Codice Civile art. 2479 ter - Invalidità delle decisioni dei soci (1).Invalidità delle decisioni dei soci (1). [I]. Le decisioni dei soci che non sono prese in conformità della legge o dell'atto costitutivo possono essere impugnate dai soci che non vi hanno consentito, da ciascun amministratore e dal collegio sindacale entro novanta giorni (2) dalla loro trascrizione nel libro delle decisioni dei soci. Il tribunale, qualora ne ravvisi l'opportunità e ne sia fatta richiesta dalla società o da chi ha proposto l'impugnativa, può assegnare un termine non superiore a centottanta giorni (2) per l'adozione di una nuova decisione idonea ad eliminare la causa di invalidità. [II]. Qualora possano recare danno alla società, sono impugnabili a norma del precedente comma le decisioni assunte con la partecipazione determinante di soci che hanno, per conto proprio o di terzi, un interesse in conflitto con quello della società. [III]. Le decisioni aventi oggetto illecito o impossibile e quelle prese in assenza assoluta di informazione possono essere impugnate da chiunque vi abbia interesse entro tre anni dalla trascrizione indicata nel primo periodo del primo comma (2) (3). Possono essere impugnate senza limiti di tempo le deliberazioni che modificano l'oggetto sociale prevedendo attività impossibili o illecite. [IV]. Si applicano, in quanto compatibili, gli articoli 2377, primo, quinto, settimo, ottavo e nono comma (4), 2378, 2379-bis, 2379-ter e 2434-bis. (1) V. nota al Capo VII. (2) V. Avviso di rettifica in G.U. 4 luglio 2003, n. 153. (3) La parola «primo» è stata sostituita alla parola «secondo» dall'art. 22 d.lg. 28 dicembre 2004, n. 310. (4) Le parole «primo, quinto, settimo, ottavo e nono comma» sono state sostituite alle parole «quarto, sesto, settimo e ottavo comma» dall'art. 3 d.lg. 17 gennaio 2003, n. 6, come modificato dall'art. 5 1tt) d.lg. 6 febbraio 2004, n. 37. InquadramentoCome nel caso di società per azioni, il legislatore ha inteso dettare, anche per le società a responsabilità limitata, una disciplina dell'invalidità delle decisioni dei soci che coniugasse la tutela dei soggetti lesi (società, soci, terzi) e la stabilità degli atti societari (Zanarone, 1387). Ferma la comune esigenza di fondo, tuttavia, la riforma ha introdotto, per la società a responsabilità limitata, una regolamentazione autonoma e differenziata della materia che tiene conto, in particolare, della pluralità delle modalità di formazione della volontà sociale (assembleare o extrassembleare). Peraltro, la disciplina è completata da una fitta rete di richiami a specifiche norme dettate per la società azionaria che saranno applicabili previa verifica della loro compatibilità con il tipo sociale della s.r.l. L'articolo in commento disciplina, dunque, il regime della invalidità delle decisioni dei soci, facendo rientrare in tale categoria generale tanto le ipotesi della nullità (terzo comma) che quella delle annullabilità di esse (primo e secondo comma). Come si legge nella relazione illustrativa alla riforma del diritto societario (par. 5), l'individuazione legislativa delle ipotesi di invalidità, richiesta dalla legge delega, corrisponde ad una sorta di riserva di legge al riguardo, volta ad escludere ipotesi di invalidità atipiche, come l'inesistenza delle deliberazioni assembleari, della quale si è in giurisprudenza alquanto abusato. Pertanto, la riforma ha inteso formulare il principio di tassatività delle ipotesi di invalidità delle deliberazioni assembleari previste dalla legge: la annullabilità per violazione di norme, anche imperative, di legge o di clausole dello statuto, e la nullità nelle ipotesi tassativamente indicate nel nuovo art. 2379 e, per le s.r.l., nell'art. 2479-ter comma 3. Peraltro, nella s.r.l., il legislatore ha dettato una disciplina ancora più sintetica riportando nell'alveo della generica categoria della invalidità le fattispecie tipiche della nullità e della annullabilità, tanto che diversi autori hanno revocato in dubbio la stessa utilità di distinguere ancora oggi queste due tipologie di vizi. L'inesistenzaPrima della riforma, la categoria della «inesistenza» era stata teorizzata dalla giurisprudenza per ricomprendere tutte quelle ipotesi in cui la deliberazione fosse risultata priva di un elemento costitutivo del procedimento tale da dare vita ad una fattispecie meramente apparente non assimilabile, per inadeguatezza strutturale o funzionale, alla categoria giuridica delle deliberazioni. Si affermava, in via generale, che l'inesistenza della delibera assembleare di società di capitali ricorre quando manca alcuno dei requisiti procedimentali indispensabili per la formazione di una delibera imputabile alla società, determinandosi così una fattispecie apparente, non sussumibile nella categoria giuridica delle deliberazioni assembleari (ex plurimis, Cass. n. 9364/2003). Erano, peraltro, ricomprese nell'ambito del concetto in argomento: la omessa convocazione, di tutti o di alcuni, dei soci, in quanto determinante la mancanza, in concreto, di un elemento essenziale dello schema legale della deliberazione assembleare (Cass. n. 9364/2003 che, peraltro, escludeva dalla inesistenza la irregolarità, o il vizio, che inficiasse la convocazione); la deliberazione assunta in difetto dei quorum deliberativi richiesti dalla legge (Trib. Milano, 24 settembre 1990, in Giur.it. 1991, I, 512); la deliberazione convocata da un solo amministratore. Come è noto, l'obiettivo del legislatore della riforma, tanto con riferimento alle società azionarie che con riferimento alla società a responsabilità limitata, è stato quello di eliminare la categoria della «inesistenza». L'obiettivo è stato realizzato attraverso una riallocazione dei vizi che, in precedenza, venivano ricondotti al concetto di inesistenza nelle tradizionali categorie della nullità e della annullabilità mediante predisposizione di un «catalogo», tendenzialmente tassativo, dei vizi afferenti alle deliberazioni. In questa prospettiva, ad es., è divenuta ipotesi di semplice annullabilità la partecipazione determinante di soggetti non legittimati (art. 2377, comma 5, n. 1, richiamato per la s.r.l. dall'art. 2479-ter, u.c.) oppure l'apporto determinante di singoli voti invalidi o erroneamente conteggiati (art. 2377, comma 5, n. 2, richiamato per la s.r.l. dall'art. 2479-ter, u.c.). L'«assoluta assenza di informazione», poi, è divenuta causa di nullità della deliberazione (art. 2479-ter, comma 3). Peraltro, nella società a responsabilità limitata, come si vedrà immediatamente infra, il legislatore ha rinunziato a dettare una articolata disciplina delle categorie di nullità e di annullabilità, predisponendo una disciplina più sintetica e meno articolata della disciplina in argomento. Nonostante il diverso quadro normativo, la dottrina si è interrogata sulla eventuale persistente possibilità di fare ricorso alla fattispecie della inesistenza giuridica della deliberazione in taluni estremi casi in cui non sia riconoscibile, ad onta del nomen assunto, una decisione dei soci. Una parte della dottrina (Cian, 765, Mirone, 508), ribadendo che la nullità presuppone comunque l'idoneità del fatto a produrre taluni effetti stabiliti dall'ordinamento al ricorrere di determinate condizioni, evidenzia l'ammissibilità della categoria dell'inesistenza allorquando determinati «fatti» non possano, neppure in astratto, essere qualificabili come decisioni dei soci, in quanto mancanti degli elementi essenziali per la loro sussunzione all'interno della fattispecie delle decisioni dei soci (Cian, 776). In questa ottica, si evidenzia come la categoria della inesistenza potrebbe essere utile con riferimento alla s.r.l., poiché la deformalizzazione caratterizzante questo tipo societario ed il rilevante spazio lasciato all'autonomia statutaria fanno presagire una moltiplicazione dei casi in cui le deliberazioni saranno carenti dei requisiti minimi (Zanarone, 1423; Rordorf, 271; Corrado, 1074). Secondo altra parte della dottrina, le categorie della nullità e dell'annullabilità qui disciplinate coprono tutto il campo delle invalidità delle decisioni dei soci così che rimarrebbe ben poco spazio per la categoria della inesistenza (Arcidiacono, 851; Soldati, 454). In questa prospettiva, si evidenzia come il legislatore abbia inteso disciplinare le ipotesi dei vizi derivanti dall'assenza assoluta di informazione, dalla mancanza del verbale o dall'omessa trascrizione nel libro delle decisioni dei soci ovvero dalla partecipazione all'assemblea di soggetti non disciplinati così riconoscendo che, anche in tali casi, le decisioni dei soci debbano essere, seppure viziate, comunque «riconoscibili» come tali. Secondo un orientamento intermedio, «di inesistenza, con conseguente assoluta irrilevanza della (apparente) decisione, si potrà parlare soltanto nel caso in cui la stessa risulti da un documento (verbale, estratto libro decisioni, certificato registro delle imprese) materialmente falso, vale a dire privo del carattere della genuinità circa la sua provenienza (Palmieri, 2009, 188 ss., spec. 193; Palmieri, 2011, 861 ss.). La discussa unitarietà della categoria della «invalidità». Il problema della efficacia delle deliberazioni «nulle»Il legislatore si è astenuto dal qualificare le differenti tipologie di invalidità, avvalendosi della nozione neutra di invalidità (Carbonara, 144; Corrado, 1043; Rordorf, 270). Sulla scorta di tale considerazione, una parte della dottrina ha revocato in dubbio l'attuale vigenza della distinzione tra nullità ed annullabilità segnalando, in particolare, che la struttura della norma si sviluppa attorno alla fattispecie-base della decisione non conforme alla legge ed all'atto costitutivo: in questa prospettiva, il legislatore avrebbe rinunziato ad operare classificazioni, prevedendo una disciplina sostanzialmente unitaria, in cui le deroghe si fondato non già sulla qualificazione dei vizi, ma sulla loro diretta individuazione (Palmieri, 173; Nuzzo, 1637; contraGuerrieri, 2045). In questa prospettiva, le distinzioni tra categorie di vizi operate dall'art. 2479 ter riguardano soltanto i termini per le impugnazioni e la legittimazione ad agire, mentre per il resto la disciplina appare unitaria (Palmieri, 186, che evidenzia come la scelta del legislatore ricalchi quella di cui all'art. 2388 per le deliberazioni consiliari). In senso contrario, si evidenzia come i richiami alla rubrica dell'art. 2479-ter ed al tenore letterale del testo del medesimo art. non siano decisivi (Arcidiacono, 842 ss.). Comunque sia, anche a volere distinguere tra vizi di annullabilità e vizi di nullità delle deliberazioni, il richiamo a tali figure tipiche avviene in una prospettiva estranea rispetto al diritto comune (artt. 1418 ss.) con la conseguenza che il significato di tali concetti non può essere pedissequamente ricalcato dal sistema delle invalidità di diritto comune (Palmieri, 151; Arcidiacono, 849). Ci si interroga, poi, sulla eventuale efficacia delle deliberazioni nulle. Sotto un primo profilo, la circostanza che il legislatore abbia voluto porre un termine di decadenza per proporre l'impugnazione delle deliberazioni di cui all'art. 2479-ter consente di riconoscere efficacia ad esse, una volta che sia decorso il termine triennale. Da una simile considerazione parte della dottrina ha dedotto che le delibere nulle siano comunque efficaci anche in pendenza del termine per l'impugnazione (Sanna, 168, secondo il quale l'attuale disciplina della nullità delle deliberazioni si caratterizza per un sensibile allontanamento dal regime di nullità dei contratti e per una evidente convergenza verso il campo dell'annullabilità, come dimostrato dall'utilizzo del termine «impugnazione» anche con riferimento all'azione di nullità, la previsione di un termine entro il quale farla valere e la sanabilità nelle ipotesi previste dall'art. 2379-bis: dai suddetti profili di disciplina può pertanto desumersi la provvisoria efficacia della delibera nulla; nel medesimo senso, Pisani Massamormile, 50; Lener, 969; Piazza, 969). Secondo altra parte della dottrina, al contrario, occorre riconoscere che la nullità comporta l'inidoneità dell'atto a produrre effettiab origine, salve le ipotesi di sanatoria testualmente disciplinate (Cian, 775). Le deliberazioni nulle sarebbero, dunque, inefficaci (Centonze, 311). Secondo diversa ricostruzione, sulla base della non unitarietà della disciplina degli effetti delle decisioni nulle, propone un regime disaggregato (Palmieri, 186 ss.; Arcidiacono, 846). In particolare, per le deliberazioni che non hanno «l'effetto di fissare il regolamento dell'agire sociale» ovvero per quelle che incidono sulla struttura patrimoniale e finanziaria della società, si ammette la provvisoria efficacia ed il definitivo consolidamento degli effetti una volta spirato il termine per l'impugnazione (Palmieri, 187). A diversa conclusione si giunge per le deliberazioni modificative dell'atto costitutivo aventi rilievo organizzativo interno che contrastino con norme imperative: esse sarebbero inefficaci anche dopo lo spirare del termine previsto per l'impugnazione (Arcidiacono, 847; Palmieri, 187; Guerrera, 271 ss.). Conseguentemente, gli organi sociali e, successivamente, il giudice dovrebbero disapplicare la clausola statutaria illecita, quand'anche essa fosse non più eliminabile dallo statuto in conseguenza dello spirare del termine per l'impugnazione della deliberazione che quella clausola ha introdotto (Guerrera, 272). Inoltre, sono invalide le deliberazioni assembleari e le decisioni dei soci adottate sulla base di un procedimento conforme a clausola statutaria illecita, introdotta con precedente deliberazione assembleare nulla per illiceità dell'oggetto, benché non più impugnabile per decorrenza del termine triennale previsto dalla legge (cfr., sub art. 2480). L'annullabilitàSecondo la prima parte del primo comma dell'art. in commento, le decisioni dei soci che non sono prese in conformità della legge o dell'atto costitutivo possono essere impugnate dai soci che non vi hanno consentito, da ciascun amministratore e dal collegio sindacale entro novanta giorni dalla loro trascrizione nel libro delle decisioni dei soci. È opinione comune che la riportata norma delinei l'area dei vizi che vengono ordinariamente ricondotte nel perimetro della fattispecie della annullabilità delle deliberazioni assembleari. Sotto il profilo oggettivo, si evidenzia, peraltro, che la non conformità deve essere intesa come violazione di norme legali (indipendentemente dal rango primario o secondario ovvero dal carattere imperativo o meno) e statutarie che concernono il contenuto ovvero il procedimento di formazione, anche extra assembleare, della volontà decisionale dei soci (Pizzirusso, 2063). Si tratta di una categoria «generale» che «abbraccia tutte le anomalie procedimentali, i vizi inerenti all'esercizio del diritto di voto sia sotto il profilo della legittimazione ad esprimerlo che della formazione (e manifestazione) del consenso, nonché tutti i vizi di contenuto» (Palmieri, 2009, 200). Sono annullabili ai sensi del primo comma dell'art. in commento le decisioni extra-assembleari adottate in violazione delle riserve assolute di collegialità per difetto di norma statutaria autorizzativa ovvero vertenti su argomenti riservati alla competenza assembleare (Carbonara, 188, spec. 190 il quale precisa che l'inderogabilità del metodo assembleare in ipotesi di riserva assoluta di collegialità non rappresenta una statuizione imperativa dettata a presidio di un interesse generale da cui possa farsi discendere la nullità della deliberazione). Secondo una parte della dottrina, rientrano nella categoria in esame anche le decisioni lesive dei c.d. diritti individuali dei soci (Mirone, 486, nt. 24; Palmieri, 2009, 2000) che altri riconducono alla fattispecie della inefficacia derivante dalla impossibilità per i soci di disporre di un diritto altrui (Vigo, 843). Il giudice non può, tuttavia, sindacare il merito della deliberazione, eccetto che ciò sia necessario per accertare i vizi di legittimità, come nel caso di irregolarità del bilancio o in quello dell'eccesso di potere (Santini, 650). L'articolo in commento, peraltro, richiama il comma 5 dell'art. 2377. Di conseguenza, la deliberazione non può essere annullata: 1) per la partecipazione all'assemblea di persone non legittimate, salvo che tale partecipazione sia stata determinante ai fini della regolare costituzione dell'assemblea; 2) per l'invalidità di singoli voti o per il loro errato conteggio, salvo che il voto invalido o l'errore di conteggio siano stati determinanti ai fini del raggiungimento della maggioranza richiesta; 3) per l'incompletezza o l'inesattezza del verbale, salvo che impediscano l'accertamento del contenuto, degli effetti e della validità della deliberazione (sul tale ultima ipotesi, v. infra). Tali vizi vengono, dunque, normativamente ricondotti a semplici irregolarità procedimentali rispetto alle quali il legislatore ha inteso escludere l'invalidità, nonostante la difformità del procedimento decisionale rispetto al modello legale (Carbonara, 150). Si discute se il vizio derivante dalla partecipazione di soggetti non legittimati sia riscontrabile anche nelle decisioni non assembleari (a favore, Zanarone, 1396, nt. 21; contra, Magliulo, 447; Palmieri, 2009, 205; sulla problematica, in generale, Daccò, 867). Non sembra destare problemi l'applicabilità della fattispecie della invalidità di singoli voti o del conteggio errato alle decisioni assunte senza procedimento assembleare (Daccò, 867). Quanto alla legittimazione ad impugnare, essa viene attribuita, con elencazione tassativa, ai soci che non vi hanno consentito, a ciascun amministratore ed al collegio sindacale. La disciplina concernente la legittimazione è inderogabile dai soci (Zanarone, 1438): l'atto costitutivo non potrebbe, quindi, restringere la legittimazione dei soci, prevedendo la necessaria titolarità di una certa aliquota del capitale sociale, ovvero quella degli amministratori, prevedendo che essa competa ad essi collegialmente (Vigo, 849). Nella società a responsabilità limitata, ciascun socio, dunque, a prescindere dall'entità della sua partecipazione al capitale sociale, è legittimato ad impugnare le decisioni invalide, purché non vi abbia consentito: potranno così impugnare i soci dissenzienti, assenti o astenuti. Non si assiste, nella s.r.l., a quell'arretramento della tutela reale in favore della tutela obbligatoria (risarcitoria) che, invece, caratterizza il sistema nella s.p.a. ex art. 2377, comma 4 (Carbonara, 164). Secondo taluni, non sono legittimati i soci che, in epoca successiva alla deliberazione, abbiano espresso il proprio consenso alla sua adesione (Guerrieri, 2046). Ancora, sarebbe legittimato il socio che si trovi privato del diritto di voto (Guerrieri, ibidem). In caso di comproprietà della quota, l'impugnazione della delibera assembleare può essere proposta esclusivamente dal rappresentante comune e non dal singolo comproprietario (Cass., n. 15962/2007, sebbene in un caso di comproprietà di azioni, ma con ragionamento estensibile anche alle s.r.l.). Legittimato ad agire per ottenere l'annullamento delle decisioni dei soci è l'usufruttuario della quota di s.r.l. e non anche il socio nudo proprietario della medesima, in quanto privo del diritto di voto (Trib. Palermo, 12 marzo 2010, in Soc. 2010, 1314). Nel caso di sequestro conservativo di quote di società a responsabilità limitata, l'esercizio del diritto di voto spetta al custode giudiziario e, pertanto, il socio sequestrato non ha titolo per impugnare la delibera assembleare adottata con il voto favorevole del primo, salvo che ricorra un'ipotesi di nullità (Trib. Milano, 27 ottobre 2014, in Giur. it. 2015, 656). Il socio dovrà mantenere la propria partecipazione al capitale sociale della società per tutta la durata del giudizio conformemente al disposto di cui all'art. 2378 comma 2. Con riferimento alla posizione di «ciascun amministratore», si rileva che la legittimazione è attribuita singolarmente a ciascun amministratore senza necessità, in caso di amministrazione collegiale, di una decisione dell'organo (al contrario di quel che avviene nella s.p.a. laddove il potere di impugnare è rimesso non già ai singoli, ma all'organo gestorio nel proprio complesso). È, però, dubbio se la legittimazione sussista anche quando la decisione sia stata approvata con il voto favorevole di tutti i soci. In senso favorevole, si osserva che la legittimazione degli amministratori ad impugnare le deliberazioni assembleari si fonda, non già su un proprio interesse, ma sull'esigenza di tutela dell'interesse generale alla legalità societaria che implica l'esistenza di un diritto ad impugnare anche nel caso in cui la decisione invalida sia stata approvata dai soci all'unanimità. La legittimazione all'impugnazione è attribuita, infine, all'organo di controllo della società. Il collegio sindacale potrà, però, a differenza degli amministratori, esercitare il diritto di impugnare la deliberazione invalida soltanto in via collegiale (Pizzirusso, 2064; Carbonara, 165). Al contrario, non è legittimato all'impugnativa il revisore dei conti (Guerrieri, 2046; Magliulo, 312; Carbonara, 165; contra, Cagnasso, 316). La norma non annovera tra i soggetti legittimati all'impugnazione della deliberazione la società dalla quale quella deliberazione promana: la società è, invece, esclusivamente legittimata passiva nel giudizio di impugnazione proprio perché da essa promana la manifestazione di volontà che è oggetto dell'impugnazione, e sarebbe quindi inammissibile attribuirle la legittimazione ad insorgere giudizialmente contro la sua stessa volontà (Cass. n. 17060/2012; Trib. Roma, 10 ottobre 2016, in ilSocietario.it, secondo il quale la società non è mai titolare della legittimazione processuale attiva all'impugnazione delle delibere assunte dalla propria assemblea per chiederne l'accertamento della nullità o l'annullamento: nell'azione di impugnazione della delibera assembleare promossa da un socio i restanti soci non sono titolari della legittimazione processuale passiva, la quale spetta esclusivamente alla società, mentre i soci non impugnanti devono sottostare all'eventuale invalidazione della delibera). Sulla base di quanto disposto dalla seconda parte del primo comma, il giudice può assegnare un termine non superiore a 180 giorni per l'adozione di una nuova decisione idonea ad eliminare la causa di invalidità, qualora egli ne ravvisi l'opportunità e ne sia stata fatta richiesta dalla parte che ha proposto l'impugnativa ovvero dalla società. Segue. L'assenza del verbaleL'articolo in commento non appresta una specifica disciplina dei vizi derivanti dalla mancanza del verbale (a differenza della società azionaria dove l'art. 2379 ricollega la sanzione della nullità all'ipotesi di mancanza di verbale), limitandosi, per un verso, a richiamare il comma 5 dell'art. 2377 secondo il quale la deliberazione non può essere annullata per l'incompletezza o l'inesattezza del verbale, salvo che impediscano l'accertamento del contenuto, degli effetti e della validità della deliberazione e, per altro, l'art. 2379-bis che prevede la sanatoria del vizio ove la verbalizzazione venga eseguita prima dell'assemblea successiva. Il quadro normativo ora descritto ha indotto una parte della dottrina ad ascrivere il vizio della decisione derivante dalla mancanza del verbale al generale vizio di non conformità della decisione rispetto al modello legale (Mirone, 496, spec. 507; Guerrera, 99). Tuttavia, altra parte della dottrina ritiene applicabile analogicamente l'art. 2379 co. 3 alla s.r.l. con la conseguenza che, in caso di mancata verbalizzazione delle decisioni dei soci deve applicarsi il regime, di nullità, di cui al terzo comma dell'articolo in commento (Arcidiacono, 867, spec. 871). Quanto, poi, alla nozione di incompletezza o inesattezza del verbale, nonostante una certa vaghezza del contenuto dell'art. 2479-ter, sembra potersi affermare che sono causa di annullamento della deliberazione le imprecisioni che ingenerano una condizione di incertezza assoluta su elementi essenziali della decisione assunta (Carbonara, 152). Si ritiene, inoltre, che l'invalidità possa essere esclusa quando gli elementi delle decisioni (esposti in modo incompleto o inesatto nel verbale) possano essere concretamente accertati attraverso informazioni acquisibilialiunde (Carbonara, ivi; Magliulo, 448). In giurisprudenza, è stato affermato che la falsità del verbale di un'assemblea di società a responsabilità limitata vale ad integrare un'ipotesi di invalidità da ricondurre all'art. 2479-ter, comma 1 e non alla più grave previsione di cui al comma 3: infatti l'ipotesi della falsità del verbale, non espressamente ricompresa nelle ipotesi previste da tale ultimo comma, non ne può comportare una automatica estensione della relativa disciplina (Trib. Vercelli, 30 gennaio 2014, in Soc. 2014, 1000). Il difetto di analiticità del verbale di assemblea ordinaria derivante dalla omessa indicazione nominativa dei soci presenti o per delega, e delle relative quote, costituisce motivo di annullamento della delibera poiché in tal modo non si consente agli interessati di ricostruire lo svolgimento della seduta e di controllare la regolarità del processo deliberativo (Trib. Padova, 25 febbraio 2005, in Giur. comm. 2007, II, 451). Il conflitto di interessi del socioIl secondo comma dell'articolo in commento disciplina la fattispecie del conflitto di interessi del socio, prevedendo l'annullabilità della decisione allorquando: 1) la decisione medesima possa recare danno alla società, 2) la partecipazione del socio, che si trovi in una situazione, per conto proprio o di terzi, di conflitto di interessi con la società, sia stata determinante per la sua adozione. La norma, dunque, fa emergere il conflitto solo dal punto di vista dell'impugnazione della decisione e non dunque sulla capacità del socio a prender parte alla decisione medesima: il socio che versi in uno stato di conflitto di interessi con la società non avrà, dunque, l'obbligo di astenersi, potendo egli partecipare alla decisione ed esercitare il proprio diritto di voto (Guerrieri, 2050, Carbonara, 168). La giurisprudenza si è espressa in senso analogo evidenziando che il conflitto di interessi non rappresenta ex se una condizione in grado di inficiare la votazione, sia essa una delibera dell'assemblea dei soci o del consiglio di amministrazione; in dette ipotesi, infatti, l'invalidità dell'atto è subordinata non solo al fatto che il voto determinante per il raggiungimento della maggioranza necessaria per l'approvazione della delibera sia espressione del soggetto in capo al quale si configura una situazione di conflitto d'interessi, ma anche alla condizione che tale delibera possa recare alla società un danno, seppur in via solo potenziale (Trib. Milano, 12 febbraio 2014). Per quanto attiene alla nozione di conflitto di interessi, esso consiste in una contrapposizione tra l'interesse particolare di uno dei soci e l'interesse della società: non rileva, invece, ai fini dell'impugnazione, il caso in cui la decisione consenta ad un socio di conseguire un interesse personale ulteriore e diverso rispetto all'interesse della società senza, tuttavia, implicare un pregiudizio neppure potenziale (Carbonara, 167). Quanto alle sopra menzionate condizioni per l'annullamento della decisione, il danno indicato dalla norma è quello meramente potenziale (e non già un danno attuale come invece richiesto per l'annullamento delle deliberazioni degli amministratori ex art. 2475-ter): l'impugnante, dunque, non dovrà provare l'esistenza attuale di un pregiudizio per il patrimonio sociale; inoltre saranno annullabili le decisioni che incidano negativamente su situazioni giuridiche non assoggettabili ad immediata valutazione economica (Carbonara, 167). Il secondo presupposto è costituito dal carattere determinante della partecipazione del socio in conflitto alla decisione. Differentemente rispetto a quanto previsto in materia di società per azioni (art. 2373, comma 1, dove si fa riferimento al «voto determinante»), il legislatore richiede, qui, che determinante sia non già (solo) il «voto», ma la «partecipazione» che dunque interviene tanto sul quorum costitutivo che su quello deliberativo. In altre parole, il legislatore ha voluto prendere in considerazione anche il comportamento del socio che, partecipando all'assemblea, consente il conseguimento del quorum costitutivo e, dunque, l'adozione della deliberazione a prescindere dal comportamento assunto in sede di voto (ad es., il socio potrebbe astenersi) (Carbonara, 168; Guerrieri, 2051; Corrado, 1077; Pizzirusso, 2065). La partecipazione, però, deve avere un effetto determinante per l'adozione della deliberazione (c.d. prova di resistenza). In giurisprudenza si segnala che la natura determinate del voto del socio in conflitto di interessi è fatto costitutivo del diritto fatto valere dall'attore (consistente nell'impugnativa delle decisioni sociali ex art. 2479-ter), talché la sua carenza è rilevabile anche d'ufficio dal giudice, non trattandosi di eccezione in senso stretto. La «prova di resistenza» va effettuata espungendo il voto ritenuto illegittimo non solo dal novero dei voti validi ma considerando come se il socio non avesse partecipato al voto, dunque escludendolo dal quorum deliberativo (Trib. Milano, 23 settembre 2015, cit.). In materia di deliberazioni dell'assemblea di una s.r.l., anche in caso di astensione volontaria di un socio per dichiarato conflitto di interesse, i voti allo stesso spettanti devono essere computati nelquorum deliberativo, in quanto il disposto dell'art. 2368, comma 3, non trova applicazione analogica alle s.r.l.; l'integrazione normativa per via di analogia con disposizioni dettate in materia di s.p.a. trova spazio solo là dove ciò sia necessitato dalla salvaguardia di esigenze di fondo dell'ordinamento ovvero di tutela dei terzi, come ad es. in materia di riconoscimento dell'azione dei creditori ex art. 2394 (Trib. Milano, 10 novembre 2017, in Soc. 2018, 427). In dottrina, sul punto, si osserva che l'art. 2368, comma 3, potrebbe essere applicato analogicamente alla s.r.l. qualora si ponga alla base di tale disciplina l'obiettivo di favorire il più possibile la formazione della volontà dei soci (Pizzirusso, 2066; Rosapepe, 178). Proprio perché il socio in conflitto di interessi è libero di partecipare e votare, ove questo decida di astenersi per consentire all'assemblea di deliberare, è corretto computare la sua quota di partecipazione nel quorum costitutivo e scomputarla da quello deliberativo (così, De Luca, 431; sul punto, anche Vigo, 846). Nella disciplina della s.r.l. non è prevista una norma come l'art. 2373, comma 2, a mente del quale gli amministratori non possono votare nelle deliberazioni riguardanti la loro responsabilità. Ebbene, fermo restando che, secondo l'opinione preferibile, nella s.r.l. l'esercizio dell'azione sociale di responsabilità non richiede necessariamente la previa deliberazione societaria (per gli approfondimenti, v. art. 2476), sembra potersi affermare che, ove la società deliberi l'esercizio dell'azione di responsabilità, trovi applicazione analogica l'art. 2373, comma 2 (Zanarone, 1414; De Luca, 431). Conseguentemente, il socio-amministratore in conflitto di interessi non ha facoltà di astenersi, non spettando allo stesso votare ex lege: consegue ulteriormente che, in applicazione analogica dell'art. 2373, comma 2, e dell'art. 2368, comma 3, la partecipazione del socio amministratore deve computarsi nel quorum costitutivo e scomputarsi dal deliberativo (così, De Luca, 431; contra, Trib. Milano, 10 novembre 2017, cit.). Deve, però, darsi conto anche dell'opinione contraria secondo la quale il legislatore non ha ritenuto di escludere dal voto il socio-amministratore, non essendovi ragione di affidare alla minoranza il potere di vincolare la società su una decisione che ciascun socio può assumere individualmente ex art. 2476 comma 3 (Vigo, 847). La nullità delle deliberazioni.Il terzo comma della disposizione in commento prende a riferimento vizi che, normalmente, vengono fatti ricadere nell'ambito delle nullità. È, quindi, previsto che le decisioni aventi oggetto illecito o impossibile e quelle prese in assenza assoluta di informazione possano essere impugnate da chiunque vi abbia interesse entro tre anni dalla trascrizione indicata nel primo periodo del primo comma, mentre le deliberazioni che modificano l'oggetto sociale prevedendo attività impossibili o illecite possono essere impugnate senza limiti di tempo le deliberazioni. Per quanto riguarda la prima parte della norma, si parla, in dottrina, di «invalidità intermedia» (Carbonara, 171, che discorre anche di «nullità che può essere fatta valere entro un certo termine»; Magliulo, 440) che costituirebbe una categoria concettuale, introdotta dalla riforma che le avrebbe conferito autonomo rilievo. Salvo il caso di delibere che modificano l'oggetto sociale prevedendo attività impossibili o illecite, viene superato il principio della imprescrittibilità dell'azione di nullità, essendo anche tali impugnazioni soggette al termine triennale decorrente dalla trascrizione nel libro delle decisioni dei soci. La legittimazione ad impugnare, per entrambe le fattispecie previste dal comma in commento, spetta a chiunque vi abbia interesse. Il riferimento all'interesse alla caducazione della deliberazione consente di affermare la legittimazione del socio che abbia concorso all'approvazione della deliberazione medesima (Trib. Milano, 8 gennaio 2009, in Giur. it. 2009, 372) e del creditore sociale (Trib. Milano, 17 agosto 2011, in Soc. 2011, 1261, secondo la quale il creditore, il cui credito è stato già iscritto nei bilanci di esercizi precedenti, è legittimato ad impugnare per nullità il successivo bilancio di esercizio della società debitrice, nel quale la posta corrispondente al proprio credito è stata soppressa, nonostante la persistenza del relativo rapporto obbligatorio). Si ritiene (Zanarone, 1428, nt. 78; Palmieri, 2009, 214; Palmieri, 2011, 858; Guerrieri, 2053; contra,Rosapepe, 180), poi, che in tali casi l'invalidità possa essere rilevata d'ufficio dal giudice. La giurisprudenza ha, peraltro, affermato che il principio per cui il giudice innanzi al quale sia stata proposta domanda di nullità contrattuale deve rilevare d'ufficio, ove emergente dagli atti, l'esistenza di un diverso vizio di nullità, essendo quella domanda pertinente ad un diritto autodeterminato, è suscettibile di applicazione estensiva anche nel sottosistema societario, nell'ambito delle azioni di impugnazione delle deliberazioni assembleari, benché non assimilabili ai contratti, atteso che, per la naturale forza espansiva riconnessa al principio generale, va riconosciuto al giudice il potere di rilevare d'ufficio la nullità di una delibera anche in difetto di un'espressa deduzione di parte o per profili diversi da quelli enunciati, purché desumibili dagli atti ritualmente acquisiti al processo e previa provocazione del contraddittorio sul punto, trattandosi di potere volto alla tutela di interessi generali dell'ordinamento, afferenti a valori di rango fondamentale per l'organizzazione sociale, che trascendono gli interessi particolari del singolo (Cass. n. 8795/2016). L'azione di nullità delle deliberazioni di una società spetta a chiunque vi abbia interesse e, quindi, in caso di deliberazione di approvazione del bilancio (ma il ragionamento è estensibile anche a differenti ipotesi), a chiunque subisca o possa subire un concreto pregiudizio per effetto dell'inesattezza od incompletezza dei dati forniti dal bilancio medesimo. In altre parole, l'azione di nullità, in quanto postula l'interesse dell'istante, cioè la sua esigenza di rimuovere una situazione pregiudizievole su determinate posizioni giuridiche, non può essere promossa sulla sola base della denunzia di irregolarità, occorrendo la specifica deduzione e dimostrazione dell'incidenza negativa di tali irregolarità nella sfera del soggetto impugnante (Cass. n. 3881/1988; Cass. n. 1839/1986). Secondo la giurisprudenza, l'illiceità dell'oggetto ricorre soltanto quando il contenuto della delibera contrasta con norme dettate a tutela di interessi generali, che trascendono l'interesse del singolo socio o di gruppi di soci, dirette ad impedire deviazioni dallo scopo economico-pratico del rapporto di società (cfr., Cass. n. 3457/1999; Cass. n. 3458/1993). Parte della dottrina critica questa impostazione rilevando che devono ritenersi comprese nell'illiceità anche le decisioni che violano disposizione cogenti a protezione dei soci (Palmieri, 207 che cita ad es., la modifica statutaria che esclude alcuni soci dal diritto di partecipare alle decisioni). Particolare attenzione meritano le ipotesi di assenza assoluta di informazione. La differente dizione rispetto alla corrispondente norma dettata per le società azionarie (ove il riferimento è compiuto ai casi di mancata convocazione dell'assemblea e di mancanza del verbale) si spiega sulla base della considerazione che il legislatore ha dovuto tener conto (e lo ha fatto utilizzando una formula sintetica) della compresenza nella società a responsabilità limitata di diversi procedimenti deliberativi (collegiali o non assembleari). Così, la norma in argomento costituisce il portato del diritto inderogabile di partecipazione dei soci ai percorsi deliberativi espressamente previsto, con riferimento alle decisioni non collegiali dall'art. 2479, comma 5 (Mirone, 506). La causa di nullità costituita dalla assenza assoluta di informazione ricomprende sia la mancata convocazione nelle deliberazioni assembleari, sia il mancato rispetto del diritto di partecipazione nelle decisioni scritte (Mirone, ivi; Carbonara, 177), in quando in entrambe le ipotesi i soci (alcuni di essi) non sono stati posti nelle condizioni di prendere parte al procedimento. Nelle deliberazioni assunte con modalità extrassembleari, la nullità si avrà allorquando uno dei soci legittimati a partecipare alla decisione, non riceva la comunicazione, anche telematica, proveniente dal soggetto legittimato che lo ponga nelle condizioni di conoscere preventivamente l'esistenza del procedimento decisionale (Guerrieri, 2055). Si richiede, per l'integrazione della fattispecie, che l'omessa informazione sia «assoluta» che si determinerà allorquando siano totalmente pretermessi i sistemi informativi necessari a rendere nota ai soci l'intenzione di pervenire ad una determinata deliberazione (Carbonara, 177; Arcidiacono, 865; Rordorf, 273; Palmieri, 2011, 856), mentre si verserà in ipotesi di annullabilità allorquando l'avviso di convocazione, pur esistente, non corrisponda al modello legale (ad es., in caso di mancata o insufficiente indicazione delle materie nell'ordine del giorno) (Rosapepe, 179). Deve essere ricondotta all'alveo dell'annullabilità l'ipotesi in cui la preventiva informazione in ordine ad una data assemblea sia stata eseguita in modo così tardivo da non consentire al socio di prendere parte all'assemblea (Carbonara, 178). Sono estranee alla fattispecie in argomento le ipotesi di mancata redazione del verbale e di grave carenza di informazioni del socio sul contenuto effettivo della decisione (Palmieri, 2011, 856; Arcidiacono, 866; contra,Guizzi, 2014). In giurisprudenza, nell'ipotesi di delibera assembleare di s.r.l. la «assenza assoluta di informazione» va riferita al procedimento di convocazione in senso proprio e si risolve nel medesimo vizio di nullità previsto per le s.p.a., inerente alla completa mancanza di convocazione, mentre ogni altro vizio relativo a carenza informativa va ricondotto alla categoria dei vizi di c.c. annullabilità, in relazione ai quali il termine di impugnazione è quello «breve» di 90 giorni, previso dal primo comma dell'art. 2479-ter c.c., decorrente, secondo la stessa norma, dalla data di iscrizione della delibera nel libro delle decisioni dei soci (Trib. Milano, 13 marzo 2014, in Soc. 2014, 1274; Trib. Milano, 8 agosto 2014, in Nuovo dir. soc. 2014, 18, 58). La ratio dell'art. 2479-ter, comma 3, va rintracciata nella esigenza di tutelare il diritto inderogabile di partecipazione di ciascun socio alle decisioni sociali. L'ambito della norma è idoneo a coprire sia i casi in cui i soci non abbiano ricevuto l'avviso di convocazione assembleare, sia quelli in cui l'abbiano ricevuto ma in difetto dei presupposti minimi di contenuto fissati dall'art. 2379, comma 3, ossia allorché l'avviso non risulti proveniente da un componente degli organi sociali o dai soci, ove a ciò legittimati, non sia stato diramato preventivamente a tutti gli aventi diritto, o non sia idoneo a consentire a coloro che hanno diritto di intervenire di essere preventivamente avvertiti della convocazione e della data. Tuttavia, in virtù del richiamo all'art. 2379-bis, la partecipazione totalitaria del capitale sociale sana il vizio di omessa convocazione (Trib. Roma, 15 giugno 2015, in Soc. 2016, 419). Ancora, si è affermato – sulla base dell'assunto che le modalità con cui i soci di una società a responsabilità limitata vengono chiamati a decidere in sede assembleare sono delineate, in via sistematica, in conformità al procedimento di convocazione in senso ampio – che il vizio di “assenza assoluta di informazione”, risolvendosi in quello, previsto per la società per azioni, di “mancata convocazione”, si concretizza, sì da determinare la nullità della deliberazione assunta, allorquando l'avviso al socio provenga da chi non sia un componente dell'organo di amministrazione o di controllo della società (Trib. Milano, 6 dicembre 2012, in Giur. it., 2013, 872; Trib. Milano, 12 marzo 2013, in Soc. 2013, 791). Al contrario, non ricorre la nullità in argomento allorché sia stato indirizzato ad uno dei soci un avviso di convocazione, sia pure ad un recapito diverso da quello indicato nel libro soci e con modalità non coincidenti con quelle previste dallo statuto sociale (Trib. Bologna, 18 agosto 2005, in Soc. 2006, 1009). Anche Trib. Roma, 29 luglio 2015, dichiara la nullità di una delibera assembleare per assenza di convocazione, in relazione al diverso caso dell'assemblea sospesa e aggiornata ad altra data. Pure in tale ipotesi, ad avviso del tribunale, salvo che l'assemblea di cui si dispone il rinvio non sia totalitaria, è necessario procedere a una nuova convocazione dei soci assenti all'assemblea originariamente fissata. Non potendosi quindi considerare l'assemblea di rinvio una mera prosecuzione della seduta aggiornata, il socio assente ha diritto ad essere preventivamente e nuovamente convocato all'assemblea nei modi e nei termini stabiliti dall'atto costitutivo. È compromettibile in arbitri l'impugnazione di una deliberazione (nella specie: di approvazione del bilancio di esercizio) presa in assenza assoluta di informazione (Lodo arb. Torino13 febbraio 2015, in Giur. arb., 2016, 278). Una lettura estensiva della nullità per assenza assoluta di informazione è stata proposta da una giurisprudenza di merito (Trib Nola, 13 marzo 2012), secondo la quale tale fattispecie ricorrerebbe anche nel caso in cui al socio sia stato negato l'accesso ai documenti della società ai sensi dell'art. 2476, comma 2, ma ciò solo ove il socio dimostri che la documentazione fornita soltanto in ritardo dalla società avrebbe consentito, se ottenuta tempestivamente, una piena conoscenza della realtà economica e patrimoniale della società necessaria per l'adozione della delibera impugnata. A tal fine, il socio deve allegare e provare il nesso concreto ed effettivo tra il mancato o ritardato accesso agli atti sociali e il contenuto della delibera. Ove il socio agisca in giudizio per far valere l'invalidità di una delibera assembleare, incombe sulla società convenuta l'onere di provare che tutti i soci siano stati tempestivamente avvisati della convocazione (Trib. Roma, 5 giugno 2017, in ilSocietario.it: nel caso di specie, il tribunale ha ritenuto che ad uno dei soci non fosse stato trasmesso alcun rituale e tempestivo avviso di convocazione relativo all'assemblea ed ha, pertanto, accertato l'invalidità della relativa delibera assembleare). I termini per impugnare.Al fine di tutelare la stabilità degli atti societari, il legislatore ha previsto un particolare regime dei termini per impugnare le deliberazioni invalide. In particolare, le decisioni invalide ai sensi del primo comma possono essere impugnate dai soci «entro novanta giorni dalla loro trascrizione nel libro delle decisioni dei soci»; le decisioni invalide ai sensi del terzo comma, invece, possono essere impugnate «entro tre anni dalla trascrizione» menzionata. Sono, invece, sottratte alla previsione di termini di decadenza, le deliberazioni che modificano l'oggetto sociale prevedendo attività impossibili o illecite le quali possono essere impugnate «senza limiti di tempo» (su questa ultima tipologia, v. Palmieri, 2011, 853 ss.). In ragione del richiamo al comma 1, contenuto nel comma 3, l'impugnativa delle decisioni assunte con la partecipazione dei soci in conflitto di interesse sarà, infine, soggetta al termine di novanta giorni dalla iscrizione nel libro delle decisioni dei soci. Il legislatore ha, così, superato la consueta bipartizione tra decisioni annullabili, impugnabili entro un tempo definito, e decisioni nulle, la cui impugnabilità non soggiaceva a limiti temporali (Carbonara, 147). Come è stato osservato, la normativa presenta una sorta di graduazione della sanzione dell'invalidità che si riflette nell'ampiezza del termine concesso a chi intenda impugnare la decisione (Corrado, 1059, che vede in tale disciplina un superamento della tradizionale bipartizione delle deliberazioni invalide). Si tratta di termini di decadenza e, come tali, non prorogabili (Santini, 646, nt. 2). Peraltro, se si ritiene che la deliberazione o la decisione vengano ad esistenza anche a prescindere dalla successiva trascrizione nel libro (Notari, 134), si giunge alla conclusione che si possa senz'altro impugnare una decisione (ancora) non trascritta (Palmieri, 2009, 197; Vigo, 850). Decorso il termine, la decisione dei soci, benché contraria alla legge o allo statuto, è definitivamente inattaccabile (Vigo, 849) ed i suoi effetti si consolidano definitivamente (Zanarone, 1395, spec. nt. 19, secondo il quale non sarebbe neppure applicabile il principio temporalia ad agendum perpetua ad excipiendum previsto dall'art. 1442). Il termine per impugnare decorre dalla data dell'iscrizione della deliberazione nel libro delle decisioni dei soci (sul punto, amplius, Di Cataldo, 449 ss.), libro che, dunque, assume funzione di «pubblicità interna» alla società (Zanarone, 1406; Arcidiacono, 854) garantendo la conoscenza da parte dei soci che, in quanto interessati alla vita societaria, possono agevolmente procedere alla sua consultazione. Una parte della dottrina ha evidenziato come la scelta compiuta dal legislatore potrebbe condurre a delle disarmonie in caso di conflittualità interna alla società: in particolare, in caso di conflitto, il socio potrebbe non essere a conoscenza della stessa assunzione della decisione (ad es., allorquando egli non sia stato convocato in assemblea) e, dunque, della sua iscrizione nel libro ovvero la consultazione di questo potrebbe essergli impedita dagli amministratori (Di Cataldo, 464, che evidenzia come il legislatore non si sia reso conto che il meccanismo di pubblicità funziona bene quando non ce n'è bisogno e si inceppa in momenti di conflitto interno allorquando ad esso si ricorre). Si segnala, così, che, se è vero che il socio potrebbe, ai sensi dell'art. 2476, comma 2, munirsi di un provvedimento cautelare che gli consenta di accedere alla documentazione sociale (e, dunque, anche al libro delle decisioni dei soci), ciò potrebbe intervenire dopo lo spirare del termine di cui all'art. 2479-ter (Arcidiacono, 854 e 856 che risolve la questione ricollegando, per il socio cui sia stata negata la consultazione del libro, la decorrenza del termine dal momento in cui è posto nelle condizioni di avere conoscenza della decisione dei soci, momento che, per quanto attiene alle decisioni soggette a deposito o ad iscrizione nel registro delle imprese, deve identificarsi appunto nell'esecuzione di tali adempimenti). Detto termine si applica a tutti i tipi di decisioni dei soci, siano esse assunte con il metodo assembleare siano esse assunte mediante consultazione scritta ovvero mediante consenso scritto (Corrado, 1064). La decorrenza del termine prescinde, poi, dalla data della verbalizzazione e dalla data di iscrizione della decisione nel registro delle imprese (Nuzzo, 1637). Altro profilo di criticità collegato alla scelta di ancorare la decorrenza del termine alla trascrizione nel libro delle decisioni dei soci riguarda la posizione dei terzi estranei alla compagine sociale, legittimati ad impugnare le decisioni invalide ai sensi del co. 3 dell'art. in commento. È evidente, infatti, che il termine decadenziale inizia a decorrere senza che essi abbiano la possibilità di accedere al libro delle decisioni e, dunque, senza possibilità di avere contezza dell'avvenuta trascrizione. Secondo una parte della dottrina – che muove dal principio espresso dall'art. 2935 estensibile anche alla decadenza – il termine per impugnare decorrerebbe per il terzo dal momento in cui egli è posto nelle condizioni di avere conoscenza della decisione dei soci, momento che, per quanto attiene alle decisioni soggette a deposito o ad iscrizione nel registro delle imprese, deve identificarsi appunto nell'esecuzione di tali adempimenti (Arcidiacono, 855; Palmieri, 2009, 198). Il decorso del termine di cui all'articolo in commento è soggetto alla sospensione feriale (Trib. Milano, 23 settembre 2015, in giurisprudenzadelleimprese.it). I rimedi risarcitori.L'articolo in commento (e, in particolare, l'ultimo comma) non richiama l'art. 2377, comma 4, secondo il quale i soci non legittimati a proporre l'impugnativa della deliberazione hanno diritto al risarcimento del danno loro cagionato dalla non conformità delle deliberazioni alla legge o allo statuto. Secondo parte della dottrina, il mancato rinvio porta a ritenere non applicabile, nella società a responsabilità limitata, il rimedio risarcitorio per non conformità della deliberazione. Si evidenzia, sul punto, da una parte, che, nella società a responsabilità limitata (e a differenza della società azionaria), ciascun socio, a prescindere dalla misura della sua partecipazione al capitale sociale, è legittimato ad impugnare la deliberazione viziata e, quindi, ad ottenere una tutela reale, demolitoria dell'atto lesivo e, dall'altra, che ove, il socio omettesse di attivare la tutela reale, in ragione del disposto di cui all'art. 1227, comma 2, non sarebbe comunque ammesso alla tutela risarcitoria in quanto i danni deriverebbero da un suo comportamento negligente (Arcidiacono, 864). Altra parte della dottrina, invece, evidenziando il richiamo agli artt. 2379-ter, comma 3 (che prevede il risarcimento del danno quando siano venute meno le condizioni per impugnare le deliberazioni aventi ad oggetto le operazioni sul capitale) e 2377, comma 8 (che fa salvo il diritto al risarcimento del danno in caso di sostituzione della deliberazione), ritiene che sia possibile cumulare i due rimedi (Palmieri, 2009, 167; Guerrieri, 2508). Peraltro, anche il primo orientamento fa salva la possibilità che il socio possa richiedere il risarcimento dei pregiudizi da deliberazione illegittima che si possono verificare dal momento in cui la decisione diviene efficace fino al momento in cui il giudice emetta ordinanza cautelare di sospensione dell'efficacia ovvero sentenza di annullamento della deliberazione (Arcidiacono, 864). Altri ancora, pur rappresentando in via generale l'inapplicabilità dell'art. 2377, comma 4, ammettono la tutela risarcitoria, alternativa o cumulativa rispetto alla impugnazione, a favore del socio danneggiato da una decisione societaria assunta in violazione dei principî di correttezza e buona fede, tutela risarcitoria da esperirsi nei confronti (non già della società, ma) dei soci di maggioranza responsabili della violazione (Carbonara, 149). I richiami contenuti nell'art. 2479-ter u.c.L'ultimo comma dell'articolo in commento prevede numerosi rinvii a diversi aspetti della disciplina dettata per la società per azioni (sul punto, amplius, Daccò, 865 ss.). Il rinvio, tuttavia, opera nei limiti del giudizio di compatibilità. La norma è stata considerata una disposizione «asimmetrica» rispetto al carattere autonomo della disciplina dettata per la s.r.l., che rischia di minare il principio di autosufficienza di quest'ultimo tipo societario (Daccò, 865). E, infatti, tra le due discipline esistono notevoli discrasie che riguardano la presenza, nella s.r.l., di procedimenti deliberativi non assembleari sconosciuti nella società azionaria; una diversa ricostruzione dei vizi delle deliberazioni; i profili risarcitori. La prima norma richiamata è l'art. 2377 limitatamente, però, ai commi 1, 5, 7, 8 e 9. Non sembra porre particolari problemi il richiamo al primo comma che stabilisce la regola della vincolatività delle deliberazioni, assunte in conformità alla legge o all'atto costitutivo, per tutti i soci, ancorché non intervenuti o dissenzienti: la norma, che esprime un concetto facilmente riconoscibile in tutte le strutture corporative, consente di essere riferita anche alle decisioni assunte con il metodo non assembleare. Sul rinvio al comma 5 dell'art. 2377 si è già detto supra. Attraverso il richiamo al comma 7, il legislatore ha inteso prevedere, da un lato, che l'annullamento della deliberazione ha effetto rispetto a tutti i soci ed obbliga gli amministratori a prendere i conseguenti provvedimenti sotto la propria responsabilità e, dall'altro, che, in ogni caso, sono salvi i diritti acquistati in buona fede dai terzi in base ad atti compiuti in esecuzione della deliberazione. I commi 8 e 9 dell'art. 2377 richiamati dall'art. in commento disciplinano la sostituzione delle deliberazioni invalide. In particolare, l'annullamento della deliberazione non può aver luogo, se la deliberazione impugnata è sostituita con altra presa in conformità della legge e dello statuto: in tal caso il giudice provvede sulle spese di lite, ponendole di norma a carico della società, e sul risarcimento dell'eventuale danno; ma restano salvi i diritti acquisiti dai terzi sulla base della deliberazione sostituita. Si ritiene, peraltro, che sia possibile sostituire una delibera collegiale con una decisione extra assembleare, salvo il caso in cui l'oggetto della deliberazione sia ricompreso tra le materie escluse dalla legge o dallo statuto dal metodo non collegiale (Pizzirusso, 2067). In giurisprudenza, si osserva che, in caso di impugnazione di delibera assembleare successivamente sostituita con altra delibera, il giudicante ha l'onere di estendere la propria indagine anche alla nuova deliberazione per stabilire se sia stata adottata in conformità alla legge e allo statuto. Tale accertamento, da assegnare al giudice dell'impugnazione già instaurata ai fini di una legittima pronuncia in ordine alla cessazione della materia del contendere, è da qualificarsi come accertamento incidenter tantum, non suscettibile di passare in cosa giudicata. Il giudizio di conformità della delibera successiva, affinché possa positivamente considerarsi sostitutiva, va effettuato anche con riferimento ai vizi contestati nel separato e autonomo giudizio di impugnazione della stessa, nella misura in cui tali vizi sono stati dedotti in modo sufficientemente puntuale nel procedimento di impugnazione della delibera sostituita. La delibera sostitutiva assunta con le maggioranze stabilite dalla impugnata delibera modificativa del quorum è legittima ove la delibera di modifica del quorum non sia stata sospesa (Trib. Roma, 17 novembre 2017). Qualora l'impugnante, a fronte della dimostrazione da parte della società convenuta della sopravvenuta sostituzione della delibera impugnata con altra, eccepisca l'invalidità della delibera sostitutiva senza impugnarla espressamente in separato giudizio ovvero senza svolgere tempestiva domanda di invalidità quale domanda “consequenziale” nel procedimento originario, l'eccezione non può escludere la rilevanza della delibera sostitutiva, destinata a rimanere di per sé efficace e, come tale, a far venir meno l'interesse dell'impugnante a caducare la prima delibera impugnata, ormai definitivamente sostituita (Trib. Milano, 12 marzo 2013, in Soc. 2013, 791). Secondo Trib. Milano, 27 giugno 2014 (in Giur. comm. 2016, II, 174), non è affetta da nullità derivata la deliberazione assembleare di società responsabilità limitata conforme alla legge e allo statuto che presenti un contenuto autonomo e sostituisca una deliberazione invalida precedentemente assunta. In tema di società a responsabilità limitata, l'assemblea, nella sua autonomia, può revocare una deliberazione – ove non siano coinvolti diritti dei terzi o diritti acquisiti dei soci – e, così rimossa la prima, può adottarne una nuova, non coincidente con l'altra. In tale ipotesi, non si pone la questione della rinnovazione sanante con effetti retroattivi ai sensi dell'art. 2377 c.c., giacché, ove la società revochi la delibera impugnata (nella specie, approvazione del bilancio in forma abbreviata) e ne adotti un'altra non coincidente (nella specie, approvazione del bilancio in forma analitica), alla prima delibera non è più ricollegabile alcun effetto e gli effetti della seconda decorrono soltanto da quando essa è stata assunta (Cass. n. 22762/2012). Il richiamo all'art. 2378 rende applicabile il procedimento di impugnazione delle deliberazioni: si precisa, peraltro, che non sono estensibili alla s.r.l. i limiti quantitativi previsti dal comma 2 della disposizione richiamata. Quanto, poi, all'ulteriore disposto del comma 2 dell'art. 2378 – secondo il quale, fermo restando quanto disposto dall'art. 111 c.p.c., qualora nel corso del processo venga meno a seguito di trasferimenti per atto tra vivi il richiesto numero delle azioni, il giudice non può pronunciare l'annullamento e provvede sul risarcimento dell'eventuale danno, ove richiesto – esso può essere esteso alla s.r.l., ritenendo che la perdita di qualità di socio in corso di causa preclude la pronunzia di annullamento (Zanarone, 1407; Daccò, 870, i quali ammettono la possibilità che il giudice attribuisca al socio che ha perduto tale qualità il risarcimento del danno). BibliografiaArcidiacono, art. 2479-ter, in Commentario del codice civile, diretto da E. Gabrielli, Delle società. Dell'azienda. Della concorrenza, artt. 2452-2510, a cura di D.U. 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