito è stato ricordato che antica e tuttora non tramontata risulta la distinzione tra regolamento contrattuale e assembleare, con riferimento all'origine esterna o condominiale e, soprattutto, alla prassi diffusa di inserire in esso – nel momento costitutivo del condominio per effetto del frazionamento dell'intero edificio da parte del suo unico proprietario – disposizioni ulteriori e aggiuntive rispetto a quelle essenzialmente regolamentari, volte a limitare i diritti condominiali ovvero le normali facoltà inerenti alle singole proprietà esclusive. Ciò con una deviazione dalla funzione tipica del regolamento di condominio che è, essenzialmente, regolamentare, per una sorta di ultrattività dell'originaria situazione dominicale assoluta che continua a estrinsecarsi, non nella forma solenne di servitù o altri diritti reali limitativi, bensì in quella, meno appariscente, di una mera obbligazione contrattuale, accettata, di volta in volta, dai diversi acquirenti delle proprietà esclusive site nell'edificio in condominio e, quindi, con una trasmissibilità per via contrattuale. La giurisprudenza ha da tempo chiarito (Cass. n. 7300/2010) che la particolare origine, contrattuale o assembleare, non attribuisce tout court la natura contrattuale o regolamentare alle norme del regolamento di condominio, perché questa discende dalla loro intrinseca portata giuridica di limitare o meno i diritti condominiali ovvero le facoltà normali inerenti alle singole proprietà esclusive. Portata giuridica contrattuale che può, pertanto, caratterizzare entrambi i due tipi di regolamento condominiale, non essendo tale natura contrattuale appannaggio esclusivo di quello esterno predisposto dall'originario unico proprietario dell'edificio in condominio. Infatti – da un lato – il regolamento di condominio predisposto dall'unico proprietario dell'edificio all'atto del primo atto di frazionamento dell'intero fabbricato potrebbe limitarsi, in conformità, peraltro, della sua funzione tipica di «regolamentare», a disciplinare l'uso delle cose comuni e la ripartizione delle spese e, conseguentemente, a contenere soltanto disposizioni regolamentari, mentre – dall'altro lato – non può escludersi che il regolamento di origine assembleare contenga norme di natura contrattuale, come dimostra, incontrovertibilmente, la fattispecie esaminata dalla prima sentenza in epigrafe. Circostanza quindi frequente e oggettiva. Se, pertanto, le clausole di natura contrattuale contenute nel regolamento di condominio in entrambe le due ipotesi (origine esterna o interna assembleare) integrano un'eccezione e una deviazione dalla funzione tipica del regolamento di condominio, sembra conseguente, sul piano logico, prima che giuridico, l'interpretazione restrittiva delle stesse, secondo quindi, un generale canone di ermeneutica e, soprattutto, secondo le regole di interpretazione delle norme contrattuali dirette all'individuazione della «comune volontà» dei contraenti, senza limitazioni di ordine esclusivamente letterale delle stesse, tralasciando, pur possibili, intenzioni soggettive unilaterali del soggetto che le abbia predisposte ma che non siano «condivise specificamente» dall'altro contraente. Infatti, Cass. n. 1406/2007 ha ribadito che anche per le norme condominiali «il giudice deve applicare gli stessi canoni ermeneutici stabiliti dagli art. 1362 ss. per gli atti negoziali, avendo questi validità generale» e in senso conforme risultano: Cass. n. 20237/2009; Cass. n. 6004/2008; Cass. n. 4504/2006; Cass. n. 12556/2002; Cass. n. 9355/2000; Cass. n. 5393/1999; Cass. n. 2101/1997, per cui tale principio può ritenersi pacifico. Ciò rende, quindi, corretto e condivisibile l'indirizzo interpretativo sulla: a) inestensibilità del divieto generico di «uso dei locali per deposito, confezioni merci e manufatti» a quello di «panificazione, pasticceria e vendita», anche dopo la chiusura del preesistente passaggio nelle parti comuni, in quanto avrebbe comportato l'inutilizzabilità dell'immobile di proprietà esclusiva (di cui alla prima sentenza conforme, peraltro al precedente di legittimità espressamente citato); b) prevalenza dell'effettiva volontà comune in ordine al criterio di ripartizione delle spese (di cui alla seconda sentenza); c) inestensibilità della previsione del divieto dell'uso di «locanda» a quello di semplice «osteria» (di cui alla terza sentenza), così come infine d) inestensibilità del divieto di «destinare gli appartamenti a dottori specialisti di malattie infettive che non preclude al singolo condomino di svolgervi l'attività di medico dermatologo» non necessariamente infettiva (Cass. n. 4125/2001). Fattispecie che si risolvono tutte nell'individuazione della volontà comune trasfusa nelle disposizioni del regolamento di condominio. Pertanto, come anticipato nell'incipit di queste osservazioni, la corretta e lineare applicazione dei principi ermeneutici validi per i contratti anche alle clausole dei regolamenti condominiali aventi natura contrattuale, in quanto costituenti eccezioni e deroghe alla specifica disciplina condominiale, implica concettualmente l'assoggettamento delle stesse clausole alle norme legislative che, nel loro divenire, sono applicabili alle comuni clausole contrattuali. Tale considerazione giuridica appare idonea e sufficiente per la risoluzione delle annose questioni condominiali, come ad esempio quelle riguardanti le tabelle millesimali, per le quali si continua a configurare, forse impropriamente, un «negozio di accertamento», al fine specifico di negare la loro modificabilità a maggioranza da parte dell'assemblea, non considerando che, anche con tale configurazione giuridica, il ricorso all'autorità giudiziaria per la revisione delle stesse non potrebbe, comunque, sortire l'effetto presupposto di una loro modifica in senso oggettivo, perché il giudice adito a tal fine sarebbe, in ogni caso, tenuto e quindi limitato al rispetto e all'applicazione della volontà comune delle parti insita nel supposto negozio di accertamento, così come emerge dalla clausola del regolamento di condominio, con la conseguente immodificabilità delle diversificazioni, rispetto ai criteri legali, consacrate nell'assetto normativo del c.d. «negozio di accertamento» che si vorrebbe modificare al di là della prova di un vizio del consenso che solo legittima il suo annullamento. Se, pertanto, la natura contrattuale delle clausole del regolamento di condominio e, in particolare, delle tabelle millesimali – spesso enfatizzata per corroborare e sostenere surrettiziamente la loro immodificabilità, se non con un consenso unanime di valore negoziale di impossibile realizzazione pratica perché comportante l'assenso (inverosimile) del condomino privilegiato – comporta l'applicabilità della normativa ordinaria dettata per le clausole contrattuali di diritto comune, ciò ha, incontrovertibilmente, riflessi diretti per la soluzione del conflitto di interessi insito nella controversia che sorga al riguardo. Contesto normativo di riferimento che, nel frattempo, è però mutato, tutelando, ora, innovativamente il consumatore per le eventuali clausole vessatorie e abusive, ritenute, in un primo momento, soltanto inefficaci, ma, poi, radicalmente nulle con l'entrata in vigore del codice del consumo del 2005. L'estensione dei principi validi per i contratti trova fondamento nella stessa ragione che finora ha giustificato la validità e l'efficacia delle disposizioni di natura contrattuale inserite nella disciplina specifica del condominio. Meritevolezza di tutela che diviene rilevante per le incisive limitazioni, vuoi delle facoltà inerenti alle proprietà esclusive vuoi dei diritti condominiali disposte dalle clausole del regolamento di condominio predisposto dall'originario unico proprietario dell'intero edificio, di volta in volta, accettato per adesione dagli acquirenti-condomini che, a differenza del passato, costituiscono la parte debole del rapporto. A ben considerare, ricorre lo stesso paradigma previsto dalle norme del codice del consumo le quali, per la vasta diffusione delle situazioni condominiali, danno origine a controversie che sono caratterizzate da indubbio interesse generale e sociale. È stato affermato da Cass. n. 6802/2010 che «La disciplina di tutela in argomento deve [...] ricevere in tale ipotesi comune e generale applicazione, in presenza cioè sia di contratti conclusi mediante moduli o formulari unilateralmente predisposti – in vista dell'utilizzazione per una serie indefinita di rapporti – da uno dei contraenti, sia di contratto da uno dei contraenti predisposto in vista della singola stipula per lo specifico affare (cfr. Cass. n. 4914/2009; Cass. n. 24262/2008)». Ciò pare fotografare la particolare situazione del regolamento di condominio predisposto dall'originario unico proprietario dell'intero edificio in condominio che contenga norma di natura contrattuale. Ecco allora emergere la questione giuridica sottesa alle sentenze in rassegna che stimola l'approfondimento della questione che, benché prospettata più volte in altri scritti al fine di un auspicato scrutinio dottrinale, non sembra avere suscitato grande attenzione, se non un tacito scetticismo, verosimilmente, ispirato al brocardo quieta non movere, in ragione dell'estrema sensibilità della materia proprietaria. Comunque, le pronunce in rassegna comprovano, innegabilmente, il forte conflitto di interessi che provoca il ricorso, diffuso e frequente, alla Suprema Corte regolatrice in merito alle limitazioni imposte contrattualmente alle normali facoltà inerenti alle proprietà esclusive che non può non risultare significativo della diffusa domanda di giustizia, tanto più se si consideri che dette limitazioni non dipendono dalla costituzione formale di veri e propri diritti reali, secondo le rigorose norme codicistiche, ma conseguono alla mera successione nelle rispettive posizioni contrattuali. Trasmissibilità quindi convenzionale e non reale. Emergono pressanti esigenze di giustizia sociale da parte dei nuovi condomini, spesso ex conduttori degli immobili acquisiti poi in proprietà, che l'interprete non può ignorare in ragione dei rilevanti e inequivoci mutamenti legislativi, indotti, peraltro, dal diritto comunitario che, quanto meno, impongono una serena e imparziale rivisitazione dei precedenti arresti dottrinali e giurisprudenziali in materia condominiale. Notorie sono le diverse configurazioni dottrinali elaborate a proposito della trasmissibilità delle iniziali e originarie limitazioni contrattuali in capo ai successivi acquirenti, subentranti nella stessa e originaria posizione contrattuale per effetto della loro manifestazione di volontà contrattuale di adesione all'originario assetto normativo contrattuale (piuttosto che di un originario contratto a favore di terzo non ancora esistente). L'onda lunga dei processi che pervengono ora sempre più numerosi in sede di legittimità, in ragione della diversa incidenza sulle situazioni soggettive dei novelli condomini, suscita l'attenzione per la possibile natura vessatoria o abusiva della clausola contrattualmente accettata e per la sua possibile nullità, in forza della novella legislativa dell'art. 33 d.lgs. n. 206 del 2005, piuttosto che dell'art. 1341 c.c. Se l'esposta considerazione venga riconosciuta immune da vistosi errori giuridici e niente affatto cervellotica, la vigente normativa dettata a tutela dei consumatori – applicabile anche per il «singolo contratto predisposto unilateralmente» (Cass. n. 24269/2008 richiamata da Cass. n. 6802/2010) che si perfezioni, ovviamente, dopo l'entrata in vigore del codice del consumo e che preveda l'adesione al preesistente regolamento c.d. «contrattuale» predisposto dall'originario unico proprietario dell'edificio in condominio – potrebbe determinare – se invocata ritualmente dai condomini interessati – il dissolvimento e la scomparsa delle numerose limitazioni all'uso delle unità condominiali in proprietà esclusiva, risalenti a un'epoca che riteneva meritevole di tutela anche il divieto di tenere nel proprio appartamento una gabbia di uccellini, ma che non può più ritenersi assistita dalla meritevolezza conseguente all'evoluzione della società civile. Contrariamente a un comune sentire, tale esito interpretativo comporta, forse, la sorprendente scoperta della persistente vitalità e l'attualità della peculiare normativa prevista, fin dal 1934, per il condominio che esalta il metodo collegiale e il criterio maggioritario delle decisioni condominiali, con una scelta normativa che, probabilmente, ha precorso troppo i tempi. Specificità di una normativa, quella condominiale, che ha provocato quei temperamenti di natura contrattuale, all'epoca consentiti e non vietati, ma che ora appaiono in contrasto con le sopravvenute innovazioni legislative. Inclini ad apprezzare la saggezza dei vecchi e antichi proverbi, non vorremmo che le qualità insite nella disciplina codicistica del condominio vengano apprezzate e conclamate unanimemente quando è (forse) troppo tardi per rivitalizzare una struttura compromessa da troppi usi impropri, in violenta e spesso inavvertita contrapposizione a una specificità vissuta come intollerabile diversità ontologica. Conclusivamente, si opina che, nel momento in cui avvenga il trasferimento di un'unità immobiliare sita in un edificio in condominio, da parte (necessariamente) di un venditore «professionista» in favore di una persona fisica che contestualmente divenga condomino e quindi consumatore, con la contestuale accettazione del preesistente regolamento predisposto dall'originario unico proprietario, contenente clausole limitatrici delle normali facoltà inerenti alla proprietà esclusiva acquistata con lo stesso atto, tale accettazione contrattuale viene ad avere per oggetto pattuizioni (verosimilmente) vessatorie e abusive che appaiono nulle per la mancanza e, addirittura, l'impossibilità di una trattativa individuale (d. lgs. n. 206, cit., ex art. 34, comma 4, caratterizzata dagli indefettibili requisiti dell'individualità, serietà ed effettività, Cass. n. 24262/2008). Nullità che scardina l'unitario e uniforme assetto normativo di tutti i rapporti condominiali concepito nel regolamento condominiale predisposto e accettato per adesione, in deroga alla specifica disciplina condominiale. La nullità delle clausole di natura contrattuale o – se preferisce – dell'intero regolamento condominiale contrattuale (per chi privilegia tale configurazione onnicomprensiva) accettato per adesione ha, intuitivamente, forza espansiva nei confronti di tutti i partecipanti al condominio, con la conseguente restaurazione della disciplina, generale e astratta, dettata dal codice che, peraltro, è maggiormente permeabile alle innovazioni legislative che recepiscono le nuove istanze sociali emergenti nel condominio. Un esito che appare ragionevole e giusto in ragione anche delle dimensioni sociali ormai acquisite dal condominio. Tuttavia, non può tralasciarsi, onestamente, di sottolineare che, comunque, rientra nella perdurante libera autonomia delle parti contraenti il regolamento di condominio la facoltà di procedere alla formale costituzione di diritti reali o servitù, secondo le specifiche norme dettate al riguardo, da trascrivere ritualmente ai fini della loro opponibilità ai terzi, superando, così, le perduranti problematiche della registrazione del regolamento condominiale, a seguito dell'abrogazione delle norme corporative. Ciò dovrebbe valere anche per il regolamento assembleare, se non si vuole che l'eventuale contenuto negoziale della relativa deliberazione sia circoscritta ai soli condomini «stipulanti», senza alcuna trasmissibilità ai subentranti, che, secondo il diritto vivente, è limitata alle sole deliberazioni di natura regolamentare. Quanto espresso vuole essere un contributo per una rivisitazione della questione illustrata, in ragione delle esigenze di giustizia sostanziale delle quali appaiono chiare manifestazioni le controversie giudiziali che vanno moltiplicandosi e che pervengono all'attenzione della Suprema Corte per il disagio e l'inadeguatezza dei vecchi schemi interpretativi di una disciplina che, nel frattempo, si è notevolmente evoluta anche per la spinta comunitaria, potendo la novella legislativa della mediazione protesa alla conciliazione, in quanto circoscritta ai diritti disponibili, non risultare sufficiente per la soluzione di questioni di tale portata giuridica, a prescindere dalla perdurante erronea assimilazione implicita del condominio a una persona giuridica nella specie insussistente.

In particolare, la clausola relativa al pagamento delle spese condominiali inserita nel regolamento di condominio predisposto dal costruttore o originario unico proprietario dell'edificio e richiamato nel contratto di vendita della unità immobiliare concluso tra il venditore professionista e il consumatore acquirente, può considerarsi vessatoria, ai sensi dell' art. 33, comma 1, d.lg. 6 settembre 2005, n. 206 , ove sia fatta valere dal consumatore o rilevata d'ufficio dal giudice nell'ambito di un giudizio di cui siano parti i soggetti contraenti del rapporto di consumo e sempre che determini a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto, e dunque se incida sulla prestazione traslativa del bene, che si estende alle parti comuni, dovuta dall'alienante, o sull'obbligo di pagamento del prezzo gravante sull'acquirente, restando di regola estraneo al programma negoziale sinallagmatico della compravendita del singolo appartamento l'obbligo del venditore di contribuire alle spese per le parti comuni in proporzione al valore delle restanti unità immobiliari che tuttora gli appartengano (Cass. II, n. 5139/2024).

D'altro canto, non è pensabile la trasformazione del regolamento «assembleare» in regolamento «contrattuale» per facta concludentia. L'osservanza, da parte della minoranza dissenziente, della deliberazione legittimamente adottata dall'assemblea dei condòmini dell'edificio per il regolamento interno della ripartizione delle spese per il godimento di parti comuni (nella specie, ripartizione delle spese di esercizio e manutenzione dell'impianto di riscaldamento), essendo esclusivamente dovuta alla efficacia vincolante dell'atto collettivo anche nei confronti dei dissenzienti, non esprime una volontà negoziale di tacita adesione e non può, pertanto, trasformare la delibera condominiale in regolamento contrattuale non più modificabile senza il consenso unanime delle parti (Cass. II, n. 7297/1993).

Le clausole del regolamento condominiale di natura contrattuale, che può imporre limitazioni ai poteri e alle facoltà spettanti ai condòmini sulle parti di loro esclusiva proprietà, sono vincolanti per gli acquirenti dei singoli appartamenti qualora, indipendentemente dalla trascrizione, nell'atto di acquisto si sia fatto riferimento al regolamento di condominio, che – seppure non inserito materialmente – deve ritenersi conosciuto o accettato in base al richiamo o alla menzione di esso nel contratto (Cass. II, n. 10523/2003; Cass. II, n. 5626/2002; Cass. II, 13164/2001; Cass. II, n. 3749/1999; Cass. II, n. 6768/1991).

Posta la distinzione tra i due regolamenti, sorge il problema dell'applicabilità anche ai regolamenti convenzionali, oltre che a quelli assembleari, della disposizione del comma 4 dell'art. 1138 c.c., il quale sancisce l'inderogabilità a mezzo del regolamento di alcune disposizioni codicistiche, inderogabilità poi ribadita ad altro riguardo dall'art. 66 disp. att. c.c.

Secondo l'orientamento prevalente in dottrina (Andreoli, 102; Branca 1972, 673) ed in giurisprudenza (Cass. II, n. 11268/1998; Cass. II, n. 4905/1990) le due specie di regolamento si equivalgono quanto ad attitudine alla derogabilità delle menzionate norme: entrambe non possono derogare ad esse, la cui inderogabilità deriva dal fatto che le stesse tutelano interessi collettivi fondamentali per la vita dell'intero condominio, i quali necessitano di essere disciplinati ugualmente in tutti gli edifici in condominio e sono pertanto sottratti alla disponibilità dei condòmini (Branca 1972, 673).

 Il regolamento contrattuale di condominio, va ancora ricordato, trae origine o da un patto stipulato da tutti i condòmini ovvero dall'accettazione da parte degli acquirenti delle singole unità immobiliari (piani o porzioni di piano) del regolamento già predisposto dal venditore, unico originario proprietario del fabbricato; ne consegue che l'esistenza di tale regolamento non può ritenersi dimostrata ove non risulti né l'accettazione dei condomini nei singoli rogiti di acquisto né l'approvazione dell'assemblea di condominio (Cass. II, n. 3245/2009). Ed inoltre regolamento condominiale contrattuale può porre limitazioni ai poteri e alle facoltà spettanti ai condomini sulle parti dell'edificio di loro esclusiva proprietà purché le pattuizioni limitatrici siano espressamente enunziate, essendo invalide le pattuizioni che limitino il potere di destinazione con formule del tutto generiche (Trib. Roma 14 dicembre 2017).

Obbligatorietà del regolamento «assembleare» e modalità di calcolo della maggioranza

La formulazione della norma in commento, la quale prevede al comma 1 l'obbligatorietà del regolamento di condominio qualora «il numero dei condomini è superiore a dieci», è solo apparentemente semplice e piana, ed ha invece dato luogo ad un ampio dibattito dottrinale, al quale non fa peraltro riscontro una qualche espressa presa di posizione giurisprudenziale.

La norma pone difatti il problema – in effetti rilevante pressoché esclusivamente su un piano astratto, ove si consideri che l'inosservanza dell'obbligo di dotarsi del regolamento, come si vedrà più avanti, non è sottoposta a sanzioni – della modalità di calcolo del numero dei condòmini. Se la norma venisse intesa in senso strettamente letterale, come riferita al numero delle persone, fisiche o giuridiche, proprietarie delle singole unità immobiliari, si perverrebbe alla conclusione, apparsa ad alcuni inaccettabile, che il regolamento è obbligatorio in un edificio composto di due unità immobiliari, l'una appartenente ad esempio a cinque comproprietari, l'altra a sei, mentre non è obbligatorio in un edificio composto, poniamo, di cento unità immobiliari, appartenenti a dieci condòmini in ragione di dieci unità ciascuno.

Secondo una tesi volta a porre rimedio alle incongruenze determinate dalla rigida interpretazione letterale, il proprietario di più appartamenti dovrebbe contare per il numero degli stessi (sicché, nel secondo degli esempi appena fatti, il numero dei condomini, ai fini dell'obbligatorietà del regolamento, sarebbe di cento), mentre i comproprietari di una stessa unica unità immobiliare dovrebbero contare per uno (sicché nel primo degli esempi che precede, i condòmini da conteggiare ai fini della verifica dell'obbligatorietà del regolamento sarebbero due). A questa soluzione (A. Jannuzzi-G. Jannuzzi, 684), si è replicato (E. V. Napoli–E. G. Napoli, 28) che essa non mancherebbe di controindicazioni: il regolamento, infatti, sarebbe da un lato obbligatorio anche nel caso di un edificio composto di undici unità immobiliari appartenenti però a due soli proprietari, l'uno proprietario di dieci porzioni, l'altro di una soltanto; dall'altro lato, un ridotto numero di persone, proprietarie di più unità immobiliari, prevarrebbe sempre sulla rimanente compagine (è fatto l'esempio di sette persone proprietarie ciascuna di un appartamento, a fronte di altre quattro unità abitative ciascuna appartenente a dieci persone, sottolineandosi che, in tal caso, sette persone deciderebbero per tutti i quarantasette condòmini).

Si è sostenuto, per questa via, che, al fine di evitare le prospettate incongruenze, si potrebbe fare applicazione della regola sancita dall'art. 1136, comma 2, c.c., che prescrive il quorum della maggioranza degli intervenuti i quali rappresentino almeno la metà del valore dell'edificio (E. V. Napoli–E. G. Napoli, 29). Tale soluzione, come riconoscono gli stessi autori, finisce però per frustrare l'esigenza riconosciuta dal legislatore di distinguere tra comunione e condominio. L'ipotetico contrasto tra i comproprietari della singola unità immobiliare va difatti preventivamente risolto attraverso l'applicazione delle regole poste dall'art. 1105 c.c., con l'ulteriore conseguenza che detti comproprietari, ai fini della verifica del numero dei condomini, ai sensi del comma 1 della norma in commento, vanno considerati come un solo condomino. L'impianto proprietario che tuttora presiede alla disciplina del condominio fa sì, del resto, che i comproprietari della singola unità immobiliare debbano poter confidare sul valore economico del proprio immobile, così come il proprietario di più appartamenti deve poter contare sul valore totale della sua proprietà ai fini del calcolo della maggioranza necessaria per l'approvazione del regolamento di condominio. In definitiva, «se un appartamento è indiviso nelle mani di più persone, esse contano per uno» (Branca 1972, 665; così pure E. V. Napoli–E. G. Napoli, 30, i quali invitano a «tenere conto del numero dei proprietari degli appartamenti, indipendentemente dalla circostanza che un soggetto sia proprietario di più appartamenti: valgono per uno i proprietari di uno stesso appartamento, mentre il proprietario di più piani o porzioni di piano non vale per il numero degli stessi»; analogamente Triola 2013, 427; Andreoli, 19; Corona, 31; Salis 1959, 403, il quale osserva che sarebbe assurdo rendere obbligatorio un regolamento di condominio solo perché un piano o un appartamento appartenga a più comproprietari invece che in proprietà separata ad una sola persona).

D'altronde, l'art. 67 disp. att. c.c. stabilisce che, ai fini della regolare costituzione dell'assemblea dei condomini, qualora una unità immobiliare appartenga in comproprietà a più persone, queste hanno diritto ad un solo rappresentante nell'assemblea, sicché, se ai fini della costituzione della maggioranza i comproprietari dell'unità immobiliare vengono computati per uno, è conseguente ritenere che lo stesso congegno debba essere seguito ai fini della determinazione del numero dei condòmini tale da rendere obbligatoria la formazione del regolamento (Triola 2013, 427; Andreoli, 19; Corona, 31; Salis 1959, 403).

Secondo altri, poi, il legislatore avrebbe «inteso riferirsi non all'elemento soggettivo dei titolari, bensì all'elemento oggettivo delle frazioni in cui è diviso il condominio per titolo di proprietà esclusiva» (Peretti Griva, 508), sicché «se una stessa persona fosse titolare di due proprietà considerate distinte ed esclusive in seno al condominio, il titolare unico dovrebbe, agli effetti dell'art. 1138 c.c., contare per due, non potendosi annullare, per la sola coincidenza di un'unione personale, la portata decisiva dell'elemento obiettivo, che solo può venire, nel caso, in considerazione». Ma a ciò si obietta che tale conclusione renderebbe obbligatoria la formazione del regolamento non appena il costruttore dell'edificio abbia venduto un solo appartamento (Rovelli–Caviglione, Il condominio negli edifici, cit., 766).

Ponendo l'accento sulla configurazione del condominio come comunità, formazione sociale volta ai fini di realizzazione del diritto all'abitazione, si sostiene, ancora, che l'espressione contenuta nell'art. 1138, comma 1, c.c., dovrebbe essere letto nel senso dell'obbligatorietà o facoltatività del regolamento secondo il numero delle situazioni soggettive condominiali. Entro (e soltanto entro) questi limiti si può convenire con quanti fanno riferimento al numero di «proprietà separate, quindi nei limiti entro i quali, se ci si richiami alle proprietà separate, si faccia riferimento a situazioni soggettive diverse (Ruscello 2012, Comunità condominiale, 66). Perciò, «se un condomino è proprietario di due unità immobiliari, e una di esse dovesse essere stata ceduta in locazione, nonostante le due unità immobiliari, ai fini del computo di cui al comma 1 dell'art. 1138 c.c., il numero dei condòmini non può che essere unico, unica essendo la situazione soggettiva proprietaria; ma se una delle due unità immobiliari collegabili a quell'unico soggetto dovesse essere destinata a residenza familiare e l'altra studio professionale, essendo le due situazioni soggettive distinte (o, se si preferisce, in «proprietà separata»), ai fini del computo di cui al comma 1 dell'art. 1138 c.c. il numero non può che essere due» (Ruscello 2012, Comunità condominiale , 67).

Il numero dei condòmini può variare nel corso del tempo. Se il proprietario di più unità immobiliari cede una o alcune di esse a terzi, dando luogo al superamento del numero di dieci condomini, il regolamento che in precedenza era facoltativo diventa obbligatorio (Salis 1959, 403, Andreoli, 21; Triola 2013, 428). Simmetricamente, se in un unico condomino viene a concentrarsi la proprietà di più unità immobiliari, con conseguente riduzione del numero di condòmini al di sotto della soglia prevista dall'art. 1138 c.c., il regolamento obbligatorio diventa facoltativo (Triola 2013, 428; contra, Peretti Griva, 508). In tal caso, nondimeno, il regolamento precedentemente approvato rimane in vigore fintanto che non venga abrogato o modificato (E. V. Napoli–E. G. Napoli, 31; Salis 1959, 403).

Se il regolamento di condominio è obbligatorio in un edificio in cui il numero dei condòmini è superiore a dieci, ciò non esclude, comunque, la possibilità della formazione facoltativa del regolamento nei condominii il cui numero di partecipanti non sia superiore a dieci (E. V. Napoli–E. G. Napoli, 31).

Approvazione del regolamento «assembleare» obbligatorio

Secondo la norma in commento ciascun condomino può assumere l'iniziativa per la formazione del regolamento e per la revisione di quello esistente.

 Considerato che, nei condominii con più di dieci partecipanti, che devono dotarsi dell'amministratore, ai sensi dell'art. 1129 c.c., l'assemblea è convocata, tra l'altro, quando ne è fatta richiesta da almeno due condòmini che rappresentino un sesto del valore dell'edificio, secondo quanto prescrive l'art. 66 disp. att. c.c., è da ritenere che la disposizione in commento, laddove pone il menzionato precetto, si ponga in deroga al citato art. 66, non richiedendo l'inoltro della richiesta all'amministratore ai sensi di tale norma (E. V. Napoli–E. G. Napoli, 31; Salis 1959, 403).

Nel caso di unità immobiliare gravata di usufrutto, l'avviso di convocazione dell'assemblea deve essere comunicato al nudo proprietario, poiché la deliberazione eventualmente da assumere coinvolge interessi esorbitanti rispetto al mero godimento (Fragali, 460). È stata giudicata d'altronde priva di fondamento normativo la tesi secondo la quale il nudo proprietario avrebbe l'obbligo di informare l'usufruttuario (Triola 2013, 429).

In applicazione del principio stabilito dall'art. 1105 c.c., comma 3, il quale subordina la validità delle deliberazioni alla preventiva informazione dei partecipanti sull'oggetto da discutere in assemblea, è stato ritenuto che non sia completa un'informazione riguardante la discussione del regolamento, se non mediante la comunicazione dello schema da esaminare o quantomeno l'indicazione delle modalità di consultazione preventiva dello stesso (Triola 2013, 429).

L'art. 1138, comma 2, c.c. stabilisce che il regolamento deve essere approvato dall'assemblea con la maggioranza stabilità dal comma 2 dell'art. 1136 c.c., cioè da un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti ed almeno la metà del valore dell'edificio. Poiché l'approvazione del regolamento deve avvenire in assemblea, deve escludersi che possa considerarsi regolarmente adottato un regolamento sottoscritto da un certo numero di condomini, tale da soddisfare il quorum deliberativo previsto dalla norma, ma non passato per l'assemblea (Ruscello 2012, Comunità condominiale, 49).

  L'assemblea può essere direttamente convocata per l'approvazione di un regolamento, senza necessità che i condòmini siano espressamente convocati in un'assemblea preliminare per deliberare su un progetto di regolamento (Cass. II, n. 2957/1956).

 Per concorde opinione la maggioranza prevista dalla norma in commento è richiesta sia in prima che in seconda convocazione (E. V. Napoli–E. G. Napoli, 42; Peretti Griva, 516, Triola 2013, 430; Ruscello 2012,Comunità condominiale,49). Difatti, se il legislatore avesse inteso stabilire anche per l'approvazione del regolamento di condominio l'applicabilità delle maggioranze previste per la generalità delle delibere assunte dall'assemblea in prima o in seconda convocazione, l'art. 1138, comma 3, c.c., sarebbe superfluo. Viceversa il legislatore ha inteso imporre per l'approvazione del regolamento una maggioranza qualificata, la quale si giustifica perché il regolamento è destinato a disciplinare l'intera gamma dei rapporti ivi contemplati, destinati a ripetersi nel tempo (Fragali, 481; Ruscello 1980, 177; Triola 2013, 430). Non può allora essere condivisa la tesi sostenuta in dottrina secondo la quale, ove il regolamento si limiti a disciplinare semplici rapporti amministrativi, sia sufficiente in seconda convocazione la maggioranza prevista dall'art. 1136, comma 3, c.c. (Branca 1972, 665; Rovelli–Caviglione, Il condominio negli edifici, cit., 770).

Parimenti pacifico poi è che la maggioranza prevista dall'art. 1138 c.c. sia richiesta non solo per l'approvazione del regolamento, ma anche per la sua revisione, che è in definitiva approvazione di un diverso regolamento.

È da escludere, inoltre, come si è già visto, che, in caso di regolamento adottato all'unanimità, esso si trasformi per ciò stesso il regolamento contrattuale.

La delibera di approvazione del regolamento deve essere comunicata agli assenti ai fini della decorrenza del termine di impugnazione di cui all'art. 1137 c.c. Qualora l'assemblea non abbia apportato modifiche al testo sottoposto al suo esame, non è necessario che esso venga comunicato nuovamente, dal momento che il condomino assente ne è a conoscenza per effetto dell'avviso di convocazione; in caso di modifiche, è sufficiente dare comunicazione di esse (Fragali, 487).

In forza dell'art. 1138, comma 3, c.c. nel testo derivante dalla riforma (l. 11 dicembre 2012, n. 220), il regolamento deve essere allegato al registro dei verbali delle assemblee di cui all'art. 1130, n. 7), c.c. La previsione è stata giudicata superflua poiché l'obbligo menzionato è già desumibile dall'art. 1136, ultimo comma, c.c., il quale prescrive che delle riunioni dell'assemblea venga redatto processo verbale da trascrivere nel registro tenuto dall'amministratore (Triola, 2013, 431).

Inosservanza dell'obbligo di adottare il regolamento

Altro punto controverso concerne l'effettivo rilievo dell'obbligatorietà del regolamento nei condomìni con più di dieci condòmini: si tratta in proposito di stabilire se, a fronte della mancata adozione del regolamento, l'ordinamento consenta di ricorrere ad un qualche rimedio o sanzione, sebbene non espressamente contemplato dall'art. 1138 c.c. Quest'ultima norma riconosce infatti al condomino un potere di iniziativa per la formazione del regolamento, potere qualificato dalla Suprema Corte in termini di vero e proprio diritto potestativo (Cass. II, n. 1218/1993), senza null'altro aggiungere, sicché si è affermato che «se tale iniziativa non è presa da nessun condomino, il condominio anche se composto di più di dieci partecipanti può rimanere senza regolamento» (Nobile, 35; E. V. Napoli–E. G. Napoli, 42; nel senso che il regolamento è utile ma non necessario Celeste 2000, 27).

  In tale contesto, si discute se, in caso di regolamento obbligatorio in ragione del numero dei condòmini, il singolo condomino possa ricorrere al giudice per ottenere la formazione del regolamento che l'assemblea non ha ritenuto di licenziare. Semplificando, si può dire che alcuni negano la possibilità di un intervento del giudice, non potendo questi sostituirsi all'assemblea, alla quale esclusivamente spetta, nell'ambito della propria autonomia, di adottare il regolamento (Salis 1959, 334; Corona, 39; Guidi, 286; Figlioli, 536; Marina-Giacobbe, 837; Frigerio, 651; Tortorici 2008, 145); altri propendono per l'opposta soluzione facendo leva sull'incongruità della lettura che, pur riconoscendo l'obbligatorietà dell'adozione del regolamento, non contempli alcuna sanzione per la violazione dell'obbligo (Branca 1972, 683; Peretti Griva, 513; Andreoli, 25; Nobile, 35; Barberis, 184; Visco, 609; Cricenti, 1631; Bianca, 505; E.V. Napoli-E.G. Napoli,, 44; Triola 2013, 441).

 In giurisprudenza, tra le non molte pronunce, va ricordata anzitutto la già citata Cass. II, n. 1218/1993, secondo cui «i regolamenti condominiali, non approvati dall'assemblea, ma adottati coattivamente, in virtù di sentenza attuativa del diritto potestativo di ciascun partecipe del condominio (con più di dieci componenti) di ottenere la formazione del regolamento della comunione, hanno efficacia vincolante per tutti i condomini, ai sensi dell'art. 2909 c.c. a seguito del passaggio in giudicato di detta sentenza»; Pret. Roma 15 febbraio 1979, che ha ritenuto ammissibile un provvedimento di urgenza ex art. 700 c.p.c. diretto a stabilire il termine, fissato in 60 giorni, entro cui il venditore doveva adempiere il mandato a redigere il regolamento di condominio; Trib. Palermo 26 marzo 1968, secondo cui, «pur essendo obbligatoria per i condomìni ai quali afferiscano più di dieci unità immobiliari separate, l'adozione di un regolamento per la disciplina dell'uso delle cose comuni e per la ripartizione delle spese, si deve escludere che l'autorità giudiziaria possa essere adita per la formazione del regolamento in base al semplice presupposto della sua inesistenza di fatto e quando non si sia in presenza dello stato di insoddisfazione, per ostacolo imputabile a terzi, di una pretesa concreta relativa all'approvazione di un determinato regolamento».

 Non mancano poi contrasti anche tra coloro i quali ammettono il ricorso al giudice. Secondo la maggior parte degli autori l'intervento giudiziale sarebbe limitato alla sola ipotesi di impugnazione della deliberazione assembleare di rigetto dell'iniziativa del condomino volta ad ottenere la formazione del regolamento (per esempio, Branca 1972, 683); secondo altri il ricorso al giudice sarebbe ammesso ogniqualvolta l'assemblea ometta per qualsiasi motivo di deliberare in ordine alla proposta del condomino volta all'approvazione del regolamento (per esempio, Nicoletti–Redivo, 80).

Nella prospettiva maggiormente accolta, è sembrato che un potere di intervento dell'autorità giudiziaria possa essere tutt'al più configurato soltanto laddove: a) ci si trovi di fronte a una espressa delibera assembleare contraria ad un progetto di regolamento, in sé già formato, quantunque non approvato; b) ricorra la nullità o la contrarietà alla legge della deliberazione ai sensi dell'art. 1137, comma 2, c.c. (Ruscello 2012, Comunità condominiale, 70).

Una volta riconosciuto, sia pure entro i limiti indicati, che il singolo condomino possa ricorrere al giudice perché dia vita al regolamento obbligatorio da lui proposto all'assemblea e da questa non approvato, si pone il problema della natura del relativo procedimento, con i conseguenti dubbi in ordine alle modalità di ricorso all'autorità giudiziaria. Secondo una parte della dottrina il procedimento in questione andrebbe ricondotto all'ambito della volontaria giurisdizione, essendo esso volto a supplire, nell'interesse della compagine condominiale, alla carenza di una manifestazione di volontà da parte dell'assemblea e, in definitiva, ad esercitare un controllo sul corretto esercizio dell'autonomia a quest'ultima spettante. Mancherebbe, cioè, un contrasto in atto su diritti soggettivi, tale da costituire presupposto tipico dell'esercizio della giurisdizione contenziosa (Crescenzi, 222; Mancini, 537; sul tema, altresì, Montesano, 1005). Secondo altri autori troverebbe applicazione il procedimento previsto dall'art. 1105, ultimo comma, c.c. concernente il ricorso all'autorità giudiziaria per la formazione del regolamento condominiale, ferma restando la possibilità degli interessati di far accertare in via contenziosa l'eventuale illegittimità del regolamento (Nobile, 36). In senso contrario si è osservato che l'art. 1105, ultimo comma, c.c., fa specifico riferimento alla mancata adozione di provvedimenti necessari alla concreta amministrazione della cosa comune, nei quali non può rientrare l'approvazione del regolamento di condominio, che contiene prescrizioni di carattere generale; in quest'ottica l'azione per la formazione del regolamento di condominio rientrerebbe nel normale giudizio contenzioso, avente ad oggetto l'accertamento della conformità alla legge del regolamento predisposto dal condomino attore, e consisterebbe nella risoluzione di una controversia tra il condomino ricorrente e l'assemblea inerte o riottosa (Triola 2013, 445). Legittimato passivo è il condominio (Triola 2013, 447).

La forma del regolamento

Il regolamento, secondo l'opinione comune, deve essere redatto necessariamente per iscritto (per tutti Salis 1967, Nuove questioni, 825), quantunque la forma scritta non sia espressamente imposto dalla norma in commento, ovvero da altra disposizione.

Al di là del rilievo che la forma scritta è coessenziale tanto all'applicazione, quanto alla impugnazione del regolamento, è agevole osservare che l'art. 1138 c.c., comma 3, prevede che il regolamento sia allegato al registro dei verbali delle assemblee di cui al n. 7) dell'art. 1130 c.c., la qual cosa presuppone l'osservanza del requisito della forma scritta.

Né l'opposta conclusione potrebbe essere raggiunta sulla considerazione che il requisito formale non è imposto espressamente sotto pena di nullità ai sensi dell'art. 1350 c.c. o dell'art. 1325, n. 4), c.c., poiché tali norme si riferiscono ai contratti ed agli altri atti unilaterali aventi contenuto patrimoniale ex art. 1324 c.c. (Fragali, 486).

  Al riguardo, la giurisprudenza della Suprema Corte fuga ogni dubbio: «La formazione del regolamento condominiale è soggetta al requisito della forma scritta ad substantiam, desumendosi la prescrizione di tale requisito formale, sia dalla circostanza che l'art. 1138, ultimo comma, c.c., prevedeva (nel vigore dell'ordinamento corporativo) la trascrizione del regolamento nel registro già prescritto dall'art. 71 disp. att. c.c., sia dalla circostanza che, quanto alle clausole del regolamento che abbiano natura soltanto regolamentare (e siano perciò adottabili a maggioranza), trova applicazione il comma 7 dell'art. 1136 c.c., che prescrive la trascrizione delle deliberazioni in apposito registro tenuto dall'amministratore (onde anche la deliberazione di approvazione di tale regolamento per poter essere trascritta deve essere redatta per iscritto), mentre, quanto alle clausole del regolamento che abbiano natura contrattuale, l'esigenza della forma scritta è imposta dalla circostanza che esse incidono, costituendo oneri reali o servitù, sui diritti immobiliari dei condòmini sulle loro proprietà esclusive o sulle parti comuni oppure attribuiscono a taluni condòmini diritti di quella natura maggiori di quelli degli altri condòmini. Ne discende che il requisito della forma scritta ad substantiam (che non può intendersi, d'altro canto, stabilito ad probationem, poiché quando sia necessaria la forma scritta, la scrittura costituisce elemento essenziale per la validità dell'atto, in difetto di disposizione che ne preveda la rilevanza solo sul piano probatorio) deve reputarsi necessario anche per le modificazioni del regolamento di condominio, perché esse, in quanto sostitutive delle clausole originarie del regolamento, non possono non avere i medesimi requisiti delle clausole sostituite, dovendosi, conseguentemente, escludere la possibilità di una modifica per il tramite di comportamenti concludenti dei condòmini» (Cass.S.U., n. 943/1999, la quale ha cassato la sentenza di merito che aveva ritenuto modificata una clausola di natura contrattuale di un regolamento condominiale, vietante la sosta dei veicoli nel cortile comune, per effetto del comportamento di costante esecuzione di una delibera modificativa adottata invalidamente a maggioranza e non all'unanimità, come esigeva quella natura; Cass. II, n. 18665/2004; Cass. II, n. 1314/2004).

In tale prospettiva, è stato anche in seguito ribadito che, poiché, in materia di condominio degli edifici, il diritto di ciascun condomino sulle parti di proprietà comune può trovare limitazioni soltanto in forza del titolo di acquisto o di convenzioni, la delibera assembleare che, nel destinare un'area comune a parcheggio di autovetture, ne disciplini l'uso escludendo uno dei condomini, è nulla se il relativo verbale non è sottoscritto da tutti i condomini, atteso che la relativa determinazione, modificando il regolamento condominiale, produce vincoli di natura reale su beni immobili ed è, pertanto, soggetta all'onere della forma scritta ad substantiam (Cass. II, n. 16228/2006).

L'efficacia del regolamento

  In ordine all'efficacia del regolamento «assembleare» occorre avere riguardo alla previsione dell'art. 1107, comma 2, c.c., dettato per la comunione ma applicabile al condominio in virtù del rinvio contenuto nell'art. 1139 c.c., secondo cui, decorso il termine per l'impugnazione senza che essa sia intervenuta, il regolamento ha effetto anche per gli eredi e gli aventi causa dai singoli partecipanti. Nel caso in cui il menzionato termine vada a scadere in tempi diversi per ciascun condomino, il regolamento acquisterà efficacia con lo spirare del termine ultimo per l'impugnazione.

Se, invece, l'opposizione è proposta, il regolamento acquista efficacia con il passaggio in giudicato della sentenza che la respinge (Andreoli, 148; Fragali, 509).

L'efficacia è propter rem, ossia correlata all'unità immobiliare facente parte dello stabile in oggetto, perché tale regolamento disciplina i rapporti interni del suddetto ente prescindendo dagli individui che lo compongono; il fatto che il regolamento abbia efficacia anche nei confronti dei successori a titolo particolare dei partecipanti – oltre a coloro che succedono mortis causa nella titolarità degli appartamenti di cui è composto lo stabile – significa semplicemente che le norme approvate dalla collettività valgono pure nei riguardi di tutti coloro che, in seguito, entrino a far parte della collettività e si trovino, quindi, nel tempo in quella particolare situazione soggettiva di condominio.

L'interpretazione del regolamento

 Ai fini dell'interpretazione del regolamento «assembleare» occorre far ricorso non già alle regole generali in materia di interpretazione dei contratti di cui agli artt. 1362 ss. c.c. (così invece Nicoletti–Redivo, 79); viceversa, una volta chiarito che il regolamento «assembleare» ha natura normativa e non negoziale, diviene ineluttabile ritenere che debba farsi riferimento a criteri di interpretazione oggettiva, non orientati alla ricerca dell'intenzione delle parti, intendendo per tali i singoli condòmini (Del Prato 1988, 487; Corona 2004, 74).

Occorre dunque aver riguardo anzitutto all'art. 12, comma 1, disp. att. c.c., dettato per l'interpretazione della legge, nonché al comma 1 dell'art. 1362 c.c., il quale parimenti richiede di fondare l'interpretazione sul senso fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse. È stato viceversa affermato che il comma 2 della stessa disposizione possa avere limitata applicazione solo nella misura in cui una determinata prassi interpretativa abbia incontrato acquiescenza da parte dell'assemblea (Del Prato 1988, 491). Ciò ha indotto a ritenere inesatta l'affermazione secondo cui sarebbe genericamente rilevante ai sensi dell'art. 1362, comma 2, c.c., il comportamento complessivo delle parti individuabili nei singoli condòmini (Triola 2013, 457).

 Nondimeno, la Suprema Corte ha affermato che, nell'interpretare la clausola del regolamento di condominio contenente il divieto di destinare gli appartamenti a determinati usi, si deve considerare che l'esatto significato lessicale delle espressioni adoperate può non corrispondere all'intenzione comune delle parti, allorché i singoli vocaboli utilizzati possiedano un preciso significato tecnico-scientifico, proprio di determinate nozioni specialistiche, non necessariamente a conoscenza dei dichiaranti in tutte le sue implicazioni (Cass. II, n. 14460/2011, che ha cassato la sentenza di merito che, in presenza di una clausola recante il divieto di destinare gli appartamenti ad uso «di gabinetto di cura malattie infettive o contagiose», aveva escluso la possibilità di adibire l'immobile a studio medico dermatologico, senza tener conto dell'intero contenuto della clausola in questione e senza accertare l'effettiva destinazione dell'immobile, desumendola non da elementi di fatto concreti ma dalla sola specializzazione medica del proprietario del bene).

È stato ritenuto applicabile il principio stabilito dall'art. 1367 c.c. secondo cui le clausole vanno interpretate nel senso in cui possono avere qualche effetto anziché in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno (Cass. II, n. 2888/1987).

È stato altresì affermato che: «è prerogativa dell'assemblea dei condomini di procedere ad interpretazione del regolamento di condominio, correttiva di altra precedentemente adottata, ed essa può essere censurata solo quando la diversa interpretazione non sia giuridicamente corretta, e ciò sia alla stregua dei principi di ermeneutica che avrebbero dovuto essere osservati in subjecta materia per identificare la esatta portata dei criteri stabiliti nel regolamento, sia in relazione ai risultati che siano derivati dalla loro concreta applicazione, in quanto non consentiti da norme legislative inderogabili» (Cass. II, n. 3936/1975).

Si è obiettato che in tal modo si attribuisce e si nega contemporaneamente tale potere all'assemblea in quanto si riconosce che l'interpretazione eventualmente adottata non è vincolante per i condomini, il che induce a ritenere che un'interpretazione autentica possa realizzarsi solo a seguito di una delibera assunta con le stesse modalità previste per l'approvazione del regolamento di condominio (Triola 2013, 457).

Ciò nonostante, secondo la Suprema Corte, non occorre l'unanimità dei consensi ai fini dell'adozione della delibera assembleare avente ad oggetto la ricognizione della vigenza e vincolatività di una disposizione del regolamento condominiale (Cass. II, n. 1558/2004).

Naturalmente l'interpretazione del regolamento di condominio da parte del giudice di merito è insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivata ed esente da vizi logici o giuridici (Cass. II, n. 17893/2009; Cass. II, n. 1406/2007; Cass. II, n. 9355/2000; Cass. II, n. 11278/1995; Cass. II, n. 8899/1990; Cass. II, n. 2293/1976; Cass. II, n. 862/1976). In particolare l'interpretazione delle clausole di un regolamento contrattuale contenenti criteri convenzionali di ripartizione delle spese per la conservazione ed il godimento delle cose comuni è sindacabile in sede di legittimità solo per violazione delle regole legali di ermeneutica contrattuale ovvero per l'omesso esame di un fatto storico, ai sensi dell' art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c. (Cass. II, n. 23128/2021)

In tema di regolamento di condominio c.d. contrattuale, è stato viceversa ritenuto che la clausola secondo cui i proprietari esclusivi delle terrazze di copertura (equiparabili al lastrico solare) devono contribuire alle spese di manutenzione ordinaria e straordinaria per un terzo mentre i tre quarti sono a carico di tutti i proprietari dei locali in proporzione dei millesimi, deve essere interpretata in base al canone finale dell'equo contemperamento – che va applicato in tutti i casi di assoluta incertezza dell'elemento letterale del testo – in modo da verificare se la quota maggiore posta a carico di tutti i proprietari dei locali in proporzione dei millesimi non abbia avuto proprio l'effetto di compensare la partecipazione soltanto per un quarto dei proprietari esclusivi dei terrazzi facendoli contribuire pro quota anche al residuo, che ai sensi dell'art. 1126 c.c. avrebbe dovuto gravare soltanto sui proprietari delle unità immobiliari sottostanti (Cass. II, n. 15702/2004, che ha cassato la sentenza impugnata la quale, ritenendo di non potere risalire all'effettiva volontà dei contraenti a causa di un evidente errore matematico contenuto nella norma regolamentare, ne aveva privilegiato l'interpretazione conforme alle norme codicistiche; la Suprema Corte ha anche ritenuto ininfluente, ai fini interpretativi, una successiva delibera condominiale, adottata a maggioranza e contenente una diversa ripartizione delle spese nelle misure di un quarto e tre quarti, rilevando che un comportamento complessivo posteriore al regolamento contrattuale sarebbe stato utilizzabile, ai sensi dell'art. 1362 c.c., solo se riferibile a tutti i condomini uti singuli).

I divieti ed i limiti di destinazione alle facoltà di godimento dei condomini sulle unità immobiliari in proprietà esclusiva devono risultare da espressioni incontrovertibilmente rivelatrici di un intento chiaro ed esplicito, non suscettibile di dar luogo ad incertezze; pertanto, l'individuazione della regola dettata dal regolamento condominiale di origine contrattuale, nella parte in cui impone detti limiti e divieti, va svolta rifuggendo da interpretazioni di carattere estensivo, sia per quanto concerne l'ambito delle limitazioni imposte alla proprietà individuale, sia per quanto attiene ai beni alle stesse soggetti (Cass. II, n. 21307/2016, che ha riformato la decisione impugnata che, dalla presenza di una clausola del regolamento di condominio espressamente limitativa della destinazione d'uso dei soli locali cantinati e terranei a specifiche attività non abitative, aveva tratto l'esistenza di un vincolo implicito di destinazione, a carattere esclusivamente abitativo, per gli appartamenti sovrastanti, uno dei quali era stato invece adibito a ristorante-pizzeria, mediante scala di collegamento interna ad un vano ubicato al piano terra; da ult. Cass. II, n. 14377/2024).

L'impugnazione del regolamento

Il comma 3 della norma in commento stabilisce che il regolamento può essere impugnato ai sensi dell'art. 1107 c.c., dettato per la comunione, secondo il quale i dissenzienti e gli assenti possono proporre l'impugnazione del regolamento davanti all'autorità giudiziaria, gli uni entro 30 giorni dalla deliberazione del medesimo, gli altri dalla comunicazione di tale deliberazione.

 Il decorso del termine per l'impugnazione è sottoposto a sospensione dei termini feriali in forza di un'interpretazione costituzionalmente orientata della relativa normativa fondata sui medesimi argomenti accolti da Corte cost. n. 49/1990, nel dichiarare costituzionalmente illegittimo l'art. 1 l. 7 ottobre 1969, n. 742, nella parte in cui non dispone che la sospensione ivi prevista si applichi anche al termine di trenta giorni, di cui all'art. 1137 c.c., per l'impugnazione delle delibere dell'assemblea di condominio.

Ciò detto, occorre delimitare l'ambito di applicazione dell'impugnazione in esame, prevista dal comma 3 dell'art. 1138 c.c., rispetto a quello della diversa impugnazione esperibile in via generale ai sensi dell'art. 1137 c.c. nei riguardi delle deliberazioni assembleari.

 In dottrina, non si dubita che la delibera di approvazione del regolamento sia soggetta all'impugnazione prevista dall'art. 1137 c.c., al pari di ogni altra delibera assembleare, per tutti i vizi «procedurali» tali da dar luogo ad una situazione di contrarietà alla legge, come nel caso di irregolarità nella convocazione o di insufficienza del quorum deliberativo. Cadono invece sotto l'impugnazione prevista dal comma 3 dell'art. 1138 c.c. i vizi concernenti la sostanza del regolamento adottato. Va tuttavia subito precisato che la mancata impugnazione del termine indicato non dispiega effetto nei riguardi di quelle deliberazioni che non possono essere approvate a maggioranza in quanto ledano i diritti di ciascun condomino, quali risultano dagli atti di acquisto e dalle convenzioni, ovvero deroghino alle disposizioni degli artt. 1118, comma 2, 1119, 1120, 1129, 1131, 1132, 1136 e 1137, secondo quanto previsto dal comma 4 della norma in commento (Triola 2013, 448; Celeste 2000, 41).

Può dunque accadere, per un verso, che una deliberazione invalida, in quanto affetta da vizi riguardanti il processo di formazione, possa approvare un regolamento valido per l'oggetto ed il contenuto. In tal caso, se la delibera, soltanto annullabile, non viene impugnata per tempo, il regolamento non viene toccato; qualora, invece, l'impugnazione venga proposto ed accolta, essa travolge il regolamento solo in via mediata, incidendo sulla delibera di approvazione. Per altro verso, può accadere che la delibera sia formalmente esente da vizi, ma che il regolamento sia invalido in quanto riguardante materie non comprese nelle attribuzioni dell'assemblea ovvero lesive dei diritti dei singoli partecipanti o contrarie a norme imperative (Corona, 88). In tale contesto, dunque, l'impugnazione di cui all'art. 1138, comma 3, c.c., investe i vizi propri del regolamento in sé considerato e non i vizi della deliberazione di approvazione del regolamento, i quali vanno fatti valere con l'impugnazione prevista dall'art. 1137 c.c. Ma sfuggono alla sfera di applicazione dell'impugnazione i regolamenti adottati in violazione dei diritti di qualche condomino sulla sua proprietà esclusiva oppure i suoi diritti sulle cose o servizi comuni o che contengano clausole in contrasto con norme imperative ed inderogabili di legge: l'inefficacia del regolamento, in tal caso, può essere fatta valere senza limiti di tempo ed anche mediante accertamento incidentale, in quanto diretta contro previsioni affette da nullità (Triola 2013, 448). D'altronde, per opinione comune, la facoltà concessa al condomino dall'art. 1138, comma 3, c.c. di impugnare il regolamento secondo la previsione dell'art. 1107 c.c., concernente l'impugnazione del regolamento di comunione, si riferisce ai soli regolamenti assembleari, mentre, per i regolamenti contrattuali, si ritiene che «la nullità o inefficacia può essere fatta valere con diversa azione, da esperire nei confronti di tutti i condomini, in quanto partecipi del vincolo negoziale» (per tutti Dogliotti, 439).

  Al che corrisponde, in giurisprudenza, l'insegnamento secondo cui il regolamento di condominio cosiddetto contrattuale, quali ne siano il meccanismo di produzione ed il momento della sua efficacia, si configura, dal punto di vista strutturale, come un contratto plurilaterale, avente cioè pluralità di parti e scopo comune; ne consegue che l'azione di nullità del regolamento medesimo è esperibile non nei confronti del condominio (e quindi dell'amministratore), carente di legittimazione in ordine ad una siffatta domanda, ma da uno o più condòmini nei confronti di tutti gli altri, in situazione di litisconsorzio necessario (Cass. II, n. >12850/2008;  nello stesso senso Cass. VI, n. 6656/2021, in Condominioelocazione.it 8 luglio 2021, con nota di Celeste Alberto).

Ha premesso la Suprema Corte che il giudice di merito aveva affermato – senza contestazioni sul punto – che era stato versato in atti, dallo stesso appellante (ora ricorrente), il regolamento di condominio, dall'esame del quale lo stesso giudice di merito aveva tratto la convinzione della legittimità dell'assemblea. Indi la sentenza impugnata ritenuto la sussistenza del litisconsorzio necessario tra tutti i condomini rispetto all'azione di nullità del regolamento. Era, dunque, palese che la corte d'appello, non essendo in questione alcuna impugnativa di delibera di adozione del regolamento (presa ai sensi dell'art. 1138 c.c.), aveva assunto a premessa implicita che si tratta(va) di un regolamento cd. contrattuale. Questo, quale che ne siano il meccanismo di produzione ed il momento del suo venire in essere come atto efficace (dati su cui la dottrina non è concorde), si configura, dal punto di vista strutturale, come un contratto plurilaterale (sul punto, da ult., Cass. VI, n. 24957/2020), avente, cioè, pluralità di parti e scopo comune, di tal che l'azione di nullità dello stesso non può che essere proposta nei confronti di tutte le parti (condomini) in contraddittorio necessario tra loro. Il litisconsorzio necessario non sussiste, ovviamente (e come la Corte di appello aveva rimarcato) tra tutti i condomini, da un lato, e l'amministratore, all'altro, ma solo tra i condomini, non essendo l'amministratore affatto legittimato a contraddire. Così stando le cose, la Suprema Corte ne ha desunto che la conclusione finale della corte di appello fosse corretta non solo laddove aveva ravvisato la necessità del litisconsorzio tra tutti i condomini ma anche quando aveva escluso la legittimazione dell'amministratore, così che, essendo stata l'azione proposta contro soggetto non legittimato (l'amministratore) non vi era materia per disporre l'integrazione del (di un) contraddittorio (incompleto) occorrendo soltanto provvedere – come la corte ha fatto – sulla domanda (così come) proposta in carenza di legittimazione del convenuto.

Poiché il regolamento «assembleare» obbligatorio deve, in base all'art. 1138 c.c., avere un contenuto minimo determinato, è stato ritenuto che l'impugnazione sia ammessa anche per far valere la sua incompletezza perché, ad es. mancante di norme circa l'uso delle cose comuni.

Mentre l'art. 1137, comma 2, c.c., ammette in generale l'impugnazione delle delibere assembleari per vizi consistenti nella contrarietà alla legge o al regolamento, l'art. 1107 c.c., cui rinvia l'art. 1138, comma 3, c.c., non individua le ragioni che giustificano l'impugnazione del regolamento.

Poiché i partecipanti al condominio sono destinatari del regolamento, tutti sono legittimati all'impugnazione senza che occorra la titolarità di un interesse concreto all'eliminazione della norma viziata (Trib. Firenze 14 marzo 1963).

Dal versante della legittimazione passiva, secondo la Suprema Corte, il regolamento di condominio, quali ne siano l'origine ed il procedimento di formazione, si configura, in relazione alla sua specifica funzione di costituire una sorta di statuto convenzionale del condominio che ne disciplina la vita e l'attività, come atto volto ad incidere su di un rapporto plurisoggettivo concettualmente unico con un complesso di regole giuridicamente rilevanti per tutti i condomini, con la conseguenza che l'azione promossa da uno o più condòmini per ottenere la declaratoria di nullità del regolamento medesimo per vizi attinenti al suo processo di formazione deve avere come necessari contraddittori tutti gli altri condomini, non potendo altrimenti l'eventuale sentenza di accoglimento ritenersi utiliter data (Cass. II, n. 12342/1995; Cass. II, n. 2590/1990; la tesi della legittimazione passiva dell'amministratore è accolta in giurisprudenza da App. Bari 3 febbraio 1954).

In dottrina, in senso conforme alcuni autori (Fragali, 519), sulla considerazione che l'impugnazione del regolamento è controversia concernente le parti comuni di cui all'art. 1131, comma 2, c.c.; contraGarbagnati, 334; critico nei confronti dell'orientamento della Suprema Corte anche Triola 2013, 450, il quale osserva che la soluzione adottata sembra presupporre la natura convenzionale e non normativa delle disposizioni del regolamento, e che intanto un'azione intesa ad incidere su un rapporto plurisoggettivo concettualmente unico deve essere proposta nei confronti di tutti i soggetti interessati, in quanto non sia diversamente disposto).

Quanto alla decorrenza del termine per l'impugnazione nei riguardi degli assenti, la norma in commento riconosce all'amministratore la più ampia libertà nella scelta del mezzo idoneo (Andreoli, 146), purché per iscritto (Triola 2013, 450). Si precisa tuttavia che, in caso di comunicazione effettuata per lettera semplice, spetta al condominio eccepire e dimostrare l'eventuale tardività dell'impugnazione (Andreoli, 151; Fragali, 521).

Il procedimento di impugnazione del regolamento si svolge per concorde opinione nelle forme del giudizio ordinario di cognizione (Triola 2013, 452), da introdursi pertanto di regola con citazione (ma con ricorso, ovviamente, se sceglie la via del procedimento sommario di cognizione di cui agli artt. 702-bis ss. c.p.c.).

La competenza per territorio spetta al giudice del luogo dove si trova l'edificio in condominio, in applicazione dell'art. 23 c.p.c. Competente per valore è il tribunale.

Si discute, inoltre, dei poteri di intervento giudiziale a seguito dell'impugnazione. Secondo alcuni il giudice non potrebbe sostituire direttamente la norma viziata, ma potrebbe soltanto porla nel nulla, trattandosi di materia suscettibile di autodisciplina da parte dell'assemblea condominiale. Egli, dunque, assunta la declaratoria del caso, avrà assolto il suo compito, dovendo rimettere all'assemblea condominiale il compito di sostituire alla disposizione travolta un'altra ritenuta adeguata, attraverso la riconsiderazione di tutti gli interessi della collettività condominiale (Andreoli, 153; Branca 1972, 219). Secondo altri il giudice potrebbe non solo annullare la disposizione illegittima ma anche ordinarne la modificazione, formulando in questa seconda ipotesi direttamente la nuova disposizione, la quale peraltro non si inserirebbe nel regolamento se non attraverso una apposita deliberazione dell'assemblea; ma potrebbe anche rimettere la formulazione all'assemblea condominiale, precisando il modo in cui la modifica stessa deve essere effettuata, le esigenze di cui deve tenere conto e, in genere, tutti gli elementi utili al fine di soddisfare le esigenze dei condòmini opponenti (Salis 1959, 414; analogamente Fragali, 523).

Si è obbiettato che tale tesi presenta l'inconveniente di rimettere l'adozione della nuova norma all'assemblea, la quale potrebbe anche non ottemperare, con la conseguenza che il condomino interessato dovrebbe nuovamente adire l'autorità giudiziaria, che non potrebbe che confermare la propria precedente statuizione, rinviando un'altra volta l'approvazione della disposizione modificata l'assemblea (Triola 2013, 453). Per una corretta soluzione del problema si è allora suggerito di partire dalla considerazione che l'impugnazione di cui all'art. 1138 c.c. non può investire le norme del regolamento che menomino i diritti di ciascun condomino quali risultino dagli atti di acquisto e dalle convenzioni o che deroghino alle disposizioni degli artt. 1118, comma 2, 1119, 1120, 1131, 1136 e 1137, né può riguardare le norme circa l'uso delle cose comuni e la ripartizione delle spese che siano in contrasto con i diritti e gli obblighi spettanti a ciascun condomino: l'impugnazione, allora, è diretta contro le norme circa l'uso delle cose comuni, la tutela del decoro dell'edificio, l'amministrazione, ed ha necessariamente ad oggetto il corretto esercizio del potere discrezionale da parte dell'assemblea in relazione, soprattutto, alle caratteristiche dell'edificio. Perciò, il giudice il quale accolga l'impugnazione non deve pronunciare l'annullamento delle disposizioni contestate, non ricorrendo alcuna ipotesi di violazione di legge, ma deve sostituire la propria valutazione discrezionale sulla base delle caratteristiche dell'edificio ed avendo presente l'equo contemperamento delle esigenze di tutti i condòmini interessati, a quella ritenuta non corretta dall'assemblea. Il potere di sostituire le disposizioni contestate con altre ritenute più idonee è cioè insito, pertanto, nella funzione stessa dell'impugnazione (Triola 2013, 454).

L'art. 1107 c.c. prevede ancora che, in caso di pluralità di impugnazioni l'autorità giudiziaria debba decidere con unica sentenza, per evidenti ragioni di economia ed allo scopo di evitare possibili decisioni contrastanti. In tale ipotesi troverà applicazione la disciplina dettata dal codice di rito per la riunione.

La modifica

È intuitivo che il regolamento di condominio non può avere un contenuto statico e immutabile, per cui ben può essere oggetto di modifiche nel tempo in relazione ai nuovi interessi di gestione (si pensi all'acquisto di un'area che occorre regolamentare o ad un'innovazione tecnologica che accresca il patrimonio comune); tuttavia, anche per quanto concerne la modifica del suddetto regolamento, è opportuno operare una distinzione tra le possibili tipologie.

  Infatti, il regolamento assembleare può essere modificato, integrato o abrogato in parte, dalla stessa assemblea, con la maggioranza richiesta per la sua approvazione – ossia con «un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell'edificio», come dispone il comma 2 dell'art. 1136 c.c. richiamato dal comma 3 dell'art. 1138 c.c. – e con i medesimi quorum possono essere approvate, di volta in volta, deliberazioni in deroga, ossia disattendendo il precetto per un caso concreto, o in contrasto, ossia fissando un nuovo canone regolamentare, con le clausole originariamente statuite (Cass. II, n. 5626/2002; Cass. II, n. 1057/1999; nella giurisprudenza di merito, v. Trib. Vigevano 8 agosto 1969; App. Napoli 11 giugno 1964).

Anche se, per ipotesi, fosse stato approvato in assemblea dall'unanimità dei consensi, il regolamento assembleare può essere modificato a maggioranza purché sia quella prescritta dalla legge, a meno che non contenga clausole di natura «convenzionale», che incidano sui diritti e sugli obblighi dei condomini, che dovranno essere modificate solo con il consenso di tutti i partecipanti.

Sebbene il comma 3 dell'art. 1138 c.c. prevede solo la «approvazione» e non menziona la modifica (o l'abrogazione), è ovvio che una norma regolamentare può essere modificata (o abrogata) da un'altra norma adottata con lo stesso quorum: del resto, vale il principio logico della necessaria corrispondenza tra i poteri necessari sia per la costituzione di un rapporto giuridico sia per la sua modifica (o estinzione), senza contare che l'art. 1136, commi 2 e 4, c.c., prescrive la maggioranza qualificata per qualsiasi deliberazione riguardante le materie ivi contemplate.

A questo punto, è lecito chiedersi se possa modificarsi il regolamento per facta concludentia, nel senso che tale consenso possa dedursi dal comportamento tenuto dai condomini in assemblea e fuori di essa (si pensi all'ipotesi di una clausola regolamentare che stabilisce una particolare modalità di godimento del cortile, nel tempo disattesa da tutti i condomini, che ne pongano in essere, costantemente, una diversa).

La risposta negativa è, attualmente, imposta alla luce dell'affermazione della Suprema Corte che ha escluso, a Sezioni Unite, la possibilità che le modificazioni del regolamento possano avvenire per il tramite di comportamenti dei condomini, anche se reiterati in modo pacifico, stante la necessità per la formazione del requisito della forma scritta ad substantiam, che deve reputarsi appunto necessario (per l'approvazione e) per le modificazioni del regolamento, perché esse, in quanto sostitutive delle clausole originarie, non possono non avere i medesimi requisiti delle clausole sostituite, dovendosi, conseguentemente, escludere la possibilità di una modifica per il tramite di comportamenti concludenti dei condomini (Cass.S.U., n. 943/1999).

Ad avviso delle Sezioni Unite occorreva anzitutto precisare come fosse stata da tempo abbandonata l'opinione secondo cui sarebbero di natura contrattuale, quale che sia il contenuto delle loro clausole, i regolamenti di condominio predisposti dall'originario proprietario dell'edificio e allegati ai contratti d'acquisto delle singole unità immobiliari, nonché i regolamenti formati con il consenso unanime di tutti i partecipanti alla comunione edilizia. La giurisprudenza più recente e la dottrina ritengono, difatti, che, a determinare la contrattualità dei regolamenti, siano esclusivamente le clausole di essi limitatrici dei diritti dei condomini sulle proprietà esclusive (divieto di destinare l'immobile a studio radiologico, a circolo ecc...) o comuni (limitazioni all'uso delle scale, dei cortili ecc.), ovvero quelle clausole che attribuiscano ad alcuni condomini dei maggiori diritti rispetto agli altri. Quindi il regolamento predisposto dall'originario, unico proprietario o dai condomini con consenso totalitario può non avere natura contrattuale se le sue clausole si limitano a disciplinare l'uso dei beni comuni pure se immobili. Conseguentemente, mentre è necessaria l'unanimità dei consensi dei condomini per modificare il regolamento convenzionale, come sopra inteso, avendo questo la medesima efficacia vincolante del contratto, è, invece, una deliberazione maggioritaria dell'assemblea dei partecipanti alla comunione per apportare variazioni al regolamento che non abbia tale natura. E poiché solo alcune clausole di un regolamento possono essere di carattere contrattuale, la unanimità dei consensi è richiesta per la modifica di esse e non delle altre clausole per la cui variazione è sufficiente la delibera assembleare adottata con la maggioranza prescritta dall'art. 1136, comma 2, c.c. Ciò premesso, per risolvere la questione sulla quale vi è contrasto tra le pronunce delle sezioni semplici, è stato ritenuto necessario accertare se per la formazione del regolamento di condominio (contrattuale e non contrattuale) sia o non richiesta una forma determinata. Le Sezioni Unite hanno affermato che la forma sia quella scritta ad substantiam e che, perciò, non possa condividersi il contrario orientamento per il quale il requisito formale non è preteso non essendo imposto da alcuna norma e, in ogni caso, sarebbe prescritto ad probationem e non per la validità del regolamento. Un regolamento di condominio non contenuto nello scritto è inconcepibile perché l'applicazione delle sue disposizioni, a volte di incerta interpretazione, e la sua impugnazione sarebbero difficili se non impossibili in assenza di un riferimento documentale. Inoltre per la necessità della forma scritta militano le seguenti decisive osservazioni: a) l'art. 1138 c.c. prevede la trascrizione del regolamento nel registro di cui all'art. 71 disp. att. c.c., in deposito presso l'associazione professionale dei proprietari di fabbricati, e questa previsione rivela la volontà del legislatore di richiedere il requisito formale anche se la norma è divenuta inapplicabile presupponendo la sua operatività l'esistenza dello ordinamento corporativo non più in vigore; b) per l'art. 1136, comma 7, c.c. deve redigersi processo verbale, da trascrivere in un registro conservato dall'amministratore del Condominio, di tutte le deliberazioni dell'assemblea dei partecipanti alla comunione e, quindi, anche della delibera di approvazione del regolamento a maggioranza; e, per la identità di ratio deve essere, altresì, depositato presso l'amministratore il documento contenente il regolamento; c) la tesi secondo cui la forma scritta sarebbe richiesta solo ad probationem non merita adesione. Infatti, accertato che il regolamento deve essere racchiuso in un documento, la scrittura costituisce un elemento essenziale per la sua validità in difetto di una disposizione che ne preveda la rilevanza solo probatoria, presupponendo questa, per la sua eccezionalità, un'espressa previsione normativa nella specie mancante; d) – la forma scritta per la validità del regolamento contrattuale è poi fuori discussione, incidendo le sue clausole sui diritti che i condomini hanno sulle unità immobiliari di proprietà esclusiva o comune. Ritenuto che il regolamento di condominio per essere valido debba risultare da un atto scritto, è indubbio che la stessa forma sia richiesta per le sue modificazioni perché queste, risolvendosi nell'inserimento nel documento di nuove clausole in sostituzione delle originarie, non possono non avere i medesimi requisiti di esse. E tanto più la forma scritta è indispensabile se le variazioni riguardino le clausole di un regolamento contrattuale che impongano limitazioni ai diritti immobiliari dei condomini, in quanto queste integrano per la giurisprudenza oneri reali o servitù prediali da trascrivere nei registri della Conservatoria per l'opponibilità ai terzi acquirenti di appartamenti dello stabile condominiale. Gli argomenti addotti per dimostrare la necessità della forma scritta per la validità del regolamento di condominio (contrattuale o non convenzionale) sono, perciò, idonei a risolvere, nello stesso senso, anche il contratto insorto in ordine alla forma richiesta per le modifiche da apportare ad esso. Le sentenze della Suprema Corte, con le quali si è deciso che il consenso di tutti i condomini per la validità ed efficacia delle modifiche di clausole dei regolamenti contrattuali può essere manifestato anche con comportamenti concludenti, si fondano sulla regola generale della libertà delle forme operante in tema di atti e negozi giuridici (art. 1322 c.c.), e, nel caso di modifiche dei criteri di ripartizione delle spese condominiali, anche sulla non incidenza della clausola regolamentare su situazioni di diritto reali; ma si tratta di argomenti superati da quelli posti a base della conclusione per la quale le variazioni del regolamento di condominio richiedono che il consenso (unanime o maggioritario se il regolamento non è contrattuale) dei partecipanti alla comunione sia espresso nella forma scritta a pena di nullità. Nella specie, la Corte d'Appello non si era adeguata a questo principio perché ha ritenuto che la clausola contrattuale del regolamento di condominio con la quale si era vietata le sosta dei veicoli nel cortile comune, fosse stata modificata dal comportamento concludente di tutti i condomini i quali avevano dato costante esecuzione all'invalida deliberazione maggioritaria della loro assemblea che aveva autorizzato la sosta, essendosi con essa stabilito che: «Per il posteggio nel cortile le auto dovranno essere parcheggiate a spina di pesce».

Sono dunque quattro le ragioni che hanno indotto alla predetta conclusione. Innanzitutto, un argomento a favore era stato trovato nel comma 3 dell'art. 1138 c.c., secondo cui il regolamento approvato doveva essere trascritto nel registro tenuto presso l'associazione professionale dei proprietari dei fabbricati, a poco valendo obiettare l'inapplicabilità dell'art. 71 disp. att. c.c., a seguito del d.lgs.lgt. 23 novembre 1944, n. 369 (argomento, quest'ultimo, che attualmente ha perso di spessore, stante la soppressione della previsione della trascrizione ad opera della l. n. 220 del 2012, la quale ha contemplato soltanto un onere di allegazione nel registro di cui all'art. 1130, n. 7), c.c., ma anche nella nuova prospettiva si può sostenere che può essere allegato solo qualcosa che sia scritto). Altro argomento può essere rinvenuto nell'ultimo comma dell'art. 1136 c.c., sostanzialmente invariato anche a seguito della Riforma – che prescrive la redazione (scritta) del processo verbale, da trascriversi in un apposito registro tenuto dall'amministratore, della deliberazione assembleare di approvazione del regolamento di condominio (che, del resto, andrebbe pur sempre comunicata ai condomini assenti). Importante, poi, è la circostanza che, in difetto di espressa previsione normativa, non potrebbe riconoscersi rilevanza solo probatoria (forma ad probationem) alla prescrizione documentale concernente il regolamento, poiché, quando sia necessaria la forma scritta, la scrittura costituisce elemento essenziale per la validità dell'atto, in difetto di disposizione che ne preveda la rilevanza solo sul piano probatorio. Senza considerare, infine, le difficoltà di applicazione e di impugnazione di un regolamento non contenuto nello scritto, ritenendosi, quindi, inconcepibile il rifiuto di un rassicurante riferimento documentale (per quanto concerne il regolamento contrattuale, la forma scritta è apparsa, invece, fuori discussione, incidendo le sue clausole, costituendo oneri reali o servitù, sui diritti immobiliari che i condomini hanno sulle loro proprietà esclusive o sulle parti comuni).

Oltre che richiamare i suddetti rilievi svolti per il regolamento assembleare, valevoli anche per quello contrattuale, in ordine alla necessità della forma scritta, si rammenta che, nell'àmbito dei regolamenti contrattuali (di origine sia esterna sia interna), occorre distinguere le clausole con contenuto tipicamente «regolamentare», dirette a disciplinare la conservazione, l'uso ed il godimento delle parti comuni, nonché l'apprestamento e la fruizione dei servizi comuni – di regola, concernenti il contenuto c.d. necessitato del regolamento di cui al comma 1 dell'art. 1138 c.c. – e le clausole di natura «contrattuale», che incidono sull'utilizzabilità e destinazione delle parti esclusive o che comportino restrizioni al diritto di proprietà dei singoli sulle cose comuni (tra le tante, Cass. II, n. 17886/2009; Cass. II, n. 17694/2007; Cass. II, n. 5400/1997).

Ad esempio, rivestono natura regolamentare quelle clausole che concernono le modalità d'uso delle cose comuni, e, in genere, l'organizzazione ed il funzionamento dei servizi condominiali (ad esempio, il divieto di occupare temporaneamente alcune parti comuni dell'edificio, la regolamentazione del gioco dei bambini nel cortile, o l'obbligo di uso turnario del lastrico solare), mentre hanno natura negoziale solo quelle disposizioni che incidono nella sfera dei diritti soggettivi dei condomini (ad esempio, quelle che vietano di adibire l'appartamento a sala da ballo o discoteca).

Orbene, le prime possono essere approvate (e modificate) dall'assemblea con la maggioranza prescritta dal combinato disposto degli artt. 1136, comma 2, e 1138, comma 3, in quanto – pur se inserite in un regolamento contrattuale, ossia poste in essere per contratto – non differiscono, nella loro sostanza, da quelle oggetto di autoregolamentazione a maggioranza dell'organo assembleare – è irrilevante, quindi, con quali modalità il regolamento sia venuto ad esistenza – dovendo essere adattate alle molteplici esigenze della vita condominiale, purché sia assicurato il diritto al pari uso di tutti i condomini (Cass. II, n. 9877/2012, sull'uso del cortile condominiale a parcheggio di autovetture dei singoli condomini; Cass. II, n. 13632/2010; Cass. II, n. 1057/1999).

Le seconde, invece, poiché incidono sull'utilizzabilità e la destinazione delle parti di proprietà esclusiva, hanno carattere convenzionale, e, se predisposte dall'originario proprietario dello stabile, devono essere accettate dai condomini nei rispettivi atti di acquisto o con atti separati, mentre, in ipotesi di deliberazione assembleare, vanno approvate all'unanimità e la loro modifica presuppone il consenso unanime, dovendo, in difetto, considerarsi nulle perché eccedenti i limiti dei poteri dell'assemblea (Cass. II, n. 3705/2011; Cass. II, n. 5626/2002, sul divieto di sosta di veicoli nel cortile comune; Cass. II, n. 1830/2000).

 Non si ritiene, pertanto, condivisibile l'opinione di chi (Corona 2004, 194) ritiene che la fonte si riverbera sulla natura delle norme, condizionandone le vicende, ossia la modifica e l'abrogazione: all'assemblea – cui non si attribuisce il potere di incidere sulle clausole dispositive (sui diritti soggettivi e sugli obblighi dei condomini) – deve, invece, riconoscersi il potere di abolire le norme poste in essere (anche) per contratto qualora riguardino materie astrattamente assegnate alla sua competenza, non essendo sufficiente rilevare che, regolando la gestione delle cose comuni, i condomini hanno inteso conferire maggiore incisività e stabilità, vincolando i partecipanti (e nei modi dovuti anche gli eredi e gli aventi causa) ed impedendo la modifica in virtù di una semplice deliberazione assembleare.

In buona sostanza, non è tanto la collocazione, quanto piuttosto il contenuto di una clausola che vale a chiarirne la portata e la corretta natura giuridica, con tutte le conseguenze a cascata, tra le quali, nel caso di specie, la revisione; ragionare diversamente significherebbe richiedere il consenso unanime dei condomini (ossia un successivo contratto) per la modifica di clausole, inserite in un regolamento contrattuale, che si limitino a disciplinare l'uso turnario del terrazzo come stenditoio, l'orario di chiusura del portone di ingresso, la scadenza del pagamento dei contributi condominiali, e quant'altro.

Del resto, significativamente, dell'autonomia privata non si fa menzione in tema di uso delle cose comuni, di tutela del decoro e di amministrazione – essendo prevista espressamente la «diversa convenzione» solo in tema di ripartizione delle spese ai sensi dell'art. 1123, comma 1, c.c., ed in altre disposizioni relative a circoscritti settori della normativa condominiale (ad esempio, artt. 1117, comma 1, e 1118, comma 1, c.c.) – conseguendone che, nelle materie contemplate nel comma 1 dell'art. 1138 c.c., le statuizioni assembleari possono tranquillamente modificare l'assetto degli interessi come in precedenza regolato (anche se posto in essere con lo strumento negoziale).

In realtà, la linea di demarcazione tra i due tipi di clausole appare alquanto incerta, non risultando agevole distinguere tra clausole che – secondo la terminologia adottata dai giudici di legittimità – limitano e comprimono i poteri spettanti, iure domini, ai singoli condomini delle parti comuni e quelle che regolano l'uso ed il godimento delle medesime parti: tutto ciò porta ad una non trascurabile incertezza sulle singole clausole regolamentari e sulle procedure da seguire per la loro modificabilità, con consequenziale ricaduta in termini di possibile contenzioso tra i condomini nonché tra loro e lo stesso condominio.

Le violazioni del regolamento «assembleare» da parte del condomino

  In ipotesi di violazione del regolamento condominiale effettuata da un condomino, ciascuno degli altri condòmini può richiedere, oltre al risarcimento, la riduzione in pristino, senza che possano essere opposte eventuali violazioni del suddetto regolamento cui il richiedente medesimo abbia dato causa (Cass. II, n. 977/2000, la quale chiarisce che al regolamento condominiale, sia pure di natura contrattuale, non sono applicabili le norme dettate per i contratti a prestazioni corrispettive e, in particolare, la disciplina dell'eccezione di inadempimento, atteso che il principio inadimplenti non est adimplendum trae origine dal nesso di interdipendenza che, nei contratti sinallagmatici, lega le prestazioni delle parti, mentre le obbligazioni assunte dai condòmini con il regolamento contrattuale sono indipendenti l'una dall'altra e garantiscono contemporaneamente il diritto di tutti i contraenti).

Il condomino che impugni una deliberazione dell'assemblea condominiale per violazione del regolamento del condominio ha l'onere di produrre in giudizio tale regolamento quando l'esame dello stesso sia necessario per decidere della fondatezza dell'impugnazione, nonché deve allegare anche una concreta lesione del suo diritto, non essendo sufficiente la mera affermazione dell'illegittimità formale della deliberazione (Cass. II, n. 1600/1988).

Il regolamento ed il conduttore

 Per opinione comune, i regolamenti condominiali vincolano anche i conduttori (per esempio, De Renzis–Ferrari–Nicoletti–Redivo, 809).

Qualora abbia luogo una violazione delle clausole del regolamento condominiale che impongono restrizioni ai poteri ed alle facoltà spettanti ai condòmini, il condominio, sempre che sia provata l'operatività della clausola nei confronti del condomino locatore, può chiedere nei diretti confronti del conduttore di una porzione del fabbricato condominiale la cessazione della destinazione abusiva e l'osservanza in forma specifica delle istituite limitazioni, non potendosi il conduttore beneficiare di una posizione diversa da quella del condomino suo locatore. Peraltro, solo nell'ipotesi di richiesta nei confronti del conduttore, si verifica una situazione di litisconsorzio necessario con il proprietario. Tale situazione non si verifica invece nell'ipotesi in cui convenuto in giudizio sia soltanto il proprietario del locale e non anche il conduttore dello stesso, nei confronti del quale non vi sia stata pertanto richiesta di cessazione immediata dell'uso cui è adibito il negozio (Cass. II, n. 16240/2003).

Nel caso di violazione di disposizioni legittimamente contenute nel regolamento condominiale che stabiliscano il divieto di destinare singoli locali dell'edificio a determinati usi, il condominio può chiedere nei diretti confronti del conduttore di un appartamento del fabbricato condominiale la cessazione della destinazione abusiva e l'osservanza in forma specifica delle istituite limitazioni, in quanto il conduttore non può trovarsi, rispetto al condominio, in posizione diversa da quella del condomino suo locatore, e ciò alla sola condizione che sia approvata l'operatività della clausola limitativa, o, in altri termini, la sua opponibilità al condomino locatore. In tale prospettiva, il conduttore di una unità immobiliare dell'edificio condominiale può essere convenuto dai condomini, senza che questi siano tenuti ad agire nei confronti del locatore proprietario del bene, per l'uso, non conforme al regolamento condominiale, che il conduttore abbia fatto delle cose comuni (Cass. II, n. 3600/1991).

Il conduttore che sia costretto ad astenersi dall'esercizio dell'attività vietata sarà, peraltro, legittimato ad agire per il risarcimento del danno subito nei confronti del locatore che, dando il proprio consenso, necessario per l'approvazione all'unanimità della disposizione regolamentare di divieto, abbia violato gli obblighi contrattuali assunti (Cass. II, n. 15756/2001).

Peraltro, nell'ipotesi di richiesta nei confronti del conduttore, il proprietario è tenuto a partecipare, quale litisconsorte necessario, nel relativo giudizio in cui si controverta in ordine all'esistenza ed alla validità del regolamento, in quanto le suddette limitazioni costituiscono oneri reali o servitù reciproche che, in quanto tali, afferiscono immediatamente al bene (Cass. II, n. 4920/2006; Cass. II, n. 2683/1994). Ciò non toglie, tuttavia, che il conduttore possa essere convenuto in giudizio per violazione di una clausola contrattuale sulla base di un'azione personale (Cass. II, n. 8239/1997).

Il condomino locatore, tuttavia, resta responsabile in solido con il conduttore della propria unità immobiliare per le violazioni ad opera di quest'ultimo, essendo tenuto non solo ad imporre contrattualmente al conduttore il rispetto degli obblighi e dei divieti previsti dal regolamento, ma altresì a prevenire le violazioni e a sanzionarle anche mediante la cessazione del rapporto (Cass. II, n. 11383/2006; Cass. II, n. 825/1997).

Il conduttore di un immobile sito nel fabbricato condominiale, per parte sua, può obbligarsi nei confronti del condominio, mediante accordo con lo stesso, a rispettare un regolamento di condominio non impegnativo per il condomino locatore (Cass. II, n. 10185/2012, che ha però escluso la configurabilità di detto accordo in presenza di una sottoscrizione unilateralmente apposta dal conduttore sul contratto di compravendita relativo all'unità immobiliare locata e contenente il richiamo al regolamento, non costituendo tale sottoscrizione l'accettazione di una proposta proveniente dal condominio ed a quest'ultimo comunicata).

Contenuto necessario, eventuale e vietato del regolamento «assembleare»

La norma in commento stabilisce al comma 1 che il regolamento necessario, tale qualora il numero dei condòmini sia superiore a 10, contiene le norme circa l'uso delle cose comuni, le norme concernenti la ripartizione delle spese, secondo i diritti e gli obblighi spettanti a ciascun condomino, le norme per la tutela del decoro dell'edificio, le norme relative all'amministrazione.

Nondimeno, non è escluso che il regolamento possa recare previsioni ulteriori, ferma restando l'esigenza di verificare, in tale ipotesi, se la clausola inserita nel regolamento abbia o meno natura effettivamente regolamentare.

  È il caso delle clausole concernenti la definizione delle eventuali controversie condominiali. L'art. 1137, comma 2, c.c., nel riconoscere ad ogni condominio dissenziente la facoltà di ricorrere all'autorità giudiziaria avverso le deliberazioni dell'assemblea del condominio, non pone una riserva di competenza assoluta ed esclusiva del giudice ordinario e, quindi, non esclude la compromettibilità in arbitri di tali controversie, le quali, d'altronde, non rientrano in alcuno dei divieti sanciti dagli artt. 806 e 808 c.p.c. Conseguentemente, è valida la norma del regolamento condominiale relativa al deferimento ad arbitri del ricorso contro le deliberazioni assembleari viziate da nullità o annullabilità, senza che rilevi in contrario, in relazione alla tutela assicurata dall'art. 1137 c.c. citato, l'impossibilità per gli arbitri di sospendere la esecuzione della delibera impugnata, sempre invocabile dinanzi al giudice ordinario ai sensi dell'art. 700 c.p.c., né la prevista rimessione della nomina di uno degli arbitri al condominio, la cui inerzia è superabile con ricorso al presidente del tribunale competente ex art. 810, comma 2, c.p.c. (Cass. II, n. 3406/1984; Cass. II, n. 73/1986; Cass. II, n. 4218/1983).

Sono parimenti valide, ma non influiscono sulla proponibilità delle relative domande giudiziali, le clausole che prevedono meri tentativi conciliativi. Difatti, la clausola del regolamento condominiale che preveda, per i casi di contrasto tra condomini, l'obbligo di esperire un tentativo di amichevole composizione presso l'associazione fra i proprietari dei fabbricati, non integra una clausola compromissoria, la quale presuppone la rinuncia all'azione giudiziaria e dà luogo ad una cognizione di carattere arbitrale e suscettibile di definire la controversia. Pertanto, se, nonostante l'impegno di promuovere il tentativo di conciliazione, venga da un condomino instaurato direttamente il procedimento giudiziario, questo non può considerarsi nullo, in quanto, in mancanza di un patto compromissorio o di una rinuncia all'azione, i presupposti processuali per la validità del procedimento medesimo, stabiliti nel pubblico interesse, possono trovare il loro fondamento soltanto nella legge e non già nell'autonomia privata (Cass. II, n. 388/1977; Cass. II, n. 5985/1979). Ne consegue che l'inosservanza di una clausola contrattuale che obblighi le parti, prima di promuovere l'azione giudiziaria, ad esperire un tentativo di amichevole componimento della lite può determinare unicamente conseguenze di natura sostanziale, come l'obbligazione di risarcimento del danno, ma non ha rilevanza nel sistema processuale e non comporta l'improcedibilità, neppure temporanea, dell'azione giudiziaria promossa (Cass. II, n. 8476/1992).

Secondo l'espressa previsione del comma 4 della disposizione in commento, le norme del regolamento non possono in alcun modo menomare i diritti di ciascun condomino, quali risultano dagli atti di acquisto e dalle convenzioni, e in nessun caso possono derogare alle disposizioni degli artt. 1118, comma 2, 1119, 1120, 1129, 1131, 1132, 1136 e 1137.

Al di là di tali ultime disposizioni, le quali sono ritenute inderogabili anche dal regolamento «contrattuale», vi è dunque un contenuto che il regolamento condominiale, intendendo con ciò il regolamento «assembleare», non può avere, essendo a tal fine richiesto il regolamento «contrattuale». Così, ad esempio, il divieto, a carico del condomino, di dare una determinata destinazione alla porzione di sua proprietà esclusiva, traducendosi in una limitazione delle facoltà inerenti al diritto dominicale, non può derivare da una deliberazione assembleare, adottata con le maggioranze previste per la regolamentazione dell'uso e del godimento dei beni comuni (art. 1138, comma 3, c.c.), ma presuppone un titolo convenzionale, con l'accettazione del vincolo da parte del condomino stesso (in sede di acquisto della proprietà esclusiva, ove si tratti di vincolo predisposto dal costruttore od originario unico proprietario dello edificio, o con separato atto successivo, ovvero anche con adesione alla decisione assembleare che introduca il vincolo medesimo). In difetto di tale accettazione, pertanto, deve escludersi che una certa utilizzazione dell'alloggio di proprietà esclusiva (in particolare ad ambulatorio medico) possa di per sé costituire fatto illecito, avverso il quale sia dato al condominio od agli altri condòmini facoltà di insorgere, salva restando la tutela di questi per gli eventuali pregiudizi che possano derivare dal concreto svolgimento delle attività inerenti a detta destinazione e dalle relative modalità, ad esempio, in caso di immissioni eccedenti la normale tollerabilità, a norma dell'art. 844 c.c. (Cass. II, n. 3848/1985).

La disciplina dell'uso delle parti comuni

L'art. 1138, comma 1, c.c. stabilisce che il regolamento disciplina le modalità di godimento delle cose comuni da parte dei condòmini. Ne discende che il principio previsto dall'art. 1102 c.c., che consente al singolo condomino di usare della cosa comune anche per un suo fine particolare, con conseguente possibilità di ritrarre dal bene una specifica utilità aggiuntiva rispetto a quelle generali che essa assicura agli altri condomini, con il solo limite di non pregiudicare il pari diritto di questi ultimi, ha carattere residuale, giacché trova applicazione solo quando il regolamento non ponga limiti all'uso delle parti comuni (contra,Celeste-Salciarini, 29).

  Si è peraltro aggiunto in giurisprudenza che l'assemblea non può, in sede di formazione o di modifica del regolamento condominiale, limitare il godimento delle cose e dei servizi comuni ad una soltanto delle forme di uso di cui la cosa comune sia suscettibile secondo la sua destinazione, in quanto una disciplina in tal senso, incidendo sulla misura del godimento, sarebbe lesiva del diritto di comproprietà di ciascun condomino sulle cose comuni (Cass. II, n. 621/1977). In tale prospettiva è stato anche di recente ribadito che l'art 1102 c.c., nel prescrivere che ciascun partecipante può servirsi della cosa comune purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso, non pone una norma inderogabile. Ne consegue che i suddetti limiti possono essere resi più rigorosi dal regolamento condominiale, o da delibere assembleari adottate con il quorum prescritto dalla legge, fermo restando che non è consentita l'introduzione di un divieto di utilizzazione generalizzato delle parti comuni (Cass. II, n. 2114/2018).

Dal potere dell'assemblea di disciplinare l'uso delle parti comuni deriva la legittimità della clausola regolamentare che imponga di richiedere la preventiva autorizzazione degli organi amministrativi del condominio per eseguire qualsiasi lavoro sulle cose comuni (Cass. II, n. 4165/1984; Cass. II, n. 4047/1975; Cass. II, n. 1680/1975).

Una ricorrente ipotesi di intervento volto a regolare il godimento delle parti comuni concerne le aree destinate a parcheggio. Così, è validamente approvata con la maggioranza prevista dall'art. 1136, comma 5, c.c., la delibera assembleare di destinazione del cortile condominiale a parcheggio di autovetture dei singoli condomini, in quanto disciplina le modalità di uso e di godimento del bene comune, non essendo perciò necessaria l'unanimità dei consensi (Cass. II, n. 9877/2012, la quale chiarisce che tale delibera è idonea a comportare la modifica delle disposizioni del regolamento di condominio, di natura non contrattuale, relative all'utilizzazione ed ai modi di fruizione delle parti comuni; sulle aree destinate a parcheggio già Cass. II, n. 10289/1998; Cass. II, n. 21287/2004; Cass. II, n. 24146/2004; Cass. II, n. 12873/2005; sull'attitudine della deliberazione assembleare a modificare il regolamento di condominio in materia di uso delle cose comuni, purché sia assicurato il diritto al pari uso di tutti i condomini, v. altresì Cass. II, n. 1057/1995).

Nel caso in cui non sia possibile l'uso promiscuo della cosa comune, il regolamento può prevedere l'uso indiretto, ad esempio nella forma tipica dalla locazione, oppure l'uso frazionato o turnario.

Si è in questo senso stabilito, ad esempio, che la delibera assembleare che, in considerazione dell'insufficienza dei posti auto compresi nel garage comune in rapporto al numero dei condòmini, preveda il godimento turnario del bene e vieti ai singoli partecipanti di occupare gli spazi ad essi non assegnati, anche se gli aventi diritto non occupino in quel momento l'area di parcheggio loro riservata, non si pone in contrasto con l'art. 1102 c.c., ma costituisce corretto esercizio del potere di regolamentazione dell'uso della cosa comune da parte dell'assemblea; né la volontà collettiva espressa in assemblea, la quale, preso atto dell'impossibilità del simultaneo godimento in favore di tutti i comproprietari, escluda l'utilizzazione, da parte degli altri condomini, degli spazi adibiti a parcheggio eventualmente lasciati liberi dai soggetti che beneficiano del turno, neppure comporta una violazione dell'art. 1138 c.c., in quanto non impedisce il godimento individuale del bene comune, ed evita, piuttosto, che, attraverso un uso più intenso da parte di singoli condomini, venga meno, per i restanti, la possibilità di godere pienamente e liberamente della cosa durante i rispettivi turni, senza subire alcuna interferenza esterna, tale da negare l'avvicendamento nel godimento o da indurre all'incertezza del suo avverarsi (Cass. II, n. 12485/2012).

Quando l'attività posta in essere da uno dei condomini di un edificio è idonea a determinare il turbamento del bene e della tranquillità degli altri partecipi, tutelato espressamente da disposizioni contrattuali del regolamento condominiale, non occorre accertare al fine di ritenere l'attività stessa illegittima, se questa costituisca o meno immissione vietata ex art. 844, in quanto le norme regolamentari di natura contrattuale possono imporre limitazioni al godimento della proprietà esclusiva anche maggiori di quelle stabilite dall'indicata norma generale sulla proprietà fondiaria (Cass. II, n. 4963/2001; la sentenza riguardava una delibera condominiale che vietava lo svolgimento nei locali dell'attività di birreria con musica di sottofondo).

 È stata proposta, in dottrina (Ruscello 1980), una lettura in chiave costituzionale – in particolare fondata sulla diretta applicabilità dell'art. 2 Cost. – dei limiti all'uso delle parti comuni suscettibili di essere introdotti mediante il regolamento condominiale, lettura che guarda al condominio quale formazione sociale in funzione abitativa e, dunque, quale strumento per la realizzazione della personalità umana, sicché le singole clausole del regolamento andrebbero sottoposte ad un giudizio di meritevolezza effettuato con riguardo al concreto atteggiarsi della situazione condominiale.

Muovendo dal rilievo che dette clausole avrebbero attitudine ad incidere sui diritti individuali, dal momento che l'art. 1138 c.c. porrebbe «non un divieto di interferire sulle proprietà esclusive, bensì un divieto di menomare i diritti acquisiti o disciplinati in forma convenzionale» (Basile 1979, 245), si giunge a dire che il regolamento condominiale potrebbe contenere clausole «invasive» di situazioni in apparenza «violabili» soltanto con il consenso del loro titolare, sicché tali clausole andrebbero scrutinate «in una prospettiva che consideri, in una immaginaria scala gerarchica, prioritari rispetto agli altri i valori della persona per come essi si rappresentano nella collettività condominiale: quale organismo bensì composto dai proprietari dei piani o porzioni di piano, perciò in quanto espressione di una collettività di soggetti titolari di situazione esclusive patrimoniali, ma anche quale formazione sociale nella quale convivono persone portatrici di specifiche esigenze esistenziali» (Ruscello 2012, Comunità condominiale, 118). La lettura costituzionale della norma, nel principale esempio prospettato da tale dottrina, produrrebbe ricadute sulla ipotetica clausola regolamentare che proibisse l'uso dell'ascensore in discesa: «la clausola in esame potrebbe non risultare equa nella concreta situazione qualora si dovesse riscontrare la presenza di condòmini o membri della loro famiglia che potrebbero trovare disagevole, o addirittura impossibile, fare le scale anche in discesa perché diversamente abili o in età avanzata. In queste circostanze, conseguirebbe la meritevolezza della clausola che vieta l'uso dell'ascensore in discesa nei confronti di alcuni e non di altri condomini, nei confronti dei quali si esige il rispetto del dovere di solidarietà di cui all'art. 2 Cost.» (Ruscello 2012, Comunità condominiale, 129).

Oltre ad osservarsi che il riscontro di meritevolezza ai sensi dell'art. 1322, comma 2, c.c., non sembra consentito con riferimento al regolamento in generale (Vincenti, 158), si è obbiettato che «appare eccessivo scomodare l'art. 2 Cost.», essendo «possibile ottenerne la dichiarazione di invalidità in base al fondamentale canone dell'art. 1102 c.c.» (Triola 2013, 460).

Quanto alla natura delle limitazioni alle modalità di godimento delle cose comuni da parte dei condòmini (e della collegata questione della loro opponibilità ai terzi acquirenti) si è anzitutto osservato che le limitazioni poste all'uso delle cose comuni per regolamento non possono essere qualificate né come oneri reali, né come obbligazioni propter rem, che costituiscono figure tipiche ammissibili soltanto nei casi previsti dalla legge (Biondi, 714). Viceversa, sembra preferibile ritenere che le limitazioni in questione costituiscano una semplice espressione di quel potere di disciplina dell'uso delle parti comuni che, in considerazione della natura normativa delle disposizioni regolamentari, non è necessario ricondurre nello schema di reciproci rapporti obbligatori fra i condomini, con la conseguenza che, ai fini della loro opponibilità agli aventi causa dai singoli condòmini non è necessaria la trascrizione né ai sensi dell'art. 2643 c.c., non essendo menzionati in tale norma gli atti che producono modificazioni del modello legale della comproprietà, né attraverso l'applicazione dell'art. 2645 c.c. non producendo il regolamento effetti previsti dai contratti menzionati nel precedente art. 2643 c.c. (Triola 2013, 462).

La ripartizione delle spese

Alla stregua della stessa lettera dell'art. 1123 c.c., la disciplina legale della ripartizione delle spese per la conservazione ed il godimento delle parti comuni dell'edificio è, in linea di principio, derogabile, con la conseguenza che deve ritenersi legittima la convenzione modificatrice di tale disciplina, contenuta nel regolamento condominiale di natura contrattuale, ovvero nella deliberazione dell'assemblea, quando approvata da tutti i condòmini (Cass. II, n. 641/2003).

È perciò legittima, in quanto posta in essere in esecuzione di una disposizione di regolamento condominiale, avente natura contrattuale, la delibera assembleare che disponga, in deroga al criterio legale di ripartizione delle spese dettato dall'art. 1123 c.c., che le spese di manutenzione ordinaria e straordinaria dell'impianto di ascensore siano a carico anche delle unità immobiliari che non usufruiscono del relativo servizio, tenuto conto che la predetta deroga è consentita, a mezzo di espressa convenzione, dalla stessa norma codicistica (Cass. II, n. 28679/2011; Cass. II, n. 12580/2017).

Ed inoltre, la previsione, nel regolamento condominiale, dell'obbligo di contribuzione alle spese di gestione del riscaldamento svincolato dall'effettivo godimento del servizio (il cui fondamento va ravvisato nell'esigenza di disincentivare il distacco quale fonte di squilibrio sotto il profilo tecnico ed economico dal riscaldamento centralizzato, ben potendo i condomini, in esplicazione della loro autonomia privata, assumere peraltro in via negoziale la prevista obbligazione corrispettiva) va ricondotta non già nell'ambito della regolamentazione dei servizi comuni, bensì in quello delle disposizioni che attribuiscono diritti o impongono obblighi ai condomini: ne consegue che essa non è modificabile da delibera assembleare, se non con l'unanimità dei consensi (Cass. II, n. 1558/2004).

La tutela del decoro dell'edificio

 È per lo più ritenuto (Fragali, 495; Salis 1959, 405) che le norme del regolamento condominiale poste a disciplinare il decoro dell'edificio, cui si riferisce l'art. 1138 c.c., possano essere volte non soltanto ad impedire l'alterazione dell'armonia, della purezza e della bellezza dell'edificio (c.d. decoro architettonico), ma possono essere dirette anche a proteggere l'edificio contro ogni utilizzazione che possa deprezzarne il valore o l'estimazione generale e tutelare l'armonia e la dignitosa coesistenza dei singoli e delle famiglie (c.d. decoro morale).

Non a caso – si è osservato – alla parola «decoro», nell'art. 1138 c.c., non si è aggiunto l'aggettivo «architettonico» a differenza di quanto avviene negli artt. 1120 e 1127 (Fragali, 495).

 Per quanto riguarda specificamente il decoro architettonico si è ritenuto che, quando una norma del regolamento di condominio vieti le innovazioni tali da modificare l'architettura, l'estetica o la simmetria del fabbricato, essa non solo contribuisce a definire la nozione di decoro architettonico formulata dall'art. 1120 c.c., ma recepisce anche un autonomo valore, dandone una definizione più rigorosa, nel senso che il decoro architettonico del fabbricato condominiale in questione è qualificato da elementi attinenti alla simmetria, all'estetica ed architettura generale impressi dal costruttore o comunque esistenti al momento dell'esecuzione delle innovazioni, per cui l'alterazione di esso è ravvisabile anche nella menomazione di uno solo dei predetti elementi (Cass. II, n. 8861/1987, concernente la trasformazione di una finestra sul cortile in porta-finestra, che non aveva pregiudicato alcuno degli elementi di simmetria, architettura ed estetica considerati dal regolamento condominiale).

 Centrale importanza, ai fini della tutela del decoro architettonico dell'edificio, riveste la cura dell'aspetto della facciata, sicché il regolamento può contemplare il divieto per i condòmini di installare sulla stessa apparecchiature o altri dispositivi (eventuali compressori per il condizionamento dell'aria, targhe), ovvero subordinare la loro installazione alla conformità a quanto deliberato in proposito dall'assemblea (E. V. Napoli–E. G. Napoli, 165).

 Il regolamento di condominio, quali che ne siano l'origine ed il procedimento di formazione e, quindi, anche quando non abbia natura contrattuale, a mente dell'art. 1138 c.c., comma 1, può ben contenere norme intese a tutelare il decoro architettonico dell'edificio condominiale che, a tale fine, siano suscettibili di incidere anche sulla sfera del dominio personale esclusivo dei singoli partecipanti, nei limiti in cui ciò si riveli necessario in funzione della salvaguardia del bene comune protetto: più in particolare, può ad esempio vietare quegli interventi modificatori delle porzioni di proprietà individuale che, riflettendosi su strutture comuni, siano passibili di comportare pregiudizio per il decoro anzidetto (Cass. II, n. 8731/1998, concernente l'installazione di serramenti, da un condomino, in sostituzione di quelli originari, alle finestre della sua unità immobiliare aperte sulla facciata del fabbricato condominiale; Cass. II, n. 16958/2002).

Facendo leva sull'autonomia privata, la quale consente alle parti di stipulare convenzioni che pongano limitazioni nell'interesse comune ai diritti dei condòmini sia relativamente alle parti comuni sia riguardo al contenuto del diritto dominicale sulle parti di loro esclusiva proprietà, senza che rilevi che l'esercizio del diritto individuale su di esse si rifletta un meno sulle strutture o sulle parti comuni, la Suprema Corte ha giudicato legittime le norme di un regolamento di condominio aventi natura contrattuale contenenti deroghe o integrazioni alla disciplina legale, quali l'adozione di una definizione più rigorosa del concetto di decoro architettonico di quella accolta dall'art. 1120 c.c., tale da estendere il divieto di mutazione sino ad imporre la conservazione degli elementi attinenti alla simmetria all'estetica all'aspetto generale dell'edificio, quali esistenti nel momento della sua costruzione od in quella della sua manifestazione negoziale successiva (Cass. II, n. 11121/1999; Cass. II, n. 1748/2013).

  Si è obbiettato che l'art. 1120 c.c. non fornisce una definizione del decoro architettonico, sicché la norma la quale limiti gli interventi sulle parti comuni, pur essendo eventualmente inserita in un regolamento contrattuale, avrebbe nondimeno natura regolamentare (Triola 2013, 463).

Le norme relative all'amministrazione

  Il regolamento contiene infine le norme relative all'amministrazione: modalità di convocazione e di funzionamento dell'assemblea, ivi compresa la rappresentanza dei condomini; nomina, revoca, poteri e corrispettivo dell'amministratore; modalità di pagamento dei contributi condominiali; formazione del bilancio preventivo e consuntivo; tenuta dei registri; costituzione dei fondi e modo di erogazione delle spese; vigilanza sulla gestione; la manutenzione delle cose comuni (Triola 2013, 464).

Potrebbe in proposito essere previsto che l'amministratore sia in possesso di determinati requisiti, più specifici di quelli contemplati dall'art. 71-bis disp. att. c.c. al fine di meglio assicurare un efficiente gestione del condominio.

È stata ritenuta valida la clausola che preveda la nomina dell'amministratore esclusivamente tra i condòmini, in quanto la prevedibilità di un conflitto di interessi che potrebbe sorgere in occasione dell'approvazione alla relativa gestione non costituisce sufficiente motivo per negare la possibilità di tale opzione, senza considerare che una cattiva gestione finalizzata al proprio tornaconto finirebbe con il provocare danni anche lo stesso condomino. È, invece, da ritenere invalida la clausola la quale prevedesse l'obbligo per i condòmini di svolgere a turno le mansioni di amministratore non potendo il regolamento imporre prestazioni di carattere personale ai condomini.

Secondo la Suprema Corte, la previsione contenuta nel regolamento di condominio che impone ai condòmini l'obbligo di comunicare i mutamenti del loro indirizzi ed i trasferimenti delle unità immobiliari facenti parte dello stabile è pienamente legittima in quanto finalizzata ad una più spedita e corretta gestione dell'amministrazione condominiale e non lesiva di alcun diritto dei condòmini (Cass. II, n. 12298/2003).

La Suprema Corte ha inoltre stabilito che la norma in commento, nel dichiarare espressamente inderogabile dal regolamento la disposizione dell'art. 1129 c.c., la quale attribuisce all'assemblea la nomina dell'amministratore e stabilisce la durata dell'incarico, comporta la nullità della clausola del regolamento che riservi ad un determinato soggetto, per un tempo indeterminato, la carica di amministratore del condominio, sottraendo all'assemblea il relativo potere di nomina e di revoca, senza che abbiano a tal fine rilievo il rapporto in concreto esistente tra i condòmini o l'attività esercitata nell'edificio (Cass. II, n. 13011/2013).

È inoltre nulla, per contrarietà a norme imperative, la clausola del regolamento contrattuale di condominio prevedente che l'assemblea di un c.d. supercondominio sia composta dagli amministratori dei singoli condomìni o da singoli condòmini delegati a partecipare in rappresentanza di ciascun condominio, anziché da tutti i comproprietari degli edifici che lo compongono, atteso che le norme concernenti la composizione e il funzionamento dell'assemblea non sono derogabili dal regolamento di condominio (Cass. II, n. 15476/2001).

Il divieto di tenere animali

La l. 11 dicembre 2012, n. 220, di riforma della materia condominiale ha introdotto nell'art. 1138 c.c. un ultimo comma, secondo cui: «Le norme del regolamento non possono vietare di possedere o detenere animali domestici».

  In precedenza la Suprema Corte era pervenuta alla medesima conclusione osservando che il divieto di tenere negli appartamenti i comuni animali domestici non può essere contenuto negli ordinari regolamenti condominiali, approvati dalla maggioranza dei partecipanti, non potendo detti regolamenti importare limitazioni delle facoltà comprese nel diritto di proprietà dei condòmini sulle porzioni del fabbricato appartenenti ad essi individualmente in esclusiva (Cass. II, n. 3705/2011; Cass. II, n. 12028/1993). Nello stesso senso nella giurisprudenza di merito si era affermato che «la detenzione di animali in un condominio, costituendo esplicazione del diritto dominicale, può essere vietata solo se il proprietario dell'immobile si sia contrattualmente obbligato a non detenere animali nel proprio appartamento, non potendo un regolamento condominiale di tipo non contrattuale, quand'anche approvato a maggioranza, stabilire limiti ai diritti ed ai poteri dei condòmini sulle loro proprietà esclusive (Trib. Piacenza 10 aprile 1990).

 Peraltro, la dottrina aveva già in passato dubitato che la clausola di divieto di tenere animali, ove pure contenuta in un regolamento contrattuale, potesse «superare il giudizio di meritevolezza degli interessi, prescritto dall'art. 1322 c.c. per qualsiasi pattuizione dei soggetti privati, specialmente se correlata al disposto dell'art. 2 Cost. in base al quale i diritti inviolabili dell'uomo vengono riconosciuti anche con riferimento alla piena esplicazione della personalità individuale» (Celeste–Salciarini, 313).

Resta da chiedersi se l'attuale previsione normativa sia da intendersi riferita al solo regolamento «assembleare» o anche al regolamento «contrattuale». In generale si è visto in precedenza che i limiti posti al regolamento «assembleare», il quale non può in nessun caso derogare alle disposizioni degli artt. 1118, comma 2, 1119, 1120, 1129, 1131, 1132, 1136 e 1137, si applicano, secondo l'opinione prevalente in dottrina e giurisprudenza, anche al regolamento «contrattuale». In questo senso è stato osservato che la norma in commento, nell'attuale formulazione, ha carattere perentorio, nel senso che una clausola in tal senso, limitatrice cioè della facoltà di tenere animali domestici, deve ritenersi come «non apposta» tanto nei vecchi che nei nuovi regolamenti, anche se adottati all'unanimità, trattandosi di un diritto non rinunciabile: sarebbe, secondo tale impostazione, come dire che nella unità immobiliare non si possono ospitare persone anziane o bambini o cittadini non italiani (Lazzaro, 208). Secondo altri, «l'essere la norma inserita nell'art. 1138 c.c. autorizza a ritenere che la preclusione operi soltanto per il regolamento deciso in assemblea; quindi la liberalizzazione sancita dal Parlamento continua a poter essere resa vana da regolamenti allegati ai titoli di acquisto delle unità immobiliari che includano quel divieto con il consenso di tutti i condomini» (Basile,. 2013, 628).

 Nella giurisprudenza di merito è stato affermato che non è ormai possibile impedire ai condomini di tenere animali domestici, anche se tale divieto è previsto nel regolamento condominiale approvato all'unanimità (Trib. Cagliari 22 luglio 2016). La pronuncia è stata resa in un caso in cui un condomino aveva agito in giudizio per chiedere l'annullamento della disposizione del regolamento di condominio che impediva l'accesso e la detenzione di animali domestici nello stabile condominiale e, così, che gli venisse consentito di tenere in casa il suo cane. La domanda trovava fondamento sulla tesi della nullità sopravvenuta della disposizione del regolamento per contrasto con l'art. 1138, ultimo comma, c.c., introdotto dalla l. n. 220 del 2012 di riforma del condominio, in base al quale «le norme del regolamento non possono vietare di possedere o detenere animali domestici». Per parte sua, il condominio aveva sostenuto la legittimità della norma regolamentare, essendo contenuta in un regolamento condominiale di natura contrattuale in quanto predisposto dall'originario ed unico proprietario e successivamente accettato da tutti gli acquirenti al momento dei singoli atti di acquisto ed evidenziando come l'art. 1138 c.c. così come modificato dalla l. n. 220 del 2012 trovasse applicazione solo ed unicamente per i regolamenti di natura assembleare, approvati a maggioranza. Il Tribunale ha accolto integralmente la domanda precisando che la nuova formulazione dell'art. 1138 c.c. trova applicazione per tutti i regolamenti condominiali, sia assembleari che contrattuali. Secondo il Tribunale la norma contenuta nel regolamento condominiale risulta contraria non solo alla disciplina vigente in materia condominiale ma anche ai principi di ordine pubblico e del diritto europeo che tendono invece a valorizzare il rapporto uomo-animale. Il giudice ha richiamato la legge-quadro in materia di animali di affezione e prevenzione del randagismo (l. 14 agosto 1991, n. 281), la l. n. 189 del 2004, che ha introdotto nel codice penale i nuovi delitti di uccisione e maltrattamento di animali, ed il Codice della strada (art. 31 l. n. 120 del 2010 e successivo d.m. attuativo 9 ottobre 2012, n. 217), che ha fissato l'obbligo di fermarsi a soccorrere l'animale ferito in caso di incidente.

Sempre a livello nazionale, anche molte pronunce giurisprudenziali – ricorda il Tribunale – hanno riconosciuto il diritto di visita in carcere al cane del detenuto, in quanto membro della famiglia, o hanno ammesso il diritto di visita in ospedale al cane del paziente ricoverato, atteso che il rapporto uomo-animale realizza l'intera personalità umana. A livello europeo, il Tribunale richiama la Convenzione europea per la protezione degli animali da compagnia, firmata a Strasburgo il 13 novembre 1987, ratificata ed eseguita in Italia con la l. n. 201 del 2010, ed al Trattato sul funzionamento dell'Unione Europea ratificato dalla l. n. 130 del 2008 (che, all'art. 13, stabilisce che «l'Unione e gli Stati membri tengono pienamente conto delle esigenze in materia di benessere degli animali in quanto esseri senzienti»). Alla luce delle leggi citate, il Tribunale conclude che il rapporto uomo-animale non solo abbia avuto riconoscimento normativo, ma anzi, in base all'evoluzione della coscienza sociale e dei costumi, costituisca oramai espressione di un diritto inviolabile tutelato dall'art. 2 Cost. Secondo la sentenza in commento il nuovo comma 5 dell'art. 1138 c.c. deve interpretarsi tenendo conto del rilievo costituzionale assunto dalla tutela del rapporto uomo-animale, il che induce a ritenere la norma inderogabile, e dunque applicabile anche ai regolamenti contrattuali. Benché le disposizioni contenute nei commi precedenti dell'art. 1138 c.c. dettino regole in ordine ai casi in cui l'adozione del regolamento diviene obbligatoria e al quorum necessario per la sua approvazione, riferendosi evidentemente al c.d. regolamento assembleare, il Tribunale ha evidenziato che nessuna indicazione in merito alla natura del regolamento è contenuta nella rubrica della norma, denominata genericamente «regolamento di condominio», e neppure nello stesso ultimo comma, quello contenente il divieto, nel quale è citato il «regolamento» senza alcuna specificazione.

Prima dell'entrata in vigore della l. n. 220 del 2012, la Suprema Corte (Cass. II, n. 3705/2011) aveva, come sì è già ricordato, stabilito che il divieto di tenere animali nelle abitazioni private e nelle parti comuni costituisce una clausola di natura contrattuale del regolamento che pone una servitù reciproca tra i condomini e pertanto può essere modificata solo con l'unanimità dei consensi. Anche dopo l'entrata in vigore della legge di riforma del condominio, parte della dottrina ha continuato a ritenere che il divieto di detenere di animali domestici all'interno del proprio appartamento, configurando una limitazione del diritto del condomino di disporre del proprio bene, possa essere contenuta in un regolamento di condominio contrattuale. Altra parte della dottrina, secondo quanto si è già ricordato, ha manifestato opinioni di segno diverso, recepite nella decisione in esame. A sostegno di questa soluzione si colloca la tesi della configurabilità della c.d. nullità sopravvenuta (nello stesso senso, Giud. pace Pordenone 21 luglio 2016), in base alla quale l'entrata in vigore della nuova normativa comporta la nullità delle clausole in contrasto con essa. Il risultato è dunque che la nuova norma di cui all'art. 1138, comma 5, c.c. è destinata ad operare non solo per i regolamenti futuri, ma anche per quelli attualmente in uso, travolgendo tutti i divieti e le limitazioni vigenti. Del resto, secondo tale posizione, aderendo alla tesi contraria, la sua portata applicativa sarebbe estremamente ridotta e si tratterebbe dunque di una norma sostanzialmente priva di utilità.

Peraltro, è stato anche osservato, su un piano diverso, che è legittima la clausola del regolamento che impedisce ai condomini di utilizzare l'ascensore se accompagnati dai propri animali domestici. Ciò in quanto l'art. 1138, comma 5, c.c. fissa soltanto un limite alla potestà regolamentare incidente sulla proprietà singola, senza recare alcuna disciplina sull'uso delle parti comuni, sicché tale disciplina ben può essere contenuta nel regolamento di condominio nel senso pure di escludere la facoltà di servirsi dell'ascensore trasportando con sé animali domestici (Trib. Monza 28 marzo 2017).

Quanto alla nozione di animale domestico, si è detto che «domestico» è l'animale destinato a vivere nella domus, non invece altri animali, abitualmente razzolanti nell'ambito degli annessi alle singole unità immobiliari, come ad esempio il pollame, nel qual caso si tratta di animali da cortile che sono estranei alla categoria della quale si discorre. L'animale domestico vive dunque in casa e finisce con il far compagnia, ed è accolto nella famiglia del proprio «padrone», creando un vincolo sul piano dei sentimenti, tanto che la morte dell'animale può costituire fonte di angoscia. Proprio tale affectio porta ad escludere che nell'ambito di applicazione della nuova norma siano ricompresi gli animali destinati ad attività di allevamento, con la conseguenza che il regolamento può prevedere legittimamente il divieto di una tale attività, così come, probabilmente, il regolamento può anche incidere su quelle situazioni in cui il numero degli animali sia incongruo (Lazzaro, 207).

La sanzione pecuniaria

La riforma introdotta con l. 11 dicembre 2012, n. 220, ha significativamente inciso sull'art. 70 disp. att. c.c. – al cui commento si rinvia – che, per le infrazioni al regolamento di condominio, consentiva di stabilire, a titolo di sanzione, il pagamento di una somma, divenuta evidentemente irrisoria, fino a lire cento.

In proposito, ci si era chiesti se il regolamento di condominio potesse stabilire una sanzione di importo superiore, avuto riguardo al rilievo che il menzionato art. 70 non è compreso tra le disposizioni del successivo art. 72 disp. att. c.c. dichiara inderogabili, ma si era replicato che l'inderogabilità della disposizione discendeva dalla sua stessa formulazione, che consentiva l'irrogazione di sanzioni «fino» a lire cento e, dunque, non oltre quella soglia; si era d'altronde osservato che la disposizione in esame stabilisce una pena privata, e, come tale, ha senz'altro natura eccezionale (Triola 2013, 465).

  In tal senso, secondo la Suprema Corte, l'art. 70 disp. att. c.c., laddove stabiliva che per le infrazioni al regolamento di condominio potesse essere inflitto, a titolo di sanzione, il pagamento di una somma fino a lire cento, faceva sì che fossero nulle, in quanto contra legem, le eventuali disposizioni del regolamento di condominio che prevedessero sanzioni di importo maggiore (Cass. II, n. 948/1995; Cass. II, n. 10329/2008; contra, Conc. Caserta 22 luglio 1985; Conc. Caserta 12 giugno 1985, ove si osservava che il limite posto dall'art. 70 citato fosse posto «non [...] a tutela di un interesse pubblicistico, ma di un interesse unicamente privatistico»; Conc. Napoli 12 luglio 1990, secondo cui, parimenti, la misura delle sanzioni fissate «attiene alla sfera dell'autonomia privata e il magistrato non può interferirvi, finché sono osservati i canoni degli artt. 1343 e 1418 c.c.»)

Analogamente, in dottrina (Capponi–Chiocca, 731; Dogliotti–Figone, 437; Girino 1982, 399; Nunziata, 727).

Nella versione oggi vigente, la norma prevede una sanzione fino ad euro 200 e, in caso di recidiva, fino ad euro 800. La somma è devoluta al fondo di cui l'amministratore dispone per le spese ordinarie.

 Ha ad esempio carattere sanzionatorio la previsione di una indennità di mora in caso di ritardato pagamento dei contributi da parte dei condomini (Cass. II, n. 5977/1992; ma v. di recente in senso diverso Cass. II, n. 10196/2013).

La sanzione può ovviamente essere irrogata (non solo al condominio, ma anche al conduttore: Pret. Milano 13 marzo 1986; Conc. Caserta 22 luglio 1985) solo se espressamente prevista dal regolamento di condominio (Pret. Verona 12 febbraio 1990, nonché Cass. II, n. 8804/1993, in motivazione).

 Quanto all'accertamento dell'infrazione, in dottrina si è sostenuto che il regolamento deve indicare quali organi di amministrazione (assemblea o amministratore) abbiano il compito di accertare l'infrazione a carico del singolo condomino e condannarlo al pagamento della somma (Salis 1959, 431).

 È stata ritenuta legittima la previsione contenuta nel regolamento condominiale di sanzioni pecuniarie per l'inosservanza della normativa prescritta in materia di disciplina dei parcheggi auto in ambito condominiale, che demandava l'accertamento della violazione a guardie giurate che in tale attività, svolta in strade di proprietà privata con accesso controllato, non prestano alcun servizio di polizia stradale, né usurpano altrimenti pubbliche funzioni (Pret. Milano 13 marzo 1986). L'irrogazione della sanzione, in mancanza di diverse previsioni regolamentari, spetta all'assemblea, non costituendo mera esecuzione del regolamento di condominio, alla quale deve invece provvedere direttamente l'amministratore ai sensi dell'art. art. 1130 c.c.

Con riguardo ai rimedi esperibili contro l'irrogazione della sanzione è stato affermato che essa non limita i diritti del singolo condomino, e quindi, essendo non nulla, ma tutt'al più annullabile, può essere impugnata, ma solo entro il termine previsto dall'art. art. 1137 c.c. (Cass. n. 132/1976).

Il regolamento «contrattuale» predisposto dall'unico proprietario

Alla ricostruzione offerta dalla giurisprudenza con particolare riguardo al c.d. regolamento contrattuale esterno, ossia quello che si crea quando il costruttore-venditore (o, comunque, l'unico originario proprietario dell'edificio) predispone un regolamento di condominio che, di volta in volta, allega ai singoli contratti di vendita delle unità immobiliari, facendolo accettare dall'acquirente, si obietta da più parti che essa non spiega come il regolamento approvato da ciascun acquirente al momento dell'atto di acquisto dell'unità immobiliare, attraverso un contratto esclusivamente intercorso tra tale acquirente ed il venditore, possa produrre i suoi effetti nei confronti di tutti i condòmini e tra di loro, quantunque essi non siano legati da alcun vincolo contrattuale (di recente Ruscello 2012, Comunità condominiale, 84).

Una prima spiegazione, secondo cui si verserebbe in ipotesi di contratto plurilaterale tale da dar vita al regolamento attraverso l'incontro delle dichiarazioni dei singoli acquirenti (Branca 1972, 72) appare meramente tautologica, rimanendo da chiarire come detto incontro avrebbe a concretizzarsi.

Altri hanno affermato che l'obbligatorietà delle disposizioni regolamentari deriverebbe da una serie di negozi giuridici di adesione in base ai quali ciascun acquirente assume l'obbligo di rispettare il regolamento predisposto (Andreoli, 42).

  In giurisprudenza, v. in tal senso Cass. II, n. 3749/1999.

Si è obbiettato che il primo atto di vendita non si presenta, con riguardo al regolamento predisposto dal venditore, quale contratto aperto ai successivi acquirenti, né d'altro canto questi ultimi manifestano una volontà adesiva al contratto già concluso dall'originario proprietario dell'intero edificio con il primo acquirente: ciò a tacere del rilievo che, ai sensi dell'art. art. 1332 c.c., l'adesione successiva richiederebbe, per essere efficace, di essere indirizzata a tutti i precedenti acquirenti. Con riguardo alla replica in proposito contenuta nella citata Cass. II, n. 3749/1999, secondo cui il potere rappresentativo esterno, assunto in modo unilaterale dal venditore, e volta per volta necessariamente riconosciuto nelle clausole dei successivi contratti di compravendita, in quanto presupposto necessario della loro operatività, supererebbe la necessità di comunicare l'adesione a tutti i contraenti, si è ulteriormente precisato che, a prescindere dalla difficoltà di configurare un potere rappresentativo assunto in modo unilaterale, occorrerebbe verificare che tale assunzione sia effettivamente presente nei vari atti di vendita precedenti l'ultimo (Triola 2013, 432).

Altri ancora hanno inquadrato il regolamento predisposto dall'unico proprietario, accettato dai successivi acquirenti, entro lo schema del contratto a favore di terzi (Salis 1967, 595): l'iniziale unico proprietario farebbe assumere a ciascun acquirente, al momento della vendita, l'obbligo di osservare il regolamento anche nei confronti dei futuri acquirenti. Tuttavia, molteplici sono le ragioni che escludono la configurabilità di un contratto a favore di terzi, a partire dall'indeterminatezza degli eventuali terzi, dalla difficoltà di configurare un vantaggio dei medesimi, dall'assenza, nella pratica, della dichiarazione dei successivi acquirenti di voler profittare della stipulazione (Triola 2013, 433).

Secondo la tesi che appare al momento più accreditata, occorrerebbe osservare che, nel momento in cui l'unico proprietario vende la prima unità immobiliare, sorge sol per questo il condominio, sicché l'accordo tra l'unico proprietario ed il primo acquirente dà vita alla totalità dei consensi necessaria e sufficiente all'adozione del regolamento, sicché l'adesione dei successivi acquirenti sarebbe superflua, in quanto la obbligatorietà nei loro confronti del regolamento discenderebbe dalla natura normativa e non contrattuale delle disposizioni in esso contenute (Del Prato 1988, 135; Triola 2013, 433). Portato a termine il primo atto di alienazione, contenente l'accettazione del regolamento predisposto dall'originario proprietario, l'ingresso nel condominio di nuovi acquirenti comporterebbe in definitiva soltanto un incremento soggettivo dei destinatari del regolamento (Del Prato 1988, 135), ovvero una progressiva estensione degli effetti del regolamento a soggetti che non hanno partecipato alla sua formazione (Fragali, 467).

Ci si è interrogati sul quesito se il regolamento predisposto dall'unico proprietario sia soggetto all'applicabilità del comma 2 dell'art. 1341 c.c. In realtà – si è osservato – un problema di applicabilità dell'art. 1341 c.c., nel caso considerato, non ha ragione di esistere. Tale norma prevede infatti determinati requisiti formali per la valida approvazione di clausole le quali stabiliscono particolari vantaggi a favore di chi le ha predisposte: il regolamento condominiale predisposto dall'originario unico proprietario dell'edificio, invece, vincola quest'ultimo allo stesso modo degli acquirenti in ordine alla gestione del condominio (Triola 2013, 435; sul tema Marmocchi, 365; più in generale sulla disciplina a tutela del consumatore nei suoi rapporti con il regolamento condominiale «contrattuale», v. Belli, 181; Terzago 2001; Scarpa 1999, Le clausole vessatorie ,481; Celeste 2011, 24).

 In tal senso è stato stabilito che il regolamento contrattuale di condominio, anche se non materialmente inserito nel testo del contratto di compravendita dei singoli appartamenti dell'edificio condominiale, fa corpo con esso, purché espressamente richiamato ed approvato; di modo che le sue clausole rientrano, almeno per relationem, nel contenuto dei singoli contratti di acquisto. E trattandosi in questo caso di relatio perfetta – in quanto il richiamo, nei vari contratti è opera di entrambi i contraenti – ne deriva che le singole clausole del regolamento di condominio restano fuori dalla previsione legislativa del comma 2 dell'art. 1341 c.c.: che, nel sancire la necessità della specifica approvazione per iscritto di condizioni vessatorie, ha invero riguardo alle sole clausole, di contratti per adesione od analoghi, che risultino invece predisposte da una soltanto delle parti contraenti (Cass. II, n. 73/1986; Cass. II, n. 49/1992; Cass. II, n. 395/1993).

È appena il caso di aggiungere che l'art. 1138 c.c., nello stabilire che, quando il numero dei condòmini è superiore a dieci, deve essere formato un regolamento per disciplinare l'uso delle cose comuni e la ripartizione delle spese, pone tale obbligo a carico dei singoli condòmini e non già a carico del venditore delle singole unità abitative, che sia anche costruttore dello stabile (Cass. II, n. 2742/2012).

Mandato a redigere il regolamento «contrattuale» di condominio

Restando al tema del regolamento «contrattuale», merita attenzione la prassi non rara in forza della quale ciascun acquirente, nell'atto di acquisto della sua unità immobiliare, accetta il regolamento di condominio che il costruttore-venditore si impegna a redigere.

Secondo alcuni, ricorrerebbe in tal caso un'impossibilità giuridica di approvazione di un regolamento allo stato inesistente, sicché tale dichiarazione dovrebbe essere necessariamente interpretata come conferimento di un incarico volto alla formazione del regolamento, con contestuale assunzione dell'obbligo di approvazione al momento della sua predisposizione (Salis 1973, 120).

Si è altresì osservato che nella specie mancherebbe radicalmente il requisito dell'approvazione da parte dei partecipanti al condominio, con conseguente elusione della competenza stabilita dall'art. 1138 c.c., sicché la clausola che contempla tale mandato sarebbe da considerare estranea alla logica che presiede alla deliberazione del regolamento di condominio (E. V. Napoli–E. G. Napoli, 70). Vengono così espressi dubbi sull'ammissibilità di «un mandato che abbia ad oggetto la redazione di un regolamento futuro, anche se tipico» (E. V. Napoli–E. G. Napoli, 70). Altri ritengono che la riserva di formare successivamente il regolamento da parte dell'unico originario proprietario-venditore non possa essere esclusa in astratto (Comporti, 420). Il problema, secondo questa impostazione, concerne il contenuto del regolamento, non essendo il mandatario-venditore legittimato «ad atteggiarne a suo arbitrio il testo ed in particolare ad inserirvi un contenuto atipico», limitativo dei diritti di proprietà di ciascun condomino, poiché il regolamento di condominio è invece paradigmaticamente diretto «a disciplinare la conservazione e l'uso delle parti comuni dell'edificio, nonché l'apprestamento della funzione dei servizi comuni».

 Anche la Suprema Corte manifesta un atteggiamento critico, affermando che: «in tema di condominio di edifici, l'obbligo genericamente assunto nei contratti di vendita delle singole unità immobiliari di rispettare il regolamento di condominio che contestualmente si incarica il costruttore di predisporre, come non vale a conferire a quest'ultimo il potere di redigere un qualsiasi regolamento, così non può valere come approvazione di un regolamento allo stato inesistente, in quanto è solo il concreto richiamo nei singoli atti di acquisto ad un determinato regolamento già esistente che consente di ritenere quest'ultimo come facente parte per relationem di ogni singolo atto» (Cass. II, n. 7359/1992; analogamente Cass. II, n. 3104/2005; Cass. II, n. 8486/1999). Il regolamento di condominio predisposto dall'originario (ed unico) proprietario dell'edificio è insomma vincolante per gli acquirenti delle singole unità immobiliari (purché richiamato ed approvato nei singoli atti di acquisto) nella sola ipotesi che il relativo acquisto si collochi in epoca successiva alla predisposizione del regolamento stesso, e non nel periodo antecedente tale predisposizione, ancorché nell'atto di acquisto sia previsto l'obbligo di rispettare il regolamento da redigersi in futuro, mancando, in tal caso, uno schema negoziale definitivo, suscettibile di essere compreso per comune volontà delle parti nell'oggetto del contratto; in questa ultima ipotesi, pertanto, il regolamento può vincolare l'acquirente solo se, successivamente alla sua redazione, quest'ultimo vi presti volontaria adesione (Cass. II, n. 856/2000; nello stesso senso Cass. II, n. 15734/2004; Cass. II, n. 9591/1991; Cass. II, n. 3351/1989).

Natura delle limitazioni alle proprietà solitarie mediante regolamento contrattuale

L'assoggettamento a pesi delle proprietà solitarie (quale l'immodificabilità ogni singola unità immobiliare) a mezzo delle clausole del regolamento contrattuale non possono essere considerate nulle per violazione del principio del numero chiuso delle obbligazioni reali, anche quando creino vincoli valevoli per gli aventi causa dalle parti originarie, giacché non costituiscono, secondo l'opinione prevalente, obbligazioni propter rem, dando, bensì, origine ad una servitù reciproca (Cass. II, n. 14898/2013; per la qualificazione in termini di servitù reciproca dei pesi imposti mediante regolamento contrattuale v. pure Cass. VI/II, n. 1064/2011; Cass. II, n. 13164/2001; Cass. II, n. 3749/1999; Cass. II, n. 49/1992; Cass. II, n. 5781/1983, concernente una clausola che vietava di destinare gli appartamenti dell'edificio ad uso diverso da abitazione o da studio professionale privato).

In altre occasioni, si è parlato di oneri reali (Cass. II, n. 7654/1990; Cass. II, n. 7630/1990; Cass. II, n. 1681/1983; Cass. II, n. 621/1997). L'obbligo assunto dai singoli condomini in sede di approvazione del regolamento contrattuale, di non eseguire sul piano o sulla porzione di piano di proprietà esclusiva attività che rechino danno alle parti comuni (nella specie, obbligo di non eseguire, sul piano o sulla porzione di proprietà esclusiva, attività che rechino danni alle parti comuni) è stato inoltre ricondotto alla obbligazione propter rem, la cui violazione, pur se protratta oltre venti anni, non determina l'estinzione del rapporto obbligatorio e dell'impegno a tenere un comportamento conforme a quello imposto dal regolamento onde è sempre deducibile, stante il carattere permanente della violazione, il diritto degli altri condòmini di esigere l'osservanza di detto comportamento, potendosi prescrivere soltanto il diritto al risarcimento del danno derivante dalla violazione dell'obbligo in questione (Cass. II, n. 15763/2004).

Altre volte si è cercato di distinguere l'ambito riservato alle servitù da quello di operatività delle obbligazioni propter rem. Con il regolamento condominiale – è stato osservato – possono esser costituiti pesi a carico di unità immobiliari di proprietà esclusiva e a vantaggio di altre unità abitative, cui corrisponde il restringimento e l'ampliamento dei poteri dei rispettivi proprietari, o possono imporsi prestazioni positive a carico dei medesimi e a favore di altri condòmini o di soggetti diversi, ovvero possono limitarsi il godimento o l'esercizio dei diritti del proprietario dell'unità immobiliare. Nel primo caso è configurabile un diritto di servitù, trascrivibile nei registri immobiliari; nel secondo un onere reale e nel terzo un'obbligazione propter rem, non trascrivibili. Il divieto di adibire l'immobile ad una determinata destinazione, ovvero di esercitarvi determinate attività è inquadrabile in quest'ultimo istituto, e il corrispondente diritto è prescrittibile se il creditore non lo esercita per il periodo predeterminato dalla legge (Cass. II, n. 11684/2000).

È stato ricordato, in proposito, che la stessa Suprema Corte, quando ha affrontato ex professo la questione, ha affermato che le obbligazioni propter rem non possono avere una applicazione generale od illimitata, ma costituiscono figure tipiche ammissibili soltanto nei limiti previsti dalla legge, per cui non vi è spazio in materia per l'autonomia privata (Triola 2001, 1314).

L'opponibilità e la trascrizione

Si è già visto che le previsioni dettate dal regolamento condominiale in tanto hanno senso, in quanto gli obblighi ivi contemplati vincolino non soltanto i soggetti stipulanti, ma pure tutti i loro aventi causa, successivi titolari di diritti sugli immobili gravati da tali obblighi: si tratta di rapporti obbligatori, in cui però le finalità delle parti possono trovare adeguato soddisfacimento soltanto attraverso l'inerenza dell'obbligo allares, con il suo automatico trapasso in capo ai successivi acquirenti del bene; ecco, quindi, il ricorso a disposizioni di regolamenti contrattuali – che traggono la loro fonte in una manifestazione di volontà negoziale (di origine interna o esterna) – che introducono limitazioni ai poteri di godimento dei condomini sulle parti di proprietà comune ed esclusiva.

La problematica de quanon riguarda i regolamenti assembleari che contengono solo norme sull'amministrazione o/e sulla gestione delle cose/servizi/impianti comuni (si confrontino le materie indicate nel comma 1 dell'art. 1138 c.c.), e non producono alcuna delle vicende elencate dall'art. 2643 c.c., ossia contratti che trasferiscano la proprietà di beni immobili o costituiscano o modifichino su di essi diritti reali, come le servitù prediali, o atti che incidano in qualche modo sui diritti immobiliari, che esigano, quindi, la trascrizione; una volta acquisita efficacia definitiva per difetto di impugnazione della deliberazione che li approva, i regolamenti assembleari la conservano nel tempo nei confronti di chiunque entri a far parte del condominio, che rimane tenuto ad una puntuale osservanza e rispetto.

Ai sensi dell'art. 1372 c.c., gli atti negoziali di regola producono effetti soltanto «tra le parti», sicché si pone il problema dell'opponibilità di tali vincoli, obblighi e divieti nei confronti degli aventi causa a titolo «particolare» dagli iniziali condomini – gli eredi, aventi causa a titolo «universale», invece, subentrano automaticamente nella stessa posizione giuridica del loro dante causa – in quanto può succedere che sia stata loro taciuta l'esistenza di un regolamento o che, per qualunque motivo, tali terzi abbiano ignorato il contenuto delle relative clausole particolarmente gravose nei loro confronti.

Pur essendo controversa la natura giuridica di tali limiti alla proprietà individuale, come si è poc'anzi avuto modo di sottolineare, la giurisprudenza sembra ormai propensa a riconoscere la natura «reale» (e non meramente obbligatoria) degli stessi e la loro efficacia erga omnes e, in particolare, l'opponibilità ai terzi acquirenti, purché risultino trascritti nei registri immobiliari o comunque accettati da chi subentra nella proprietà dell'unità immobiliare dell'edificio in condominio.

 A stretto rigore, di possibilità di trascrizione potrebbe parlarsi solo qualora si tratti di (acquisto, modificazione o estinzione di) oneri stabiliti sulla res – come, ad esempio, i divieti di determinate destinazioni degli appartamenti – o di pesi stabiliti sulla proprietà esclusiva di un partecipante a favore del condominio, mentre è dubbio il ricorso a tale istituto in presenza di obblighi di fare, ossia di doveri di carattere personale (tra i commenti sull'argomento, Tosca, 13; Triola 1992, 947; Pastore 1992, 1049; Bonis 1968, 149).

Il regolamento di condominio predisposto dal costruttore-venditore, che contenga vincoli afferenti all'intero edificio, e conseguentemente a tutte le unità comprese nel fabbricato, quando sia stato da questi trascritto nei registri immobiliari, è opponibile non soltanto a coloro che acquistano le unità immobiliari da proprietari che abbiano accettato esplicitamente o implicitamente il regolamento stesso, ma anche a coloro che, in epoca successiva alla trascrizione, per la prima volta acquistino appartamenti dell'edificio direttamente dal costruttore, atteso che tutti costoro, non avendo partecipato all'approvazione del regolamento prima della conclusione del loro acquisto, devono comprendersi tra i terzi rispetto ai quali opera, ai fini dell'opponibilità dei suddetti vincoli, siffatta forma di pubblicità (v., tra le tante, Cass. II, n. 19798/2014; Cass. II, n. 13179/1992; Cass. II, n. 1273/1991; tuttavia, ad avviso di Cass. II, n. 3838/1994, il promittente venditore di un locale di un edificio – nella specie, un box – che risulti dal regolamento del condominio in parte asservito per l'uso comune di tutti i condomini, non può opporre al promittente acquirente, che in conseguenza rifiuta il suo consenso alla stipulazione del contratto definitivo, la trascrizione del regolamento alla data del contratto preliminare, e, pertanto, la relativa efficacia nei suoi confronti, atteso che il principio dell'opponibilità ai terzi, aventi causa dall'alienante, degli atti e dei negozi giuridici anteriormente trascritti ha la funzione di dirimere il conflitto tra i successivi acquirenti dallo stesso alienante del bene immobile, ma non può essere invocato dalle parti stipulanti).

Quindi, a seguito della trascrizione del regolamento contrattuale, inserito o allegato al contratto di compravendita – istituto, previsto dagli artt. 2643 ss. c.c, consistente in una forma di pubblicità realizzata mediante l'annotazione dell'atto presso la relativa Conservatoria dei registri immobiliari (oggi, Agenzia del territorio) – si attua la funzione di rendere conoscibile ai terzi l'assetto giuridico degli immobili trasferiti, e, in particolare, si determina l'opponibilità agli aventi causa che non potranno contestare la complessiva situazione giuridica impressa all'edificio in condominio (ad esempio, lamentandosi che non possono adibire il proprio appartamento a studio dentistico).

Di converso, l'omessa trascrizione del regolamento in oggetto nei registri immobiliari determina soltanto l'inopponibilità, ai successivi acquirenti delle singole unità immobiliari comprese nell'edificio condominiale, delle clausole limitative dei diritti esclusivi di proprietà spettanti a ciascun condomino, specie per quanto riguarda le disposizioni aventi ad oggetto l'obbligo o il divieto di dare a taluni locali una determinata destinazione, o di eseguire date opere, che, d'altronde, seppur contrattuali, non producono effetti «immobiliari» ex artt. 2643 ss. e, quindi, non sono trascrivibili (Cass. II, n. 714/1998; Cass. II, n. 4439/1996, sulla differenza rispetto all'ipoteca in ordine all'opponibilità senza limiti di tempo; Cass. II, n. 1195/1992; nella giurisprudenza di merito, sugli effetti della trascrizione o meno del regolamento condominiale, Trib. Verona 24 novembre 1999; Trib. Lecce 23 novembre 1993; Pret. Trani 25 luglio 1989; Trib. Spoleto 18 aprile 1987; Trib. Napoli 7 gennaio 1974).

In buona sostanza, le clausole del regolamento contrattuale in tanto risultano efficaci nei confronti dei terzi aventi causa a titolo particolare dagli originari condomini stipulanti in quanto siano state debitamente trascritte; al riguardo, va soddisfatta, però, l'esigenza di completezza della relativa nota di trascrizione dal punto di vista oggettivo e soggettivo, nel senso che la stessa deve indicare il contenuto essenziale del titolo di cui si chiede la trascrizione e menzionare con chiarezza i negozi giuridici con cui si vuol dare pubblicità, di guisa che, dall'esame del tenore della nota, sia possibile accertare con sicurezza a favore ed a carico di chi la trascrizione debba conseguire i suoi effetti.

 Riguardo al concetto relativo all'esigenza di specificità della nota di trascrizione, l'art. 2659 comma 1, n. 2), c.c. – secondo cui, in tale nota, devono essere indicati il titolo di cui si chiede la trascrizione e la data del medesimo – va interpretato in collegamento con il successivo art. 2665 c.c., il quale stabilisce che l'omissione o l'inesattezza delle indicazioni richieste nella nota non nuoce alla validità della trascrizione, a meno che induca incertezza sulle persone, sul bene o sul rapporto giuridico a cui si riferisce l'atto; peraltro, tale capoverso risulta novellato dall'art. 17 della l. n. 220 del 2012, che ha appositamente aggiunto, in fine, le seguenti parole «per i condominii devono essere indicati l'eventuale denominazione, l'ubicazione e il codice fiscale» (tale aggiunta, ad avviso di Monegat, 283, indurrebbe a ritenere che il legislatore abbia avuto in mente le clausole regolamentari che vietano di adibire l'unità immobiliare di proprietà esclusiva ad una determinata destinazione, «che va trascritta affinché sia opponibile a colui che acquista un appartamento nel condominio con quel tipo di regolamento»).

Peraltro, occorre fare riferimento, nella predetta nota – non al regolamento, ma – alle singole clausole di esso incidenti in senso limitativo sui diritti dei condomini relativamente ai beni di proprietà esclusiva (Cass. II, n. 5776/1988; Cass. II, n. 7515/1986).

In quest'ottica, si pone una pronuncia del Supremo Collegio (Cass. II, n. 21024/2016; fedeli all'impostazione tradizionale, si rivelano, di contro, le quasi coeve Cass. II, n. 22310/2016 e Cass. II, n. 19212/2016), secondo la quale la previsione contenuta in un regolamento condominiale convenzionale di limiti alla destinazione delle proprietà esclusive, incidendo non sull'estensione ma sull'esercizio del diritto di ciascun condomino, deve essere ricondotta alla categoria delle servitù atipiche, e non delle obbligationes propter rem, non configurandosi in tal caso il presupposto dell'agere necesse nel soddisfacimento di un corrispondente interesse creditorio, sicché l'opponibilità ai terzi acquirenti di tali limiti va regolata secondo le norme proprie della servitù e, dunque, avendo riguardo alla trascrizione del relativo peso, indicando nella nota di trascrizione, ai sensi degli artt. 2659, comma 1, n. 2), e 2665 c.c., le specifiche clausole limitative, non essendo invece sufficiente il generico rinvio al regolamento condominiale.

In caso di mancata trascrizione, invece, l'opponibilità ai terzi può raggiungersi quando la clausola limitativa sia esplicitamente riportata ed accettata specificatamente nel contratto di acquisto – accettazione, ovviamente, che deve essere evidente ed inequivocabile, e non desumibile da fatti concludenti (non ammettendosi equipollenti, né indagini per conoscere aliunde la conoscenza del vincolo) – oppure allorché l'acquirente abbia dichiarato espressamente di essere a conoscenza del vincolo in oggetto (ex multis, Cass., II, n. 1314/2004; Cass. II, n. 10523/2003; Cass. II, n. 395/1993; Cass. II, n. 6100/1993).

Sembra eccessivo, però, che non sarebbe nemmeno necessaria una menzione delle singole disposizioni del regolamento (Cass. II, n. 6768/1991; peculiare la fattispecie esaminata da Cass. II, n. 2546/1994); in difetto di trascrizione e accettazione/conoscenza, l'efficacia delle clausole de quibus sarà limitata soltanto a coloro che hanno approvato il regolamento, se di origine interna, o all'originario proprietario, se di origine esterna.

 Non è mancato, però, chi ha ritenuto intrascrivibile tout court il regolamento in quanto tale, poiché la pubblicità ha ad oggetto la convenzione costitutiva di servitù reciproche, che solo formalmente costituisce una clausola del regolamento approvato all'unanimità o del regolamento predisposto dall'originario proprietario dell'intero edificio a cui rinvia l'atto di vendita (Triola 2013, 91); è invalsa, infatti, la prassi secondo cui la trascrizione avviene a seguito del deposito del regolamento, formato dal costruttore, presso un notaio, risultante da apposito verbale (Cass. II, n. 49/1991), ritenuta, invece, illegittima per motivi sia formali che sostanziali.

Sotto il primo profilo, si è rilevato che il verbale di deposito non è autenticazione della sottoscrizione apposta dal depositante in calce al regolamento e, quindi, non costituisce titolo idoneo ai fini della trascrizione ai sensi dell'art. 2657 c.c.; sotto il secondo profilo, si è osservato che il regolamento non può essere trascritto, in quanto il proprietario dell'intero edificio non può costituire a suo favore e/o a suo carico delle servitù, in base al principio nemini rem sua servit; peraltro, le fattispecie trascrivibili costituiscono, ai sensi degli artt. 2643 e 2657 c.c., un numero chiuso, come la sentenza, l'atto pubblico, la scrittura privata con sottoscrizione autenticata o accertata giudizialmente (tanto che si è dovuto spesso ricorrere al giudice per condannare il Conservatore a procedere alla trascrizione del predetto atto).

Seguendo questa tesi, la trascrizione può avvenire solo con la vendita del primo appartamento, deve essere effettuata a favore e contro il venditore e l'acquirente, deve essere eseguita autonomamente – ossia sulla base di una nota ad hoc, non bastando l'eventuale semplice menzione del regolamento nella nota destinata a rendere pubblica la predetta vendita – e avrà efficacia nei rapporti tra il primo acquirente, o i suoi aventi causa, e l'originario unico proprietario; in occasione, poi, di ogni successivo trasferimento, dovrà essere allegato all'atto di vendita il regolamento, o dovrà essere effettuato il rinvio al regolamento allegato al primo atto di vendita, procedendo ad una nuova trascrizione a favore e contro riferita all'unità immobiliare trasferita (Triola 2004, 66).

Va dato atto, però, che, con la l. 27 febbraio 1985, n. 52, sono state apportate modifiche alla normativa codicistica sulla trascrizione con l'introduzione di un sistema di elaborazione automatica nelle Conservatorie dei registri immobiliari; è seguito il decreto interministeriale, emanato di concerto tra il Ministro delle Finanze e quello della Giustizia, che, in forza dell'art. 16 della predetta legge, ne ha stabilito le procedure, i sistemi ed i tempi di attuazione, il Regolamento approvato con d.m. 19 aprile 1994, n. 701, e la Circolare 128/T del 2 maggio 1995, con cui sono stati elencati gli atti soggetti a trascrizione, tra i quali era incluso il regolamento di condominio.

In quest'ultima prospettiva, il regolamento dovrebbe essere redatto in forma di atto pubblico o scrittura privata autenticata, e la trascrizione, avvenuta con la prima vendita, dovrebbe ripetersi anche per le successive; soggetto a favore dovrebbe essere il condominio, inteso non come entità giuridica di cui è sprovvisto, ma come semplice soggetto destinatario degli effetti del medesimo regolamento, mentre tra i soggetti contro andrebbero indicati i singoli condomini, persone fisiche o/e giuridiche, con i relativi diritti di proprietà degli immobili oggetto del regolamento e gli altri dati previsti dalla legge (regime patrimoniale, eventuali ipoteche, qualifica di proprietario e usufruttuario, quote millesimali, non necessarie queste ultime per le parti comuni dell'edificio, quali la portineria, i locali impianti, l'androne, ecc.).

Un ultimo problema si pone riguardo alla pubblicità delle modifiche dei regolamenti contrattuali di origine esterna, allegati ai singoli atti di acquisto (trascritti) delle varie unità immobiliari.

Alcuni hanno ritenuto che tali regolamenti, per il fatto di essere inseriti negli stessi atti di acquisto delle singole unità immobiliari, risultano a loro volta trascritti, per cui se dalla successiva deliberazione di modifica del regolamento non venisse fatta alcuna menzione nei registri immobiliari, i terzi, dall'esame di questi ultimi, potrebbero essere indotti nell'errore di ritenere tuttora valido ed operante il regolamento originario, superato invece dai sopraggiunti cambiamenti (Andreoli, 45), sicché sarebbe necessario che la medesima deliberazione di modifica sia annotata in margine alla trascrizione degli atti di acquisto, e ciò sia per l'esigenza di tutela della buona fede dei terzi, sia in ossequio al disposto dell'art. 2655, comma 1, c.c. (secondo cui qualora un atto trascritto o iscritto sia dichiarato nullo, sia annullato, risoluto, rescisso e revocato o sia soggetto a condizione risolutiva, la dichiarazione di nullità, rispettivamente, l'annullamento, la risoluzione, la rescissione, la revocazione, l'avveramento della condizione devono annotarsi in margine alla trascrizione o all'iscrizione dell'atto); quando ciascun condomino formalmente accetta il regolamento di origine esterna, impegnandosi ad osservarlo integralmente, lo accetta sub condicione che la competente assemblea non lo modifichi in avvenire, e se quest'ultima lo fa, si avvera proprio quella condizione risolutiva che, per il citato art. 2655 c.c., impone l'annotazione dell'ipotizzata deliberazione nei registri immobiliari.

La questione relativa alla mancata trascrizione in un'apposita nota di una clausola del regolamento di condominio contenente limiti alla destinazione delle proprietà esclusive, ed alla conseguente inopponibilità di tali limiti ai terzi acquirenti, non costituisce oggetto di un'eccezione in senso stretto, quanto di un'eccezione in senso lato, sicché il suo rilievo non è subordinato alla tempestiva allegazione della parte interessata, ma rimane ammissibile indipendentemente dalla maturazione delle preclusioni assertive o istruttorie (Cass. II, n. 6769/2018).

Fattispecie

 In generale, le clausole contenute in un regolamento condominiale di formazione contrattuale, le quali limitino la facoltà dei proprietari delle unità singole di adibire il proprio immobile a determinate destinazioni, hanno natura contrattuale e, pertanto, ad esse, deve corrispondere una tecnica formativa di pari livello formale e sostanziale, che consiste in una relatio perfecta attuata mediante la riproduzione delle suddette clausole all'interno dell'atto di acquisto della proprietà individuale, non essendo sufficiente, per contro, il mero rinvio al regolamento stesso (Cass. II, n. 24526/2022). I limiti di destinazione delle cose di proprietà individuali nel regime condominiale possono essere formulati nel regolamento sia mediante indicazione delle attività vietate sia mediante riferimento ai pregiudizi che si intendono evitare: nella prima ipotesi è sufficiente verificare, al fine di stabilire se una determinata destinazione sia vietata o limitata, se la stessa sia inclusa nell'apposito elenco; nella seconda ipotesi è necessario accertare l'effettiva capacita della destinazione contestata a produrre gli inconvenienti che si vollero evitare. A tale ultimo fine, l'interpretazione della clausola regolamentare non può essere condotta con esclusivo riferimento allo stato di fatto esistente alla data della sua formazione, ma tenendo conto anche di situazioni che, pure inesistenti a quel tempo, debbono ritenersi, per identità di ratio, da essa previste (Cass. II, n. 3629/1981; Cass. II, n. 4554/1986).

Ha osservato la Suprema Corte, in quest'ultima pronuncia, che i divieti ed i limiti di destinazione delle cose di proprietà individuale nel regime condominiale possono essere formulati nei regolamenti, sia mediante elencazione delle attività vietate, sia mediante riferimenti ai pregiudizi che si intendono evitare: nella prima ipotesi è sufficiente, al fine di stabilire se una determinata destinazione sia vietata o limitata, verificare se la destinazione sia inclusa nell'elenco; nella seconda ipotesi, è necessario accertare l'effettiva capacità della destinazione contestata a produrre gli inconvenienti cui, con la norma, si volle ovviare. Nella specie la corte del merito, proprio in relazione al motivo di appello, con il quale la parte interessata aveva sostenuto che la destinazione a trattoria di determinati locali condominiali non contrastava con l'art. 12 del regolamento di condominio (perché questo vietava «qualsiasi uso che possa turbare la tranquillità dei condomini», mentre l'esercizio della trattoria non poteva essere molesta ai vicini), aveva accertato, appunto, la effettiva capacità della destinazione contestata a produrre quel turbamento della tranquillità dei condomini, che la norma regolamentare tende ad evitare. E tale puntuale accertamento aveva compiuto mediante una approfondita indagine di fatto nella quale aveva considerato sia l'uso contemporaneo di apparecchiature notoriamente rumorose, sia il fatto, non contestato, che l'esercizio funziona anche come pizzeria, con andirivieni di persone, che in comitive rumorose si davano a schiamazzi e canti. Aveva aggiunto che, nel caso di specie, l'attività di somministrazione di cibi e bevande avveniva anche all'esterno (altro fatto non contestato), nella cosiddetta porzione di rispetto sottostante l'appartamento dell'originario attore ed ha ritenuto che questa circostanza costituisse una ulteriore fonte di turbativa specialmente nella stagione calda. Dall'insieme di questa situazione, così analiticamente esaminata ed esposta, la corte del merito (come del resto il tribunale) aveva tratto il motivato convincimento che un tale uso dei locali come trattoria fosse vietato dal regolamento del condominio perché lesivo di quella tranquillità dei condomini, che la norma regolamentare era intesa a tutelare. Ed ha, infine, concluso sul punto che «la riprova di tutto questo» (cioè della sussistenza della turbativa) la si era avuta attraverso gli accertamenti eseguiti dal consulente tecnico, il quale aveva avvertito che il grado di rumorosità dell'attività svolta all'interno ed all'esterno dei locali era da considerare elevato. Nessun contrasto, quindi, tra quanto ritenuto dal giudice di merito e le risultanze della consulenza, in quanto la corte si era limitata, con specifico riferimento alla situazione di fatto, a valutare quel grado di rumorosità, già ritenuto elevato dal consulente tecnico, come idoneo a determinare il turbamento della tranquillità dei condomini che la norma del regolamento di condominio intendeva evitare. Tale valutazione di fatto, per essere immune da vizi di insufficienza e contraddittorietà che i ricorrenti intendevano attribuirle, si sottraeva ad ogni censura in sede di legittimità, con la conseguenza che sotto questo profilo i motivi di ricorso non potevano trovare ingresso. Né la Corte del merito, ai fini di accertare la violazione o meno della norma regolamentare posta a tutela della «tranquillità» dei condomini, doveva necessariamente fare espresso riferimento alla norma di cui all'art. 844 c.c. che regola, in via generale, i limiti del godimento del proprio fondo rispetto al fondo del vicino. E ciò perché una volta accertato che l'attività come sopra descritta era idonea a determinare il turbamento del bene (tranquillità dei condomini) che la norma regolamentare espressamente tutelava, ogni altro accertamento circa la assunta tollerabilità di quelle immissioni era da escludere, posto che la norma regolamentare, contrattualmente accettata, ben poteva imporre una limitazione del godimento della proprietà esclusiva maggiore di quella imposta dalla norma generale sulla proprietà fondiaria di cui all'art. 844 c.c. È quanto aveva ritenuto la corte del merito, quando aveva, appunto, osservato che ogni questione in ordine all'applicabilità dell'art. 844 c.c. rimaneva assorbita, così come aveva ritenuto il tribunale. Il fatto poi che la stessa società costruttrice dell'edificio, che aveva predisposto il regolamento di condominio, avesse già adibito quel locale a trattoria nulla toglie alla validità del divieto di destinazione, così come accertato in sede di merito, posto che tale divieto è stato ritenuto non in astratto, bensì in concreto, per il modo come è stato di fatto gestito l'esercizio (con l'annessa pizzeria e con l'utilizzazione dello spazio antistante).

Nondimeno, le pattuizioni, contenute nel regolamento predisposto dall'originario proprietario accettato con l'atto di acquisto, che comportino restrizioni delle facoltà inerenti alla proprietà esclusiva dei singoli condòmini ovvero di quelle relative alle parti condominiali dell'edificio, devono essere espressamente e chiaramente enunziate, con la conseguenza che devono ritenersi invalide quelle pattuizioni che, con formulazione del tutto generica, limitino il diritto dei condòmini di usare, godere o disporre dei beni condominiali ed attribuiscano all'originario proprietario il diritto non sindacabile di apportare modifiche alle parti comuni (Cass. II, n. 4905/1990; Cass. II, n. 9564/1997, la quale precisa che tale esigenza di certezza è particolarmente significativa specialmente per i regolamenti contenenti riferimento generale ai pregiudizi che si intendono evitare).

Ha ribadito la Suprema Corte, nella decisione da ultimo menzionata, che i divieti ed i limiti di destinazione delle unità immobiliari di proprietà individuale nel regime condominiale possono essere posti dai regolamenti di condominio così mediante la specifica indicazione delle attività vietate, come con riferimento ai pregiudizi che si intendono evitare. tali limiti e divieti, peraltro, in un caso e nell'altro, e specialmente nel secondo, onde evitare ogni possibilità di equivoci in una materia che attiene alla compressione di facoltà normalmente inerenti alle proprietà esclusive che pervengono ai singoli condomini, devono risultare da espressioni incontrovertibilmente rivelatrici di un intento chiaro, non suscettibile di dar luogo ad incertezze. Nella fattispecie, la corte distrettuale si era limitata ad affermare apoditticamente che la contestata destinazione del locale della ricorrente in controversia (a laboratorio per la preparazione e lo spaccio di prodotti suini) contrastava certamente con il dettato del regolamento del condominio controricorrente, che pure non la contemplava nella specifica elencazione delle destinazioni dichiarate esplicitamente vietate, senza in nessun modo chiarire come e perché la proibizione della stessa possa essere correlata alla generica e polivalente prescrizione del dovere dei condomini di fare uso delle loro unità immobiliari «tenendo presente il carattere e la natura dello stabile comune», manifestamente inidonea, per la sua più che patente indeterminatezza, a comportare l'insorgenza e la persistenza di limitazioni legali al dominio, ed ancorando la così resa statuizione alla affermazione, nella realtà non espressamente giustificata, che la considerata destinazione sarebbe «sicuramente dotata di offensività maggiore di alcune delle ipotesi di uso vietato facenti parte dell'elenco esemplificativo» regolamentare.

L'esigenza che la volontà di porre divieti e limitazioni di destinazione delle unità immobiliari di proprietà esclusiva dei singoli condòmini emerga chiaramente ed espressamente, rende insufficiente, a tal fine, la semplice indicazione di una determinata attuale destinazione delle unità immobiliari medesime (Cass. II, n. 1560/1995).

La pronuncia è stata resa in una controversia in cui venivano in questione il combinato disposto del regolamento condominiale secondo cui «nel cortile esiste un basso fabbricato adibito ad abitazione non cantinato» ed altresì secondo cui «i condomini debbono fare uso dei beni stessi in conformità al loro carattere, destinazione o natura». Nel caso considerato, la Suprema Corte ha ripetuto che in tema di condominio negli edifici, è consolidato, e merita piena adesione, l'indirizzo secondo cui i divieti e le limitazioni di destinazione delle unità immobiliari di proprietà esclusiva dei singoli condomini, come i vincoli di una determinata destinazione ed il divieto di mutare la originaria destinazione, posti con il regolamento condominiale predisposto dall'originario proprietario ed accettati con l'atto di acquisto, devono risultare da una volontà chiaramente ed espressamente manifestata nell'atto o da una volontà desumibile, comunque, in modo non equivoco dall'atto stesso, e non è certamente sufficiente, a tal fine, la semplice indicazione di una determinata attuale destinazione delle unità immobiliari medesime, trattandosi di una volontà diretta a restringere facoltà normalmente inerenti alla proprietà esclusiva da parte dei singoli condomini. È stato quindi ritenuto pienamente condivisibile il corollario del principio suddetto, secondo cui i divieti e le limitazioni di cui sopra possono essere formulati nel regolamento sia mediante la elencazione delle attività vietate (in tal caso, al fine di stabilire se una determinata destinazione sia vietata o limitata, basterà verificare se la destinazione stessa sia inclusa nell'elenco) sia mediante riferimento ai pregiudizi che si ha intenzione di evitare (in questo secondo caso, naturalmente, al fine suddetto, è necessario accertare la idoneità in concreto della destinazione contestata a produrre gli inconvenienti che si volle evitare). Nella specie, come era stato affermato nella impugnata sentenza, i particolari divieti di destinazione delle unità immobiliari di proprietà esclusiva dei singoli condomini erano previsti nella parte del regolamento condominiale, che, seguendo la duplice via dell'elencazione delle attività vietate e del riferimento agli inconvenienti ed ai pregiudizi che si volevano evitare, faceva divieto di «destinare gli appartamenti ed altri locali della casa ad uso di uffici pubblici... di sanatorio ecc. e di qualsiasi attività, in genere, che possa comportare scuotimento.... degli edifici, rumori molesti od esalazioni sgradevoli o.... turbare la serenità». Ora, la Corte del merito, come si desumeva chiaramente dalla impugnata sentenza, aveva implicitamente riconosciuto la esattezza della interpretazione data dal primo giudice del regolamento condominiale in argomento, secondo cui la progettata destinazione dei locali del basso fabbricato (esistente nel cortile) a box per auto non rientrava nei particolari divieti previsti nella menzionata disposizione del regolamento, e, tuttavia, era pervenuta alla censurata conclusione che tale destinazione dovesse ritenersi vietata, perché, nel capitolo primo, paragrafo primo, del regolamento medesimo era dato leggere: «nel cortile esiste un basso fabbricato adibito ad abitazione non cantinato» e successivamente si diceva: «I condomini debbono fare uso dei beni stessi in conformità al loro carattere, destinazione o natura». Intanto, ha subito osservato la Suprema Corte, che, lungi dall'essere in linea con esso, era invece certamente in contrasto con il ricordato principio giurisprudenziale – secondo cui i divieti e le limitazioni di destinazione delle unità immobiliari di proprietà eslcusiva dei singoli condomini, come i vincoli di una determinata destinazione delle stesse, posti con il regolamento condominiale predisposto dall'originario proprietario ed accettati con l'atto di acquisto, devono risultare da una volontà chiaramente ed esplicitamente manifestata nell'atto o da una volontà desumibile comunque in modo non equivoco dall'atto stesso, e non è, a tal fine, in nessun modo, sufficiente la semplice indicazione di una determinata attuale destinazione delle unità immobiliari in discorso – l'aver attribuito rilevanza al riguardo al regolamento condominiale in discorso, laddove indicava che descriveva l'oggetto del regolamento stesso e, nel descriverlo, tra l'altro precisava che «nel cortile esiste un basso fabbricato adibito ad abitazione non cantinato», evidenziando così l'attualità di una situazione di fatto. E – ha proseguito la Suprema Corte – se, in forza del principio suddetto, non può, ai fini della imposizione del vincolo di una determinata destinazione ad unità immobiliari di proprietà esclusiva di singoli condomini, valere una disposizione del regolamento condominiale meramente indicativa e descrittiva come quella in esame, ne conseguiva che rimaneva priva di un qualsiasi supporto giustificativo (da rinvenire nel regolamento condominiale) l'affermazione della corte del merito, secondo cui la originaria destinazione ad abitazione del basso fabbricato sarebbe stata «stabilita per regolamento contrattuale». E ciò si riverberava sulla censurata conclusione della corte del merito, a supportare la quale appariva necessaria una disposizione del regolamento, non meramente indicativa e descrittiva, che stabilisse la irretrattabile destinazione dell'immobile ad abitazione e, quindi, la immutabilità della originaria destinazione di detta unità.

Il regolamento contrattuale può in particolare precludere lo svolgimento di attività imprenditoriali. I poteri dell'assemblea condominiale possono dunque invadere la sfera di proprietà dei singoli condomini, sia in ordine alle cose comuni sia a quelle esclusive, soltanto quando una siffatta invasione sia stata da loro specificamente accettata o in riferimento ai singoli atti o mediante approvazione del regolamento che la preveda, in quanto l'autonomia negoziale consente alle parti di stipulare o di accettare contrattualmente convenzioni e regole pregresse che, nell'interesse comune, pongano limitazioni ai diritti dei condòmini (Cass. II, n. 26468/2007, che ha escluso la nullità della delibera recante il diniego ad una condomina dell'installazione sul lastrico condominiale di un'antenna ricevente, promessa contrattualmente alla società locatrice del proprio appartamento esercente sistemi di navigazione satellitare, perché il regolamento condominiale di natura contrattuale vietava di destinare le unità abitative ad attività di impresa).

Possono essere altresì vietate, mediante regolamento contrattuale, determinate attività professionali, purché, come sempre, il regolamento sia opponibile al condomino (p. es. Cass. II, n. 6100/1993, sul divieto di destinare gli appartamenti a gabinetto odontotecnico).

Ha osservato la Suprema Corte che nel caso in esame il regolamento condominiale, del quale si contestava la opponibilità della limitazione al diritto esclusivo del condomino, era un regolamento interno, approvato all'unanimità dall'assemblea dei condomini (fra i quali il dante causa del ricorrente) e mai impugnato. Data la mancata impugnazione da parte dei condomini il regolamento approvato a suo tempo aveva effetto, ai sensi dell'art. 1107, comma 2, c.c. «per gli eredi e gli aventi causa dai singoli partecipanti», e quindi anche per il condomino, avente causa da altro condomino che aveva partecipato all'approvazione dello strumento condominiale. L'effetto voluto dalla norma anzidetta non riguardava e non si estende, tuttavia, all'art. 5 del regolamento condominiale esaminato, il quale voleva una serie di limitazioni all'uso degli appartamenti, vietandone la destinazione ad attività comportanti eccessivo afflusso di estranei e comunque qualsiasi utilizzazione tale da turbare la tranquillità dei condomini. La disposizione contenuta nel secondo comma dell'art. 1107 c.c., che toglie ogni limite alla durata temporale delle norme regolamentari del condominio, estendendone gli effetti ai successori, a titolo universale e particolare, dei condomini che hanno costituito l'assemblea del condominio la quale a sua volta ha approvato lo strumento, va messa in relazione e coordinata con altre disposizioni, oltreché della stessa materia, di tutto l'ordinamento giuridico sostantivo, dalle quali deriva una restrizione non tanto degli effetti di tali norme, quanto del potere regolamentare dell'assemblea del condominio, per la presenza di taluni divieti posti ex lege alla sua attività di regolamentazione. L'ultimo comma dell'art. 1138 c.c. contiene, infatti, due disposizioni, delle quali la prima, generica, esclude in generale che i regolamenti di condominio possano pregiudicare diritti di ciascun condomino, mentre la seconda specifica, dichiara inderogabili talune disposizioni normative in materia di condominio degli edifici. La prima disposizione dell'ultimo comma dell'art. citato prescrive, in particolare, che le norme del regolamento non possono in alcun modo menomare i diritti di ciascun condomino, quali risultano dagli atti di acquisto e dalle convenzioni. Secondo quanto è stato costantemente affermato dalla elaborazione giurisprudenziale della Suprema Corte, le norme dei regolamenti condominiali, che investono i poteri dei singoli condomini nelle loro porzioni esclusive, restringono il contenuto del diritto di proprietà nelle porzioni stesse; tali norme, se predisposte dall'originario unico proprietario dell'edificio, debbono essere accettate dai condomini nei contratti di acquisto e con separati atti; se deliberate dall'assemblea dei condomini, debbono essere approvate all'unanimità o, quanto meno, da tutti i condomini delle porzioni dello stabile interessate. Esse, in quanto sono costitutive di limitazioni a carico dei diritti di proprietà dei singoli condomini, si compiono come oneri reali, e per potere essere opposte ai terzi acquirenti a titolo particolare, debbono essere trascritte nei pubblici registri immobiliari o menzionate ed accettate negli atti di acquisto. Pertanto, il divieto a carico del condomino, di dare una determinata destinazione alla porzione di sua proprietà esclusiva, traducendosi in una limitazione delle facoltà inerenti al diritto dominicale, presuppone un titolo convenzionale per avere efficacia nei confronti del condominio stesso e la trascrizione del divieto ai sensi dell'art. 2643 ss. c.c., ovvero la sua espressa accettazione nell'atto traslativo, per avere efficacia nei confronti degli aventi causa dal condominio, a titolo particolare.

Nella stessa ottica, tenuto conto della legittimità delle restrizioni alle facoltà inerenti alla proprietà esclusiva contenute nel regolamento di condominio di natura contrattuale, purché formulate in modo espresso o comunque non equivoco, le norme regolamentari possono imporre limitazioni al godimento degli immobili di proprietà esclusiva secondo criteri anche più rigorosi di quelli stabiliti, in tema di immissioni lecite, dall'art. 844 c.c.: ne consegue che in tal caso la liceità o meno dell'immissione deve essere determinata non sulla base della norma civilistica generale ma alla stregua del criterio di valutazione fissato dal regolamento (Cass. II, n. 23/2004, che ha ritenuto corretta la decisione dei giudici di appello, secondo cui la destinazione di un appartamento a studio medico dentistico non costituiva violazione della norma del regolamento condominiale di natura contrattuale che vietava l'esercizio negli immobili di proprietà esclusiva di attività rumorose maleodoranti ed antigieniche, atteso che l'attività espletata non presentava in concreto tali caratteri; di segno opposto la soluzione in concreto data da Cass. II n. 4963/2001, riguardante una delibera condominiale che vietava lo svolgimento nei locali dell'attività di birreria con musica di sottofondo; analogamente Cass. II, n. 49/1992, concernente regolamento condominiale di natura contrattuale che vietava lo svolgimento di attività di ristorante; Cass. II, n. 1195/1992; Cass. II, n. 4554/1986; Cass. II, n. 5241/1978; ove non derogati dal regolamento condominiale, viceversa, i criteri indicati dall'art. 844 c.c. ben possono venire utilizzati per la valutazione della liceità delle immissioni che si verificano in àmbito condominiale: v. Cass. II, n. 3090/1993; Cass. II, n. 2396/1983; Cass. II, n. 448/1982).

Egualmente, poiché le norme del regolamento di natura contrattuale possono prevedere limitazioni ai diritti dei condòmini nell'interesse comune, sia relativamente alle parti comuni, sia riguardo al contenuto del diritto dominicale sulle parti di esclusiva proprietà, è valida la delibera condominiale che vieti ad un condomino l'installazione sul balcone di sua proprietà esclusiva di una zanzariera che, per le sue caratteristiche risulti immediatamente visibile dall'esterno, e lesiva del decoro architettonico dell'edificio (Cass. II, n. 8883/2005).

Per altro verso, la semplice indicazione nel regolamento di condominio di una determinata destinazione delle unità immobiliari non può precluderne altre diverse, essendo tale risultato conseguibile solo mediante costituzione di reciproche servitù volontarie fra i vari condomini, con conseguente restrizione della sfera di dominio di costoro sui beni di loro proprietà esclusiva ed essendo a tal fine necessarie specifiche manifestazioni di volontà, desumibili in modo non equivoco dall'atto costitutivo (Cass. II, n. 3629/1981).

Con il regolamento di condominio «contrattuale» può inoltre essere attribuita la comproprietà di una o più cose, non incluse tra quelle elencate nell'art. 1117 c.c., a tutti i condòmini o soltanto a quelli cui appartengono alcune determinate unità immobiliari; in tal caso colui al quale sia trasferita la proprietà di uno di tali immobili, diviene comproprietario della cosa in base al regolamento condominiale anche se di essa non vi sia alcun accenno nel titolo d'acquisto e tale qualità è opponibile a tutti coloro che acquistino successivamente le varie unità immobiliari (Cass. II, n. 15794/2002). Il regolamento contrattuale di condominio può dunque contenere l'inclusione esplicita, tra le cose comuni, di beni determinati per i quali sia incerta la riconducibilità alla categoria delle cose comuni in regime di condominio (Cass. II, n. 248/1975). In tali ipotesi il regolamento contiene un atto negoziale di accertamento del rapporto di inerenza della cosa espressamente considerata con quelle comuni ai sensi dell'art. 1117 c.c. (Cass. II, n. 248/1975).

Perciò, con riguardo all'impianto di fognatura di un edificio in condominio l'indagine diretta a stabilire se il condomino che non utilizzi detto impianto, per essere l'unita abitativa di sua proprietà collegata con l'impianto idrico sanitario di altro condominio, sia egualmente comproprietario dell'impianto condominiale e quindi, in applicazione dell'art. 1123 c.c., sia tenuto a concorrere nelle spese inerenti alla sua conservazione, va condotta in base ai criteri indicati nell'art. 1117 c.c. sull'individuazione delle parti comuni dell'edificio, tenendo conto che la comunione di detto impianto ove debba essere negata in base alla citata norma può essere riconosciuta per effetto di diversa previsione del regolamento condominiale, quando esso abbia natura contrattuale perché predisposta dall'originario unico proprietario dell'edificio e poi accettato con i singoli atti di acquisto, ovvero perché adottato con il consenso unanime di tutti i partecipanti, manifestato nelle debite forme (Cass. II, n. 13160/1991).

Il regolamento contrattuale non può però impedire il distacco dell'impianto centralizzato di riscaldamento. In tema di condominio negli edifici, poiché tra le spese indicate dall'art. 1104 c.c., soltanto quelle per la conservazione della cosa comune costituiscono obligationes propter rem, è legittima la rinuncia di un condomino all'uso dell'impianto centralizzato di riscaldamento – anche senza necessità di autorizzazione o approvazione da parte degli altri condòmini – purché l'impianto non ne sia pregiudicato, con il conseguente esonero, in applicazione del principio contenuto nell'art. 1123, comma 2, c.c. dall'obbligo di sostenere le spese per l'uso del servizio centralizzato; in tal caso, egli è tenuto solo a pagare le spese di conservazione dell'impianto stesso. Né può rilevare, in senso impediente, la disposizione eventualmente contraria contenuta nel regolamento di condominio, anche se contrattuale, essendo quest'ultimo un contratto atipico meritevole di tutela solo in presenza di un interesse generale dell'ordinamento (Cass. II, n. 19893/2011; Cass. II, n. 11970/2017).

Dà luogo ad una clausola contrattuale, secondo la Suprema Corte, l'applicazione di interessi moratori per l'ipotesi di ritardato pagamento delle spese, poiché un siffatto potere non rientra tra quelli dell'assemblea, potendo una tale previsione essere inserita soltanto in un regolamento contrattuale, approvato all'unanimità (Cass. II, n. 10196/2013). È tuttavia da riflettere se simile previsione possa rientrare nelle attribuzioni dell'assemblea, in sede di adozione del regolamento condominiale, ai sensi del combinato disposto degli artt. 1138 c.c. e 70 disp. att. c.c. In tal senso la Suprema Corte ha affermato che la disposizione di un regolamento condominiale che preveda una indennità di mora in caso di ritardato pagamento dei contributi da parte dei condòmini non ha natura di clausola penale e di conseguenza non può essere soggetta a riduzione in sede giudiziale, non competendo al giudice un potere di riduzione che finirebbe per modificare la norma regolamentare secondo le diverse e concrete applicazioni con la conseguente perdita, nei confronti dei condomini, della sua funzione (Cass. II, n. 5977/1992).

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