Codice Civile art. 2446 - Riduzione del capitale per perdite 1 2 .

Guido Romano

Riduzione del capitale per perdite 1 2.

[I]. Quando risulta che il capitale è diminuito di oltre un terzo in conseguenza di perdite, gli amministratori o il consiglio di gestione, e nel caso di loro inerzia il collegio sindacale ovvero il consiglio di sorveglianza, devono senza indugio convocare l'assemblea per gli opportuni provvedimenti. All'assemblea deve essere sottoposta una relazione sulla situazione patrimoniale della società, con le osservazioni del collegio sindacale o del comitato per il controllo sulla gestione. La relazione e le osservazioni devono restare depositate in copia nella sede della società durante gli otto giorni che precedono l'assemblea, perché i soci possano prenderne visione. Nell'assemblea gli amministratori devono dare conto dei fatti di rilievo avvenuti dopo la redazione della relazione.

[II]. Se entro l'esercizio successivo la perdita non risulta diminuita a meno di un terzo, l'assemblea ordinaria o il consiglio di sorveglianza che approva il bilancio di tale esercizio deve ridurre il capitale in proporzione delle perdite accertate. In mancanza gli amministratori e i sindaci o il consiglio di sorveglianza devono chiedere al tribunale che venga disposta la riduzione del capitale in ragione delle perdite risultanti dal bilancio. Il tribunale provvede, sentito il pubblico ministero, con decreto soggetto a reclamo, che deve essere iscritto nel registro delle imprese a cura degli amministratori 3.

[III]. Nel caso in cui le azioni emesse dalla società siano senza valore nominale, lo statuto, una sua modificazione ovvero una deliberazione adottata con le maggioranze previste per l'assemblea straordinaria possono prevedere che la riduzione del capitale di cui al precedente comma sia deliberata dal consiglio di amministrazione. Si applica in tal caso l'articolo 24364.

 

[1] V. nota al Capo V.

[2] In tema di misure urgenti per garantire la continuità delle imprese colpite dall'emergenza Covid-19, v. art. 6 d.l. 8 aprile 2020, n. 23 , conv. con modif., in l. 5 giugno 2020, n. 40, ai sensi del quale: «a decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto e fino alla data del 31 dicembre 2020 per le fattispecie verificatesi nel corso degli esercizi chiusi entro la predetta data non si applicano gli articoli 2446, commi secondo e terzo, 2447, 2482-bis, commi quattro, quinto e sesto, e 2482-ter del codice civile. Per lo stesso periodo non opera la causa di scioglimento della società per riduzione o perdita del capitale sociale di cui agli articoli 2484, primo comma, numero 4), e 2545-duodecies del codice civile».

[3] Per la sospensione degli obblighi di cui al presente comma vedi l'art. 8, comma 1, d.l. 24 agosto 2021, n. 118, conv. con modif., in l. 21 ottobre 2021, n. 147.

[4] Per la sospensione degli obblighi di cui al presente comma vedi l'art. 8, comma 1, d.l. 24 agosto 2021, n. 118, conv. con modif., in l. 21 ottobre 2021, n. 147

Inquadramento

Al pari dell'aumento, anche la riduzione del capitale sociale può essere reale o nominale, a seconda che la riduzione dia luogo o meno ad un corrispondente rimborso ai soci del valore dei conferimenti (Campobasso, 514; Ferrara jr., Corsi, 711), sia o non sia cioè accompagnata da una contestuale riduzione del patrimonio sociale (Di Sabato, 455).

Mentre l'art. 2445 c.c. (al cui commento si rinvia) disciplina l'ipotesi della riduzione reale del capitale sociale che consiste appunto nella contestuale decurtazione del capitale e del patrimonio sociale, gli artt. 2446 e 2447 c.c. contemplano la diversa ipotesi della riduzione nominale del capitale, in quanto determinano un mero adeguamento della cifra (storica) del capitale nominale al minor valore del patrimonio sociale (Guerrera, 1200; Nobili, 317; Di Sabato, 455, per il quale il legislatore si preoccupa di assicurare la corrispondenza fra il patrimonio ed il capitale sociale e, quando si verifica una perdita che altera in maniera sensibile questo rapporto, impone la riduzione del capitale in modo da adeguarlo al diminuito valore del patrimonio).

Si tratta, pertanto, di una riduzione puramente nominale, dato che non comporta di per sé alcuna riduzione del patrimonio sociale, dal momento che quest'ultima si è già verificata per effetto delle perdite subite dalla società (Campobasso, 517).

La fattispecie disciplinata dagli artt. 2446 e 2447 c.c. è, quindi, quella in cui, per effetto di perdite, il patrimonio netto della società (dato dalla differenza tra il valore complessivo delle attività iscritte in bilancio e quello complessivo delle passività) sia inferiore alla cifra del capitale sociale sottoscritto (Ginevra, 270). Il limite di tolleranza di questo squilibrio patrimoniale è fissato dal legislatore in un terzo dell'ammontare del capitale (Di Sabato, 455). A tal fine, quello che rileva è il capitale sottoscritto, non quello deliberato, in quanto, finché esso non sia stato sottoscritto, l'obbligo di conferimento non è attuale (Nobili, Spolidoro, 301).

La riduzione per perdite, da punto di vista operativo, si attua o con l'annullamento di un certo numero di azioni (agevole ad esempio se la società abbia azioni proprie in portafoglio) ovvero riducendo proporzionalmente il valore nominale delle azioni (Ferrara jr., Corsi, 716).

Invero, il nostro ordinamento conosce altre ipotesi di riduzione nominale del capitale sociale per motivi però diversi dalle perdite (Positano, 59 ss.). In particolare, la riduzione per recesso del socio (quando sia necessario intaccare il capitale sociale per provvedere al rimborso delle azioni del socio receduto: art. 2437 quater, comma 6, c.c.), la riduzione per morosità (quando risulti impossibile l'alienazione delle azioni del socio moroso o il collocamento delle stesse entro l'esercizio in cui è stata pronunciata la decadenza: art. 2344, comma 3, c.c.), la riduzione per revisione della perizia di stima dei conferimenti in natura e di credito (quando il valore degli stessi è inferiore di oltre un quinto a quello per cui avvenne il conferimento ed il socio conferente non versi la differenza in denaro o receda dalla società: art. 2343, comma 4, c.c.), la riduzione per mancato rispetto delle norme in tema di acquisito di azioni proprie (quando la società non provveda all'alienazione delle azioni illegittimamente acquistate o possedute: art. 2357, comma 4, c.c.).

L'impugnazione di delibere societarie aventi ad oggetto operazioni sul capitale sociale, per aumento o riduzione, è compromettibile in arbitri allorquando, in ragione della prospettazione offerta dalle parti, la corrispondente controversia non investa, in modo diretto e non semplicemente mediato, gli interessi - dei soci, della società o di terzi ad essa estranei - protetti da norme inderogabili, la cui violazione determina una reazione dell'ordinamento svincolata da qualsiasi iniziativa di parte, diversamente finendosi per devolvere agli arbitri diritti (sostanziali) inderogabili protetti da una specifica norma che li regola (Cass. n. 9434/2023).

La funzione della norma e gli interessi tutelati.

Secondo l'opinione prevalente, la ratio della riduzione del capitale per perdite deve essere ricercata nella generale funzione del capitale sociale ed in particolare nella sua idoneità a fornire ai creditori sociali una garanzia indiretta circa la solvibilità della società (Ginevra, 270; Guerrera, 1201; contraStanghellini, 2713, per il quale la riduzione del capitale per perdite, producendo un mero allineamento della cifra statutaria del capitale sociale alla minore consistenza del patrimonio netto, non arreca alcun immediato vantaggio ai creditori sociali, in quanto da un lato non impone ai soci di immettere nuove risorse, dall'altro può invece rendere distribuibili ex art. 2433, comma 3, c.c., utili futuri che non lo sarebbero ove la cifra del capitale sociale restasse superiore al patrimonio netto).

Accanto all'interesse dei creditori sociali, vengono in rilievo altri interessi sottesi all'operazione in esame. Innanzitutto, l'interesse dei soci a rendere distribuibili utili che altrimenti non lo sarebbero stante il divieto dell'art. 2433, comma 3, c.c. (Fenghi, 64) ed a conoscere le sorti del loro investimento (Campobasso, 517; Niccolini, 88). Poi, l'interesse della società ad attrarre nuovi sottoscrittori e ad evitare lo scioglimento (Niccolini, 88; Campobasso, 517, il quale rileva che grazie alla riduzione del capitale per perdite, si rende più agevole la sottoscrizione di un successivo aumento di capitale da parte dei terzi, che altrimenti avrebbero scarse probabilità di successo dato il divieto di emettere le azioni per somma inferiore al loro valore nominale). Esiste poi l'interesse dei soci, dei creditori e dei terzi in genere a conoscere ed essere informati sulla reale situazione patrimoniale della società (Guerrera, 1201; Ginevra, 271; Stanghellini, 2714, che pone in evidenza il «valore informativo» che la cifra del capitale sociale ha per i suoi interlocutori).

La nozione di perdita rilevante: in particolare il trattamento delle riserve e gli utili di periodo.

Secondo l'opinione ormai prevalente in dottrina (Campobasso, 517; Ginevra, 271; Stanghellini, 2715; Guerrera, 1201; Di Sabato, 457) la perdita rilevante ai sensi dell'art. 2446 c.c. (e 2447 c.c.) è quella calcolata al netto delle riserve che vanno impiegate prima di attaccare il capitale sociale del quale costituiscono naturale «cuscinetto» protettivo.

Nello stesso senso è orientata anche la giurisprudenza (Cass. n. 8221/2007; Cass. n. 23269/2005).

Non si ha, infatti, perdita del capitale fin quando l'importo delle perdite non supera l'ammontare delle riserve (Campobasso, 517; contra, Rordorf, 738).

La perdita, pertanto, deve essere prima assorbita dalle riserve secondo il loro grado di «resistenza» (Stanghellini, 2715) e poi solo per la parte residua dal capitale sociale. Devono essere erose prima le riserve disponibili (e gli utili distribuibili), poi progressivamente quelle indisponibili (la riserva soprapprezzo azioni, la riserva legale, quella derivante dalla rivalutazione dei cespiti; anche quella per azioni proprie di cui all'art. 2357-ter, comma 3, c.c.; contra, Nobili, Spolidoro, 426).

Nella giurisprudenza è ricorrente il principio per cui – poiché il capitale sociale ha un grado di indisponibilità maggiore di quello relativo alla riserva legale, mentre le riserve statutarie e quelle facoltative sono liberamente disponibili – in sede di riduzione per perdite devono essere utilizzate, nell'ordine, prima le riserve facoltative, poi quelle statutarie, indi quelle legali e, da ultimo, il capitale sociale. «Si tratta di una regola inderogabile, in quanto la sua ratio risiede nella circostanza che le diverse voci del patrimonio netto, poiché sono progressivamente più vincolate a garanzia dei creditori, possono e devono subire le decisioni dei soci di intaccarle nell'ordine sopra indicato, restando preclusa la possibilità di far gravare le perdite sul netto più vincolato, sino a quando esistono parti del patrimonio meno vincolate o non vincolate, tanto che si è posto in evidenza come non si potrebbe neppure parlare correttamente di perdite di capitale, se non nella misura in cui tali perdite eccedano l'ammontare delle riserve, che sono destinate a costituire un presidio avanzato del capitale» (così App. Napoli, 19 giugno 2008).

Si tratta di una sequenza procedimentale ritenuta immodificabile, in quanto «non è consentito ai soci di scegliere di far gravare le perdite su parti del netto maggiormente vincolate, fino a che esistono parti di netto meno vincolate o non vincolate» (Colombo, 870).

Secondo la giurisprudenza, in sede di riduzione del capitale per perdite, ai sensi dell'art. 2446 c.c., l'omessa utilizzazione delle riserve legali determina la nullità e non la semplice annullabilità della delibera di riduzione in quanto il relativo precetto è posto a tutela di un interesse generale che trascende quello del singolo socio; in particolare, è posto a protezione dell'affidamento che i terzi abbiano fatto sulla consistenza del capitale sociale che, perciò, non può essere intaccato prima che siano state esaurite le altre voci del patrimonio stesso. La violazione del criterio di determinazione delle perdite comporta la nullità dell'intera delibera di riduzione e non già della sola frazione della delibera di riduzione avente a oggetto l'errata determinazione delle perdite; conseguentemente, in tale ipotesi, non è ammissibile un provvedimento giudiziario che, in applicazione dell'istituto della nullità parziale di cui all'art. 1419 c.c., dichiari la validità della delibera di riduzione del capitale nella minore misura necessaria a coprire le perdite residue (Cass. n. 12347/1999).

Inoltre, secondo l'opinione prevalente della dottrina, ai fini della determinazione dell'entità della perdita si deve tenere conto anche degli eventuali «utili di periodo», cioè di quegli utili rilevati prima della chiusura dell'esercizio e pertanto ancora incerti (Campobasso, 518; Guerrera, 1205; Ginevra, 271).

Nello stesso senso, in giurisprudenza, cfr. Cass. n. 5740/2004, per la quale «ai fini dell'adozione dei provvedimenti richiesti dall'art. 2447 c.c., si deve tener conto, nella determinazione dell'ammontare della perdita, anche degli eventuali utili del periodo successivo alla chiusura dell'esercizio, risultanti dalla situazione patrimoniale infrannuale posta alla base della deliberazione assembleare».

Di recente, è stato affermato dalla S.C. (Cass. n. 15087/2022) che la riserva costituita, ai sensi dell'art. 2426, comma 1, n. 4, c.c., dalle plusvalenze, derivanti dalla valutazione delle partecipazioni in imprese controllate secondo il criterio del patrimonio netto, ha natura di riserva non distribuibile, basandosi su un valore solo stimato e non ancora realizzato, e può essere utilizzata per la copertura delle perdite solo dopo l'assorbimento di ogni altra riserva distribuibile iscritta in bilancio. (Nella specie, la S.C. ha confermato, precisandone la motivazione, la sentenza di merito, che aveva dichiarato nulla la delibera di approvazione del bilancio e della distribuzione di dividendi ai soci, in quanto era stata imputata a copertura delle perdite la riserva non distribuibile, costituita ai sensi dell'art. 2426, comma 1, n. 4, c.c., sebbene fossero iscritte ulteriori riserve disponibili, che avrebbero dovuto essere assorbite prioritariamente).

L'opposto orientamento di una parte della giurisprudenza (Trib. Milano, 2 febbraio 1998; Trib. Napoli, 7 luglio 2000) si fonda infatti – come è stato osservato (Campobasso, 519, nota 70) – sulla corretta ma non decisiva osservazione che si tratta di un utile contabile non utilizzabile per la distribuzione ai soci.

A favore della soluzione affermativa si è espresso anche il Cons. Notarile Milano, Massima n. 68 del 22 novembre 2005.

La riduzione facoltativa del capitale per perdite: la ratio, gli interessi tutelati e la disciplina applicabile.

La riduzione del capitale sociale è obbligatoria solo se le perdite superano di un terzo il capitale sociale, cioè, solo quando la società abbia subito perdite che ne abbiano ridotto il patrimonio netto al di sotto dei due terzi della cifra del capitale sociale (Stanghellini, 2712).

Nel caso in cui le perdite non superano tale limite, la società non è obbligata a ridurre il capitale sociale, ma ha la facoltà di farlo (nel senso della piena legittimità della riduzione del capitale in presenza di perdite inferiori al terzo del capitale, cfr. Cass., 13 gennaio 2006, n. 543). In tal caso, si parla di riduzione «facoltativa» del capitale perché la relativa decisione non è obbligata, ma è rimessa alla discrezionalità degli organi sociali (Guerrera, 1202; Campobasso, 517; Stanghellini, 2719; Di Sabato, 458).

L'interesse sotteso ad una simile operazione potrebbero essere quello dei soci a conseguire la distribuzione degli utili futuri, altrimenti vietata in presenza di perdite dall'art. 2433, comma 3, c.c. (Campobasso, 517) oppure quello di adeguare il capitale nominale alla situazione reale in previsione di una cessione del pacchetto di controllo (Guerrera, 1202).

Così come affermato dalla giurisprudenza, la riduzione facoltativa del capitale sociale per perdite inferiori al terzo è un'operazione destinata per sua stessa natura ad incidere sull'assetto sociale e quindi ad interferire nella sfera soggettiva dei soci, in particolare sul loro diritto alla distribuzione degli utili, nonché a spiegare influenza sui diritti dei terzi e segnatamente dei creditori sociali, le cui ragioni sono garantite proprio dal capitale sociale (Cass. n. 543/2006).

Poiché la fattispecie in esame non è espressamente prevista dal legislatore, si discute in dottrina e giurisprudenza su quale sia la disciplina applicabile alla riduzione «facoltativa» del capitale per perdite inferiori al terzo.

Secondo l'opinione dominante, non troverebbe applicazione la disciplina dell'art. 2445 c.c. (in tema di riduzione reale del capitale sociale), perché la facoltà di opposizione da parte dei creditori ivi prevista, è stata introdotta dal legislatore per impedire la diminuzione effettiva del patrimonio netto non quella meramente nominale (Campobasso, 517; Nobili, Spolidoro, 333; Belviso, 133; Guerrera, 1202; contra, Fenghi, 68; più recentemente Ginevra, 274, per il quale l'art. 2445 c.c. ha come primo presupposto, proprio, il volontario abbassamento della cifra del capitale sociale). Dovrebbe piuttosto trovare applicazione la disciplina prevista dall'art. 2446 c.c. con gli opportuni adattamenti dovuti al fatto che l'operazione non è obbligata ma facoltativa (Guerrera, 1202, anche per i riferimenti alla contraria opinione; Campobasso, 518; Stanghellini, 2720, per il quale ove la riduzione fosse maggiore della perdita, allora dovrebbe trovare applicazione il più gravoso procedimento dell'art. 2445 c.c.).

Come ribadito dalla Suprema Corte di Cassazione «la riduzione facoltativa del capitale sociale [...] non è contemplata specificamente né dall'art. 2445 c.c., che si riferisce alla diversa ipotesi di esuberanza del capitale, né dagli artt. 2446 e 2447, che prevedono la riduzione obbligatoria per perdite, ma deve ugualmente attuarsi secondo un modello predefinito che offra adeguate garanzie di protezione ad entrambe le predette categorie di soggetti; nel silenzio del legislatore, la sua disciplina dev'essere ricavata, ai sensi dell'art. 12, secondo comma, disp. prel. c.c., dai principî generali desumibili dall'art. 2446, con gli adattamenti resi necessari dalla discrezionalità dell'operazione, connessa alla minore entità della perdita: ne consegue che l'amministratore, mentre non è tenuto a convocare senza indugio l'assemblea, deve rendere edotti i soci dell'effettivo stato patrimoniale della società, mediante una situazione patrimoniale riferita ad una data prossima a quella dell'adunanza [...] » (Cass. n. 543/2006).

E' stato affermato che la riduzione facoltativa del capitale sociale per perdite inferiori al terzo è un'operazione destinata per sua stessa natura ad incidere sull'assetto sociale, e quindi ad interferire nella sfera soggettiva dei soci; in particolare sul loro diritto alla distribuzione degli utili, nonché a spiegare influenza sui diritti dei terzi, e specialmente dei creditori sociali, le cui ragioni sono garantite proprio dal capitale sociale. Essa non è contemplata specificamente né dall'art. 2445 c.c. (che si riferisce alla diversa ipotesi di esuberanza del capitale) né dagli artt. 2446 e 2447 c.c. (che prevedono la riduzione obbligatoria per perdite, ma deve ugualmente attuarsi secondo un modello predefinito che offra adeguate garanzie di protezione ad entrambe le predette categorie di soggetti). Nel silenzio del legislatore, la sua disciplina dev'essere ricavata, ai sensi dell'art. 12 preleggi, comma 2, dai principi generali desumibili dall'art. 2446 c.c., con gli adattamenti resi necessari dalla discrezionalità dell'operazione, connessa alla minore entità della perdita: ne consegue che l'amministratore, mentre non è tenuto a convocare senza indugio l'assemblea, deve rendere edotti i soci dell'effettivo stato patrimoniale della società, mediante una situazione patrimoniale riferita ad una data prossima a quella dell'adunanza; tale situazione patrimoniale può essere surrogata anche dall'ultimo bilancio di esercizio, purché sia rispettata quell'esigenza di continuità temporale, rispetto alla data di convocazione dell'assemblea, che garantisce un'idonea informazione dei soci, e non siano nel frattempo sopravvenuti fatti significativi (Cass., n. 1187/2020).

La riduzione per perdite superiori al terzo del capitale. La situazione patrimoniale aggiornata

La riduzione del capitale sociale è obbligatoria quando il capitale è diminuito di oltre un terzo in conseguenza di perdite. Ove per effetto della perdita di un terzo il minimo legale sia stato intaccato, trova applicazione la più rigorosa disciplina dell'art. 2447 c.c. (al cui commento si rinvia).

Ove, al contrario, la perdita di oltre un terzo non abbia eroso il minimo legale di euro 50.000 fissato dall'art. 2327 c.c., la norma in commento dispone che l'organo amministrativo (o, nel caso di sua inerzia, l'organo di controllo) deve innanzitutto convocare «senza indugio» l'assemblea straordinaria (Nobili, 331; Campobasso, 518; arg. ex art. 2365 c.c.) per adottare gli «opportuni provvedimenti».

È opinione diffusa che la convocazione dell'assemblea con all'ordine del giorno l'adozione dei provvedimenti di cui all'art. 2446 c.c. (nel senso che non occorra anche una analitica indicazione dei provvedimenti da adottarsi, Nobili, Spolidoro, 340; diversamente, Belviso, 123) debba essere effettuata dall'organo di gestione in tempi ragionevoli (Guerrera, 1203). Il legislatore, quindi, richiede un comportamento assai diligente e solerte da parte degli amministratori, anche se non è possibile stabilire una regola uniforme rigidamente determinata sul piano temporale (Bertacchini, 454).

In ogni caso, anche ove l'assemblea dei soci non venisse dagli amministratori convocata con la dovuta sollecitudine, la delibera di riduzione non sarebbe invalida (Cass. n. 8928/1994), ferma restando la responsabilità degli amministratori per la condotta omissiva (Cass. n. 6238/1998).

All'assemblea deve essere sottoposta dall'organo di gestione una «relazione sulla situazione patrimoniale della società», corredata dalle osservazioni del collegio sindacale (o del comitato per il controllo sulla gestione, nel caso di adozione del sistema monistico).

È opinione ormai consolidata in dottrina (Colombo, 861; Nobili, 330; Campobasso, 518) che gli amministratori debbano predisporre un vero e proprio bilancio (che comprenda lo stato patrimoniale, il conto economico e la nota integrativa) redatto secondo i criteri di valutazione stabiliti per il bilancio di esercizio e che, in definitiva, si differenzia da quest'ultimo solo perché redatto nel corso dell'esercizio (c.d. bilancio straordinario infrannuale).

Nello stesso senso si è espressa la giurisprudenza prevalente (Trib. Verona, 14 marzo 1985; Trib. Napoli, 31 dicembre 1998; Trib. Roma, 4 febbraio 2000).

Invero, è ancora controverso se la situazione patrimoniale vada corredata anche dal conto economico (in senso contrario cfr. ad esempio Cass. n. 4326/1994; Libonati, 824), anche se appare preferibile la soluzione affermativa (Campobasso, 518; Di Sabato, 457; Nobili, 330, per il quale il bilancio deve essere «completo») in quanto il conto economico è parte integrante del bilancio ed ha l'essenziale funzione di informare i soci sulla gestione dinamica dell'impresa sociale e sulle cause della perdita affinché possano adottare scelte consapevoli (Guerrera, 1203 s.).

La situazione patrimoniale prevista dalla norma in commento deve essere «aggiornata», cioè riferita ad una data ragionevolmente prossima a quella dell'assemblea dei soci (Nobili, 330; Guerrera, 1204). Il requisito dell'aggiornamento della situazione patrimoniale, pur non richiesto espressamente dal legislatore, viene fatto discendere dall'esigenza di convocare l'assemblea «senza indugio» (comma 1) e di ridurre il capitale «in proporzione delle perdite accertate» (comma 2).

Si reputa generalmente aggiornata la situazione patrimoniale riferita ad una data non anteriore di oltre quattro mesi, in analogia a quanto previsto dall'art. 2364, comma 2, c.c. (Trib. Udine, 9 gennaio 1999; Ginevra, 271) ovvero secondo un'impostazione più rigorosa, due mesi (Massime Trib. Bologna; Trib. Milano, 15 giugno 1996).

Secondo un diverso orientamento, invece, l'adeguatezza dell'intervallo temporale fra la data di riferimento della situazione patrimoniale e quella dell'assemblea, andrebbe valutata caso per caso avendo riguardo alle dimensioni o al tipo di attività esercitata o alle ragioni della formazione della perdita (Nobili, 330, nota 101).

In questo senso si è espressa anche la Suprema Corte di cassazione, affermando il principio secondo il quale «la relazione – in cui va esposta la situazione patrimoniale della società con i crismi di chiarezza, correttezza e veridicità imposti per il bilancio di esercizio dagli artt. 2423 ss. c.c. – deve essere il più possibile aggiornata; e, non avendo il legislatore inteso fissare uno specifico termine al riguardo, il grado di aggiornamento richiesto deve di volta in volta essere valutato in relazione a ciascun caso concreto, tenendo conto almeno di due possibili varianti: la dimensione della società e la conseguente complessità dei rilevamenti contabili che la riguardano, da un lato; l'esistenza di eventuali fatti sopravvenuti idonei a far fondatamente supporre che la situazione patrimoniale, rispetto alla data di riferimento della relazione degli amministratori, possa essere mutata nel frattempo in modo significativo, dall'altro» (Cass. n. 23269/2005; in termini Cass. n. 8221/2007).

Più di recente, la giurisprudenza di legittimità ha affermato che, in tema di riduzione del capitale sociale per perdite, la norma dell'art. 2446 c.c. trova la sua ratio nel principio secondo cui l'assemblea, ai fini di una regolare formazione della volontà sociale, in una materia che attiene alla vita stessa della società, deve essere dettagliatamente ed adeguatamente informata sulla reale situazione patrimoniale della società. Da ciò deriva che la relazione - in cui va esposta la situazione patrimoniale della società con i crismi di chiarezza, correttezza e veridicità, imposti per il bilancio di esercizio dagli artt. 2423 c.c. e ss. - deve essere il più possibile aggiornata; e, non avendo il legislatore voluto fissare uno specifico termine al riguardo, il grado di aggiornamento richiesto deve di volta in volta essere valutato in relazione a ciascun caso concreto, tenendo conto almeno di due possibili varianti: la dimensione della società e la conseguente complessità dei rilevamenti contabili che la riguardano, da un lato; l'esistenza di eventuali fatti sopravvenuti idonei a far fondatamente supporre che la situazione patrimoniale, rispetto alla data di riferimento della relazione degli amministratori, possa essere mutata nel frattempo in modo significativo, dall'altro (Cass. n. 1187/2020).

È opinione condivisa che la situazione patrimoniale richiesta dalla norma può essere sostituita dall'ultimo bilancio di esercizio purché quest'ultimo sia aggiornato, cioè riferito ad una data recente rispetto a quella dell'assemblea. Sul punto la Corte ha precisato che il grado di aggiornamento della situazione va valutato in relazione a ciascun caso concreto, e che detta situazione patrimoniale può, eventualmente, essere anche surrogata dall'ultimo bilancio di esercizio, purché questo sia riferibile ad una data recente rispetto a quella di convocazione dell'assemblea, sempre che medio tempore non siano sopravvenuti fatti significativi (Cass. n. 8221/2007).

La relazione e le osservazioni devono restare depositate in copia nella sede della società durante gli otto giorni che precedono l'assemblea, perché i soci possano prenderne visione. Il termine deve essere calcolato a giorni liberi (Nobili, Spolidoro, 348).

I giorni devono poi essere calcolati per intero, cioè senza tener conto delle ore (così Cass. n. 2968/1995, per la quale «al fine della validità della delibera assembleare di riduzione del capitale sociale per perdite, l'art. 2446 c.c., disponendo che la relazione degli amministratori sulla situazione patrimoniale, con le osservazioni del collegio sindacale, deve restare depositata nella sede della società “durante gli otto giorni che precedono l'assemblea”, impone, in difetto di previsioni che autorizzino di passare ad un calcolo ad ore, ovvero di assegnare influenza alla frazione di giorno, che detto deposito sia eseguito non oltre lo spirare del nono giorno anteriore a quello dell'assemblea, quale che sia l'orario della sua celebrazione, dato che solo in tale situazione il giorno dell'assemblea risulta “preceduto” da otto giorni di deposito»).

Trattandosi di un termine previsto nell'interesse dei soci, questi vi possono rinunciare (Trib. Genova, 29 settembre 1990).

Inoltre, per una più completa informazione degli azionisti, è previsto che nell'assemblea gli amministratori debbano dare conto dei fatti di rilievo avvenuti dopo la redazione della relazione (Guerrera,1204).

Alla riunione convocata dagli amministratori ai sensi del primo comma dell'art. 2446 c.c., i soci non devono necessariamente adottare decisioni che incidano sul capitale sociale, dovendo semplicemente assumere gli «opportuni provvedimenti». In particolare, l'assemblea può scegliere se ridurre subito il capitale sociale oppure rinviare la scelta all'esercizio successivo. Secondo la dottrina (Presti, Rescigno, 207) gli «opportuni provvedimenti» assumibili dall'assemblea convocata ai sensi del primo comma della norma in commento hanno ampio spettro: dall'immediata riduzione del capitale, allo stato ancora facoltativa, fino al non far nulla in attesa degli sviluppi della gestione sociale. Si ritiene che, invece, non rientrino nelle misure adottabili dall'assemblea gli atti di gestione (ristrutturazione aziendale, riduzione del personale ecc.) che in generale non sono di competenza di tale organo (Ginevra, 272). Tali operazioni potranno al più essere sottoposte dagli amministratori all'assemblea per ottenere un parere non vincolante (Nobili, 332, nota 105).

Stessa discrezionalità non è, invece, concessa ai soci ove la perdita non risulti diminuita a meno di un terzo entro la fine dell'esercizio successivo (art. 2446, comma 2, c.c.), dovendo in tal caso l'assemblea ordinaria (o il consiglio di sorveglianza, nel sistema dualistico) che approva il bilancio, ridurre il capitale «in proporzione delle perdite accertate». La deliberazione, benché adottata per legge dall'assemblea ordinaria (per il rilievi critici sul punto, Di Sabato, 458), è soggetta al controllo notarile ai sensi dell'art. 2436 c.c. (Campobasso, 519, nota 73), avendo pur sempre ad oggetto una modificazione statutaria (art. 111-terdecies disp. att.).

Nel caso di inerzia, la riduzione del capitale «in ragione delle perdite risultanti dal bilancio» è disposta dal tribunale su richiesta degli amministratori e dei sindaci (o del consiglio di sorveglianza), con decreto soggetto a reclamo, che deve essere iscritto nel registro delle imprese a cura degli amministratori (secondo comma dell'art. 2446 c.c.).

Il terzo comma dell'art. 2446 c.c. (introdotto dalla Riforma delle società del 2003) dispone che se le azioni emesse dalla società sono senza valore nominale (art. 2346 c.c.), lo statuto può prevedere che la riduzione sia deliberata dal consiglio di amministrazione con l'osservanza delle formalità dell'art. 2436 c.c. (Campobasso, 519; Spoldoro, 301-302, il quale, fra l'altro, non condivide la decisione del legislatore di rivolgere la norma in esame alle sole s.p.a. con azioni senza valore nominale «espresso», in quanto la ratio della disposizione sussiste benissimo anche se la azioni hanno un valore nominale riportato sul titolo e indicato nello statuto).

La riduzione parziale del capitale.

È opinione prevalente che la riduzione del capitale sociale debba essere pari alle perdite accertate, avendo prescritto il legislatore nel comma secondo dell'art. 2446 c.c. che la riduzione avvenga «in proporzione delle perdite accertate» (Guerrera, 1204).

Si ritiene, pertanto, che non sia ammissibile una riduzione parziale finalizzata a coprire solo in parte le perdite, in modo da farle scendere al di sotto di un terzo del capitale sociale (Di Sabato, 457; Ginevra, 272). In tal senso depone, altresì, la circostanza (ben evidenziata da Ginevra, 272 s.) che l'art. 2446 c.c. risponde a un'esigenza di obiettiva razionalità della regola del capitale nominale e di necessaria sua adeguatezza alle potenzialità economiche nei fatti mostrate dalla società. Diversamente, Campobasso, 519, per il quale l'ampia formulazione del primo comma dell'art. 2446 c.c. può indurre a ritenere che sia possibile una riduzione che copra solo parzialmente le perdite (in termini anche Nobili,Spolidoro, 353).

Per le medesime ragioni sopra esposte, si ritiene generalmente che non sia ammissibile nemmeno una riduzione superiore alle perdite accertate, con imputazione del residuo a riserva, salvo che la stessa venga deliberata con il rispetto delle formalità e delle condizioni previste dall'art. 2445 c.c. in tema di riduzione volontaria del capitale sociale (Guerrera, 1204; Di Sabato, 457).

Devono, invece, ritenersi ammissibili arrotondamenti in misura minima posti in essere per esigenze di natura contabile ovvero per evitare eventuali resti frazionari. L'arrotondamento, infatti, viene considerato un fenomeno «neutro» non idoneo a danneggiare i creditori sociali (Guerrera, 1204; Nobili, 323; Stanghellini, 2724).

Secondo la Suprema Corte, infatti, «ai sensi dell'art. 2446 c.c., l'assemblea è tenuta a deliberare la riduzione del capitale per perdite in proporzione delle perdite accertate: e ciò sia nel senso che non può ritenersi consentita una riduzione che superi l'ammontare di queste, potendosi altrimenti risolvere la riduzione in un'indebita espropriazione dei soci, privati del valore delle azioni corrispondenti al capitale residuo; sia nel senso che la riduzione non può essere commisurata soltanto ad una frazione delle perdite, giacché ciò ne consentirebbe il trascinamento nel tempo ben oltre il limite temporale dell'esercizio successivo, espressamente indicato dalla menzionata disposizione del codice. Tale principio, peraltro, è suscettibile di limitata deroga nel caso in cui, occorrendo anche procedere al raggruppamento o al frazionamento di azioni, l'applicazione rigorosa della regola di riduzione del capitale in proporzione delle perdite farebbe emergere resti non suscettibili di attribuzione. Pertanto, deve ritenersi consentito il riporto a nuovo delle azioni, nei limiti in cui sia imposto dall'esigenza contabile di assicurare la parità di valore nominale delle azioni medesime, e purché sia circoscritto a quanto indispensabile per il soddisfacimento di tale esigenza» (Cass. n. 23269/2005).

Le modalità di copertura delle perdite: i versamenti dei soci.

Per evitare la riduzione del capitale, è valida prassi diffusa quella di incidere sulla stessa perdita con operazioni di «ripianamento» da parte dei soci, di cui l'assemblea convocata ai sensi dell'art. 2446 c.c. prende atto (Di Sabato, 457; Guerrera, 1205; Nobili, 319).

La «copertura» della perdita può avvenire mediante l'esecuzione di versamenti «a fondo perduto» effettuati generalmente dai soci in proporzione alla quota di capitale sottoscritta (Guerrera, 1205). Tali apporti che hanno natura spontanea, non potendo l'assemblea obbligare i soci ad effettuare conferimenti aggiuntivi (Campobasso, 507), incrementano il patrimonio della società senza modificarne il capitale sociale e sono quindi liberamente utilizzabili dai soci per il ripianamento delle perdite (Stanghellini, 2717, anche per le connesse problematiche sottese alla qualificazione dell'apporto spontaneo del socio in termini di conferimento o di capitale di credito).

Analoga finalità produce la rinuncia del socio ad un suo credito nei riguardi della società o la sua compensazione con un versamento a fondo perduto (Cass. n. 936/1996). In giurisprudenza, è consolidato l'orientamento che ritiene i versamenti «a fondo perduto» e la rinuncia al credito verso la società idonei a rimuovere il presupposto della riduzione obbligatoria del capitale di cui alla norma in commento (App. Roma, 21 gennaio 1999; Trib. Genova, 12 febbraio 2002; Trib. Avezzano, 2 dicembre 2004; contra, Trib. Roma, 14 luglio 1998).

È discusso, invece, se per la medesima finalità possano essere utilizzati i versamenti effettuati «in conto futuro aumento di capitale», in quanto il socio in questo caso ha impresso al suo apporto una specifica destinazione, che potrebbe risultare altrimenti disattesa (Guerrera, 1205). Pertanto, in mancanza di un'espressa clausola contraria, i relativi importi non potrebbero essere impiegati per coprire eventuali perdite in quanto rappresentano un'anticipazione della sottoscrizione che dovrà essere effettuata in sede di aumento (Nobili, 320; Trib. Napoli, 25 febbraio 1998). Qualora poi l'aumento di capitale non possa essere realizzato, il versamento deve essere restituito al socio per il verificarsi della condizione risolutiva dell'apporto (così Stanghellini, 2717).

In senso favorevole alla utilizzabilità anche di questi conferimenti «di patrimonio» (così li definisce Costa, 1233 ss.) per la copertura delle perdite, è stato efficacemente osservato (Guerrera, 1205) che poiché a fronte di questi apporti vengono iscritte in bilancio apposite riserve, quest'ultime non potrebbero comunque sottrarsi alla regola – sopra esposta – dell'assorbimento preventivo rispetto al capitale.

L'aumento di capitale sociale in pendenza di perdite.

È ancora controverso in dottrina ed in giurisprudenza se l'assemblea possa deliberare un aumento di capitale senza aver preventivamente ripianato le perdite oppure ridotto il capitale in misura corrispondente (in argomento di recente Stanghellini, 2725).

Prevale l'opinione che l'aumento di capitale in presenza di perdite sia consentito solo nell'ipotesi di riduzione facoltativa per perdite di cui al primo comma dell'art. 2446 c.c., rientrando negli «opportuni provvedimenti» ammessi dalla legge (Belviso, 137; Salafia, 289), mentre sarebbe precluso nei casi di riduzione obbligatoria del capitale di cui all'art. 2446, comma 2, c.c. e art. 2447 c.c., per i quali le esigenze di informazione sottese alla disciplina non consentirebbero di mascherare la situazione reale della società (Di Sabato, 457).

In senso favorevole, si è di recente espresso il Consiglio Notarile di Milano (Massima n. 122 del 18 ottobre 2011), affermando che «la presenza di perdite superiori al terzo del capitale, anche tali da ridurre il capitale ad un importo inferiore al minimo legale previsto per le s.p.a. e le s.r.l., non impedisce l'assunzione di una deliberazione di aumento del capitale che sia in grado di ridurre le perdite ad un ammontare inferiore al terzo del capitale e di ricondurre il capitale stesso, se del caso, a un ammontare superiore al minimo legale».

Le speciali deroghe previste per le start-up e PMI innovative e per le società in crisi.

Con il c.d. decreto Crescita 2.0 (d.l. n. 179/2012, convertito, con modificazioni, in l. n. 221/2012), che ha istituito e regolato nel nostro ordinamento la “start-up innovativa”, il legislatore ha introdotto una serie di deroghe al diritto comune finalizzate a consentire una gestione più flessibile e funzionale per le imprese innovative nella fase di start-up. Il d.l. n. 3/2015 (“Investment Compact”) ha poi esteso molte delle facilitazioni previste per le start-up innovative anche alle piccole e medie imprese (“PMI”) innovative.

Con specifico riguardo alla disciplina in commento, il legislatore ha previsto che sia le start-up sia le PMI innovative possano beneficiare di un trattamento agevolato nella ricostituzione delle perdite: esse possono, infatti, diluire nel tempo i rischi dell'indebitamento, derogando alla disciplina prevista nel codice civile (Bertacchini, 457 s.; Stanghellini, 2727 ss.).

In particolare, il comma 1 dell'art. 26, d.l. 179/2012, prevede un'estensione di ulteriori dodici mesi del “rinvio a nuovo” delle perdite e, nelle ipotesi più gravi in cui le perdite arrivino ad intaccare il minimo legale, consente il differimento della ricapitalizzazione alla chiusura dell'esercizio successivo. In pratica, per le imprese innovative: in caso di perdite superiori a un terzo del capitale sociale, è possibile, senza ridurre il capitale, riportare la perdita sotto tale limite entro il secondo esercizio successivo a quello in cui si è verificata (anziché entro il primo esercizio successivo); in caso di perdite che riducano il capitale sociale al di sotto del minimo legale, le società innovative possono attendere la chiusura dell'esercizio successivo per deliberare la riduzione del capitale e il contemporaneo aumento dello stesso a una cifra non inferiore al minimo legale, oppure trasformare o liquidare la società.

Le ragioni che hanno indotto il legislatore a derogare alla disciplina di diritto comune per queste particolari tipologie di imprese, vanno ricercate principalmente nell'intento di incentivare la natura innovativa dell'attività svolta.

Con riferimento, invece, alle società in crisi, l'art. 182-sexiesl.fall. (sul quale Nigro, 1 ss.), introdotto con l. 7 agosto 2012, n. 134, ha previsto un'ipotesi di sospensione degli obblighi di ricapitalizzazione previsti dal codice civile in materia di s.p.a. ed s.r.l., sancendo altresì l'inoperatività della relativa causa di scioglimento prevista per la riduzione del capitale al di sotto del limite minimo di capitale previsto per tali società (art. 2484, n. 4, c.c.) e quella prevista per la perdita integrale del capitale nelle cooperative (art. 2545-duodecies c.c.).

Tale sospensione opera da quando la società deposita una domanda di concordato preventivo (anche «in bianco» ai sensi dell'art. 161, comma 6, l. fall.), una domanda di omologazione di un accordo di ristrutturazione ai sensi dell'art. 182-bis l. fall. o una proposta di accordo di ristrutturazione ai sensi dell'art. 182-bis, comma 6, l. fall., e sino all'omologazione (Nigro, 1 ss.).

È controverso, al riguardo (sul punto Stanghellini, 2729), se la sospensione operi sino al momento del deposito del decreto di omologazione (immediatamente efficace ai sensi dell'art. 180, comma 5, l. fall.) ovvero sino al momento in cui diventi definitivo (in questo senso Trib. Monza, 3 dicembre 2014).

La norma che mira evidentemente ad incentivare il ricorso alle soluzioni concordate della crisi di impresa, è stata salutata criticamente da una parte della dottrina (Lo Cascio, 1 ss.) la quale ha osservato come la soluzione ideata non sembri congruente con le esigenze di risanamento, in quanto «sospendere le regole del capitale sociale sino all'omologazione significa rinviare il ripristino della legalità gestionale ad un momento in cui il giudizio conclusivo sulla procedura dovrebbe accertare la recuperabilità dell'impresa».

La sospensione prevista dal Decreto Liquidità per fronteggiare l'emergenza Covid-19:  rinvio

Il d.l. n. 23/2020, conv., con modif. in l. n. 40/2020 (c.d. decreto liquidità), ha introdotto delle “Disposizioni temporanee in materia di riduzione del capitale”, per le quali si rinvia al commento all'art. 2446.

Bibliografia

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