Disp. Att. Trans. Codice Civile - 30/03/1942 - n. 318 art. 71 quater[I]. Per controversie in materia di condominio, ai sensi dell'articolo 5, comma 1, del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 281, si intendono quelle derivanti dalla violazione o dall'errata applicazione delle disposizioni del libro III, titolo VII, capo II, del codice e degli articoli da 61 a 72 delle presenti disposizioni per l'attuazione del codice. [[II]. La domanda di mediazione deve essere presentata, a pena di inammissibilità, presso un organismo di mediazione ubicato nella circoscrizione del tribunale nella quale il condominio è situato.]2 [III]. Al procedimento è legittimato a partecipare l'amministratore secondo quanto previsto dall'articolo 5-ter del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 283. [[IV]. Se i termini di comparizione davanti al mediatore non consentono di assumere la delibera di cui al terzo comma, il mediatore dispone, su istanza del condominio, idonea proroga della prima comparizione.]4 [[V]. La proposta di mediazione deve essere approvata dall'assemblea con la maggioranza di cui all'articolo 1136, secondo comma, del codice. Se non si raggiunge la predetta maggioranza, la proposta si deve intendere non accettata.]5 [[VI]. Il mediatore fissa il termine per la proposta di conciliazione di cui all'articolo 11 del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28, tenendo conto della necessità per l'amministratore di munirsi della delibera assembleare.]67
[1] L'originario riferimento al comma 1 doveva intendersi all'art.5, comma 1 bis, d.lg. 4 marzo 2010, n. 28, inserito dall'art. 84, comma 1, lett. b), d.l. 21 giugno 2013, n. 69, conv. con modif., dalla l. 9 agosto 2013, n. 98, in quanto il comma 1, cit., era stato dichiarato costituzionalmente illegittimo con sentenza Corte Cost. 6 dicembre 2012, n. 272. Successivamente il citato art. 5 è stato sostituito dall'art. 7, comma 1, lettera d), del D.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, a decorrere dal 30 giugno 2023, rispristinando il corretto rinvio al comma richiamato. [2] Comma abrogato dall'art. 2, comma 2, lett. a), d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149 (ai sensi dell'art. 52 d.lgs. n. 149/2022, il citato decreto legislativo entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale). Per la disciplina transitoria v. art. 41, comma 1, d.lgs. n. 149/2022, cit., come da ultimo modificato dall'art. 37, comma 1, d.l. 24 febbraio 2023, n. 13, conv., con modif. in l. 21 aprile 2023, n. 41., che prevede che le disposizioni di cui al citato articolo 2 si applicano a decorrere dal 30 giugno 2023. [3] Comma così modificato dall'art. 2, comma 2, lett. b), d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149 che ha sostituito le parole: «secondo quanto previsto dall'articolo 5-ter del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28» alle parole: «, previa delibera assembleare da assumere con la maggioranza di cui all'articolo 1136, secondo comma, del codice» (ai sensi dell'art. 52 d.lgs. n. 149/2022, il citato decreto legislativo entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale). Per la disciplina transitoria v. art. 41, comma 1, d.lgs. n. 149/2022, cit., come da ultimo modificato dall'art. 37, comma 1, d.l. 24 febbraio 2023, n. 13, conv. con modif. in l. 21 aprile 2023, n. 41, che prevede che le disposizioni di cui al citato articolo 2 si applicano a decorrere dal 30 giugno 2023. [4] Comma abrogato dall'art. 2, comma 2, lett. c), d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149 (ai sensi dell'art. 52 d.lgs. n. 149/2022, il citato decreto legislativo entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale). Per la disciplina transitoria v. art. 41, comma 1, d.lgs. n. 149/2022, cit., come da ultimo modificato dall'art. 37, comma 1, d.l. 24 febbraio 2023, n. 13, conv. con modif. in l. 21 aprile 2023, n. 41, che prevede che le disposizioni di cui al citato articolo 2 si applicano a decorrere dal 30 giugno 2023. [5] Comma abrogato dall'art. 2, comma 2, lett. c), d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149 (ai sensi dell'art. 52 d.lgs. n. 149/2022, il citato decreto legislativo entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale). Per la disciplina transitoria v. art. 41, comma 1, d.lgs. n. 149/2022, cit., come da ultimo modificato dall'art. 37, comma 1, d.l. 24 febbraio 2023, n. 13, conv. con modif. in l. 21 aprile 2023, n. 41, che prevede che le disposizioni di cui al citato articolo 2 si applicano a decorrere dal 30 giugno 2023. [6] Comma abrogato dall'art. 2, comma 2, lett. c), d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149 (ai sensi dell'art. 52 d.lgs. n. 149/2022, il citato decreto legislativo entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale). Per la disciplina transitoria v. art. 41, comma 1, d.lgs. n. 149/2022, cit., come da ultimo modificato dall'art. 37, comma 1, d.l. 24 febbraio 2023, n. 13, conv. con modif. in l. 21 aprile 2023, n. 41. che prevede che le disposizioni di cui al citato articolo 2 si applicano a decorrere dal 30 giugno 2023. [7] Articolo inserito dall'art. 25, l. 11 dicembre 2012, n. 220. La modifica è entrata in vigore il 18 giugno 2013. InquadramentoIl legislatore ha coraggiosamente mantenuto, nel testo di riforma della normativa condominiale, la novità in punto di mediazione costituita dall'art. 71-quater disp. att. c.c.: invero, durante il terzo passaggio parlamentare – e precisamente, mentre la suddetta riforma era in discussione presso la Commissione Giustizia del Senato e dopo che il testo, già approvato da Palazzo Madama, era stato emendato dalla Camera – era intervenuto il giudice delle leggi, il quale, con un «comunicato stampa» uscito il 24 ottobre 2012, aveva dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 5, comma 1, del d.lgs. n. 28/2010, nella parte in cui aveva sancito l'obbligatorietà della preventiva mediazione, per eccesso di delega ex art. 77 Cost. (Corte cost., n. 272/2012). Contrariamente a quanto evidenziato da più parti, trattavasi, all'evidenza, di un mero vizio formale che non intaccava la bontà dell'istituto, sicché opportunamente la l. 11 dicembre 2012, n. 220 si è preoccupata di definire le modalità operative del nuovo procedimento di mediazione per quanto concerne le liti condominiali. Il legislatore ha così colto l'occasione, modificando la disciplina di settore, per «mettere a punto» alcune criticità applicative di tale procedimento all'interno della realtà condominiale, approfittando anche del «rodaggio» del nuovo istituto, poiché, proprio riguardo al condominio, l'art. 2, comma 16-decies, del d.l. n. 225/2010, convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della l. n. 10/2011, aveva rinviato di dodici mesi l'entrata in vigore della disciplina concernente la condizione di procedibilità, la cui new entry era stata posticipata al 21 marzo 2012 (in termini generali, Nicola, 627; Nitti, 1651; Amerio, 140; Raeli, 285). Peraltro, le previsioni di cui al novellato art. 71-quater disp. att. c.c. – eccettuate quelle volte a circoscrivere le «controversie in materia di condominio» al fine di delineare la sfera della (allora) soppressa condizione di procedibilità – mantenevano intatte la loro attualità per quanto concerne gli altri aspetti, si pensi all'individuazione dell'organismo competente, alla legittimazione dell'amministratore per partecipare al relativo procedimento, ai quorum necessari per approvare l'accordo conciliativo. Tipologie di mediazioneRimaneva pur sempre praticabile la strada conciliativa nelle liti condominiali, nelle forme della mediazione: a) c.d. facoltativa, in cui le parti sceglievano liberamente la via della composizione stragiudiziale della lite, prima ed indipendentemente dalla proposizione di una controversia davanti ad un giudice, o b) c.d. contrattata, in cui le parti negozialmente decidevano di sottoporre la contesa al mediatore, ad esempio mediante l'inserimento di una clausola ad hoc contenuta nel regolamento di condominio, oppure c) c.d. demandata, in cui era lo stesso magistrato che, nel corso del giudizio che si teneva davanti a lui, poteva invitare le parti a risolvere la lite davanti all'organismo di conciliazione. Tuttavia, dopo il suddetto intervento dei giudici della Consulta, i quali avevano (in realtà soltanto) sancito l'illegittimità costituzionale dell'art. 5, comma 1, del d.lgs. n. 28/2010 per eccesso di delega legislativa – ma, di fatto, svuotato la portata dell'istituto che nell'obbligatorietà rinveniva la sua essenza – con il d.l. 21 giugno 2013, n. 69 (noto anche come il decreto del fare), il legislatore ha ribadito l'obbligatorietà della procedura di mediazione per la gran parte delle materie già contemplate, in primis quella condominiale, sia pur sottoposta ad un periodo di sperimentazione, previo monitoraggio a metà percorso (Celeste 2013, 726). Si è colto lo spunto anche per introdurre alcune rilevanti modifiche procedurali e sostanziali che vanno ad incidere profondamente sull'impianto normativo originario, salvo, poi, in sede di conversione, con la l. 9 agosto 2013, n. 98, apportare integrazioni ed aggiustamenti, che sembrano però snaturare il medesimo istituto o, comunque, vanificarne le precipue finalità. Qualche perplessità può muoversi in ordine alla stabilita minor durata della procedura rispetto a quanto precedentemente previsto, perché effettivamente la riduzione a tre mesi non considera che, sovente, sussistono esigenze anche istruttorie, che possono emergere nel corso del procedimento di mediazione – il reperimento di un documento, l'esame di una foto, l'esperimento di una perizia, e quant'altro – a prescindere dalla compatibilità di tale previsione con i consueti «ritmi» condominiali, che richiedono pur sempre un passaggio assembleare. Al riguardo, l'impostazione offerta dalla decretazione d'urgenza si rivelava ancora in sintonia con le esigenze delineate dal d.lgs. n. 28/2010, nel senso che i contendenti risultavano effettivamente gli «attori» del procedimento, con costi contenuti rispetto a quelli da affrontare attraverso la via giudiziaria – a prescindere dalla possibilità di usufruire di alcuni benefici fiscali – laddove, invece, in sede di conversione, si è assistito ad un «annacquamento» delle novità che, paradossalmente, per un principio di eterogenesi dei fini, potrebbero condurre ad un (nuovo) affossamento dell'istituto. Si era molto criticato, nella precedente versione della mediazione obbligatoria, il fatto che l'utente del servizio-giustizia dovesse sobbarcarsi anche del costo di tale procedimento prima di instaurare la lite davanti al magistrato, sicché è stato inserito il comma 5-ter nel corpo dell'art. 17, secondo cui, «nel caso di mancato accordo all'esito del primo incontro, nessun compenso è dovuto per l'organismo di mediazione». Al contempo, ai sensi dell'art. 5, comma 1-bis, del riformato d.lgs. n. 28/2010, «chi intende esercitare in giudizio un'azione relativa ad una controversia in materia di condominio .... é tenuto, assistito dall'avvocato, preliminarmente ad esperire il procedimento di mediazione»; obbligo, quest'ultimo, ribadito dal successivo art. 8, comma 1, dove è stabilito che, «al primo incontro e agli incontri successivi, fino al termine della procedura, le parti devono partecipare con l'assistenza dell'avvocato». Rimane, poi, la non agevole perimetrazione del «primo incontro» di mediazione, atteso che la nuova versione del c.d. decreto del fare sembra offrire una sola chance in capo al mediatore: o quest'ultimo riesce sùbito a convincere le parti litiganti a proseguire, oppure non se ne fa nulla; il mediatore ce la metterà tutta per evitare lo sfogo giudiziario, facendo risparmiare i costi di un'eventuale causa ma, se fallisce nel suo intento, lo sforzo profuso è completamente gratuito, con il rischio anche di non rientrare nelle spese. Da scongiurare, infine, in questa prospettiva di spending review, l'inevitabile spuntare di organismi di mediazione che, giocando al ribasso, vengano preferiti dai contendenti (non tanto per la professionalità del servizio offerto, quanto piuttosto) per la convenienza meramente economica dei procedimenti, in barba alla «non mercificabilità dei diritti soggettivi dei consociati dell'ordinamento giuridico», sbandierata dall'avvocatura. Va segnalato, da ultimo, che, con il d.l. 12 settembre 2014, n. 132 – recante «Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell'arretrato in materia di processo civile», convertito, senza modificazioni sul punto, dalla l. 10 novembre 2014, n. 162 – è previsto, in estrema sintesi, il trasferimento su istanza congiunta alla sede arbitrale dei procedimenti pendenti dinanzi all'autorità giudiziaria (art. 1), la «convenzione di negoziazione assistita da un avvocato» (art. 2), e l'invito a stipularla, sotto condizione di «procedibilità» della domanda, per chi intende proporre in giudizio una domanda di pagamento, a qualsiasi titolo, di somme non eccedenti € 50.000,00, purché, però, al di fuori dei casi di cui all'art. 5, comma 1-bis, d.lgs. n. 28/2010 (art. 3). Condizione di procedibilitàSi conferma, dunque, quella rilevante new entry nel panorama normativo interessante da vicino la realtà condominiale, poiché è stata reintrodotta la preventiva mediazione obbligatoria: invero, l'istituto, precedentemente previsto dal d.lgs. n. 28/2010, ritoccato dalla l. n. 220/2012, affossato dalla Corte Costituzionale, è stato «resuscitato» a seguito dell'entrata in vigore del c.d. decreto del fare del 2013, per cui, attualmente, chi vuole proporre una causa in materia di condominio deve prima esperire il tentativo di conciliazione davanti ad un mediatore (Celeste 2013, 607). Le novità per quanto concerne la mediazione, vista come condizione di procedibilità per instaurare una lite condominiale davanti all'autorità giudiziaria, sono contenute, in particolare, nell'art. 84 d.l. 21 giugno 2013, n. 69, contenente «disposizioni urgenti per il rilancio dell'economia», che ha registrato aggiustamenti ed integrazioni significativi in sede di conversione ad opera della l. 9 agosto 2013, n. 98: nello specifico, tale art. 84, inserito nel capo II dedicato alle «misure in materia di mediazione civile e commerciale», ha apportato rilevanti modifiche al d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28 (emanato, a sua volta, in attuazione della l. 18 giugno 2009, n. 69, ed entrato in vigore il 21 marzo 2011, con il posticipo di un anno per quanto concerne le cause condominiali). Va rammentato che il citato d.lgs. n. 28/2010 era stato bocciato dai giudici della Consulta a fine 2012 solo per eccesso di delega per quanto concerne l'obbligatorietà della mediazione e, quindi, il legislatore del 2013 ha colmato tale lacuna, precisando, però, che tale obbligo è in vigore per quattro anni, con un'analisi dei dati alla scadenza del biennio, quando il Ministero della Giustizia dovrà esaminarne i risultati e le criticità emerse (in buona sostanza, si tratta di un periodo sperimentale, nel corso del quale il suddetto Ministero dovrà eseguire un monitoraggio sugli esiti concretamente registrati nella prassi). Nel comunicato stampa del Consiglio dei Ministri n. 9 del 15 giugno 2013, il provvedimento legislativo d'urgenza de quo, volto a ridisegnare e reintrodurre il già noto istituto della mediazione civile e commerciale obbligatoria, è stato presentato, all'interno delle altre «manovre» economiche, come necessario ad incidere sui tempi della giustizia civile italiana nonché migliorarne l'efficienza e la competitività. Tra le materie che «scontano» la preventiva (ora di nuovo obbligatoria) mediazione risulta, in primis, quella del condominio, cui si affiancano le altre già contemplate in precedenza, mentre spicca l'estromissione della responsabilità derivante dalla circolazione di veicoli – che, come quella condominiale, aveva subìto un «rodaggio» di un anno, slittandone l'operatività al 21 marzo 2012 – ed i procedimenti di consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite di cui all'art. 696-bis c.p.c. (art. 5, comma 4, lett. c), includendovi, invece, attualmente anche la responsabilità medica e sanitaria (art. 5, comma 1-bis). Resta fermo che l'improcedibilità della domanda giudiziale deve essere eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevata d'ufficio dal giudice ma non oltre la prima udienza di trattazione o di discussione (Trib. Roma-Ostia 26 marzo 2012). Orbene, da un esame complessivo dell'art. 84 l. n. 98/2013, di conversione del d.l. n. 69/2013, emerge evidente lo sforzo di rendere la mediazione maggiormente incisiva e più facilmente fruibile, dirimendo alcuni dubbi che erano insorti nella vigenza della precedente normativa, tuttavia, nell'ottica di dettare regole chiarificatrici e nell'intento di coinvolgere maggiormente la classe forense, forse si è perso di vista lo scopo ultimo dell'istituto, ossia deflazionare il contenzioso civile e ridurre il tasso di litigiosità, con il conseguente riequilibrio «fisiologico» del rapporto tra domanda e offerta di giustizia. Sembra rinascere un nuovo modello di mediazione incentrato sull'obbligatorietà e, al contempo, strettamente correlato al processo, tanto da renderla una vera e propria fase pre-processuale, segnatamente con la previsione dell'assistenza obbligatoria dell'avvocato e di una sorta di competenza territoriale, laddove gli aspetti processuali appaiono così ancor più rilevanti, finendo per assorbire i profili sostanziali connessi alla negoziazione che, attraverso la mediazione, dovrebbero condurre all'accordo conciliativo. Conciliazione demandataDi sicuro, si assiste ad una maggiore responsabilizzazione del giudice, in quanto la mediazione, oltre ad essere contemplata – come in precedenza – quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale (e, quindi, obbligatoria) per le materie già incluse nel d.lgs. n. 28/2010, è stata, altresì, prevista su delega del giudice tutte le volte in cui ne ravvisi l'opportunità. Invero, nella normativa previgente, il magistrato aveva la possibilità di invitare le parti ad effettuare un tentativo di conciliazione, mentre, attualmente, lo stesso magistrato, anche in sede di appello, non si limita ad un invito, ma ha la possibilità di disporre che le parti si rivolgano ad un organismo di mediazione per l'espletamento del tentativo, e, soprattutto, l'assolvimento di tale disposizione diviene «condizione di procedibilità» dell'azione anche in sede di appello (art. 5, comma 2, d.lgs. n. 28/2010); il suddetto provvedimento può essere adottato prima dell'udienza di precisazione delle conclusioni o, quando tale udienza non è prevista – si pensi alle controversie in materia di locazione, che seguono il c.d. rito del lavoro – prima della discussione della causa: il giudice fissa, quindi, la successiva udienza dopo la scadenza del termine di cui all'art. 6 (ora tre mesi) e, quando la mediazione non è già stata avviata, assegna contestualmente alle parti il termine di quindici giorni per la presentazione della domanda di mediazione. Pertanto, non vi è soltanto l'ipotesi, per così dire, ordinaria, in cui la parte è tenuta a procedere alla mediazione prima di adire l'autorità giudiziaria, ma si registra pure il caso in cui il giudice stesso manda le parti davanti al mediatore, e ciò addirittura «anche in sede di giudizio di appello» – non più, quindi, un invito per le parti, bensì un ordine vincolante – e tale duplice «obbligatorietà della mediazione» rafforza l'intento del legislatore di rendere la mediazione la principale strada per la risoluzione delle vertenze civili. In effetti, sia pur nella sua breve esistenza, la mediazione c.d. demandata aveva avuto scarso successo, in quanto, nell'ottica del 2010, il legislatore aveva scommesso quasi esclusivamente tutto sull'obbligatorietà ope legis, vista appunto come strumento di filtro e, quindi, di prevenzione della lite (rispetto all'accesso alla giurisdizione statale), ed aveva affidato al magistrato, il quale interveniva dopo che la controversia si era già radicata giudiziariamente, il ruolo di mero impulso alla mediazione, potendo lo stesso soltanto invitare le parti ad attivare il procedimento extragiudiziale ed occorrendo pur sempre il consenso delle stesse perché tale invito potesse divenire vincolante. Nella nuova versione, invece, al giudice risulta affidato un nuovo, e più incisivo, ruolo poiché attualmente sarà in grado di costringere le parti, ordinando alle stesse di dare avvio al procedimento di mediazione: i presupposti ora contemplati dall'art. 5, comma 2, del d.lgs. n. 28/2010 sono gli stessi del testo precedente, sia sotto il profilo temporale (in qualunque momento della causa, prima dell'udienza di precisazione delle conclusioni ed anche in sede di giudizio di appello), sia per quanto concerne le condizioni sostanziali (valutata la natura della causa, lo stato dell'istruzione ed il comportamento delle parti), ma il magistrato può disporre l'esperimento della mediazione che, però, diventa oggi «condizione di procedibilità della domanda giudiziale». In buona sostanza, la mediazione prescritta dal giudice risulta in toto assimilata alla mediazione obbligatoria ex lege, ribadita dall'art. 5, comma 1-bis, del d.lgs. n. 28/2010, costituendo una sorta di condizione di improcedibilità, per così dire, sopravvenuta rispetto all'avvio del processo, basata su una delicata valutazione ex post delle peculiarità della singola controversia. Così l'obbligatorietà della mediazione si sdoppia su due binari: uno che corre sempre lungo l'obbligo ex lege e, quindi, necessariamente circoscritto solo ad alcune materie (con l'attuale esclusione, tra l'altro, delle pretese risarcitorie connesse alla circolazione stradale) ed anche limitato nel tempo per una fase di sperimentazione (quattro anni, salvo un controllo intermedio a due), e l'altro che si affida alla valutazione discrezionale del giudice e, pertanto, non soffre limitazioni di contenuto nell'individuazione delle liti (né richiede un periodo di prova poiché inserito strutturalmente nei poteri istruttori del magistrato). Ambito di applicazioneRisulta, comunque, opportuno aver ribadito l'inserimento delle controversie condominiali tra le aree in cui è prevista la mediazione come condizione di procedibilità della domanda, quasi a confermare la «coraggiosa» scelta della l. n. 220/2012, di riforma della normativa di settore, a mantenere in vita il nuovo art. 71-quater disp. att. c.c., nonostante la scure abbattutasi sull'istituto ad opera dei giudici della Consulta. Trattasi, infatti, di cause che spesso vedono, come consueti contendenti, condomini riottosi a cercare un accordo, costringendoli almeno ad incontrarsi ed a confrontarsi, davanti ad un mediatore preparato e credibile, per individuare una soluzione possibile – e, ci si augura, duratura – della controversia; d'altronde, le liti condominiali sovente risultano di modico valore, sicché i tempi medi di svolgimento del giudizio, congiuntamente ai costi immediati della difesa tecnica, non sono compensati dai benefici del provvedimento giurisdizionale finale favorevole alla parte vincitrice (Dibitonto). Nella materia condominiale, va, pertanto, coltivata una soluzione alternativa delle relative controversie, soprattutto per quelle che costituiscono l'area della c.d. giustizia minore, ossia per quelle liti di modesto valore economico e di scarsa importanza che soffocano le aule di giustizia – impedendo spesso ai magistrati di occuparsi delle questioni di maggiore rilevanza, per le quali è, invece, opportuno, per non dire indispensabile, ricorrere al giudice togato – cercando di approntare strumenti in grado di consentire una rapida, agevole e, magari, poco costosa, composizione dei contrasti che sorgono tra le parti. In effetti, è soprattutto l'essenza stessa della vita in comune negli edifici che, per il suo connaturale alto tasso di conflittualità, genera potenzialmente contrasti e offre lo spunto a vertenze nelle quali riesce sempre più difficile contemperare interessi individuali e collettivi; sussistono inevitabili ed imponderabili variabili – di ordine personale, sociale e, forse anche, antropologico – di una convivenza forzata sotto lo stesso tetto, che spesso viene affrontata, da più parti, con un atteggiamento di sottovalutazione (le cronache attuali registrano, purtroppo, vicende che sfociano anche in fatti penalmente rilevanti). L'inclusione della materia condominiale in tale elenco non sarebbe ispirata soltanto da esigenze di deflazione, ma anche dalla ragione di offrire un servizio, affidato a mediatori capaci, che abbia vantaggi ulteriori rispetto ad una giustizia più efficiente; fatto sta che la materia rientra, a pieno titolo, nei c.d. rapporti di vicinanza, destinati tendenzialmente a protrarsi nel corso del tempo, correlandosi alla durata della contiguità all'interno dell'edificio urbano, e comunque intercorrenti tra persone che già si conoscono e non tra estranei; e proprio questa tendenziale continuatività, caratterizzante tale tipologia di relazioni, nella prassi suscita di frequente l'insorgenza del contenzioso giudiziale, il quale, peraltro, non rappresenta un unicum, atteso che, spesso, può riproporsi nuovamente nella medesima sede. In subiecta materia, in teoria, l'opera del mediatore potrebbe indirizzarsi proficuamente nella direzione di una conclusione conciliativa della vertenza, con positivo alleggerimento del contenzioso normalmente scaricato sul magistrato, specie laddove si intenda garantire la conservazione del rapporto di convivenza pacifica permettendone la prosecuzione; in tali fattispecie, la res controversa potrebbe essere recuperabile ai rapporti civili grazie alla specifica professionalità del mediatore, il quale sia in grado di individuare il punto di equilibrio tra i contrapposti interessi dei condomini litiganti (Celeste 2010, 8). Del resto, la Relazione illustrativa al d.lgs. n. 28/2010 pone l'accento sull'opportunità della scelta della mediazione nell'àmbito condominiale, stante la particolare realtà «in cui la coesistenza forzata dei comproprietari consiglia, se non addirittura impone, la ricerca di soluzioni facilitative, che consentano comunque di ravvivare la convivenza condominiale aldilà della decisione sul singolo affare». Controversie in materia di condominioA questo punto, si trattava di circoscrivere esattamente il concetto di «... controversia in materia di condominio ...», perché, dalla primavera del 2012, tali cause scontavano necessariamente la procedura di mediazione, nel senso dell'obbligo preventivo di esperire il relativo procedimento. Si conveniva che vi rientrassero tutte le cause riconducibili all'operatività della normativa condominiale prevista dal codice civile e dalle relative disposizioni di attuazione, ossia tutti i contrasti derivanti dall'applicazione del complesso delle norme di cui agli artt. 1117-1139 c.c. ed agli artt. 61-72 disp. att. c.c. Per fare qualche esempio – al fine di meglio perimetrare l'àmbito applicativo della mediazione obbligatoria nel condominio – risultavano sicuramente incluse: a) le impugnazioni delle deliberazioni assembleari ex art. 1137 c.c., qualunque fosse il vizio (nullità o/e annullabilità) contestato; b) le questioni relative alla ricomprensione di un bene, di un servizio o di un impianto comune nell'elenco previsto dall'art. 1117 c.c.; c) le problematiche scaturenti dall'approvazione delle innovazioni (artt. 1120 e 1121 c.c.), dall'esecuzione di opere da parte del singolo condomino sulle cose comuni e su quelle di proprietà esclusiva (artt. 1102 e 1122 c.c.), o dalla realizzazione delle sopraelevazioni (art. 1127 c.c.); d) tutto ciò che riguardava l'incarico dell'amministratore, interessante sia la regolamentazione del rapporto con il condominio, sia la delimitazione dei relativi poteri e doveri (artt. 1129, 1130, 1131, 1133 e 1135, comma 2, c.c.); e) l'approvazione, l'interpretazione e l'applicazione del regolamento assembleare o contrattuale (art. 1138 c.c.); f) la ripartizione delle spese di conservazione e di gestione (artt. 1123, 1124 e 1126 c.c.); g) la formazione ex novo e la revisione delle tabelle millesimali (art. 69 disp. att. c.c.); h) lo scioglimento dell'originario unico condominio (artt. 61 e 62 disp. att. c.c.). Sotto un altro profilo, rientravano nella mediazione obbligatoria anche tutte le controversie «... in materia di diritti reali...» (Trib. Genova 18 novembre 2011), e, quindi, quelle relative al diritto di proprietà (piena o nuda), di usufrutto, ecc., poiché aventi ad oggetto un bene, indifferentemente, condominiale o esclusivo; quindi, anche se afferenti a vertenze all'interno del condominio, ma a prescindere dal fatto che le unità immobiliari fossero soggette, unitamente alle parti comuni dell'edificio, al regime condominiale, erano incluse, ad esempio, le cause inerenti le distanze legali e le servitù (rilevante, al riguardo, la novità introdotta dal c.d. decreto del fare del 2013 il quale, inserendo il n. 12-bis all'art. 2643 c.c., ha previsto, nel novero degli atti soggetti a trascrizione, anche «gli accordi di mediazione che accertano l'usucapione con la sottoscrizione del processo verbale autenticata da un pubblico ufficiale a ciò autorizzato»). Si era evidenziato, poi, l'inserimento, tra le grandi aree su cui la mediazione fosse destinata ad operare come condizione di procedibilità, delle materie della locazione e del comodato – con la sola esclusione dei procedimenti per convalida di licenza o di sfratto fino al passaggio alla cognizione piena di cui all'art. 667 c.p.c. – materie che interessavano, sia pure incidentalmente, la realtà condominiale; ad esempio, doveva qualificarsi senz'altro «locatizia» la domanda di rilascio dell'ex alloggio del portiere, se l'utilizzazione dell'immobile fosse frutto di un autonomo contratto, come quello di locazione, e fosse irrilevante la connessione tra il rapporto di dipendenza condominio-portiere ed il godimento dell'alloggio medesimo. Rientravano, a pieno titolo, nella materia condominiale, invece, le questioni sollevate dal conduttore con riferimento alle spese ed alle modalità di gestione dei servizi di riscaldamento e di condizionamento d'aria, o alla modificazione degli altri servizi comuni, in ordine alle quali l'inquilino aveva diritto di intervento o di voto in assemblea ai sensi dell'art. 10, rispettivamente, commi 1 e 2, della l. n. 392/1978; parimenti, l'azione diretta all'osservanza del regolamento condominiale, laddove, operando un divieto di destinazione a determinati usi – ad esempio, l'adibizione a ristorante o a studio medico – il condominio era legittimato a chiedere direttamente all'inquilino la cessazione dell'utilizzo illegittimo e l'osservanza in forma specifica delle istituite limitazioni. Tuttavia, il fatto che l'art. 5, comma 1, si limitava ad indicare, fra le materie che rientravano nell'àmbito di applicazione del d.lgs. n. 28/2010, «il condominio», non significava che qualunque controversia in cui era interessato un condominio dovesse essere, tout court, necessariamente ricompresa nella sfera di applicazione della disciplina ai fini della mediazione obbligatoria. Invero, se non vi erano particolari problemi riguardo alle ipotesi sopra delineate, perplessità potevano sorgere per le cause border line in tema di inadempienza contrattuale, che registravano, come contendenti, un condominio ed un fornitore di beni e servizi (la ditta che si occupava del gasolio della caldaia comune e della manutenzione degli impianti di ascensore), o un appaltatore (l'impresa che non aveva eseguito a regola d'arte i lavori di impermeabilizzazione del lastrico solare o di rifacimento della facciata). Tali controversie apparivano soltanto lato sensu condominiali, nel senso uno dei soggetti coinvolti era il condominio, ma non lo erano per la specifica natura della controversia sottoposta all'autorità giudiziaria; ne conseguiva che, dall'àmbito di applicazione della mediazione obbligatoria, dovevano essere escluse tutte quelle cause che riguardavano rapporti, instaurati dal condominio con un soggetto terzo, per i quali il primo assumeva la veste di ordinaria parte contrattuale. Si poteva pensare, in primis, al contratto di appalto disciplinato negli artt. 1655 ss. c.c. – e alle azioni derivanti dalle garanzie ivi previste ex artt. 1667 e 1669 c.c. – nonché al contratto di somministrazione di cui agli artt. 1559 ss. c.c.; era, invece, solo «occasionalmente» terzo, l'ex amministratore che agiva nei confronti del condominio, da lui in precedenza amministrato, per ottenere il pagamento del suo compenso o per ripetere quanto anticipato per le spese di manutenzione dello stabile. Esistevano, comunque, fattispecie in cui non era agevole stabilire se la causa condominiale dovesse o meno essere assoggettata al preventivo tentativo di mediazione (Celeste-Salciarini, 83). Di contro, un elemento testuale a favore dell'interpretazione più estensiva poteva evincersi dalle locuzioni utilizzate dal legislatore delegato, nel senso che, da un lato, si era fatto riferimento a contratti «tipizzati» (assicurativi, bancari, finanziari), e, dall'altro, si era incluso genericamente le «controversie in materia di ...»; in quest'ottica, poteva apparire maggiormente in linea con la ratio dell'istituto della mediazione obbligatoria ricomprendere, nell'espressione «in materia di condominio», qualsiasi controversia in cui una parte fosse un condominio, nella veste di attore o di convenuto, rispondendo così al chiaro intento deflattivo volto ad alleggerire le aule di giustizia da questa rilevante «fetta» di contenzioso. Ad ogni buon conto, l'interpretazione restrittiva sopra delineata – tenendo conto che, in sede di discussione parlamentare, è stato eliminato l'inciso «nonché le controversie in cui il condominio è parte» – ha ora trovato conforto normativo nel testo dell'art. 71-quater disp. att. c.c. il quale, al comma 1, precisa che, per «controversie in materia di condominio», ai sensi del summenzionato art. 5, comma 1, del d.lgs. n. 28/2010, si intendono soltanto quelle derivanti dalla violazione o dall'errata applicazione delle disposizioni del libro III, titolo VII, capo II, del codice civile e degli articoli da 61 a 72 delle relative disposizioni di attuazione. Per completezza, va sottolineato che non può essere compreso, tra le ipotesi di esclusione di cui all'art. 5, comma 3, del d.lgs. n. 28/2010, il «procedimento sommario di cognizione» di cui agli artt. 702-bis ss. c.p.c. – introdotto dalla l. n. 69/2009 e senz'altro applicabile, anzi talvolta auspicabile, per la linearità della trattazione e dell'istruzione, alle cause condominiali – che non ha affatto natura cautelare o urgente, e per iniziare il quale sussiste, quindi, in relazione alle materie rientranti nella mediazione obbligatoria, la condizione di procedibilità; sono suscettibili di mediazione, pertanto, le controversie previste nell'elencazione tassativa affidata al citato art. 5 del suddetto decreto legislativo, sia che queste vengano, successivamente, portate all'attenzione del giudicante nelle forme del processo ordinario di cognizione, sia che vengano proposte, per scelta tecnica del difensore, nelle forme semplificate del rito sommario di cognizione. Competenza c.d. territorialeViene introdotta, in generale, la norma (tanto invocata) per cui le parti possono presentare istanza solo presso organismi di mediazione presenti nel luogo del giudice territorialmente competente per l'eventuale causa (art. 4, comma 1, del d.lgs. n. 28/2010, come modificato dalla l. n. 98/2013), superando così la facoltà di poter mediare senza limitazioni territoriali prevista originariamente dal decreto legislativo del 2008, e che tanto preoccupava, sul versante dei costi e delle spese di viaggio, le parti aderenti al procedimento di mediazione (Celeste 2014, 40). Si precisa, inoltre, che, in caso di più domande relative alla stessa controversia, la mediazione si svolge davanti all'organismo territorialmente competente presso il quale è stata presentata la prima domanda e, per determinare il tempo della domanda, si ha riguardo, in una sorta di litispendenza, alla data del deposito dell'istanza (per una prima applicazione, v. Trib. Verona 27 gennaio 2014). In realtà, per la particolare materia condominiale, l'art. 71-quater disp. att. c.c. – così come introdotto dalla l. 11 dicembre 2012, n. 220 (entrata in vigore il 18 giugno 2013) – aveva già stabilito, al comma 2, e in ciò anticipando le novità del c.d. decreto del fare, che la domanda di mediazione va presentata, a pena di inammissibilità, presso un organismo di mediazione ubicato «nella circoscrizione del tribunale nella quale il condominio è situato». In effetti, per quanto riguarda l'individuazione dell'organismo deputato alla gestione della procedura e, di riflesso, il mediatore, non si era voluto introdurre regole di competenza territoriale, perché l'eventuale fissazione avrebbe comportato una «eccessiva giurisdizionalizzazione del meccanismo» e la creazione di un complesso sistema per risolvere le relative questioni (v. la Relazione illustrativa al d.lgs. n. 28/2010). Ne conseguiva che l'unico criterio per individuare la competenza dell'organismo era quello della prevenzione delineato dall'art. 4, comma 1, operante nella sola ipotesi in cui più domande relative alla medesima controversia fossero presentate davanti ad organismi diversi; in buona sostanza, la presentazione della domanda ad un organismo aveva l'effetto di far prevalere la scelta preventivamente compiuta, rispetto ad una pluralità di altre domande di mediazione aliunde depositate (criterio della priorità di deposito). Tale opzione legislativa, nell'ottica della semplificazione procedimentale, indubbiamente eliminava nel nascere le difficoltà che sarebbero derivate dall'imposizione di vincoli per l'individuazione degli organismi, nel senso che – a prescindere dall'ipotesi che potrebbe non esistere alcun organismo in loco – non si saprebbe come risolvere le eventuali eccezioni ed a chi demandarne la decisione in ipotesi di eventuali conflitti. Restava il fatto, però, che questa scelta avrebbe potuto favorire – sia ante causam, sia a lite già pendente – comportamenti di forum mediatoris shopping, ossia l'attore aveva la facoltà di scegliere, con assoluta discrezionalità, l'organismo territorialmente a lui più comodo o/e più gradito, totalmente disancorato dal luogo dove fossero accaduti i fatti o dalla residenza del chiamato (con possibili pregiudizi anche in ordine alla terzietà ed all'imparzialità del mediatore), risultando, peraltro, incoerente imporre il ricorso alla mediazione quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale e sganciare, al contempo, il relativo procedimento da ogni collegamento territoriale con l'autorità giudiziaria procedente. A parziale compensazione di tale rischio, si poneva l'art. 8, comma 5, del d.lgs. n. 28/2010 che induceva a considerare sorretto da «giustificato motivo» il rifiuto dal partecipare al procedimento di mediazione, a fronte della presentazione dell'istanza presso un organismo privo di criteri di collegamento con la residenza o la sede delle parti, o comunque posto in luoghi del tutto estranei a quelli dei possibili fori competenti a conoscere il giudizio contenzioso, rendendo oltremodo difficoltosa e costosa l'interlocuzione dell'interessato con il suddetto organismo. Tutte queste incertezze operative risultato superate dalla nuova disposizione contenuta nel citato comma 2 dell'art. 71-quater disp. att. c.c., che fa espresso riferimento alla «circoscrizione del tribunale nella quale il condominio è situato», prescrivendo, in ipotesi di errata individuazione dell'organismo di mediazione competente, la «inammissibilità» della stessa domanda di mediazione; tale scelta, peraltro, si rivela in linea con le disposizioni processuali vigenti in materia di competenza territoriale, in quanto l'art. 23 c.p.c. prevede che, per le «cause tra condomini», sia competente «il giudice del luogo dove si trovano i beni comuni o la maggioranza di essi» (disposizione, quest'ultima, opportunamente integrata dall'art. 31 del testo riformatore, che aggiunge anche «le cause tra condomini e condominio»). Un problema di compatibilità tra la disciplina di cui al novellato art. 4 del d.lgs. n. 28/2010 e quella dell'art. 71-quater, comma 2, disp. att. c.c. potrebbe porsi, in ipotesi di fori alternativi, qualora siano competenti anche giudici diversi da quello del luogo in cui è ubicato il condominio. Si pensi all'azione di responsabilità nei confronti dell'amministratore o contro il condomino moroso che, secondo le regole del codice di rito, contemplano anche il foro di residenza del convenuto che non necessariamente è lo stesso in cui è posto lo stabile; in proposito, si è ritenuto (Thiery, 2010) che il citato art. 71, quale norma speciale sulla mediazione in materia di condominio, prevalga su quella successiva più generale dell'art. 4, sicché la mediazione va avviata esclusivamente nel luogo dove è situato il condominio, anche se competente a conoscere l'azione giudiziaria sia il giudice di un luogo diverso. Assistenza dell'avvocatoUn'altra importante novità rispetto al passato – introdotta solo in sede di conversione del c.d. decreto del fare – è che, per le summenzionate materie che rientrano nell'obbligatorietà, le parti dovranno necessariamente essere assistite da un avvocato durante le sessioni di mediazione (art. 5, comma 1-bis, d.lgs. 28/2010: «chi intende esercitare in giudizio un'azione relativa ad una controversia in materia di .... è tenuto, assistito da un avvocato, preliminarmente a esperire il procedimento di mediazione ai sensi del presente decreto ...»). Ovviamente, l'avvocato deve informare il proprio assistito circa la necessità di esperire il procedimento di mediazione e di assisterlo nel corso del medesimo – assistenza, prima, solo facoltativa – qualora previsto come condizione di procedibilità; al riguardo, il riformato art. 4, comma 3, del d.lgs. n. 28/2010 puntualizza che: a) l'informazione deve essere fornita chiaramente e per iscritto, b) in caso di violazione degli obblighi di informazione, il contratto tra l'avvocato e l'assistito è annullabile, c) il documento che contiene l'informazione è sottoscritto dall'assistito e deve essere allegato all'atto introduttivo dell'eventuale giudizio, e d) il giudice che verifica la mancata allegazione del documento, se non provvede ai sensi dell'art. 5, comma 1-bis, informa la parte della facoltà di chiedere la mediazione. Dunque, in questa nuova ottica, va inquadrato il maggior coinvolgimento dell'avvocato, il quale deve assistere alla procedura di mediazione fin dal primo incontro e sino alla conclusione del procedimento, essendo, altresì, richiesto il suo apporto per conferire efficacia esecutiva all'accordo – senza dover richiedere, come in passato, l'omologa del presidente del Tribunale – previa attestazione e certificazione della conformità dello stesso accordo «alle norme imperative e all'ordine pubblico». La professionalità dell'avvocato, d'ora in poi, non potrà prescindere dalla conoscenza delle tecniche di negoziazione e di gestione dei conflitti, perché rientra nella sua quotidiana attività di legale quella di assistere il cliente nel procedimento di mediazione. Incidentalmente, viene riconosciuto «di diritto» il titolo di mediatore agli avvocati (art. 16, comma 4-bis, del d.lgs. n. 28/2010), i quali, pertanto, non avranno necessità di frequentare lo specifico corso e di superare il relativo test di valutazione, salvo prescrivere che gli avvocati iscritti ad organismi di mediazione dovranno comunque essere adeguatamente formati in materia di mediazione e mantenere la propria preparazione con percorsi di aggiornamento teorico-pratici a ciò finalizzati, «nel rispetto di quanto previsto dall'articolo 55-bis del codice deontologico forense». Autorizzazione all'amministratore per le trattativeI commi 3 e 4 del novello art. 71-quater disp. att. c.c. prevedono, rispettivamente, che, al procedimento di mediazione, sia legittimato a partecipare l'amministratore, previa deliberazione assembleare da assumere con la maggioranza di cui all'art. 1136, comma 2, c.c., precisando che, se i termini di comparizione davanti al mediatore non consentono di assumere tale deliberazione, il mediatore deve disporre, su istanza del condominio, idonea proroga della prima comparizione. Dunque, si stabilisce che, al procedimento di mediazione, è legittimato a partecipare l'amministratore, purché sia autorizzato sul punto dall'assemblea dei condomini, con una statuizione che raggiunga il quorum qualificato di un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti ed almeno la metà del valore dell'edificio. Tale concetto è stato, di recente, ribadito dai giudici di Piazza Cavour (Cass. II, n. 10846/2020), ai sensi del comma 3 dell'art. 71-quater disp. att. c.c., l'amministratore di condominio è legittimato a partecipare alla procedura di mediazione obbligatoria solo previa delibera assembleare di autorizzazione, non rientrando tra le sue attribuzioni, in assenza di apposito mandato, il potere di disporre dei diritti sostanziali rimessi alla mediazione; ne consegue che la condizione di procedibilità delle “controversie in materia di condominio” non può dirsi realizzata qualora l'amministratore partecipi all'incontro davanti al mediatore sprovvisto della previa delibera assembleare, da assumersi con la maggioranza di cui all'art. 1136, comma 2, c.c., non essendo in tal caso possibile iniziare la procedura di mediazione e procedere al relativo svolgimento, come suppone il comma 1 dell'art. 8 del d.lgs. n. 28/2010 (nella specie, si è aggiunto che non rientrasse tra le attribuzioni dell'amministratore il potere di pattuire con i condomini morosi dilazioni di pagamento o accordi transattivi, spettando all'assemblea il potere di approvare una transazione riguardante spese di interesse comune, ovvero di delegare l'amministratore a transigere, fissando gli eventuali limiti dell'attività dispositiva negoziale affidatagli). La Riforma del 2013 si preoccupa anche del fatto che, a rigore, a norma dell'art. 8, comma 1, d.lgs. n. 28/2010, il mediatore, nominato dall'organismo, fissa il primo incontro tra le parti non oltre trenta (prima erano quindici) giorni dal deposito della domanda, prevedendo, al comma 4 del citato art. 71-quater, che, se i termini di comparizione davanti al mediatore non consentono di assumere la deliberazione di cui sopra, il mediatore dispone, su istanza del condominio, idonea proroga della prima comparizione; in pratica, specie laddove il condominio riveste il ruolo di convenuto, il procedimento di mediazione deve tener adeguatamente conto dei tempi tecnici affinché il massimo organo gestorio manifesti la sua volontà autorizzatoria (Ciaccia, 2012). A ben vedere, l'amministratore riveste tradizionalmente la funzione di rappresentante volontario ex mandato dei singoli condomini, e non del condominio, stante l'assenza di autonoma soggettività di quest'ultimo: in quest'ottica, la partecipazione dell'amministratore al procedimento di mediazione interessa le problematiche inerenti all'individuazione della sua legittimazione processuale, attiva o passiva, cioè della capacità che gli può essere riconosciuta di partecipare ad un giudizio, in veste di attore o di convenuto. Una volta inquadrato il procedimento di mediazione come strettamente collegato ad una controversia ed attinente ad una fase della contesa che, seppur preliminare, ben può sfociare in un contenzioso processuale, il ruolo che l'amministratore potrebbe assumere in tale sede dipende necessariamente dalle facoltà che al medesimo sono attribuite in ordine alla possibilità di proporre un'azione giudiziale o di essere chiamato in giudizio, in rappresentanza e nell'interesse del condominio. Se il fenomeno della partecipazione del condominio ad un procedimento di mediazione viene inquadrato in questa prospettiva, dovrebbero applicarsi i principi generali previsti per l'istituto della legittimazione processuale dell'amministratore, conseguendone che, in base al disposto dell'art. 1131, comma 1, c.c., l'amministratore potrebbe avviare un procedimento di mediazione o esservi chiamato a partecipare, direttamente ed autonomamente, solo nei limiti delle sue attribuzioni sostanziali, come delineate nel precedente art. 1130 (peraltro, arricchito dalla l. n. 220/2012), mentre solo qualora l'oggetto della mediazione esorbiti da tali attribuzioni, dovrebbe ottenere una corrispondente autorizzazione da parte dell'assemblea ex art. 1136, comma 4, c.c. (Avanzini, 13). Invece, la Riforma prescrive, da un lato, che l'amministratore, ai fini della partecipazione al suddetto procedimento debba munirsi dell'autorizzazione assembleare, a prescindere che il condominio da lui rappresentato assuma le vesti di attore o quelle di convenuto, e, dall'altro, che tale nulla-osta ottenga il consenso di almeno 500 millesimi, indipendentemente dalla tipologia di controversia da conciliare. Tale opzione legislativa, ossia volta a richiedere, pur sempre, l'autorizzazione dell'assemblea per il solo «partecipare» al procedimento di mediazione, potrebbe essere influenzata dall'esigenza, di natura economica, del condominio di risparmiare spese, atteso che pure la mera adesione, in veste di convenuto, al suddetto procedimento comporta comunque un costo, che i condomini vorrebbero evitare, vietando all'amministratore anche solo di sedersi al tavolo delle trattative, pur consapevoli che, resistendo poi alla lite, potrebbero subire le conseguenze processuali della loro condotta omissiva perpetrata «senza giustificato motivo», argomentando ex art. 8, comma 4-bis, d.lgs. n. 28/2010, che riconnette a tale inerzia la possibilità per il giudice di desumere «argomenti di prova» ai sensi dell'art. 116 c.p.c., nonché di condannare la parte inerte al versamento di una somma corrispondente al contributo unificato dovuto per il giudizio. Ratifica da parte dei condominiUna siffatta interpretazione appare, però, eccessivamente rigida riguardo alle ben più flessibili caratteristiche della mediazione e, soprattutto, risulta inadeguata rispetto ad una ponderata considerazione, da una parte, della natura del procedimento conciliativo, e, dall'altra parte, dell'innegabile necessità che l'eventuale accordo sia (comunque e, quanto meno, successivamente) approvato e ratificato dai condomini, a mezzo di una corrispondente deliberazione assembleare. Per quanto concerne il primo aspetto, la partecipazione dell'amministratore (sia in veste di proponente, sia di chiamato) ad un procedimento di mediazione configura, dal punto di vista sostanziale, la mera effettuazione di trattative, prive di qualsiasi effetto dispositivo; comportamento che, in quanto tale, può certamente dirsi rientrare nelle prerogative autonome dell'amministratore stesso, a prescindere da quale sia la materia ed il contenuto del contendere (o, meglio, del mediare). Infatti, l'amministratore, nel partecipare a tale procedimento, pone in essere un'attività che non è di gestione, né, tanto meno, decisionale, ma, al massimo, prodromica e preparatoria ad un'eventuale decisione assembleare (dal punto di vista giuridico, né più, né meno, per esempio, delle trattative instaurate con le varie ditte in occasione dell'effettuazione delle opere di manutenzione straordinaria dell'edificio). In tale prospettiva, sembra più corrispondente alla sostanza del fenomeno affermare che l'amministratore possa liberamente partecipare al procedimento di mediazione, in entrambe le vesti di attore o convenuto, e qualunque ne sia l'oggetto, considerando che tale partecipazione, per lo meno fino all'eventuale accordo, non impegna, né pregiudica, i diritti e le facoltà del condominio e dei singoli condomini; ad ogni buon conto, si suggerisce (Tortorici, 16) di utilizzare il nuovo strumento di cui all'art. 66, comma 5, disp. att. c.c., ossia la facoltà per l'amministratore di fissare preventivamente più riunioni consecutive, sia per farsi autorizzare a presenziare al primo incontro di mediazione, sia per riferire ai condomini l'andamento della procedura, sia per ottenere il placet a sottoscrivere la proposta di conciliazione. Sotto il secondo aspetto, si consideri che, in ogni caso, qualsiasi eventuale accordo di conciliazione non potrà che passare sotto il necessario vaglio dell'assemblea, la cui deliberazione è imprescindibile per il perfezionamento (in negativo o in positivo) del suddetto procedimento di mediazione; invero, in disparte le questioni che coinvolgono l'esatta configurazione della facoltà spettante all'amministratore di partecipare alla mediazione (autonomamente o previa autorizzazione assembleare), risulta evidente che l'eventuale accordo conciliativo, in quanto coinvolgente interessi condominiali (e, quindi, inerenti alla gestione del fabbricato), debba essere sottoposto all'approvazione dell'assemblea. La materia di tale accordo rientra senza dubbio nelle competenze dell'assemblea condominiale, che è l'unico organo deputato all'assunzione delle decisioni gestorie, anche se sussiste una parziale sovrapposizione di competenze con quelle dell'amministratore. Quindi, anche qualora l'oggetto dell'intesa raggiunta dalle parti in sede di procedimento di mediazione rientra nell'ordinaria amministrazione (artt. 1130, n. 3, e 1135, n. 4, c.c.), con la conseguenza, ammissibile in linea teorica, che detto accordo possa essere approvato direttamente (ed esclusivamente) dall'amministratore (senza necessità di una preventiva deliberazione autorizzativa da parte del consesso dei condomini), la circostanza che la decisione di gestione, proprio in forza dell'accordo conciliativo, divenga vincolante per il condominio porta necessariamente a ritenere imprescindibile il passaggio assembleare. In occasione delle ordinarie decisioni di gestione, infatti, qualsiasi provvedimento di amministrazione dei beni, dei servizi e degli impianti comuni (di natura ordinaria o straordinaria che sia) non viene considerato come assolutamente definitivo, né viene affidato alla competenza dell'amministratore o dell'assemblea come se fosse immodificabile: invero, i provvedimenti dell'amministratore possono essere sempre posti in discussione attraverso il ricorso all'assemblea previsto dall'art. 1133 c.c. e quelli dell'assemblea sono sempre suscettibili di libera modifica, integrazione o revoca; nel caso della conciliazione, invece, il contenuto dell'accordo diviene definitivo ed immodificabile per il condominio e, ovviamente, anche per la controparte (sia esso condomino o terzo), in quanto oggetto di un'espressa e vincolante pattuizione tra i contendenti. Tale aspetto depone inevitabilmente per la necessità dell'intervento dell'assemblea, finalizzato al perfezionamento della conciliazione, mediante l'espressione della volontà del condominio in termini di assenso all'intesa, ricordando, tra l'altro, che la facoltà di transigere, in quanto esercizio di un potere eccedente l'ordinaria amministrazione, non può ritenersi implicitamente conferita ad un mandatario, qual è appunto l'amministratore. Sotto altro aspetto, si è sempre negato che l'assemblea possa esercitare la sua competenza, ed assumere decisioni, a mezzo di «interposto» soggetto; in altri termini, l'assemblea, nell'esplicazione dei suoi poteri, non può delegare soggetti, o entità diverse da sé stessa, ledendo il principio del quorum, affidando le relative decisioni ad un gruppo di condomini, o ad un «parere» dei partecipanti espresso in separata sede, o ad una commissione ristretta di condomini, oppure al consiglio di condominio – contemplato ora nell'art. 1130-bis, comma 2, c.c. – avente funzioni meramente consultive e di controllo. Nello stesso ordine di principi, tale potere non può essere conferito all'amministratore, il quale è sì competente ad eseguire le deliberazioni assembleari, ma non può conformarle in base alla sua discrezionalità: ne consegue, da un lato, la necessità di un'approvazione assembleare per l'accordo conciliativo e, dall'altro, l'inammissibilità di una «delega» in bianco all'amministratore, che potrà certamente partecipare al procedimento di mediazione, ma non rilasciare in via autonoma una qualche approvazione di detto accordo vincolante per il condominio. Al fine di velocizzare la procedura, alcuni (Nucera, 729) propongono di far adottare una deliberazione che, nel dare incarico all'amministratore di partecipare al procedimento di mediazione, gli attribuisca contestualmente anche la facoltà di accettare una proposta avente determinati requisiti; tale soluzione, però, si rivelerebbe efficace solo laddove la suddetta proposta coincida esattamente con quanto deciso in precedenza – o approvando una proposta di mediazione da rivolgere alla controparte oppure puntualizzando in che termini un'eventuale proposta formulata da quest'ultima potrebbe essere accettata – poiché, diversamente, il ricorso al consesso assembleare sarebbe inevitabile. Resta inteso che la deliberazione dovrebbe fornire previamente all'amministratore quantomeno istruzioni precise sull'atteggiamento da mantenere in sede di mediazione, oltre che sui limiti entro i quali conciliare la controversia; la stessa deliberazione, inoltre, dovrebbe prevedere il conferimento dell'incarico al difensore, che deve necessariamente assistere il condominio, e ciò anche al fine di contenere il numero degli incontri ed il conseguente incremento dei costi (Colombo, 2013). Al riguardo, la c.d. riforma Cartabia, ossia il d.lgs. n. 149/2022 (con efficacia dal 30 giugno 2023) ha accolto, in parte, i suggerimenti della dottrina, la quale auspicava, per un verso, che l'amministratore non dovesse munirsi di un'apposita delega, da parte dell'assemblea condominiale, sia per la promozione della procedura di mediazione sia per la stessa partecipazione alla procedura, e, per altro verso, che il massimo organo gestorio condominiale fosse interpellato soltanto in un secondo momento, ossia nel caso in cui eventualmente emergevano l'accordo tra l'amministratore e la controparte, oppure la proposta del mediatore. In quest'ottica, da un lato, si è inserito, all'interno del d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28 (recante “Attuazione dell'articolo 60 della legge 18 giugno 2009, n. 69, in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali”), il novello art. 5-ter - rubricato, appunto, “legittimazione in mediazione dell'amministratore di condominio” - il cui testo è composto da un unico capoverso del seguente tenore: “L'amministratore del condominio è legittimato ad attivare un procedimento di mediazione, ad aderirvi e a parteciparvi. Il verbale contenente l'accordo di conciliazione o la proposta conciliativa del mediatore sono sottoposti all'approvazione dell'assemblea condominiale, la quale delibera entro il termine fissato nell'accordo o nella proposta con le maggioranze previste dall'articolo 1136 del codice civile”, aggiungendo che, “In caso di mancata approvazione entro tale termine, la conciliazione si intende non conclusa” (il d.lgs. n. 216/2024, c.d. correttivo Nordio, ha modificato la prima parte della nuova norma nel senso che l'accordo di conciliazione o la proposta conciliativa del mediatore devono essere non più “contenuti”, ma più correttamente “allegati” al verbale da sottoporre all'approvazione dell'assemblea condominiale). Dall'altro, il comma 2 dell'art. 2 del d.lgs. n. 149/2022 ha conseguentemente modificato l'art. 71-quater disp. att. c.c., per ragioni di incompatibilità con la nuova disciplina di cui al suddetto art. 5-ter del d.lgs. n. 28/2010: segnatamente, mantenendo il comma 1; abrogando il comma 2; cambiando il comma 3, nel senso che “Al procedimento è legittimato a partecipare l'amministratore, secondo quanto previsto dall'articolo 5-ter del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28”; ed eliminando i successivi commi 4, 5 e 6. Maggioranze per l'approvazione dell'accordoPrecisato che l'approvazione dell'accordo conciliativo deve necessariamente essere contenuta in una deliberazione dell'assemblea, a questo punto vanno verificati i requisiti che tale pronunciamento – eventualmente adottato dal consesso dei condomini – debba avere per poter essere validamente assunto. Sul punto, il comma 5 dell'art. 71-quater disp. att. c.c. prescrive che la proposta di mediazione sia approvata dall'assemblea con la maggioranza di cui all'art. 1136, comma 2, c.c., aggiungendo che, qualora non si raggiunga la predetta maggioranza, la proposta si deve intendere non accettata. Dunque, la proposta di mediazione va approvata dall'assemblea con un quorum qualificato che ottenga un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti ed almeno metà del valore dell'edificio – probabilmente il legislatore si è fatto suggestionare dalla stessa maggioranza contemplata dal comma 4 del medesimo art. 1136 c.c. concernente le liti attive e passive relative a materie che esorbitano dalle attribuzioni dell'amministratore – fermo il quorum costitutivo formato da tanti condomini che rappresentino, in prima convocazione, la maggioranza dei partecipanti al condominio ed i due terzi del valore dell'edificio e, in seconda convocazione, un terzo dei partecipanti al condominio ed un terzo del valore dell'edificio. Si aggiunge, poi, che, se non si raggiunge la predetta maggioranza, la proposta si deve intendere non accettata, aggiunta, questa, forse pleonastica, salvo voler ribadire che l'accordo conciliativo, pur validamente concluso tra l'amministratore ed il condomino o il terzo, con l'intercessione del mediatore – e, quindi, teoricamente, omologabile e suscettibile di costituire titolo esecutivo – è pur sempre inefficace nei confronti del condominio, non avendo raggiunto il placet assembleare. Tale accordo – sottoscritto pur sempre dall'amministratore, in nome e per conto del condominio – ha innegabili finalità transattive, quanto meno con riferimento all'effetto che consegue di porre «fine a una lite già incominciata», come espressamente indicato dall'art. 1965 c.c., a mente del quale «la transazione è il contratto col quale le parti, facendosi reciproche concessioni, pongono fine a una lite già incominciata o prevengono una lite che può sorgere tra loro». Purtroppo, la c.d. riforma Cartabia (d.lgs. n. 149/2022) continua a prevedere, sia pure genericamente, la necessità di approvazione dell'accordo conciliativo in base alle “ maggioranze previste dall'articolo 1136 del codice civile” - un terzo, due terzi, metà del valore dell'edificio - sia pure ora riferibili all'intero art. 1136 c.c. e non solo al comma 2. Oggetto della transazioneIn questa prospettiva, viene apertamente disconosciuta la distinzione per cui: a) nel caso in cui l'eventuale transazione abbia un oggetto che incide sui diritti che i condomini hanno sulle parti comuni (ad esempio, in una causa di usucapione di parte del cortile), la relativa stipula può essere validamente perfezionata solo in forza del consenso unanime di tutti i partecipanti al condominio medesimo; b) nel diverso caso in cui la transazione comporti, più limitatamente, la regolamentazione di pretese economiche (ad esempio, nell'ipotesi di ripartizione dei costi di gestione), la relativa approvazione da parte dell'assemblea può essere adottata a maggioranza, anche se – a ben vedere – lo «sconto» praticato dal condominio alla controparte riverbera i suoi effetti in ordine ad un maggiore quantum di contribuzione a carico degli altri partecipanti. Invero, dalla suddetta distinzione in base all'oggetto della transazione e, quindi, anche dell'accordo conciliativo, si dovrebbe differenziare la «quantità» del consenso necessario (unanimità o maggioranza) in riferimento alla sussistenza, o meno, dell'incidenza dell'accordo medesimo sui diritti spettanti ai singoli, laddove, invece, la Riforma, con una disposizione tranchant, contempla un unico quorum per l'approvazione di ogni possibile accordo; la disposizione così formulata riconosce una sorta di «corsia emergenziale» per i procedimenti di mediazione, consentendo che, dopo lo svolgimento di trattative nell'interesse del condominio, possa poi raggiungersi l'accordo anche attraverso una deliberazione maggioritaria, evitando che l'inerzia o l'indolenza di coloro che non partecipano all'assemblea possano pregiudicare il vantaggio di scongiurare liti giudiziarie che, protratte nel tempo, potrebbero rappresentare un costo maggiore per la compagine condominiale (Spoto, 1078). A ben considerare la specifica sostanza dell'accordo conciliativo, non può negarsi che quest'ultimo non sia limitato alla specifica materia del contendere ma, inevitabilmente, spiega anche effetti nei confronti della lite instauranda o instaurata tra le parti, nel senso di comprendere, alternativamente, o una rinuncia agli atti del giudizio ai sensi dell'art. 306 c.p.c., o la più ampia rinuncia all'azione, oppure al diritto sostanziale che si è fatto valere. In pratica, in quest'ultima ipotesi, va registrata la conseguente impossibilità di una successiva riproposizione della medesima azione, nel senso che nessun condomino potrà più agire autonomamente in merito alla questione che è stata oggetto dell'accordo di mediazione. Tale rinuncia, comunque venga esplicata, produce rilevanti effetti sui diritti esclusivi di cui ciascun condomino è titolare, considerando che, nel condominio, che è – secondo l'impostazione tradizionale – un ente di gestione privo di personalità giuridica distinta da quella dei condomini, la presenza dell'amministratore non priva i singoli della facoltà di agire a difesa dei diritti del condominio, sicché gli stessi devono essere considerati parti originarie, e non terzi, e possono intervenire nei giudizi in cui la difesa dei diritti sulle parti comuni dell'edificio sia stata già assunta dall'amministratore, come possono esperire mezzi di impugnazione per evitare gli effetti sfavorevoli della pronuncia resa nei confronti del condominio (Cass. II, n. 9033/2001, la quale ha ritenuto legittima la transazione in sede giudiziale purché intervenuta fra tutti i condomini dell'edificio). In quest'ordine di concetti, la «chiusura» della lite mediante un accordo conciliativo impedisce al singolo condomino sia di intervenire nel giudizio in corso – in argomento, v. Cass. II, n. 2158/1998 – sia eventualmente di impugnare l'eventuale provvedimento giudiziale negativo, e quant'altro al medesimo spettante in virtù della legittimazione processuale «concorrente», pacificamente attribuitagli ex lege – v., da ultimo, Cass. S.U., n. 25454/2013 – per cui, a prescindere dal contenuto dell'accordo conciliativo, la rinuncia all'azione, inevitabilmente presente in tale accordo, dovrebbe comportare che la relativa approvazione sia adottata all'unanimità dei partecipanti (anche se è difficilmente raggiungibile per l'usuale scarsa presenza in assemblea o l'aprioristica contrapposizione di alcuni). Infine, all'ultimo comma dell'art. 71-quater disp. att. c.c., si dispone che il mediatore debba fissare il termine per la proposta di conciliazione di cui all'art. 11 del d.lgs. n. 28/2010, tenendo conto della necessità per l'amministratore di munirsi della deliberazione assembleare. Si tratta dell'ipotesi in cui le parti non giungono ad una conciliazione, sicché, fermo restando l'obbligo di redazione del verbale (negativo), il mediatore, in questo caso, ha facoltà di formulare una proposta di conciliazione, oppure ne ha l'obbligo qualora le parti gliene facciano concorde richiesta, in qualunque momento del procedimento (art. 11, comma 1, del d.lgs. n. 28/2010). A differenza dell'accordo di conciliazione, il contenuto della proposta è di esclusiva provenienza del mediatore, il quale, però, è tenuto ad informare le parti medesime «delle possibili conseguenze di cui all'art. 13» del d.lgs. n. 28/2010, vale a dire degli eventuali effetti in merito alle «spese processuali»; tale proposta deve essere comunicata per iscritto alle parti, le quali devono esprimere, entro sette giorni e sempre per iscritto, l'eventuale accettazione o il rifiuto, con la precisazione che la mancata risposta alla presentazione della proposta è considerata equivalente ad un rifiuto, ed è appunto tenendo conto della ristrettezza di tale termine che il nuovo art. 71-quater disp. att. c.c. prevede che si dia il tempo all'amministratore di convocare l'assemblea ed a quest'ultima di decidere in tal senso (Gussoni, 636). Poteri dispositivi dell'assembleaRiprendendo quanto sopra, va segnalato che, con una recente sentenza, i giudici di legittimità hanno perimetrato il potere dispositivo dell'assemblea dei condomini (Cass. II, n. 821/2014: nella specie, si è ritenuto che l'assemblea potesse ben deliberare una transazione, trattandosi del pagamento di un debito condominiale). Riguardo alla transazione, ci si è chiesti se la stessa richieda l'unanimità dei consensi oppure possa ritenersi sufficiente l'approvazione a mera maggioranza. Il discrimen è stato correttamente individuato nell'oggetto della medesima transazione, ma tale soluzione – v. supra – si rivela in aperta controtendenza rispetto a quanto sopra delineato in materia di procedimento di mediazione, laddove, in forza del comma 5 del nuovo art. 71-quater disp. att. c.c., per l'accordo transattivo, a prescindere dal contenuto, potrebbero bastare i quorum di cui all'art. 1136, comma 2, c.c., ossia il voto favorevole della metà del valore dell'edificio, e ciò anche qualora si controverta di diritti dei condomini sulle parti comuni dell'edificio. D'altronde, gli stessi ermellini avevano già in precedenza negato tale potere di transigere dell'assemblea condominiale – che decide con il criterio delle maggioranze – e, quindi, di autorizzare l'amministratore a concludere transazioni, ma nel caso in cui esse avessero ad oggetto diritti comuni. Invero, si era autorevolmente affermato che, ai sensi dell'art. 1108, comma 3, c.c. – applicabile al condominio in virtù del rinvio operato dall'art. 1139 c.c. – è richiesto il consenso di tutti i comunisti (e, quindi, della totalità dei condomini) per gli atti di alienazione del fondo comune, o di costituzione su di esso di diritti reali, oppure per le locazioni ultranovennali, con la conseguenza che tale consenso è necessario anche per la transazione che abbia ad oggetto i beni comuni, potendo essa annoverarsi, in forza dei suoi elementi costitutivi (e, in particolare, delle reciproche concessioni), fra i negozi a carattere dispositivo. In proposito, appare opportuno segnalare che l'art. 1120, comma 2, n. 2), c.c. – come modificato dalla l. n. 220/2012, di riforma della normativa condominiale – ha previsto che, con la mera maggioranza di metà del valore dell'edificio, si possano costituire, a titolo oneroso ed in favore di terzi, un diritto reale o personale di godimento sul lastrico solare o su ogni altra superficie comune, per la realizzazione di impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili, sembrando così operare una breccia al disposto del summenzionato art. 1108, comma 3, c.c., che tuttora impone il consenso di tutti i partecipanti per cedere ad un soggetto estraneo al condominio l'uso della cosa comune, qui visto sotto l'aspetto della costituzione di un diritto superficiario o di una locazione ultranovennale (nel regime precedente, v. Trib. Napoli 19 novembre 1994, ad avviso del quale la deliberazione, con cui si decideva la transazione di una vertenza mediante concessione di un'area comune in locazione ultranovennale, dovesse essere approvata, a pena di nullità, all'unanimità dei partecipanti). Comunque, non rientrava nei poteri dell'assemblea condominiale autorizzare l'amministratore del condominio a concludere transazioni che avevano ad oggetto diritti comuni (Cass. II, n. 4258/2006, che si era occupata di un accordo transattivo, mediante il quale si sottraeva all'uso comune una parte condominiale, al fine di costituire su di essa un diritto di uso esclusivo di un solo condomino). Nel caso sottoposto di recente al Supremo Collegio, quindi, oggetto della transazione risultava un mero diritto obbligatorio – in particolare, si trattava soltanto di spese di manutenzione di cui all'art. 1123 c.c. – e non certo un diritto reale dei partecipanti al condominio, ossia uti domini e/o uti condomini (va, tuttavia, rammentato che, in precedenza, riguardo ad una transazione tesa ad esonerare parzialmente un condomino dalla ripartizione delle spese di riscaldamento, Cass. II, n. 7094/2006 aveva dichiarato nulla la transazione stipulata dalla sola maggioranza dei condomini, essendosi concluso un accordo dispositivo dei diritti dei singoli condomini e, pertanto, adottabile solo con l'unanimità). D'altronde, poiché è riconosciuto all'assemblea condominiale il potere di deliberare su tutte le spese di comune interesse e, dunque, anche di concludere i relativi contratti con i terzi, parimenti si deve riconoscere il correlativo potere di iniziare e transigere eventuali controversie che, da tali contratti, dovessero sorgere, impegnando, in questo caso, tutti i condomini, anche i dissenzienti. In conclusione, l'assemblea dei condomini, secondo i principi generali espressi dall'art. 1135 c.c., ha il potere di deliberare su tutto ciò che riguardi le spese di interesse comune e, pertanto, anche eventuali atti di transazione che a dette spese afferiscono. Si aggiunga, a quanto sopra rilevato, che lo stesso Supremo Collegio – sia pure in un caso abbastanza particolare – aveva ritenuto che l'assemblea, avendo il potere di autorizzare l'amministratore ad agire in giudizio per l'esercizio di diritti che, pur riferentesi alle parti comuni dell'edificio condominiale, non rientrassero nella rappresentanza giudiziale attiva attribuita all'amministratore dall'art. 1131 c.c., era legittimata a concordare con il costruttore una transazione avente ad oggetto i lavori da eseguire sulle parti comuni dell'edificio per eliminare i vizi ed i difetti in esse riscontrato, senza per questo invadere la sfera dei diritti riservati ai singoli condomini, i quali potevano liberamente far valere, nei confronti del costruttore, nonostante la transazione, nei limiti della loro quota, il diritto al risarcimento di eventuali danni derivanti dal medesimo inadempimento (Cass. II, n. 194/1980). In quell'occasione, si era, altresì, puntualizzato – e ciò è importante al fine di determinare le sfere di competenza dei massimi organi gestori del condominio – che la stessa assemblea, oltre ad avere il potere di delegare l'amministratore a concludere un determinato contratto, fissando i limiti precisi dell'attività negoziale da svolgere, aveva anche il potere di prestare direttamente il proprio consenso alla conclusione del medesimo contratto, non essendo previsto alcun divieto al riguardo nella disciplina del condominio, e non sussistendo alcun impedimento tecnico-giuridico per un'efficace manifestazione della volontà negoziale da parte dell'assemblea (v., in argomento, anche Cass. II, n. 4437/1985, la quale ha rilevato che il licenziamento del portiere di un edificio condominiale disposto dall'amministratore, ai sensi dell'art. 1130, n. 2, c.c., non esclude il potere dell'assemblea, la quale sia intervenuta sul medesimo oggetto su richiesta dell'amministratore per ratificarne l'operato, di revocare il licenziamento stesso). Statuizione con contenuto negozialeVa premesso che l'assemblea, per come è delineata dal sistema condominiale, costituisce il massimo organo gestorio, cui competono i più ampi poteri decisionali e deliberativi (ribaditi da Cass. S.U., n. 18331/2010, anche in àmbito processuale). In quest'ottica, la stessa assemblea può adottare qualunque provvedimento, anche non previsto dalla legge o dal regolamento di condominio, sicché si rivela riduttiva, e certamente non esaustiva, la previsione del comma 1 dell'art. 1135 c.c., secondo la quale l'assemblea provvede solo per quanto contemplato nel suddetto disposto «oltre a quanto è stabilito dagli articoli precedenti». Gli unici limiti a tale potere possono considerarsi «esterni», nel senso che l'assemblea non può adottare provvedimenti tesi a perseguire finalità extracondominiali, individuandosi, in tal caso, il vizio dell'eccesso di potere (mutuato dal diritto amministrativo), nonché «interni», nel senso che la medesima assemblea non può invadere la sfera di proprietà dei condomini, in ordine sia alle cose comuni sia a quelle esclusive, tranne che una siffatta invasione venga da loro specificamente accettata o nei singoli atti di acquisto oppure mediante approvazione del regolamento che li preveda (v., ex multis, Cass. II, n. 9157/1991, ad avviso della quale non è consentito alla maggioranza decidere una diversa collocazione delle tubazioni comuni dell'impianto di riscaldamento in un locale di proprietà esclusiva, con pregiudizio di tale proprietà, senza il consenso del proprietario del locale stesso). Va, altresì, premesso che la deliberazione dell'assemblea è destinata ad esprimere la volontà dei partecipanti, con il metodo collegiale ed il principio maggioritario, ed è obbligatoria anche per i condomini dissenzienti, assenti o assenti, che potranno semmai impugnarla, ai sensi del novellato art. 1137 c.c., qualora la stessa si riveli contraria alla legge o al regolamento di condominio. La stessa deliberazione non può costituire, quindi, una manifestazione di autonomia negoziale, nemmeno allorché sia adottata all'unanimità dei partecipanti al condominio, o meglio, se i condomini sono tutti presenti in assemblea, potranno tranquillamente concludere un negozio, volto a costituire, modificare o estinguere un rapporto giuridico, ma il relativo verbale dovrà essere sottoscritto da tutti condomini-contraenti. A questo punto, tali principi vanno applicati alla transazione, che risulta disciplinata nel codice civile – per quel che interessa in questa sede – dall'art. 1966 c.c., secondo cui «per transigere le parti devono avere la capacità di disporre dei diritti che formano oggetto della lite», precisando che «la transazione è nulla se tali diritti, per loro natura o per espressa disposizione di legge, sono sottratti alla disponibilità delle parti», nonché dall'art. 1967 c.c., che prescrive, per la medesima transazione, la prova «per iscritto». Alla luce, dunque, di tale capacità a transigere e di tale valore probatorio dell'accordo transattivo, «calando» tali dettami normativi nella realtà condominiale, ne consegue che vanno adeguatamente considerati, da un lato, i limiti attributivi degli organi gestori e, dall'altro, le modalità di documentazione della volontà negoziale dei partecipanti al condominio (Natali, 603; Scarpa 2006, 34). Stando così le cose, è corretta l'affermazione secondo la quale l'assemblea non può mai concludere con un terzo una transazione invasiva della sfera dei diritti riservati ai singoli condomini, non avendo appunto la disponibilità giuridica della sottostante situazione proprietaria o patrimoniale; in altri termini, la transazione che concerna direttamente l'esistenza, l'estensione e la consistenza dei diritti dei condomini sulle parti comuni e, pertanto, importi correlativamente un sacrificio patrimoniale di uno di essi, richiede il consenso unanime di tutti i partecipanti (nessuno escluso). A fortiori, non rientra tra le attribuzioni dell'amministratore, quale organo di rappresentanza dell'ente di gestione deputato all'ordinaria amministrazione dei beni comuni, il potere di disporre senza apposita autorizzazione assembleare, tramite transazione o mera ricognizione di debito, di una lite che si riflette sulla sfera giuridico-patrimoniale dei singoli condomini (Trib. Nocera Inferiore, 10 dicembre 1999). L'eventuale consenso unanime non dovrà necessariamente manifestarsi all'esterno per il tramite di una deliberazione assembleare, ma se così fosse – ad avviso di Cass. II, n. 2297/1996: nella specie, si era confermata la sentenza di merito che aveva ravvisato proprio nel verbale, sottoscritto da tutti i condomini, una transazione tra un condomino ed il condominio – iI verbale dell'assemblea può essere impiegato per consacrare particolari accordi fra il condominio ed uno dei condomini, purché il documento sia sottoscritto da tutti i contraenti; in tal modo, esso acquista effetto probante e la funzione propria della scrittura privata, fa fede della manifestazione di volontà contrattuale di tutti gli intervenuti, e la sottoscrizione vale a conferire alla convenzione la forma scritta che sia richiesta ad substantiam o ad probationem. I summenzionati limiti del potere dispositivo dell'assemblea, e correlativamente del potere autorizzatorio di quest'ultima nei confronti dell'amministratore, rimangono intatti anche qualora i sottesi rapporti giuridici trovino un eventuale «sfogo» giudiziale, rapportandosi in questo caso alla possibilità negoziale di transigere la relativa lite. Possibili esitiLa singola mediazione doveva avere una durata non superiore a tre mesi – in luogo dei quattro contemplati ante l. n. 98/2013 – decorrenti dal deposito della domanda di mediazione o dalla scadenza di quello concesso dal magistrato per il deposito della stessa (art. 6, comma 2, d.lgs. n. 28/2010), nel caso in cui tale incombente non sia stato osservato o sia lo stesso giudice a sollecitare le parti in tal senso, restando inteso che tale termine massimo non è soggetto alla c.d. sospensione feriale in quanto di natura non processuale; in proposito, il d.lgs. n. 216/2024 (c.d. correttivo Nordio, in vigore dal 25 gennaio 2025) ha raddoppiato tale durata per cui, nella mediazione promossa dalle parti, il termine è, di regola, di sei mesi e può essere prorogato, mediante accordo delle parti, per periodi successivi non superiori a tre mesi, mentre, in quella disposta dal giudice, il termine di sei mesi può essere prorogato, ma per una sola volta, di ulteriori tre mesi. Il procedimento di mediazione si deve aprire con un incontro preliminare tra le parti e, in questa sede, il mediatore è tenuto ad informare i contendenti della funzione e delle modalità di svolgimento della procedura e per verificare l'effettiva possibilità di un accordo; sempre nello stesso incontro, il mediatore invita, poi, le medesime parti, ed i loro avvocati, ad esprimersi «sulla possibilità di iniziare la procedura di mediazione e, nel caso positivo, procede con lo svolgimento» (art. 8, comma 1, d.lgs. n. 28/2010, il quale ribadisce che, nelle controversie, come quelle condominiali, che richiedono specifiche competenze tecniche, l'organismo può nominare «uno o più mediatori ausiliari», mentre il comma 4 contempla ancora la possibilità per il mediatore di avvalersi di «esperti iscritti negli albi dei consulenti presso i tribunali»). In altri termini, attualmente, si prevede un primo incontro di «programmazione», ove le parti siedono al tavolo e prendono la decisione se procedere o meno e, in tal caso, non vi sono costi aggiuntivi, né sono applicabili le sanzioni, processuali e pecuniarie, previste per la mancata adesione «senza giustificato motivo»: ciò, da un lato, onera le parti a presenziare quantomeno al primo incontro (altrimenti, se non si presentano da sùbito, incorrono nelle conseguenze sanzionatorie), e, dall'altra, le assolve dall'indennità di mediazione qualora non venisse dato corso alla trattazione della questione controversa (in quanto tale partecipazione all'incontro di programmazione, comunque, soddisfa la condizione di procedibilità). Dunque, al primo incontro preliminare, che deve avvenire entro trenta giorni – prima, erano quindici – dal deposito della domanda, il mediatore dovrà verificare la possibilità di proseguire il tentativo di mediazione: all'esito, le parti possono formalizzare un mancato accordo e la conclusione del primo incontro senza accordo è ritenuta sufficiente per l'avveramento della condizione di procedibilità dell'azione, oppure proseguire nella mediazione che, a sua volta, potrà portare ad un accordo o ad un mancato accordo (e, quindi, dando sfogo all'azione giudiziaria). In materia condominiale, si è visto che gli incombenti di cui sopra devono fare i conti con il nuovo disposto dell'art. 71-quater disp. att. c.c., secondo il quale al procedimento di mediazione è legittimato a partecipare l'amministratore, previa deliberazione assembleare da assumere con il quorum di cui all'art. 1136, comma 2, c.c., e, se i termini di comparizione davanti al mediatore non consentono di assumere tale deliberazione, il mediatore dispone, su istanza del condominio, idonea proroga della prima comparizione (rispettivamente, commi 3 e 4 del citato art. 71-quater). Se è raggiunto un accordo amichevole tra le parti, il mediatore redige un processo verbale allegandovi il testo dell'accordo, mentre, qualora l'accordo non sia stato raggiunto, il mediatore «può» formulare una proposta di conciliazione; in ogni caso, il mediatore formula una proposta di conciliazione se richiesta da entrambe le parti informandole preventivamente delle possibili conseguenze in termini di spese processuali. Inoltre, sia nel caso di procedimento obbligatorio sia in quello facoltativo, l'accordo di conciliazione sottoscritto anche dagli avvocati di tutte le parti, avrà efficacia di titolo esecutivo – per l'espropriazione forzata, l'esecuzione per consegna e rilascio, l'esecuzione degli obblighi di fare e non fare, nonché per l'iscrizione di ipoteca giudiziale – e ciò senza ulteriori passaggi poiché, con la sottoscrizione del testo, i legali ne certificano «la conformità alle norme imperative ed all'ordine pubblico»; in tutti gli altri casi, invece, l'efficacia di titolo esecutivo dell'accordo potrà essere ottenuto, su istanza di parte, attraverso l'omologa del presidente del Tribunale competente, sempre previo «accertamento della regolarità formale e del rispetto delle norme imperative e dell'ordine pubblico» (art. 12, comma 1, d.lgs. n. 28/2010). Costi e speseNell'ottica di agevolare l'applicazione dell'istituto, l'art. 17 d.lgs. n. 28/2010 – così come modificato dalla l. n. 98/2013 – ribadisce che «tutti gli atti, documenti e provvedimenti relativi al procedimento di mediazione sono esenti dall'imposta di bollo e da ogni spesa, tassa o diritto di qualsiasi specie e natura», e che «il verbale di accordo è esente dall'imposta di registro entro il limite di valore di 50.000 euro, altrimenti l'imposta è dovuta per la parte eccedente» (rispettivamente, commi 2 e 3); inoltre, alle parti che sia accordano in mediazione, è riconosciuto un credito di imposta pari all'indennità di mediazione con il limite di € 500,00 e, in caso di insuccesso, tale credito è ridotto alla metà. Con i decreti attuativi del Ministero della Giustizia sono, poi, determinati: a) l'ammontare minimo e massimo delle indennità spettanti agli organismi pubblici, il criterio di calcolo e le modalità di ripartizione tra le parti; b) i criteri per l'approvazione delle tabelle delle indennità proposte dagli organismi costituiti da enti privati; c) le maggiorazioni massime delle indennità dovute, non superiori al 25%, nell'ipotesi di successo della mediazione; d) le riduzioni minime delle indennità dovute nelle ipotesi in cui la mediazione è condizione di procedibilità ai sensi dell'art. 5, comma 1-bis, o è disposta dal giudice ai sensi dell'art. 5, comma 2 (in proposito, da ultimo, è intervenuta la giurisprudenza amministrativa, v. T.A.R. Lazio n. 1351/2015, la quale ha disposto l'annullamento degli artt. 16, commi 2 e 9, e 4, comma 3, lett. b, del d.m. 18 ottobre 2010, n. 180, in quanto si pongono in contrasto con la gratuità del primo incontro del procedimento di conciliazione, previsto dalla legge laddove le parti non dichiarino la loro disponibilità ad aderire al tentativo). Rimane fermo che, allorché la mediazione è contemplata come condizione di procedibilità della domanda (anche se demandata dal giudice), nessuna indennità di mediazione è comunque dovuta dalla parte che si trovi nelle condizioni per l'ammissione al patrocinio a spese dello Stato (art. 76, comma 1, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115); a tale fine, la parte è tenuta a depositare presso l'organismo apposita dichiarazione sostitutiva dell'atto di notorietà, la cui sottoscrizione può essere autenticata dal medesimo mediatore, nonché a produrre, a pena di inammissibilità, se l'organismo lo richiede, la documentazione necessaria a comprovare la veridicità di quanto dichiarato (art. 17, comma 5-bis). Molto criticabile, invece, appare l'inserimento, in sede di conversione del d.l. n. 69/2013, del comma 5-ter, secondo cui, qualora al primo incontro emerga l'impossibilità di un accordo, «nessun compenso è dovuto per l'organismo di mediazione», ciò peraltro non coerentemente con la previsione del legittimo compenso per l'avvocato che accompagni obbligatoriamente il cliente nella stessa mediazione (Pirrello, 680); deve, però, ragionevolmente ritenersi che la «gratuità» del primo incontro non riguardi i costi di mediazione, volti all'avvio del procedimento, che l'organismo sostiene nell'interesse delle parti (stimati in circa € 40,00). Invero, a prescindere dall'equivocità del termine «compenso» a favore del mediatore, di certo l'avvocato non dovrebbe prestare la sua assistenza gratuitamente, sicché i contendenti, non tanto convinti, che desiderano quantomeno risparmiare sulla parcella del legale, che li deve, pur tuttavia, obbligatoriamente assistere, sono invogliati a chiudere sùbito il tutto con un «mancato accordo», prevenendo così ogni possibile pretesa economica avanzata dall'organismo di mediazione. Appare, inoltre, strano che il passaggio in questa procedura extragiudiziale, sia pur limitato alle prime battute, non comporti una qualche ricompensa per i soggetti coinvolti, venendo in tal modo ad inquadrare gli organismi di mediazione nelle associazioni di «volontariato», senza sussidi da parte dello Stato, il quale pur sempre confida nella loro organizzazione – con tanto di investimenti circa strutture, locali, formazione, dipendenti, collaboratori, ecc. – per l'effettivo deflazionamento del contenzioso civile. Dalla mancata partecipazione di una parte, «senza giustificato motivo», al procedimento di mediazione, il giudice può desumere argomenti di prova nel successivo giudizio ai sensi dell'art. 116, comma 2, c.p.c., e parimenti può condannarla al versamento all'entrata del bilancio dello Stato di una somma di importo corrispondente al contributo unificato dovuto per il giudizio. In forza del novellato art. 13, comma 1, del d.lgs. n. 28/2010, quando il provvedimento che definisce il giudizio corrisponde interamente al contenuto della proposta del mediatore, il giudice esclude la ripetizione delle spese sostenute dalla parte vincitrice che ha rifiutato la proposta, riferibili al periodo successivo alla formulazione della stessa, e la condanna al rimborso delle spese sostenute dalla parte soccombente relative allo stesso periodo, nonché al versamento all'entrata del bilancio dello Stato di un'ulteriore somma di importo corrispondente al contributo unificato dovuto (restando ferma l'applicabilità degli artt. 92 e 96 c.p.c, e specificando che tali disposizioni si applicano, altresì, alle spese per l'indennità corrisposta al mediatore e per il compenso dovuto all'esperto di cui all'art. 8, comma 4). Il successivo comma 2 aggiunge che, qualora il provvedimento che definisce il giudizio non corrisponde interamente al contenuto della proposta, il giudice, se ricorrono «gravi ed eccezionali ragioni», può nondimeno escludere la ripetizione delle spese sostenute dalla parte vincitrice per l'indennità corrisposta al mediatore, spettando allo stesso magistrato il compito di indicare esplicitamente, nella motivazione, le ragioni della statuizione sulle spese (nel senso che chi non interviene alla mediazione «demandata» potrebbe addirittura essere punito per responsabilità aggravata, v. Trib. Roma 29 maggio 2014). Impugnazione della delibera condominialeNonostante la mediazione nel condominio avesse beneficiato del «rodaggio» di un anno, applicandosi invece in tutte le altre cause contemplate dal legislatore, l'istituto di nuovo conio, operativo dal 21 marzo 2012 per le «controversie in materia di condominio», ha registrato da sùbito le prime criticità applicative, che risentono, a monte, della difficoltà di definire compiutamente la natura giuridica dello stesso condominio e, a cascata, tutte le problematiche consequenziali (per un primo commento, Nasini, 400: Salciarini 2011, 84; Piazzese, 2010; Celeste 2012, 1099). Anche se la mediazione, come procedimento, si presenta uno strumento «neutro» per la definizione alternativa delle controversie civili e, quindi, utilizzabile per la generalità dei contrasti, a prescindere dallo specifico contenuto della materia del contendere tra i litiganti, inevitabilmente, la sua applicazione alla realtà condominiale sconta la peculiarità della materia de qua – considerando, peraltro, che uno dei soggetti in contesa, non essendo unisoggettivo, esprime la sua volontà attraverso un iter procedimentale ben definito – il che comporta, altresì, alcune incoerenze dal punto di vista più prettamente processuale, con cui si sono immediatamente confrontati gli operatori del settore. Sospensione dell'efficacia della delibera Una prima difficoltà applicativa concerne la causa statisticamente più diffusa, ossia l'impugnazione della deliberazione assembleare, poiché il comma 3 dell'art. 5 d.lgs. n. 28/2010, stabilisce che lo svolgimento della mediazione non preclude «in ogni caso» la concessione dei provvedimenti urgenti e cautelari. D'altronde, la tutela urgente e cautelare costituisce uno strumento di azione necessario per l'effettiva tutela del diritto controverso, costituzionalmente rilevante ai sensi degli artt. 24 e 111 Cost., quando si prospetti una situazione di pericolo nel ritardo che, in quanto tale, non tollera attese e necessita di una risposta di tutela a volte immediata (v., in precedenza, Corte Cost., n. 403/2007); in proposito, nella Relazione illustrativa al d.lgs. n. 28/2010, si legge: «la mediazione non può andare a discapito della parte che ha interesse ad ottenere un provvedimento urgente o cautelare, poiché imporre una sospensione in tali ipotesi significherebbe precludere l'accesso alla giurisdizione rispetto a situazioni che richiedono una decisione in tempi molto ristretti e sulle quali il mediatore è privo di qualsiasi potere di intervento». Orbene, può senz'altro condividersi che la sospensione della deliberazione impugnata prevista dall'art. 1137, comma 2, c.c. costituisca espressione del più esteso principio di tutela cautelare, di cui possiede la ratio peculiare, e cioè il fine di evitare che la durata del processo – qualunque ne sia la causa, fisiologica o patologica – vada a danno di chi ha ragione e pregiudichi la situazione giuridica soggettiva di cui è chiesta la tutela, assicurando così l'effettività della funzione giurisdizionale (v., tra le altre, Trib. Salerno 12 aprile 2011). E ciò, a fortiori, a seguito della l. n. 220/2010 che ha introdotto il comma 4 all'art. 1137 c.c., secondo cui, «per quanto non espressamente previsto, la sospensione è disciplinata dalle norme di cui al libro IV, titolo I, capo II, sezione I», ossia dalle disposizioni del procedimento cautelare uniforme. Invero, la sospensione mira a evitare che il diritto del condomino impugnante possa essere leso o altrimenti pregiudicato dall'esecuzione della deliberazione impugnata; l'inibitoria, poi, non è fine a se stessa, ma è preordinata all'adozione della sentenza finale di merito, di cui assicura, in via preventiva, anticipandone o conservandone gli effetti, la fruttuosità; la futura pronuncia di nullità o di annullamento, infine, è destinata a sostituirsi alla misura cautelare in questione, che ha carattere solo temporaneo. Il provvedimento ex art. 1137 c.c. ha, dunque, carattere strumentale e servente rispetto a quello di impugnazione della deliberazione; la conclusione di quest'ultimo giudizio segna la fine della situazione anticipatoria costituita in via cautelare: se la domanda è accolta e la deliberazione è dichiarata invalida, la sospensiva resta assorbita dalla pronuncia maggiore, mentre, invece, se viene rigettata l'impugnazione, in relazione alla quale il provvedimento cautelare era stato concesso, quest'ultimo sarà caducato (tale strumentalità necessaria viene ora confermata dalla suddetta applicabilità del procedimento cautelare uniforme, con esclusione solo dell'art. 669-octies, comma 6, c.p.c., che prevede i provvedimenti che non necessitano del successivo giudizio di merito). Orbene, l'istanza di sospensione viene, di regola, proposta contestualmente all'impugnazione, nel senso che l'inibitoria è richiesta con l'atto introduttivo della causa (unitamente nel corpo del ricorso o affiancata all'atto di citazione), perché si sostiene che l'impugnazione è «l'antecedente logico-giuridico» della sospensione (anche se il nuovo disposto del citato comma 4 dell'art. 1137 c.c. consente la possibilità di proporre l'inibitoria «prima dell'inizio della causa di merito», puntualizzando, però, che la stessa «non sospende, né interrompe il termine per la proposizione dell'impugnazione della deliberazione»). Normalmente all'udienza di prima comparizione ex art. 183 c.p.c. o in quella anticipata fissata solo per la relativa trattazione, il giudice deve pronunciarsi sull'inibitoria, in quanto appunto provvedimento «cautelare» precluso al mediatore, sicché si pone il problema di verificare la procedibilità della domanda, con tutte le conseguenze di cui all'art. 5, comma 1-bis, del d.lgs. n. 28/2010. In pratica, riesce difficilmente conciliabile il preventivo svolgimento della procedura di mediazione contemplata dal d.lgs. n. 28/2010 con l'esigenza, in capo al condomino impugnante, di vedersi urgentemente sospesa la deliberazione opposta. Stando così le cose, il condomino opponente dovrebbe rivolgersi direttamente al giudice, impugnando la deliberazione assembleare nei termini – sempre che trattasi di statuizione annullabile – affinché decida sulla sola inibitoria, ed il magistrato, sospesa o meno l'efficacia della statuizione impugnata, dovrebbe rimettere le parti alla mediazione per il merito dell'impugnazione, fissando la successiva udienza davanti a sé dopo la scadenza del termine di durata di tre mesi per lo svolgimento del relativo procedimento. Non si nasconde che il giudice adìto, statuendo sull'istanza di sospensione della deliberazione impugnata, configurandosi come una misura cautelare, è tenuto a verificare, nel caso concreto, i tradizionali requisiti del c.d. fumus boni iuris e del c.d. periculum in mora (tra le pronunce di merito, si segnalano: Trib. Napoli 19 novembre 2003, e Trib. Lecce 4 settembre 1991). Per quanto concerne soprattutto il primo, è innegabile che la delibazione della fondatezza dell'impugnazione costituisca un momento necessario della valutazione demandata al giudice, quanto meno sotto il profilo dell'opportunità della sospensione: l'accertamento del fumus attiene, infatti, alla possibilità di esistenza del diritto di cui viene chiesta la cautela, per cui la domanda non dovrebbe apparire prima facie infondata, sia pure nella sommarietà della delibazione, che discende dall'urgenza tipica di ogni misura cautelare, sicché si possa formulare una prognosi di esito favorevole della lite per l'impugnante. È intuibile che, pur nella sommarietà del giudizio, la valutazione del fumus involge tutte le questioni sollevate con l'atto introduttivo, conseguendone che l'attività del giudice, in sede di inibitoria, possa anche non essere molto diversa da quella espletata in sede di decisione finale, il che porta, in caso di annullabilità della deliberazione impugnata, a verificare incidentalmente se il condomino sia incappato in un'eventuale decadenza, la cui eccezione è sì rilevabile solo su istanza di parte (e non d'ufficio), ma renderebbe, in caso di valutazione negativa, l'inutilità di rimettere le parti alla procedura di mediazione qualora l'impugnativa sia palesemente tardiva perché proposta oltre il termine contemplato dall'art. 1137, comma 2, c.c. Non è esclusa, nemmeno, anche se rara, la proponibilità in via autonoma, cioè ante causam, dell'istanza di sospensiva ex art. 1137 c.c. – ora espressamente prevista dal nuovo art. 1137, comma 4, c.c. – per cui la questione della mediazione si pone successivamente. Invero, gli strettissimi termini di decadenza (trenta giorni), entro cui le impugnazioni alle deliberazioni delle assemblee condominiali devono essere proposte, inducono ad escludere che il provvedimento cautelare di sospensione dell'esecuzione possa essere richiesto prima dell'impugnazione della deliberazione assembleare, anche perché il condomino impugnante non vuole correre il rischio di far decorrere inutilmente, nelle more del procedimento cautelare, il suddetto breve termine di decadenza. È anche vero, però, che il termine di decadenza non è contemplato per le ipotesi di nullità (peraltro, le più gravi), e che non può escludersi che l'interesse a sospendere immediatamente la deliberazione impugnata sia configurabile, per esempio nelle ipotesi di eccezionale urgenza (si pensi al crollo dell'edificio). In questo caso, occorre fare attenzione a che, una volta avanzata in via autonoma l'istanza di sospensione, l'impugnazione della deliberazione va proposta entro il termine di decadenza (trenta giorni) decorrente dalla data della suddetta deliberazione o dalla comunicazione della stessa, e non entro quello (sessanta giorni) di cui all'art. 669-octies c.p.c. decorrente dal provvedimento di accoglimento (in tal senso, depone anche il citato comma 4, secondo cui «l'istanza per ottenere la sospensione proposta prima dell'inizio della causa di merito non sospende né interrompe il termine per la proposizione dell'impugnazione della deliberazione»). Impedimento della decadenza Un'altra criticità del procedimento di mediazione riguarda il rispetto del termine di decadenza di trenta giorni di cui all'art. 1137 c.c. – anche se, a ben vedere, il novellato comma 2 non fa più riferimento alla «decadenza», ma al rispetto del «termine perentorio» – contemplato per le sole statuizioni condominiali annullabili (che sono, peraltro, quelle statisticamente più frequenti). Invero, il comma 6 dell'art. 5 d.lgs. n. 28/2010 stabilisce che, «al momento della comunicazione alle altre parti», la domanda di mediazione produce sulla prescrizione gli effetti della domanda giudiziale, mentre, dalla stessa data, la domanda di mediazione «impedisce altresì la decadenza per una sola volta», precisando che, se il tentativo dovesse fallire, la domanda giudiziale va proposta entro il medesimo termine di decadenza, decorrente dal deposito del verbale di cui all'art. 11 presso la segreteria dell'organismo. Applicando queste disposizioni alle impugnazioni delle deliberazioni qualora si intenda iniziare la procedura di mediazione prima dell'instaurazione del giudizio, occorrerà fare bene attenzione alla data di comunicazione della relativa domanda alla controparte, al fine del rispetto del termine di decadenza ivi previsto ed alla data del deposito del verbale presso la segreteria, in caso di fallimento della conciliazione, al fine di proporre, poi, la domanda giudiziale. Orbene, posto che l'impedimento della decadenza deriva soltanto dalla comunicazione alla controparte della fissazione del primo incontro davanti al mediatore, il problema è che la fissazione non dipende dalla parte ma dall'organismo di mediazione, potendo succedere che tale fissazione avvenga dopo che sono decorsi i termini brevi di decadenza di trenta giorni per l'impugnazione delle deliberazioni di cui all'art. 1137 c.c.: invero, tale termine decorre inesorabilmente dalla deliberazione per il condomino dissenziente (o, al più, astenuto secondo il nuovo comma 2) e dalla comunicazione della stessa deliberazione per il condomino assente, ma entro lo stesso termine l'impugnante non dovrà limitarsi a dare corso alla procedura di mediazione, poiché la domanda di mediazione deve anche essere portata a conoscenza della controparte. Attese le conseguenze così pregnanti per la parte proponente la procedura di conciliazione, l'art. 8, comma 1, del d.lgs. n. 28/2010 prevede che la domanda di mediazione possa essere comunicata direttamente alla controparte «anche a cura della parte istante»: quindi, di regola, la domanda viene comunicata dall'organismo, fatta salva la possibilità per la parte istante di farsi carico direttamente della comunicazione per garantirsi l'interruzione del termine decadenziale di cui all'art. 1137 citato. Al riguardo, stante la natura ordinatoria del termine di trenta (prima quindici) giorni per la fissazione dell'incontro di mediazione e per la comunicazione alla controparte, gli organismi si potrebbero cautelare, attraverso opportune previsioni regolamentari, imponendo al proponente di segnalare, al momento del deposito della domanda, eventuali necessità di comunicazione urgente della stessa o, addirittura, in maniera più radicale, esonerando l'organismo (sempre e comunque) da qualsiasi responsabilità (e connesse pretese di risarcimento danni) per la tardività della comunicazione che abbia determinato eventuali decadenze. Nulla esclude che l'organismo possa, a livello regolamentare, esimersi del tutto dall'effettuare la comunicazione al condominio, futuro convenuto nel giudizio di impugnazione della deliberazione, lasciando tale onere al condomino proponente, ma tale scelta non rappresenta un buon servizio all'utenza, considerando che la trasmissione della domanda ad opera di un organismo (tanto più se autorevole) appare verosimilmente più efficace, ai fini dell'eventuale conciliazione, agli occhi del condominio che la riceverà. Peraltro, ove il condomino impugnante voglia – o debba, secondo il regolamento dell'organismo – provvedere direttamente alla comunicazione della domanda, dovrebbe comunque attendere, a rigore, la designazione del mediatore e la fissazione della data dell'incontro ad opera del medesimo organismo, potendo, comunque, subire un ritardo da un'eventuale inerzia momentanea del soggetto deputato a tali incombenti; in quest'ottica, sempre al fine di evitare conseguenze pregiudizievoli, potrebbe ipotizzarsi la possibilità di trasmettere, sùbito e separatamente, la domanda di mediazione alla controparte, ai fini interruttivi della decadenza, per poi comunicare, in un momento successivo, il nome del mediatore e la data del primo incontro, o attendere che a ciò provveda l'organismo di conciliazione. In proposito, una pronuncia di merito (Trib. Firenze 19 luglio 2016) ha affermato che l'effetto impeditivo della decadenza, sulla base dei principi generali espressi dalla Cassazione e dalla Corte costituzionale, non può che collegarsi, di regola, al compimento, da parte del soggetto onerato dell'attività necessaria ad avviare il procedimento di comunicazione alla controparte, il che in ragione di un equo e ragionevole bilanciamento degli interessi coinvolti, dovrebbe valere altresì laddove, una volta presentata la domanda di mediazione, la fissazione della data del primo incontro e le stessa comunicazione rimangono demandate all'organismo e perciò sottratte all'ingerenza dell'istante. Fatto sta che, nelle ipotesi di delibere annullabili, è ipotizzabile che la domanda di mediazione sia depositata prima del decorso del termine di decadenza, ma la designazione del mediatore e la fissazione del primo incontro da parte del responsabile dell'organismo intervenga dopo la scadenza del termine de quo. Qualcosa di molto simile succedeva nell'ottica di quell'orientamento giurisprudenziale – v. Cass. II, n. 1716/1975, ma analoghe considerazioni potrebbero farsi a seguito di Cass. S.U., n. 8491/2011 – secondo il quale il termine di decadenza di cui all'art. 1137 c.c. doveva considerarsi rispettato solo se, nel termine dei trenta giorni, interveniva la notificazione dell'impugnazione, e non soltanto il deposito del ricorso nella cancelleria del giudice adìto: invero, ricollegare l'instaurazione del rapporto processuale alla notificazione del medesimo ricorso, comportava l'ammissibilità o meno dell'impugnazione a prescindere dall'attività del condomino ricorrente, in quanto la stessa dipendeva dalla tempestiva emanazione del provvedimento giudiziale di fissazione dell'udienza di comparizione e di assegnazione del termine per la notificazione del ricorso e del relativo decreto al condominio, non tenendo in minimo conto dei tempi morti di giacenza del ricorso negli uffici giudiziari, idonei a restringere notevolmente, se non a vanificare, la possibilità di impugnazione, e facendo dipendere la tempestività dell'opposizione dalla solerzia del cancelliere o/e del magistrato adìto. Bisogna interrogarsi, a questo punto, se sia costituzionalmente legittima la norma (art. 5, comma 6, d.lgs. n. 28/2010), la quale prevede che l'interruzione dei termini di decadenza deriva dalla comunicazione della fissazione del primo incontro davanti al mediatore, perché risulta difficile pensare ad una decadenza dell'istante dal diritto di impugnare un atto quando ha depositato tempestivamente l'istanza di mediazione mentre il decorso del termine di decadenza è imputabile all'organismo di mediazione. Sul punto, possono richiamarsi i principi affermati in ordine alla mancata decadenza per effetto della consegna dell'atto all'ufficiale giudiziario o all'agente postale (restando quantomeno il conforto di sapere, con certezza, quando inizia nuovamente a decorrere il termine di decadenza); basti ricordare il costante orientamento dei giudici di legittimità, ad avviso dei quali, alla luce di una lettura costituzionalmente orientata (Corte cost., n. 477/2002) delle norme applicabili in materia di decadenza dal potere di impugnare il licenziamento, non è necessario che l'atto di impugnazione del licenziamento giunga a conoscenza del destinatario nel predetto termine o, in particolare, che esso pervenga all'indirizzo del datore di lavoro entro i sessanta giorni previsti dall'art. 6 l. n. 604/1966 per evitare la decadenza dalla facoltà di impugnare, in quanto, ai sensi dell'art. 410, comma 2, c.p.c. – così come modificato dall'art. 36 d.lgs. n. 80/1998 – il predetto termine (processuale con riflessi di natura sostanziale) si sospende a partire dal deposito dell'istanza di espletamento della procedura obbligatoria di conciliazione, contenente l'impugnativa scritta del licenziamento, presso la Commissione di conciliazione, essendo irrilevante, in quanto estraneo alla sfera di controllo del lavoratore, il momento in cui l'Ufficio provinciale del lavoro provveda a comunicare al datore di lavoro la convocazione per il tentativo di conciliazione (Cass. S.U., n. 8830/2010; Cass. lav., n. 14087/2006). In conclusione, la possibilità, riconosciuta dalla legge in via diretta anche all'istante, di comunicare la domanda di mediazione alla controparte «con ogni mezzo idoneo ad assicurarne la ricezione», dovrebbe scongiurare la prospettata incostituzionalità della norma rispetto ai paventati ritardi dell'organismo, il cui responsabile, prima di procedere alle comunicazioni del caso, «designa un mediatore e fissa il primo incontro tra le parti non oltre trenta giorni dal deposito della domanda». Incidentalmente, va osservato che quanto sopra vale sempre che si tratti di deliberazioni annullabili, perché, relativamente a quelle nulle, il relativo vizio potrà farsi valere giudizialmente senza limiti di tempo, anche se, ai fini dell'accertamento della decadenza dall'impugnazione, si potrebbe porre il problema di una delibazione del vizio eccepito, che non appare possibile in sede di procedura di mediazione. Invero, l'art. 8 del d.lgs. n. 28/2010 prevede soltanto che, all'atto della presentazione della domanda di mediazione, il responsabile dell'organismo designa un mediatore e fissa il primo incontro tra le parti per tentare la conciliazione; non sembra, però, che, in sede di mediazione, si possa vagliare preventivamente la fondatezza della domanda, sia per la natura stessa della mediazione (in cui la prospettazione giuridica delle questioni viene posticipata), sia per il ruolo dello stesso mediatore (il quale tenta soprattutto di comporre il dissidio tra le parti); in pratica, limitando l'unica verifica preliminare alla sussistenza, in capo ai contendenti, della disponibilità del diritto controverso, si rischierebbe di esperire una procedura di mediazione inutile – con dispendio di tempo e denaro – per arrivare, poi, a tentativo di conciliazione fallito, ad una pronuncia giudiziale di tardività dell'impugnazione (perché trattavasi di deliberazione non nulla, ma meramente annullabile). Per completezza, va segnalato che, con riferimento al c.d. periodo emergenziale dovuto al coronavirus, l'art. 83, comma 20, d.l. n. 18/2020 - convertito in l. n. 27/2020 - ha disposto che, per il periodo dal 9 marzo 2020 al 15 aprile 2020 (poi prorogato all'11 maggio 2020), “sono altresì sospesi i termini per lo svolgimento di qualunque attività nei procedimenti di mediazione ai sensi del d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28”; stando ad un'interpretazione letterale, tale sospensione si applicherebbe solamente ai procedimenti in corso, quando previsti obbligatori dalla norma di riferimento - come, in effetti, avviene per le azioni di cui all'art. 1137 c.c. - mentre se tale termine cade nel periodo di lockdown, per tentare di interrompere il termine di decadenza, bisognerebbe comunque presentare un'istanza di mediazione, visto che risulta possibile presentarla anche tramite il semplice invio di una pec o una mail ad un Organismo abilitato. Decorrenza di termini in caso di fallimento Per evitare che il tempo occorrente per l'espletamento del procedimento di mediazione possa risultare pregiudizievole per la parte istante, il d.lgs. n. 28/2010 ha solo previsto che la comunicazione della domanda di mediazione interrompe i termini di decadenza del diritto oggetto della medesima domanda, con la ragionevole precisazione – dovuta all'esigenza di evitare il rischio di uno spostamento sine die del suddetto termine attraverso la proposizione successiva di più domande di mediazione e, quindi, la sostanziale reiterazione della stessa – che il termine di decadenza può essere impedito in tal modo una volta sola e che inizia a decorrere ex novo, e per l'intero, solo laddove il tentativo fallisca. In senso contrario, va registrato che si è espressa una pronuncia di merito (Trib. Palermo 19 settembre 2015), secondo la quale la comunicazione, da parte del condomino impugnante, della domanda di mediazione al condominio impedisce sì la decadenza di trenta giorni contemplata dall'art. 1137, comma 2, c.c., ma, in caso di fallimento della relativa conciliazione, dal deposito del verbale negativo non decorre nuovamente per intero il medesimo termine; tale convincimento si basa sull'assunto per il quale, dalla data del deposito del verbale negativo di mediazione, «riprendeva a decorrere il termine dei trenta giorni previsto ex lege per l'impugnazione della delibera»: in buona sostanza, proponendo la mediazione, tale termine registrava una mera sospensione, per cui, chiusa la parentesi del procedimento di mediazione, non decorreva l'intero termine di trenta giorni ma quello residuo, ossia detratto quanto già consumato in precedenza. Tuttavia, non appare conforme alla ratio ed alla lettera dell'art. 5, comma 6, del d.lgs. n. 28/2010, opinare che, ai fini dei trenta giorni di cui all'art. 1137 c.c., la mediazione operi come una causa di «sospensione», nel senso che, alla cessazione del relativo procedimento, consacrata dal deposito del verbale negativo, il termine di decadenza, temporaneamente neutralizzato, «riprende a decorrere» dal punto di progressione che aveva raggiunto al momento della comunicazione della domanda di mediazione al condominio. La comunicazione di tale domanda di mediazione è stata intesa come evento idoneo ad impedire la decadenza da un diritto – segnatamente quello di impugnazione ai sensi dell'art. 1137 c.c. – non in quanto costituisca la manifestazione di una volontà sostanziale, ma poiché instaura un rapporto diretto a realizzare un accordo conciliativo: l'inizio della mediazione non vale a sottrarre definitivamente alla decadenza il diritto esercitato nell'ipotesi in cui il tentativo di conciliazione sortisca esito negativo, nel qual caso decorre un secondo, ed ultimo, ma identico termine decadenziale (ossia trenta giorni e non uno di meno). In altre parole, non sembra condivisibile conferire alla comunicazione dell'istanza di mediazione una sorta di effetto «impeditivo-sospensivo» del termine di decadenza, perdurante fino alla consacrazione della mancata conciliazione, alla stregua di quanto stabilito in tema di prescrizione dall'art. 2945, comma 2, c.c. – correlato al momento in cui passa in giudicato la sentenza che definisce il giudizio, il cui atto introduttivo ha prodotto l'effetto interruttivo – attesa, peraltro, l'operatività del disposto di cui all'art. 2964 c.c. che sancisce l'inapplicabilità ai termini di decadenza delle regole proprie della prescrizione (Scarpa, 2015). D'altronde, il massimo organo di nomofilachia (Cass. S.U., n. 17781/2013) – sia pure nei giudizi volti al riconoscimento del diritto all'equa riparazione per durata irragionevole del processo, che, quale diritto patrimoniale, può essere soggetto alla disciplina della mediazione, in aderenza alla comune ratio di deflazione del contenzioso giudiziario – hanno avuto modo di puntualizzare che la domanda di mediazione comunicata entro il termine semestrale di cui all'art. 4 l. n. 89/2001 impedisce, «per una sola volta», ai sensi dell'art. 5, comma 6, d.lgs. n. 28/2010, la decadenza dal diritto di agire per la medesima equa riparazione, potendo quest'ultimo essere ancora esercitato, ove il tentativo di conciliazione fallisca, «entro il medesimo termine di sei mesi», decorrente ex novo dal deposito del verbale negativo presso la segreteria dell'organismo di mediazione. La stessa giurisprudenza di merito, successivamente, ha preso le distanze dalla pronuncia panormita (Trib. Milano 2 dicembre 2016; Trib. Firenze 12 gennaio 2016), affermando che la norma de qua – laddove afferma che la domanda di mediazione produce sulla prescrizione gli effetti della domanda giudiziale ed impedisce la decadenza – farebbe intendere che l'istanza determini un effetto interruttivo e non sospensivo; al pari di quanto previsto dall'art. 1945 c.c., dovrebbe allora predicarsi che il termine di trenta giorni decorra nuovamente a far data dal deposito del verbale negativo e non riprenda computando anche quello maturato prima della domanda di mediazione. In tal senso, si pone il d.lgs. n. 216/2024 (c.d. correttivo Nordio), il quale, dopo il comma 4 dell'art. 11 del d.lgs. n. 28/2010, ha inserito il comma 4-bis, secondo cui, “quando la mediazione si conclude senza la conciliazione, la domanda giudiziale deve essere proposta entro il medesimotermine di decadenza di cui all'art. 8, comma 2, decorrente dal deposito del verbale conclusivo della mediazione presso la segreteria dell'organismo”, avallando, dunque, la tesi secondo cui l'avvio della mediazione determina un effetto di tipo interruttivo e non meramente sospensivo, conseguendone che il termine per impugnare la delibera, dopo il deposito del verbale negativo della mediazione, è, di nuovo e per intero, quello di 30 giorni previsto dall'art. 1137, comma 2, c.c. (resta fermo, al contempo, che il suddetto termine decorre dal deposito del verbale conclusivo del procedimento, sicchè è opportuno che l'organismo di mediazione sia particolarmente celere nella comunicazione di tale data alle parti). Riscossione dei contributi condominialiFase processuale L'art. 5 d.lgs. n. 28/2010, al comma 4 – rimasto inalterato anche a seguito delle modifiche introdotte dalla l. n. 98/2013 – stabilisce che la mediazione obbligatoria non va applicata «nei procedimenti per ingiunzione, inclusa l'opposizione, fino alla pronuncia sulle istanze di concessione e sospensione della provvisoria esecuzione», ex artt. 648 e 649 c.p.c., sempre ovviamente che una delle suddette istanze sia stata avanzata, rispettivamente, dall'opposto e dell'opponente (v., in termini, Trib. Prato 18 luglio 2011). Tale esclusione si rivela coerente, perché non avrebbe senso imporre, nella fase pregiurisdizionale relativa al tentativo di conciliazione, un contatto fra le parti che, invece, non è richiesto nella fase giurisdizionale ai fini della pronuncia del provvedimento monitorio; infatti, l'imposizione alle parti, prima di adire il giudice, di uno o più incontri in una sede stragiudiziale si iscrive nella logica del collegamento con un (futuro) processo destinato a svolgersi fin dall'inizio in contraddittorio fra le parti, mentre, invece, non si attaglia ai procedimenti caratterizzati da una prima fase necessariamente senza contraddittorio, come quello per decreto ingiuntivo, emesso inaudita altera parte, in cui il contraddittorio è soltanto eventuale e differito (v., altresì, Corte cost., n. 276/2000, in ordine all'accertata conformità ai parametri costituzionali dell'estraneità del procedimento per decreto ingiuntivo, malgrado il silenzio serbato in proposito ex art. 412-bis c.p.c. al tentativo obbligatorio di conciliazione nelle controversie di lavoro). L'esclusione si giustifica per il fatto che, in tali procedimenti, ci troviamo di fronte «a forme di accertamento sommario con prevalente funzione esecutiva», aggiungendo che «la mediazione può trovare spazio all'esito della fase sommaria, quando le esigenze di celerità sono cessate» (v. la Relazione illustrativa al d.lgs. n. 28/2010); in buona sostanza, laddove la più agile tutela giurisdizionale garantisce bene e sùbito gli interessi delle parti, il valore aggiunto della mediazione si dissolve. Dunque, il filtro in esame «non si applica» ai procedimenti di ingiunzione, inclusa l'opposizione, fino alla pronuncia sulle istanze di concessione e sospensione della provvisoria esecuzione ex artt. 648 e 649 c.p.c. (peraltro, ad avviso di Trib. Varese 9 aprile 2010, l'obbligo informativo dell'avvocato di cui all'art. 4, comma 3, deve ritenersi sussistente se la lite insorta tra le parti rientri tra quelle controversie per cui è possibile l'attività dei mediatori, e ciò già prima del monitorio poiché, pur essendo esclusa la mediazione obbligatoria e quella su impulso giudiziale, è, però, possibile il ricorso alla mediazione c.d. facoltativa). Da ricordare, sul punto, che il decreto ingiuntivo può essere opposto da parte del debitore, con inversione dell'iniziativa processuale delle parti, e che l'opposizione impedisce la celere formazione del titolo esecutivo (a meno che ne sia già munito ab origine), determinando per converso l'apertura di un processo ordinario di cognizione; in forza del citato art. 5, comma 4, lett. a), d.lgs. n. 28/2010, dunque, una volta risoltasi, con o senza esito, la fase sommaria diretta alla formazione del suddetto titolo esecutivo, proseguendo il processo, diviene, in linea teorica, necessario l'esperimento della mediazione. A ben vedere, l'accesso alla procedura alternativa è ammissibile in presenza di una duplice espressa limitazione che è segnata dall'àmbito applicativo (oggetto) e dalla natura del credito dedotto in monitorio (condizione dell'azione speciale): in primis, l'àmbito applicativo delle controversie suscettibili di mediazione è determinato tramite l'elencazione tassativa contenuta dell'art. 5, comma 1-bis, d.lgs. n. 28/2010; inoltre, risultano in concreto ipotizzabili esclusivamente mediazioni susseguenti alla pronuncia di decreti ingiuntivi nelle materie per le quali sia stato dedotto in giudizio un credito certo, liquido ed esigibile ex art. 633 c.p.c. Si pensi ad un decreto ingiuntivo emesso per mancato pagamento degli oneri condominiali di cui dall'art. 63, comma 1, disp. att. c.c., mentre non sarebbe, invece, suscettibile di mediazione la pretesa creditoria dell'appaltatore verso il condominio committente (in quanto l'appalto non è materia inclusa); parimenti, la mediazione non potrebbe entrare in gioco laddove il credito non sia liquido, come, ad esempio, per il credito risarcitorio relativo a danni conseguenti ad infiltrazioni di umidità provenienti dal lastrico solare. Una volta chiarito in quali materie la mediazione sia, logicamente oltre giuridicamente, concepibile a fronte della pronuncia di un decreto ingiuntivo, va verificato in quale fase processuale la procedura di risoluzione alternativa della controversia sia collocabile, perché, per l'opposizione a decreto ingiuntivo, l'instaurazione della procedura de qua diviene obbligatoria in seguito alla pronuncia «sulle istanze di concessione e sospensione della provvisoria esecuzione», espressamente escludendo che il tentativo di mediazione sia esperibile in un momento antecedente. L'opzione legislativa si giustifica se si considera la struttura del procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo, che si caratterizza per la perentorietà del termine – di quaranta giorni dalla notifica del decreto ingiuntivo ex art. 641 c.p.c. – di proposizione dell'opposizione, rendendo, altrimenti, in un momento precedente, tecnicamente impossibile l'esperimento del tentativo di mediazione. Margini conciliativi La scelta di tecnica legislativa è, quindi, quella di posticipare la procedura mediatoria successivamente alla prima udienza di trattazione del processo di opposizione a decreto ingiuntivo, nel corso della quale si può ipotizzare che il giudice abbia provveduto sulle istanze preliminari, o in momento successivo – specie allorquando il convenuto-opposto si sia costituito tardivamente in giudizio, o addirittura alla prima udienza, rendendo normalmente necessario il differimento d'udienza con spostamento della decisione sulle istanze interinali, con ciò posticipando ulteriormente il tentativo di mediazione – oppure, addirittura sine die qualora nessuna delle parti richieda la concessione o la sospensione di cui sopra. Così il legislatore ha mostrato di credere poco alle virtù conciliative del mediatore, perché la procedura di componimento sarà esperibile a processo pendente, quando l'esito della lite appare già in gran parte segnato dalla pronuncia interinale sulla provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo opposto, con cui il giudice potrebbe aver già espresso la sua convinzione, seppur allo stato degli atti. Infatti, nella materia condominiale, sia nelle ipotesi di decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo sia in quelle sprovviste della predetta clausola, va verificato il momento processuale, all'interno del giudizio di opposizione, in cui il giudice debba esaminare le istanze, rispettivamente, di sospensione dell'esecuzione medesima ex art. 649 c.p.c., o di concessione della provvisoria esecuzione di cui all'art. 648 c.p.c.; si tratta di istanze che, normalmente, vengono proposte «in prima battuta», cioè al primo contatto che le parti hanno con il magistrato (art. 183 c.p.c.): superata tale fase e pronunciatosi il giudice sulle istanze, in forza del chiaro disposto dell'art. 5, comma 4, lett. a), d.lgs. n. 28/2010, la necessità della preventiva mediazione obbligatoria, prima esclusa, deve essere riaffermata. Tuttavia, soprattutto per l'ipotesi «tipica» del decreto ingiuntivo immediatamente esecutivo nonostante opposizione ex art. 63, comma 1, disp. att. c.c., si può dubitare dell'utilità di una mediazione, una volta che il giudice adìto abbia statuito sull'istanza, avanzata dall'opponente, di sospensione della provvisoria esecutività del medesimo decreto. In pratica, si dovrebbe ipotizzare la possibilità di una conciliazione tra il condominio creditore ed il condomino debitore per quanto concerne il quantum dovuto dal secondo al primo; infatti, i contributi condominiali servono come provvista per far fronte alle spese di conservazione e manutenzione delle parti comuni dell'edificio, nonché per il funzionamento dei servizi condominiali (Salciarini 2016, 13). Pertanto, ad un'eventuale riduzione delle quote di tali contributi, in favore del soggetto ingiunto, come possibile esito positivo di una conciliazione presso il mediatore, dovrebbe corrispondere un aumento delle quote degli altri condomini, ma, se si ritiene nulla la deliberazione adottata a maggioranza con cui l'assemblea ripartisce, in deroga all'art. 1123 c.c., sugli altri condomini, la quota del moroso – v., nella giurisprudenza di merito, Trib. Prato 5 aprile 1994, a meno ciò avvenga a titolo provvisorio e temporaneo, e salvo conguaglio, con contestuale attivazione da parte dell'amministratore delle iniziative necessarie per ottenere il pagamento degli oneri insoluti dall'effettivo debitore – analogamente si dovrebbe imporre l'unanimità nell'approvazione dell'accordo transattivo, poiché i condomini, diversi dall'opponente, si accollano il debito di un altro. Va considerato, inoltre, che la giurisprudenza è concorde nel ritenere che, in tema di opposizione a decreto ingiuntivo immediatamente esecutivo, emesso ai sensi del citato art. 63, per la riscossione dei contributi in base allo stato di riparto approvato dall'assemblea, non si può mettere in discussione la validità della deliberazione posta a fondamento di quell'attività di riscossione – in pratica, la statuizione assembleare che ha approvato il bilancio, preventivo o consuntivo, ed il relativo stato di riparto – sicché l'opposizione potrebbe limitarsi ai soli residuali profili esecutivi; in altri termini, il condomino opponente non può far valere questioni attinenti alla «validità» della deliberazione condominiale, già impugnata in altro giudizio, ma solo questioni riguardanti la «efficacia» della medesima statuizione (v. Cass. S.U., n. 26629/2009, e Cass. S.U., n. 4421/2007; cui adde Cass. II, n. 27292/2005; Cass. II, n. 19519/2005). Soggetto onerato A questo punto, ci si è interrogati, una volta espletati gli incombenti processuali di cui sopra, su quale parte incombesse il suddetto onere di esperire il procedimento di mediazione, ossia se lo stesso rimane in capo all'opponente (debitore e convenuto in senso sostanziale) o all'opposto (creditore e attore in senso sostanziale), I primi giudici di merito che si sono confrontati con tale questione hanno offerto conclusioni diametralmente opposte, creando un certo disorientamento tra gli operatori del settore, atteso che il mancato esperimento della mediazione comporta conseguenze irreversibili che, a seconda del soggetto su cui grava, potrebbero tradursi nella conferma o revoca del decreto ingiuntivo opposto. A favore della prima tesi, cioè quella che fa ricadere sull'opponente l'onere di avviare il procedimento di mediazione, si è posta una parte della giurisprudenza di merito, sottolineando che, «alla dichiarazione di improcedibilità dell'opposizione a decreto ingiuntivo per mancato esperimento della mediazione prevista quale condizione di procedibilità della domanda, consegue la conferma del decreto ingiuntivo opposto» (Trib Chieti 8 settembre 2015; Trib. Nola 24 febbraio 2015). Nella stessa lunghezza d'onda, si è espresso anche un giudice lombardo (Trib. Monza 31 marzo 2015), ad avviso del quale, nel giudizio che si instaura con l'opposizione a decreto ingiuntivo, emesso con riferimento ad una delle materie indicate nel richiamato art. 5 d.lgs. n. 28/2010, l'omessa instaurazione del procedimento di mediazione entro il termine fissato dalla legge determina l'improcedibilità della domanda formulata con l'atto di citazione in opposizione (ed eventualmente con la comparsa di risposta o con comparse di terzi), che è l'atto che ha dato origine al procedimento di opposizione, nel quale l'opponente ha la veste processuale di attore; infatti, essendo il decreto ingiuntivo astrattamente idoneo a diventare definitivo – si pensi al caso di mancata opposizione oppure di estinzione del procedimento di opposizione eventualmente proposto – il mancato verificarsi della condizione di procedibilità costituita dall'instaurazione del procedimento di mediazione, è destinato ad incidere esclusivamente e negativamente sul procedimento di opposizione e non anche sul decreto ingiuntivo i cui effetti, in ossequio ai principi processuali propri di tale procedimento speciale – cui la normativa in tema di mediazione non deroga espressamente – divenendo improcedibile il relativo procedimento di opposizione, si consolidano e non sono più suscettibili di essere posti in discussione; ritenere, al contrario, ossia che la mancata instaurazione del procedimento di mediazione conduca alla revoca del decreto ingiuntivo importerebbe un risultato abnorme rispetto alle regole processuali proprie del rito, dal momento che si porrebbe in capo all'ingiungente opposto – già munito di un titolo idoneo a passare in giudicato – l'onere di coltivare il giudizio di opposizione, da lui non instaurato, al solo fine di garantirsi la salvaguardia del provvedimento monitorio, in contrasto con l'impostazione inequivoca del giudizio di opposizione come giudizio eventuale rimesso alla libera scelta del debitore ingiunto». Viceversa, la tesi che vorrebbe far ricadere sull'opposto l'onere di esperire il tentativo di mediazione sotto pena, in mancanza, della revoca del decreto ingiuntivo, è stata sostenuta da un'altra parte dei giudici di merito (Trib. Ferrara 7 gennaio 2015; Trib. Varese 18 maggio 2012). In proposito, si rilevato che l'onere del tentativo obbligatorio di mediazione, ex art. 5, comma 1, d.lgs. n. 28/2010, è posto a carico di «chi intende esercitare in giudizio un'azione» e, nei procedimenti monitori, l'opposizione a decreto ingiuntivo dà luogo ad un ordinario giudizio di cognizione il quale, sovrapponendosi allo speciale e sommario procedimento monitorio, investe il giudice del potere-dovere di statuire sulla pretesa originariamente fatta valere con la domanda di ingiunzione, con la conseguenza che il processo non verte attorno alla legittimità o liceità della ingiunzione, ma sul diritto monitoriamente azionato; ne consegue che attore sostanziale – e, dunque, chi agisce in giudizio, nei sensi di cui all'art. 5, comma 1, citato – è il creditore e non il debitore che proponga opposizione: a carico di questi un onere è configurabile solo in caso di domande in riconvenzione o verso terzi, ma non certo per il solo fatto di avere dovuto proporre l'opposizione, sicché, successivamente alla pronuncia sulle istanze ex artt. 648 o 649 c.p.c., il soggetto tenuto ad attivarsi per evitare la declaratoria di improcedibilità della domanda è il creditore opposto, attore in senso sostanziale. Nell'attesa di un intervento chiarificatore dei giudici di legittimità, alcuni autori (Accoti, 2015) avevano ritenuto preferibile la prima tesi, «tanto perché l'interesse a coltivare il giudizio di opposizione dovrebbe essere proprio dell'opponente, il quale ha l'esigenza di ottenere un pronunciamento che comporti la revoca del decreto ingiuntivo e, pertanto, l'accoglimento delle ragioni che hanno portato ad opporsi all'ingiunzione di pagamento, e, conseguentemente, avrebbe tutte le ragioni (interesse ad agire) per promuovere la mediazione; sostenere il contrario imporrebbe al creditore opposto l'esperimento di un'ulteriore attività, quella della mediazione, nonostante lo stesso si sia già munito del provvedimento giudiziale, quale appunto l'ingiunzione di pagamento, e ciò senza contare che far ricadere l'onere di proporre l'istanza di mediazione in capo al creditore-opposto, alimenterebbe oltre modo la proposizione di opposizioni meramente defatigatorie, nella speranza che l'opposto, dopo l'udienza per la concessione o la revoca del decreto ingiuntivo opposto, magari «dimentichi» di avviare l'anzidetto procedimento di mediazione con la conseguente revoca del decreto ingiuntivo. A sanare il suesposto contrasto interpretativo, è intervenuto di recente il Supremo Collegio (Cass. III, n. 24629/2015). Nella fattispecie sottoposta al suo esame, si era proposto ricorso per cassazione avverso una sentenza la quale, in un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo – avente ad oggetto il pagamento di canoni di locazione – aveva confermato la sentenza di primo grado, che aveva dichiarato «improcedibile» l'opposizione proposta per il mancato avvio della mediazione obbligatoria ai sensi dell'art. 5 del d.lgs. n. 28/2010. I giudici di Piazza Cavour hanno osservato che tale norma – peraltro, di non facile lettura – deve essere interpretata conformemente alla sua ratio, in quanto è stata costruita in funzione deflattiva e, pertanto, va letta alla luce del principio costituzionale del ragionevole processo e, dunque, dell'efficienza processuale. In questa prospettiva, la stessa norma, attraverso il meccanismo della mediazione obbligatoria, mira, per così dire, a rendere il processo la extrema ratio, cioè l'ultima possibilità, dopo che le altre possibilità sono risultate precluse; quindi, l'onere di esperire il tentativo di mediazione deve allocarsi presso «la parte che ha interesse al processo e ha il potere di iniziare il processo». Nel procedimento per decreto ingiuntivo cui segue l'opposizione, la difficoltà di individuare il portatore dell'onere deriva dal fatto che si verifica un'inversione logica tra rapporto sostanziale e rapporto processuale, nel senso che il creditore del rapporto sostanziale diventa l'opposto nel giudizio di opposizione (e, al contempo, il debitore diventa l'opponente). Questo potrebbe portare ad un «errato automatismo logico», per cui si individua nel titolare del rapporto sostanziale – che normalmente è l'attore nel rapporto processuale – la parte sulla quale grava l'onere, ma in realtà, avendo come guida il criterio ermeneutico dell'interesse e del potere di introdurre il giudizio di cognizione, la soluzione deve essere quella opposta. Invero, attraverso il decreto ingiuntivo, l'attore ha scelto la «linea deflattiva coerente» con la logica dell'efficienza processuale e della ragionevole durata del processo, per cui è l'opponente che ha il potere e l'interesse ad introdurre il giudizio di merito, cioè la «soluzione più dispendiosa», osteggiata dal legislatore. Ne deriva che è sull'opponente che deve gravare l'onere della mediazione obbligatoria perché è l'opponente che intende precludere la via breve per percorrere la via lunga. La diversa soluzione sarebbe palesemente irrazionale, perché premierebbe la passività dell'opponente e accrescerebbe gli oneri della parte creditrice; del resto, non si vede a quale logica di efficienza risponda un'interpretazione che accolli al creditore del decreto ingiuntivo l'onere di effettuare il tentativo di mediazione quando ancora non si sa se ci sarà opposizione allo stesso decreto ingiuntivo. È, dunque, l'opponente ad avere interesse ad avviare il procedimento di mediazione pena il consolidamento degli effetti del decreto ingiuntivo ex art. 653 c.p.c.; soltanto quando l'opposizione sarà dichiarata procedibile riprenderanno le normali posizioni delle parti: opponente – convenuto sostanziale e opposto – attore sostanziale, ma nella fase precedente sarà il solo opponente, quale unico interessato, ad avere l'onere di introdurre il procedimento di mediazione, mentre diversamente l'opposizione sarà improcedibile. In senso conforme, si sono espresse alcune pronunce di merito successive (Trib. Bologna 19 luglio 2017; Trib. Bologna 4 luglio 2016; Trib. Vasto 30 maggio 2016; Trib. Milano 9 dicembre 2015): in tema di opposizione a decreto ingiuntivo, l'opponente ha la veste processuale di attore e la sua attività, essenzialmente, ha l'onere di impedire che il decreto ingiuntivo divenga definitivo, sia proponendo tempestivamente e ritualmente l'opposizione, ai sensi del combinato disposto degli artt. 647 e 650 c.p.c., sia evitando che il processo si estingua, ai sensi dell'art. 653 c.p.c.; suo è, quindi, l'interesse non solo a proporre e coltivare il giudizio di opposizione ma anche a consentirne la procedibilità; ne consegue che, una volta dichiarata l'improcedibilità del giudizio di opposizione per mancato esperimento della mediazione, il corollario giuridico di detta pronuncia non potrà che essere la conferma del decreto ingiuntivo opposto, come avviene nel caso di estinzione del processo. Va, tuttavia, registrata una certa insofferenza al diktat del Supremo Collegio da parte degli stessi giudici di merito (Trib. Firenze 15 febbraio 2016), secondo i quali, in tema di opposizione a decreto ingiuntivo, l'onere di attivare la procedura mediativa grava sulla parte opposta, in quanto è quest'ultima «quella che ha deciso di portare in giudizio il proprio conflitto per la tutela di un suo diritto», ed è questa parte per prima che deve riflettere sulla possibilità di una più adeguata soddisfazione dei suoi interessi nel caso concreto attraverso strumenti più informali e duttili, o attraverso la ricomposizione di un rapporto di natura personale o commerciale (cui adde Trib. Busto Arsizio 3 febbraio 2016, secondo il quale l'onere della mediazione ex art. 5, comma 1-bis, del d.lgs. n. 28/2010 incombe sul creditore opposto, atteso che egli riveste la natura di parte attrice e che l'azione cui si riferisce la citata norma è la domanda monitoria, non già l'opposizione al decreto ingiuntivo emesso in accoglimento della stessa, sicché va disatteso l'orientamento espresso dalla sentenza del 2015, dovendosi invece affermare che il mancato perfezionamento della condizione di procedibilità della mediazione comporta l'improcedibilità non già dell'opposizione, bensì della domanda monitoria, con la conseguenza che, in tal caso, deve disporsi la revoca del decreto ingiuntivo). Operando un revirement, le Sezioni Unite (Cass. S.U., n. 19596/2020), hanno di recente statuito, in via generale ma con rilevanti riflessi nella materia condominiale stante il frequento utilizzo del procedimento monitorio per il recupero delle morosità, che, nelle controversie soggette alla mediazione obbligatoria ai sensi dell'art. 5, comma 1-bis, del d.lgs. n. 28/2010, i cui giudizi vengano introdotti con decreto ingiuntivo, una volta instaurato il relativo giudizio di opposizione e decise le istanze di concessione o sospensione della provvisoria esecuzione del decreto, l'onere di promuovere la procedura di mediazione è a carico della parte opposta (ossia il condominio, in precedenza ingiungente), sicché ove quest’ultimo non si attivi, alla pronuncia di “improcedibilità” di cui al citato comma 1-bis, conseguirà la revoca del decreto ingiuntivo opposto. Orbene, «calando» queste considerazioni nella realtà condominiale, nelle ipotesi più frequenti di ricorso al procedimento monitorio, ossia quelli afferenti il pagamento delle quote condominiali contemplate nell'art. 63, comma 1, disp. att. c.c., il condominio risulterà creditore delle quote rinvenienti dal bilancio e dal successivo piano di riparto approvato dall'assemblea, mentre il condomino assumerà le vesti del debitore del relativo importo. In caso di mancato pagamento delle suddette quote, a seguito di emissione di decreto ingiuntivo in favore del condominio e nel caso di opposizione a decreto ingiuntivo da parte del condomino asseritamente ritenuto debitore, solo su quest'ultimo incomberà l'onere di avviare la procedura di mediazione. Di regola, dopo l'udienza di comparizione delle parti, nella quale il giudice si pronuncia sulle istanze di concessione o sospensione della provvisoria esecuzione, lo stesso assegna alle «parti» il termine di quindici giorni per la presentazione della domanda di mediazione – termine allungato a seguito del novellato art. 5, comma 1-bis, del d.lgs. 28/2010 – ma per «parti», nella fattispecie in esame, si deve far riferimento soltanto al condomino debitore il quale, pertanto, avrà l'onere di avviare il procedimento di mediazione sotto pena, in mancanza, di improcedibilità dell'opposizione e contestuale consolidamento degli effetti del decreto ingiuntivo. In altri termini, nell'eventualità che l'amministratore ottenga il decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo ex art. 63 disp. att. c.c., il condomino ingiunto di solito invoca la sospensione ai sensi dell'art. 649 c.p.c., che, però, non viene concessa perché non ricorrono «gravi motivi» (considerando, da un lato, la provenienza da un soggetto, il condominio, che offre ampie garanzie di solvibilità e, dall'altro, l'agevole recuperabilità, in caso di esito vittorioso della lite, in sede di conguaglio); a questo punto, il giudice manda le parti alla mediazione, ma è probabile che nessuno coltiva questo tentativo di conciliazione, specie il condominio che non ha alcun interesse (atteso che ha un titolo con cui può procedere sùbito all'esecuzione); all'udienza fissata, lo stesso giudice dichiarerà la «improcedibilità» della domanda, ma il problema è la sorte del titolo che – secondo alcuni – potrebbe essere travolto, laddove appare più ragionevole non propendere per la sua caducazione, argomentando analogicamente ex art. 653 c.p.c., secondo cui, se il giudizio di opposizione si estingue, il decreto ingiuntivo, che non ne sia già munito (ma questo lo è già) acquista efficacia esecutiva (in buona sostanza, incentivando il condomino moroso, se ha interesse, a coltivare la mediazione). Reintegrazione nel possesso della cosa comuneIl d.lgs. n. 28/2010, all'art. 5, comma 4, lett. d) – prima della l. n. 98/2013, era la lett. c), ora dedicata ai procedimenti di consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite ex art. 696-bis c.p.c. – esclude la mediazione per i ricorsi possessori, «fino alla pronuncia dei provvedimenti di cui all'art. 703, comma 3, c.p.c.», ossia dell'interdetto possessorio o, in alternativa, del provvedimento di rigetto dell'istanza. Ciò vale sia per le domande di reintegrazione nel possesso sia di manutenzione del possesso ai sensi, rispettivamente, degli artt. 1168 e 1170 c.c.: si pensi all'ipotesi di spoglio nel caso in cui un condomino, effettuando alcuni lavori di ristrutturazione del proprio appartamento sito al piano attico, abbia provveduto all'incorporazione di una parte di un locale comune, adibito usualmente dai condomini alle funzioni di lavatoio, oppure all'ipotesi di molestia del possesso mediante la parziale eliminazione di un muro comune, anche se non si sono manifestati motivi di cedimenti, assestamenti e fessurazioni sulle altre porzioni del fabbricato. Nell'àmbito delle azioni proponibili dal singolo condomino, rientrano i ricorsi possessori, nel senso che il suddetto condomino può far valere il proprio diritto al compossesso del bene comune, sia nei confronti degli altri condomini, sia contro i terzi, rivendicando la propria quota intesa non come oggetto ideale del possesso, bensì come misura dei limiti entro i quali il possesso o l'azione si esercitano. Ai sensi dell'art. 1130, n. 4), c.c., anche l'amministratore è legittimato ad esercitare le azioni possessorie, potendo le stesse rientrare nell'àmbito degli atti conservativi dei diritti inerenti alle parti comuni dell'edificio condominiale, e non ritenendo tale àmbito ristretto alle sole misure cautelari. Va evidenziata un'apparente incongruenza tra i commi 1-bis e 4 del citato art. 5, con riferimento all'esclusione dalla mediazione della fase urgente del procedimento possessorio, in quanto il comma 1-bis include tra le azioni suscettibili di mediazione quelle in materia di condomino ed i diritti reali, mentre l'elencazione non contempla i procedimenti possessori, i quali, quindi, in forza della summenzionata tassatività, dovrebbero restarne esclusi. La deduzione sembra, però, contraddetta dal comma 4, il quale presuppone la sottoposizione a mediazione anche delle procedure possessorie, pur se alle condizioni di cui appresso; per queste procedure, infatti, è prevista una parziale esenzione dalla mediazione «fino alla pronuncia dei provvedimenti di cui all'art. 703, comma, 3 c.p.c.», tenendo presente, però, che lo stesso capoverso dispone che il provvedimento possessorio è reclamabile ai sensi dell'art. 669-terdecies c.p.c. Potrebbero, quindi, sorgere dubbi se la mediazione sia esperibile ancor prima dell'eventuale proposizione del reclamo al collegio proposto avverso il provvedimento possessorio; in quest'ottica, la mediazione sembrerebbe obbligatoria solo se, una volta «stabilizzato» il provvedimento possessorio – avanzata o meno l'istanza di reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c. – al giudice sia stato «richiesto da una delle parti» di fissare l'udienza «per la prosecuzione del giudizio di merito», ai sensi dell'art. 703, comma 4, c.p.c. Ipotizzare che il procedimento di mediazione si collochi in questa fase, oggi divenuta eventuale, del processo possessorio – in forza del comma 4, piuttosto che del comma 3, dell'art. 703 c.p.c. – sarebbe più consono alle esigenze deflattive cui è ispirato il nuovo istituto in funzione di riduzione del nascente contenzioso, perché, prima di questo momento, non sussisterebbe evidentemente alcuna esigenza deflattiva, perché propriamente difetterebbe un processo contenzioso. Mette punto rammentare che l'art. 703 c.p.c. è stato oggetto di riforma ad opera della l. n. 80/2005, nel senso che la prosecuzione del giudizio sul c.d. merito possessorio è subordinata all'istanza di parte, da proporsi entro il (nuovo) termine perentorio di sessanta giorni dalla comunicazione del provvedimento che pronuncia sulla domanda di reintegrazione e di manutenzione (o sull'eventuale reclamo). Quindi, la novità è nel senso di rendere facoltativo il c.d. merito possessorio, strutturando, pertanto, il procedimento possessorio sempre mediante un'articolazione bifasica, ma con una prima fase (sommario-cautelare) necessaria, destinata a concludersi con un'ordinanza espressamente dichiarata reclamabile, seguita da una seconda (ordinaria) soltanto eventuale, in quanto necessitata dalla richiesta di almeno una delle parti, da trattarsi con le forme del rito ordinario, sicché appare ragionevole ritenere che solo quest'ultima fase debba assoggettarsi alla previa mediazione obbligatoria. Per completezza, va segnalato che, stante la natura cautelare delle denunce di nuova opera e di danno temuto (artt. 1171 e 1172 c.c.), che sono regolate nella sezione III, capo III, del libro IV del codice di rito dedicata ai «procedimenti cautelari», anche tali procedimenti scontano l'esenzione dalla mediazione ai sensi del comma 3 dell'art. 5 del d.lgs. n. 28/2010. In materia condominiale, per quanto concerne la denuncia di nuova opera, si pensi alla domanda da parte di un condomino nei confronti del proprietario del piano attico, il quale, con l'attività in itinere diretta alla realizzazione di una sopraelevazione sul terrazzo di cui è esclusivo titolare, provochi il pericolo di un danno alla statica dell'immobile, che tale denuncia tende ad evitare invocando il blocco dei relativi lavori; per quanto riguarda la denuncia di danno temuto, si pensi all'azione del condomino per la tutela della sua proprietà esclusiva contro il pericolo proveniente da un muro condominiale, derivante dall'omissione da parte del condominio delle necessarie opere di conservazione e manutenzione della stessa cosa comune, che, quindi, per il suo intrinseco modo di essere, attenta all'integrità dell'appartamento che il denunciante vuole tutelare. Va ricordato, in proposito, che, tra le attribuzioni dell'amministratore ex art. 1130, n. 4), c.c., relative al compimento degli «atti conservativi dei diritti inerenti alle parti comuni dell'edificio», rientrano le azioni nunciatorie per ottenere, oltre che le cautele suesposte, anche il risarcimento del danno cagionato alle suddette parti, quando tale danno si concreti nelle spese occorrenti per la rimessione delle stesse nel pristino stato (Cass. II, n. 3366/1995); alla suddetta azione dell'amministratore, si può aggiungere anche l'azione proponibile dal singolo condomino per la tutela della sua proprietà esclusiva contro il pericolo derivante dalla cosa comune, e ciò anche quando il pericolo derivi da omissione di opere di conservazione o/e di manutenzione della cosa comune medesima (Cass. II, n. 6856/1993). Anche nelle summenzionate fattispecie, va ricordato che l'originaria impostazione, connotata dalla predetta rigida strumentalità tra tutela cautelare ed ordinaria, è stata messa parzialmente in crisi dalla l. n. 80/2005, secondo cui, nell'ottica di una razionalizzazione (in termini di efficienza e celerità) della tutela sommaria, le disposizioni relative al termine perentorio per l'inizio del giudizio di merito – e, quindi, anche quelle correlate all'eventuale caducazione – non si applicano, tra gli altri, ai provvedimenti emessi a seguito di denuncia di nuova opera o di danno temuto. In tutti questi casi, dunque, i concessi provvedimenti cautelari rimangono efficaci anche se il giudizio di merito non venga iniziato o si estingua, pur quando la domanda cautelare sia stata avanzata lite pendente, ed il giudice non assegna il termine perentorio per l'instaurazione della causa di merito, rimanendo la libertà, in capo a ciascuna parte processuale, di iniziare il giudizio di merito in qualsiasi momento, che, però, dovrà essere preceduto dal procedimento obbligatorio di mediazione, sempre se la controversia rientri – come la materia condominiale – in quelle contemplate dal d.lgs. n. 28/2010. Procedimenti in camera di consiglioVolontaria giurisdizione La condizione di procedibilità non opera nemmeno, in forza del chiaro disposto dell'art. 5, comma 4, lett. f), d.lgs. n. 28/2010, «nei procedimenti in camera di consiglio». Più che per «ragioni di flessibilità e rapidità con cui il giudice può provvedere sul bene della vita richiesto» (v. la Relazione illustrativa al suddetto decreto legislativo), l'esenzione sembra piuttosto consequenziale alla natura, di regola, non contenziosa, ma volontaria, ossia inter volentes, delle procedure in discorso che non assurgono, molte volte, alla natura di «controversie»; dunque, la ragione di fondo per cui il legislatore delegato ha inteso escludere l'esperimento del tentativo obbligatorio di mediazione per tali tipi di procedimenti risiede nel fatto che trattasi di ipotesi che rivelano scarso contenzioso, nei confronti delle quali non troverebbe spazio un'effettiva possibilità di conciliazione. Il rilievo è sostanzialmente giusto, ma non tiene conto dell'estrema varietà delle situazioni giuridiche disciplinate dai procedimenti camerali: invero, la procedura ex artt. 737 ss. c.p.c. è adoperata dal legislatore in settori notevolmente diversi, perciò la norma sembra riferirsi più alla «forma» che al contenuto del procedimento, prescindendo dalla nozione tradizionale di volontaria giurisdizione, e riferendosi anche ai provvedimenti decisori su diritti soggettivi, emessi in camera di consiglio; invero, la procedura camerale, forse pensata per essere applicata in un determinato settore, è stata successivamente chiamata ad assolvere una pluralità di altri compiti, toccando anche ambiti propri della giurisdizione contenziosa. Le considerazioni che precedono relative alla volontaria giurisdizione ed al procedimento in camera di consiglio trovano sostanziale conferma per quanto riguarda la materia condominiale. In generale, in quest'ultima materia, esistono norme riguardanti in definitiva la «amministrazione» del bene comune o del condominio dell'edificio, le quali prevedono, in alcuni casi – caratterizzati tutti (direttamente o indirettamente) dall'inerzia, dall'insufficienza o dalla deficienza di un'attività gestionale – la possibilità di un ricorso all'autorità giudiziaria, alla quale è attribuita la potestà di un intervento sostitutivo diretto ad ovviare ad una paralisi (o al timore di una paralisi) che possa essere di pregiudizio agli interessi della comunione e degli stessi partecipanti. Nello specifico, l'art. 1129 c.c., al comma 1, prevede la nomina, da parte dell'autorità giudiziaria, di un amministratore qualora l'assemblea non provveda e quando i condomini sono più di otto (soglia così elevata dalla l. n. 220/2012, che conferisce l'iniziativa a ciascun partecipante ed all'amministratore dimissionario); il comma 11 dello stesso disposto contempla la possibilità per il giudice di revocare l'amministratore medesimo nei casi di mancata comunicazione all'assemblea della pendenza di una controversia che esorbita dalle proprie attribuzioni, di omessa presentazione del rendiconto conto della sua gestione e nell'ipotesi «gravi irregolarità» (concetto, quest'ultimo, che il successivo capoverso ha cura di esplicitare); in materia di comunione – ma applicabile al condominio in forza del rinvio di cui all'art. 1139 c.c. – viene in rilievo l'art. 1105, ultimo comma, c.c., che stabilisce il ricorso all'autorità giudiziaria nel caso in cui non siano adottati i provvedimenti necessari per l'amministrazione della cosa comune, o quando non si formi una maggioranza, oppure nell'ipotesi di mancata esecuzione di una deliberazione eventualmente adottata. Al riguardo, va sottolineato che gli interventi dell'ordinamento generale nella vita condominiale sono affidati all'autorità giudiziaria, perché c'è una crisi che va risolta; tale crisi, però, non sempre si atteggia come «lite», cioè come contrapposizione di pretese, potendo la stessa dipendere proprio dalla circostanza che non si adottino provvedimenti o non si eseguono le deliberazioni o non si costituiscono gli organi; in quest'ultima ipotesi, l'intervento giudiziale avviene mediante la giurisdizione volontaria, perché, con l'adozione del provvedimento sostitutorio della manchevole volontà o dell'inerte condotta, si reintegra la capacità dell'istituzione e si apprestano i mezzi per la soddisfazione degli interessi dei singoli. Più nel dettaglio, l'art. 1129, comma 1, c.c. prescrive l'intervento dell'autorità giudiziaria per la nomina dell'amministratore quando l'assemblea non vi provvede (purché il condominio abbia più di otto partecipanti); tale intervento ha evidenti finalità suppletive, nel senso che si legittima il ricorso al giudice sia nel caso in cui manchi del tutto l'amministratore, previo inutile tentativo sul punto di convocazione dell'assemblea (che rimane sempre organo cui compete, in via primaria, la predetta nomina), sia nel caso in cui l'amministratore esista, ma sia cessato dalla carica per scadenza del termine annuale o si sia dimesso, e l'assemblea non abbia provveduto alla sua sostituzione o alla sua conferma. Il concetto della non contenziosità di tale provvedimento di nomina si qualifica, quindi, nei presupposti sostanziali che legittimano l'azione e nella finalità dell'intervento del giudice: da un lato, il condomino che ricorre al giudice esplica un potere di iniziativa, in cui difettano i presupposti dell'azione in senso sostanziale, e la sua domanda tende a soddisfare i suoi interessi, che rimangono senza alcun dubbio pregiudicati dalla carenza di amministrazione, ma assumono rilevanza processuale solo in coincidenza con la tutela di un interesse generale che investe la totalità dei condomini; dall'altro lato, l'intervento dell'autorità giudiziaria, pur condizionato dalla denuncia di un condomino, si esaurisce in un provvedimento diretto alla preservazione di un interesse di evidente carattere pubblicistico, risolvendosi in una vera e propria manifestazione di volontà sostitutiva di quella dell'assemblea, rimasta inerte di fronte ad una situazione – quella di mancanza dell'amministratore – pregiudizievole per la collettività dei condomini, ma che non priva i partecipanti al condominio del potere di scegliere, con le prescritte maggioranze, un nuovo amministratore. In tutte queste ipotesi, in effetti, il previo esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione appare superfluo, anche perché non può rinvenirsi, in assenza di contenzioso, il perseguimento del fine deflattivo che sta a monte dell'opzione legislativa del d.lgs. n. 28/2010. Stesse considerazioni possono farsi per l'art. 1105, ultimo comma, c.c., perché anche qui l'intervento del magistrato risponde essenzialmente a finalità suppletive, in quanto si riconnette ad una situazione di inerzia dei partecipanti al condominio, che viene a determinarsi o nella fase deliberativa o in quella meramente attuativa di una statuizione già presa, ed è strettamente correlato al determinarsi di una necessità rispetto alla quale l'organo gestorio non possa o non voglia adottare gli opportuni provvedimenti. L'art. 1105 citato può, dunque, operare, nell'àmbito del condominio, in tutti i casi in cui si verifichino situazioni di paralisi gestionale, conseguenti all'inerzia dei partecipanti o ad impedimenti di carattere oggettivo: in ordine a tali situazioni di impasse, vengono in mente tutti quei casi in cui non si assumano determinazioni necessarie per la collettività o non si formi una maggioranza per l'esistenza della contrapposizione di due gruppi di condomini di pari rappresentatività. In ogni caso, la previsione normativa di cui all'art. 1105, ultimo comma, c.c. si caratterizza per la sua attinenza a situazioni nelle quali la tutela giudiziale è finalizzata – non alla soluzione di un conflitto tra interessi contrapposti, ma – all'attuazione di un interesse generale della collettività, individuato astrattamente da quello dei partecipanti al condominio. Revoca giudiziaria dell'amministratore Profondamente diversa, invece, appare la situazione nella fattispecie esaminata dall'art. 1129, commi 11 e 12, c.c., ossia di revoca dell'amministratore di condominio, dove sorgono serie perplessità in ordine all'inquadramento del procedimento nell'àmbito della volontaria giurisdizione. Innanzitutto, in quest'ipotesi – a differenza delle altre in precedenza delineate – l'intervento del giudice non è affatto condizionato all'inerzia dell'assemblea a provvedere sulla revoca o ad una deliberazione contraria al riguardo, ma anzi sembra presupporre una certa urgenza, senza cioè attendere le inevitabili lungaggini della convocazione e della decisione dell'assemblea; in altri termini, il magistrato non interviene per sostituirsi all'attività manchevole dell'organo gestorio, ma esercita un controllo repressivo qualora non vengano osservati i doveri inerenti all'esercizio della funzione demandata al rappresentante del condominio. Inoltre, con la domanda giudiziale di revoca dell'amministratore, da un lato, vengono in rilievo posizioni chiaramente confliggenti – si parla, in proposito, di procedimento camerale bilaterale, tanto che il novellato art. 64, comma 1, disp. att. c.c. prevede che «sia sentito l'amministratore in contraddittorio con il ricorrente» – e, dall'altro, la statuizione del magistrato indubbiamente incide su situazioni di diritto soggettivo, stante che il provvedimento di rimozione si traduce nella cessazione del rapporto di mandato – anche contro la volontà dello stesso mandante – e del correlativo diritto al compenso. Il procedimento in esame, dunque, non solo interviene su un'aperta situazione di conflitto di interessi, ma incide su diritti soggettivi, quali appunto quelli dell'amministratore; la situazione soggettiva dell'amministratore è così configurata come destinata a cedere a fronte dell'interesse contrapposto del condominio, interesse la cui gestione è rimessa alla valutazione di merito del giudice camerale alla stessa stregua di come è rimesso alla valutazione di merito dell'assemblea condominiale. Per quanto sopra delineato, si potrebbe rivelare incoerente la scelta del legislatore delegato di escludere tout court, dal campo della preventiva mediazione obbligatoria di cui al d.lgs. n. 28/2010, il procedimento di revoca dell'amministratore di condominio di cui all'art. 1129, commi 11 e 12, c.c., solo perché inquadrabile all'interno dei «procedimenti in camera di consiglio»: se nelle altre ipotesi di nomina dell'amministratore ex art. 1129, comma 1, c.c. e di provvedimenti necessari per la cosa comune ai sensi dell'art. 1105, ultimo comma, c.c., siamo in presenza, al massimo, di rivalità tra condomini o gruppi di condomini, l'ultima ipotesi registra l'esistenza di un vero e proprio contenzioso. Basti pensare alle «gravi irregolarità» che giustificano l'intervento destitutorio del magistrato: per un verso, c'è il condomino di minoranza, che tenta di provare l'irregolare operato dell'amministratore, per altro verso, si contrappone quest'ultimo, spalleggiato dalla maggioranza, che cerca di dimostrare la sua condotta irreprensibile, il tutto nell'alveo di un procedimento di cognizione sommaria ma dai forti connotati contenziosi. La natura profondamente contenziosa del procedimento di revoca dell'amministratore ai sensi dell'art. 1129 c.c., peraltro, è stata alla base di quell'orientamento giurisprudenziale – a dire il vero minoritario, v. Cass. II, n. 184/2003, e Cass. II, n. 4620/2006 – il quale ha riconosciuto l'ammissibilità del ricorso per cassazione ex art. 111 Cost. avverso il decreto di revoca, sul presupposto che, in realtà, trattasi di provvedimento – emesso su istanza di alcuni soltanto tra i condomini – avente carattere definitivo e contenuto decisorio, che «incide su diritti soggettivi», comportando la risoluzione anticipata e definitiva (contro cui non è previsto alcun altro rimedio) del rapporto di mandato esistente tra l'amministratore, da un lato, e tutti i condomini, dall'altro; si è sottolineato che, con il provvedimento ex art. 1129 c.c., il giudice non «sospende» l'amministratore, ponendo il rapporto tra quest'ultimo ed il condominio in uno stato di quiescenza temporaneo, ma «revoca» il primo, ponendo definitivamente termine ante tempus al rapporto. In altri termini, vi è un'innegabile contrapposizione di due soggetti in materia condominiale e, conseguentemente, l'opportunità di una preventiva mediazione sul punto: da un lato, il condomino che invoca la destituzione e, dall'altro, l'amministratore in carica che partecipa al procedimento per difendere il suo diritto alla permanenza nella qualifica; da una parte, il diritto del condomino ad una corretta gestione dell'amministrazione della cosa comune, e l'esigenza di tutela di una minoranza nei confronti di eventuali abusi di una maggioranza che intenda mantenere in carica un amministratore scorretto, ma favorevole alle proprie posizioni, e, dall'altra, applicandosi le norme in materia di mandato, il diritto del mandatario a non essere revocato se non in presenza di una giusta causa (argomentando ex art. 1725 c.c.), prima della scadenza ed in assenza di una formale deliberazione da parte dell'assemblea. I giudici di legittimità se ne sono occupati di recente (Cass. VI/II, n. 1237/2018), anche se implicitamente, perché hanno dovuto dichiarare «inammissibile» il ricorso per cassazione avverso il decreto della Corte d'Appello, che aveva rigettato il reclamo proposto da un condomino avverso il provvedimento del Tribunale, con il quale era stata dichiarata «improcedibile» la domanda di revoca giudiziale proposta dallo stesso condomino nei confronti dell'amministratore del suo condominio, non avendo partecipato il ricorrente all'incontro davanti al mediatore agli effetti del d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28 (v., da ultimo, Cass. II, n. 15706/2017; Cass. II, n. 9348/2017; cui adde Cass. II, n. 2986/2012; Cass. II, n. 14524/2011; tutte quante sull'abbrivio di Cass. S.U., n. 20957/2004). Ad avviso degli ermellini, è vero infatti che l'art. 71-quater disp. att. c.c. (introdotto dalla I. 11 dicembre 2012, n. 220) precisa che, per «controversie in materia di condominio», ai sensi dell'art. 5, comma 1, d.lgs. n. 28/2010, si intendono – tra le altre – quelle degli artt. da 61 a 72 disp. att. c.c. delle disposizioni per l'attuazione del codice (essendo l'art. 64 disp. att. c.c. relativo, appunto, alla revoca dell'amministratore); per contro, l'art. 5, comma 4, lett. f), dello stesso decreto legislativo – come sostituito dal d.l. n. 69/2013, convertito, con modificazioni, nella l. n. 98/2013 – è inequivoco nel disporre che il meccanismo della condizione di procedibilità, di cui ai commi 1-bis e 2, non si applica nei procedimenti in camera di consiglio, essendo proprio il giudizio di revoca dell'amministratore di condominio un procedimento camerale plurilaterale tipico. Alcuni giudici di merito, invece, sono stati di contrario avviso (in particolare, v. Trib. Vasto 4 maggio 2017; Trib. Padova 24 febbraio 2015). Il sillogismo seguito in tali provvedimenti, basato esclusivamente su argomentazioni di natura letterale, può così delinearsi: siccome la mediazione è prevista come condizione di procedibilità dal summenzionato d.lgs. n. 28/2010; siccome l'art. 5, comma 1-bis, di tale decreto, aggiunto dal c.d. decreto del fare 2013 contempla, tra le cause soggette alla suddetta mediazione obbligatoria, quelle «in materia di condominio»; siccome l'art. 71-quater disp. att. c.c. (inserito dalla l. n. 220/2012), al comma 1, precisa che, «per controversie in materia di condominio, ai sensi dell'art. 5, comma 1, del d.lgs. n. 28/2010, si intendono quelle derivanti dalla violazione o dall'errata applicazione delle disposizioni del libro III, titolo VII, capo II, del codice e degli articoli da 61 a 72 delle presenti disposizioni per l'attuazione del codice» civile; siccome l'art. 64, comma 1, disp. att. c.c. stabilisce che, «sulla revoca dell'amministratore, nei casi dall'undicesimo comma dell'art. 1129 e dal quarto comma dell'art. 1131 del codice, il tribunale provvede in camera di consiglio, con decreto motivato, sentito l'amministratore in contraddittorio con il ricorrente»; ergo, prima di invocare la destituzione giudiziaria dell'amministratore in carica, occorre esperire il procedimento di mediazione. In quest'ordine di concetti, questa ipotesi derogatoria si colloca in posizione di lex specialis– se non addirittura lex posterior, poiché il c.d. decreto del fare è sostanzialmente ripetitivo in proposito del d.lgs. n. 28/2010 – rispetto alla regola generale che prevede, per le controversie tassativamente elencate, l'esenzione dall'obbligo del preventivo tentativo di conciliazione presso un organismo di mediazione abilitato. Nello specifico, un magistrato marchigiano (Trib. Macerata 10 gennaio 2018) ha ritenuto che il rinvio operato dall'art. 71-quater disp. att. c.c. all'art. 5, comma 1-bis, del d.lgs. n. 28/2010, costituisce un rinvio «mobile», sia in ragione della natura procedurale della norma, sia in forza della preferenza, in generale, nella tecnica di corretta redazione legislativa per tale forma di rinvio, sia, infine, alla stregua del principio di conservazione degli anni normativi. Si tratta, all'evidenza, di una questione altamente opinabile. Comunque, non risulta agevolmente comprensibile in quale modo l'organismo possa fronteggiare mediazioni sui conflitti insorti tra l'amministratore ed il condomino aventi ad oggetto le gravi irregolarità del primo denunciate dal secondo, sicché il previo esperimento del tentativo obbligatorio di mediazione si disvelerebbe assolutamente inutile e defatigante, in quanto appare difficilmente ipotizzabile la finalità deflattiva specie in presenza delle inadempienze normativamente tipizzate (Pironti). In parole povere, in tale ipotesi si fronteggiano, da un lato, il condomino che vuole cacciare l'amministratore che ritiene scorretto e che non riesce a revocare con i consueti meccanismi assembleari, perché spalleggiato, a suo dire, da una maggioranza complice delle sue malefatte, e, dall'altro lato, l'amministratore che resiste, volendo continuare l'incarico conferitogli e difendendo, quindi, il compenso (Nardone). Si registra, pertanto, un'aporia nell'individuare proprio la materia del contendere oggetto della mediazione, atteso peraltro che interessato e legittimato a resistere e contraddire all'istanza di revoca, ai sensi degli artt. 1129, comma 11, c.c. e 64 disp. att. c.c., è in via esclusiva soltanto l'amministratore in carica, e ciò malgrado le ripercussioni, nei confronti del condominio, degli effetti della pronuncia giudiziale. Ne consegue che, rimasto il condominio estraneo al procedimento, non autorizzando – trattandosi di ipotesi esulanti da quelle previste negli artt. 1130 e 1131 c.c. – né successivamente ratificando la resistenza in giudizio dell'amministratore medesimo, a questi devono eventualmente far carico le spese processuali, nonostante gli indubitabili riflessi che il provvedimento in oggetto ha nei confronti della gestione condominiale (Cass. II, n. 8837/1999; cui adde, di recente, Cass. II, n. 18487/2014, secondo cui il procedimento diretto alla revoca dell'amministratore soggiace al regolamento delle spese ex art. 91 c.p.c., dovendosi escludere che queste possano essere ripetibili nel rapporto interno tra il condomino vittorioso che le ha anticipate ed il condominio, in quanto è nel rapporto processuale tra le parti del giudizio che le spese trovano la loro esclusiva regola di riparto; sempre di recente, in un'ipotesi speculare e contraria, v. Cass. II, n. 23955/2013, ad avviso della quale, nel giudizio promosso da un condomino per la revoca dell'amministratore, interessato e legittimato a contraddire è solo il medesimo amministratore, non anche il condominio, che pertanto non può beneficiare della condanna alle spese del condomino ricorrente). In quest'ottica, è stata dichiarata invalida, per contrarietà alla legge, la deliberazione assembleare che aveva approvato il rendiconto annuale, includendovi le spese legali sostenute «in proprio» dall'amministratore, e non quale legale rappresentante del condominio, in una procedura promossa nei suoi confronti ai sensi dell'art. 1129 c.c., attesa la non inerenza delle spese anzidette alla gestione condominiale (Cass. II, n. 13111/1992). In una fattispecie analoga, si è ritenuto nulla, per impossibilità dell'oggetto, in quanto esorbitante dalle attribuzioni dell'assemblea, la deliberazione con cui questa aveva autorizzato l'amministratore a nominarsi un difensore per assisterlo in un processo penale – nel caso concreto, a seguito di denuncia per non aver ottemperato ad un provvedimento d'urgenza ex art. 700 c.p.c., con il quale gli era stato ordinato di prendere alcune misure per eliminare lo stato di pericolo in cui versava l'edificio – ancorché per comportamenti attinenti all'amministrazione delle parti comuni dell'edificio (Cass. II, n. 5163/1997). 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