Codice Civile art. 2486 - Poteri degli amministratori 1 .Poteri degli amministratori 1. [I]. Al verificarsi di una causa di scioglimento e fino al momento della consegna di cui all'articolo 2487-bis, gli amministratori conservano il potere di gestire la società, ai soli fini della conservazione dell'integrità e del valore del patrimonio sociale. [II]. Gli amministratori sono personalmente e solidalmente responsabili dei danni arrecati alla società, ai soci, ai creditori sociali ed ai terzi, per atti od omissioni compiuti in violazione del precedente comma. [III]. Quando è accertata la responsabilità degli amministratori a norma del presente articolo, e salva la prova di un diverso ammontare, il danno risarcibile si presume pari alla differenza tra il patrimonio netto alla data in cui l'amministratore è cessato dalla carica o, in caso di apertura di una procedura concorsuale, alla data di apertura di tale procedura e il patrimonio netto determinato alla data in cui si è verificata una causa di scioglimento di cui all'articolo 2484, detratti i costi sostenuti e da sostenere, secondo un criterio di normalità, dopo il verificarsi della causa di scioglimento e fino al compimento della liquidazione. Se è stata aperta una procedura concorsuale e mancano le scritture contabili o se a causa dell'irregolarità delle stesse o per altre ragioni i netti patrimoniali non possono essere determinati, il danno è liquidato in misura pari alla differenza tra attivo e passivo accertati nella procedura2
[2] Comma aggiunto dall'art. 378, comma 2, d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14. Tale modifica, ai sensi dell'art. 389, comma 2, d.lgs. n. 14, cit., entra in vigore il trentesimo giorno successivo alla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale del presente decreto(16 marzo 2019). InquadramentoL'art. 2486 disciplina i poteri degli amministratori nella fase della liquidazione. In particolare, gli amministratori vedono limitati i loro poteri: al semplice verificarsi di una causa di scioglimento, gli amministratori conservano il potere di gestire la società ai soli fini della conservazione dell'integrità e del valore del patrimonio sociale in attesa di farne consegna ai liquidatori. Per gli atti e le omissioni posti in essere violando tale limitazione, gli amministratori sono personalmente e solidalmente responsabili dei danni arrecati alla società, ai soci, ai creditori sociali ed ai terzi, come si dirà meglio infra. Con la riforma introdotta con il Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza, il Legislatore ha rafforzato la responsabilità gestoria degli amministratori, in un'ottica di early warning e protezione del ceto creditorio. L'accento si è quindi spostato sull'obbligo di adottare assetti adeguati e sul dovere di reagire tempestivamente alla crisi, in coerenza con gli artt. 2086 c.c. e 3 del Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza. Il potere di gestire la società ai soli fini della conservazione dell'integrità e del valore del patrimonio socialeCome si ricorderà, nel sistema precedente, l'art. 2449 sanciva con riguardo agli «affari intrapresi» una responsabilità personale («illimitata e solidale» con quella della società) dell'amministratore che avesse violato il divieto di nuove operazioni. Il nuovo sistema, da un punto di vista strutturale, traccia un panorama significativamente diverso dal precedente. Ed infatti, con la riforma del 2003, è scomparsa ogni traccia rispetto al divieto di coinvolgimento degli amministratori nelle vicende contrattuali che essi abbiano posto in essere per conto della società a seguito del verificarsi della causa di scioglimento, per lasciare il posto alla regola per cui gli amministratori conservano il potere di gestire la società al fine della conservazione dell'integrità e del valore del patrimonio (Niccolini, 1735 ss.). Gli obblighi degli amministratori così descritti concernono la fase che va dal momento dell'iscrizione della dichiarazione con cui si accerta la causa di scioglimento al cosiddetto passaggio delle consegne ai liquidatori di cui all'art. 2487-bis: tale ultima norma che specifica che gli amministratori cessano dalla loro carica dal momento dell'iscrizione nel registro delle imprese della nomina dei liquidatori, con la determinazione dei relativi poteri, comunque avvenuta. In particolare, nei rapporti esterni, il limite ai poteri degli amministratori, pur rimanendo connesso al verificarsi della causa di scioglimento, resta inopponibile ai terzi finché non sia intervenuta l'iscrizione nel registro delle imprese dell'atto societario con cui si accerta il verificarsi dell'evento dissolutivo (Fezza, 2543). Gli amministratori potranno, perciò, continuare a porre in essere gli atti tipici di gestione societaria, anche dinamica e non meramente conservativa, pur sempre nel rispetto degli obblighi di conservazione dell'integrità del valore del patrimonio sociale: in sintesi, la finalità della norma è quella di assicurare che la società venga trasmessa ai liquidatori nello stato in cui si trovava al momento in cui si è verificata la causa di scioglimento, impendendo agli amministratori il compimento di atti finalizzati alla liquidazione del patrimonio sociale (Niccolini, 1737). Ed anzi, come già enunciato nel commento sub art. 2484, la riforma del 2003 ha segnato il passaggio da una visione della liquidazione come momento in cui si imponeva una «paralisi operativa» completa agli organi gestori (paralisi oggettivata nel divieto di nuove operazioni sancito dall'art. 2449 del codice del 1942) ad una visione in cui l'attività liquidatoria viene, invece, vista come finalizzata soprattutto al «miglior realizzo» dei valori aziendali (secondo l'espressione dell'art. 2487, comma 1, lett. c). E rispetto a tale nuovo obiettivo, è evidente che il «fermo» dell'attività di impresa potrebbe provocare (ed in genere nelle attività di servizi normalmente provoca) il totale depauperamento dei valori aziendali, anche soltanto dopo pochi giorni dall'interruzione dell'attività e dalla cessazione della operatività ordinaria (che non può escludere anche il compimento di operazioni da qualificarsi come nuove). In questo senso, dunque, la liquidazione non impone necessariamente una attività puramente conservativa, ma anzi essa pone a carico degli organi deputati alla gestione (liquidatori e, prima del loro insediamento, amministratori) un impegno finalizzato alla massima valorizzazione dei cespiti attivi, sia nell'interesse dei soci ai fini della liquidazione della partecipazione, sia, ancor prima, nell'interesse dei creditori, ai fini del miglior soddisfacimento delle loro pretese. A monte, però, e forse soprattutto, nell'interesse del «mercato» a che non siano dispersi valori produttivi che da altri possono essere parimenti sfruttati e migliorati (Vaira, 2060). In giurisprudenza, in merito al potere riconosciuto agli amministratori, in pendenza della fase preliquidatoria, di compiere anche operazioni non prettamente conservative, si veda Cass. n. 28613/2019 e, di recente Trib. Milano, 17 ottobre 2023, n. 8099,Trib. Napoli, 12 gennaio 2021. In giurisprudenza, secondo Cass. n. 3694/2007, ai sensi dell'art. 2449 – nel testo previgente alla riforma del diritto societario – costituiscono «nuove operazioni» vietate tutti gli atti gestori diretti non a fini liquidatori, e quindi alla trasformazione delle attività societarie in denaro destinato al soddisfacimento dei creditori e, nei limiti del residuo, dei soci, ma al conseguimento di fini diversi, essendo invece lecito – d'altra parte – il completamento di attività in corso destinate al miglior esito della liquidazione. In questo senso, si veda altresì Trib. Lecce 3 dicembre 2009 (in Giur. merito, 2010, 2500), secondo cui, in caso di scioglimento di una società, mentre il previgente art. 2449 vietava tout court agli amministratori il compimento di «nuove operazioni», il novellato art. 2486 prevede che gli stessi conservano il potere di gestire la società ai soli fini della conservazione dell'integrità e del valore del patrimonio sociale, esplicitando un concetto già sostenuto in giurisprudenza, secondo cui gli atti d'impresa strumentali alla conservazione del patrimonio ed alle necessità inerenti alla liquidazione non costituiscono «nuove operazioni», in quanto tali vietate. In senso più restrittivo, si segnala una pronuncia di merito (Trib. Milano, 25 marzo 2014) che ha messo in evidenza come in presenza di una causa di scioglimento, gli amministratori – ai sensi dell'art. 2486 – devono limitarsi ad operazioni puramente conservative del patrimonio sociale, anche prima ed a prescindere da una formale apertura della liquidazione. Fermo quanto precede, occorre altresì interrogarsi sull'interrelazione esistente tra il «nuovo» dovere di «attivarsi senza indugio per l'adozione e l'attuazione di uno degli strumenti previsti dall'ordinamento per il superamento della crisi ed il recupero della continuità aziendale» (art. 2086 c.c.) e la condotta richiesta all'organo gestorio allorquando la crisi si presenti nella forma, largamente prevalente nella prassi, di perdita del capitale sociale: in pratica, l'ipotesi maggiormente ricorrente di stato di «crisi» dell'impresa, attuale o supposto che sia. Sino alla riforma operata dal Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza, il dovere dell'organo gestorio si sostanziava nell'impedire la prosecuzione dell'attività aziendale a fronte di uno stato di dissesto – attuale, o comunque doverosamente supposto tale da parte degli amministratori – dell'impresa: in particolare, ai sensi del combinato disposto degli artt. 2484-2485-2486 c.c., in presenza di una situazione di patrimonio netto negativo, gli amministratori avrebbero conservato «il potere di gestire la società, ai soli fini della conservazione dell'integrità e del valore del patrimonio sociale» (così l'art. 2486, 1° comma, c.c.). Gli amministratori avrebbero potuto, certo, fare ricorso ad uno degli strumenti previsti per la gestione della crisi, e tale eventualità era stata riconosciuta e positivamente valutata da parte del Legislatore, che, con l'introduzione dell'art. 182-sexies l. fall., aveva previsto che, dal momento della presentazione di domanda di ammissione al concordato preventivo o di omologazione di accordi di ristrutturazione dei debiti, e sino all'omologa, la causa di scioglimento in parola non operasse. Tuttavia, quella di intraprendere un siffatto percorso restava una scelta discrezionale dell'organo gestorio: il che vuol dire che l'operato degli amministratori non era censurabile, in sé, né per la mancata adozione di strumenti per il superamento della crisi e per il recupero della continuità aziendale, né per il dissesto dell'impresa stessa, ove non connesso alla violazione di obblighi inerenti alla stretta operatività in ottica liquidatoria dell'azienda. Secondo quanto previsto dal «nuovo» art. 2086, 2° comma, invece, l'organo amministrativo sembrerebbe, in ogni caso, tenuto ad attivarsi per superare la crisi e per recuperare la continuità aziendale: e dunque, anche in caso di perdita del capitale sociale, esso non potrebbe limitarsi da adottare una forma di gestione conservativa dell'azienda, ma dovrebbe tentare di uscire dalla crisi. Tuttavia, una soluzione interpretativa di questo tipo finirebbe forse per apparire eccessivamente rigida, in situazioni nelle quali il non volersi rassegnare alla impossibilità di rilancio dell'impresa finirebbe, in definitiva, per cagionare ulteriori danni al patrimonio sociale e dunque alla massa dei creditori. Una corretta chiave di lettura della norma, allora, potrebbe essere quella che recepisce la «crisi», non più come fase patologica ed irreversibile dell'impresa, ma come fase eventuale e ciclica della vita dell'impresa: in tale fase, nelle intenzioni del Legislatore, gli amministratori che facessero corretta interpretazione dei propri obblighi riuscirebbero ad uscire dalla crisi, che potrebbe però fisiologicamente ripresentarsi in futuro, essere nuovamente superata e così via. In tal senso, la disciplina dettata dall'art. 2486 c.c., con riguardo a fattispecie di perdita del capitale sociale, non verrebbe completamente superata dalla nuova disposizione dell'art. 2086, 2° comma, c.c., ma manterrebbe il proprio ambito di applicazione nei casi in cui la crisi si manifesti con caratteristiche tali da doversi ritenere che essa sia assolutamente irreversibile. Se tale chiave di lettura appariva, certamente, convincente alla luce dal testo originario del Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza, essa tuttavia potrebbe essere messa in dubbio dal fatto che, con il d.lgs. 172/2020, il Legislatore ha, come è noto, modificato la definizione di «crisi», avvicinandola sensibilmente a quella di insolvenza. E tuttavia, anche così, tale chiave di lettura potrebbe mantenere la propria validità. E ciò, in primo luogo, in considerazione del fatto che, nel momento storico attuale non si sono ancora sopiti gli effetti determinati dall'emergenza sanitaria globale da Covid-19, che ha fatto sì che, paradossalmente, la crisi sia divenuto un momento «fisiologico» di una parte considerevole delle imprese, destinato però, auspicabilmente, ad essere superato al mutare delle circostanze esogene che l'hanno provocato: da tale considerazione, con ogni probabilità, è dipesa anche la modifica della definizione di «crisi», in senso maggiormente restrittivo, operata dall'art. 1 del d.lgs. 147/2020. In secondo luogo, alla luce dell'introduzione dell'istituto della composizione negoziata delle crisi, che rende possibile, grazie alla sua duttilità, intervenire d'anticipo in situazioni in cui, al di là degli indicatori economico-finanziari, è possibile «presagire» un prossimo stato di crisi. Sanzo, Il Codice della crisi dopo il d.lgs. 17 giugno 2022, n. 83, 620 ss. ed. 2024 La responsabilità degli amministratoriPer gli atti e le omissioni poste in essere in violazione del dovere generale di gestione conservativa, gli amministratori rispondono personalmente e solidalmente, ma tale responsabilità non investe più l'operazione in sé, quanto eventuali danni conseguenti (Santus-De Marchi, 613). Infatti, il criterio in base al quale deve essere valutata la responsabilità degli amministratori non sarà l'aver compiuto una nuova operazione, bensì l'aver compiuto un atto o aver omesso il compimento di un atto relativo alla gestione che non risponda all'esigenza di salvaguardare l'integrità ed il valore del patrimonio sociale. La finalità conservativa rappresenta per gli amministratori anche un obbligo di custodia. È pertanto fonte di responsabilità qualsiasi omissione, colposa o dolosa, con la quale gli stessi amministratori abbiano contravvenuto a questa linea gestionale: essi dovranno fare tutto quanto necessario e sufficiente, nel caso concreto, per preservare e mantenere in vita i valori patrimoniali compresi quelli immateriali (Esposito, 127; Fezza, 1576). La situazione statisticamente più ricorrente è certamente quella del pregiudizio verificatosi in conseguenza di comportamenti attivi od omissivi degli amministratori nel contesto normativo dell'art. 2486, 1° comma c.c ; il caso più frequente, in materia risarcitoria, è ancora oggi quello della società sottoposta a procedura concorsuale, nel corso della quale il curatore sia certo che, in epoca ben anteriore alla apertura del fallimento, si fosse determinata la mancata rilevazione, da parte degli amministratori, della causa di scioglimento rappresentata dalla perdita del capitale sociale ex art. 2447, mancata rilevazione cui inevitabilmente si è accompagnata la «normale» prosecuzione dell'attività gestoria sino alla dichiarazione di fallimento (Sanzo, 1704). Anche in questo caso, per far valere una responsabilità sarà necessario provare la sussistenza di un danno, derivato da una condotta gestoria successiva allo scioglimento, non orientata alla conservazione del patrimonio sociale, bensì al perseguimento dell'attività tipica con conseguente assunzione di un nuovo rischio di impresa (Sanzo, 1704). La responsabilità ex art. 2486 c.c. è dunque una species delle generali prefigurazioni di responsabilità di cui agli artt. 2392,2393,2394 e 2395 c.c. (in tal senso cfr. Vaira, 2062). Gli amministratori saranno responsabili, pertanto, in solido a titolo contrattuale nei confronti della società, mentre nei confronti dei soci, dei creditori e dei terzi la loro sarà un a responsabilità aquiliana, in adesione all'impostazione maggioritaria (Ferri Jr., 431 ss.). Legittimati attivi all'azione saranno la società, per la perdita patrimoniale, i soci, per la diminuita entità della quota di liquidazione loro spettante, i creditori sociali, nell'ipotesi in cui il loro credito divenga incapiente per la per la perdita patrimoniale, ed i terzi, comunque danneggiati. In giurisprudenza si veda Cass. 8 marzo 2023, n. 6893, secondo la quale: «La responsabilità degli amministratori verso il creditore di società a responsabilità limitata - per il compimento di atti gestori non funzionali alla conservazione del patrimonio sociale dopo il verificarsi della causa di scioglimento di cui all'art. 2484, comma 1, n. 4), c.c. - è disciplinata nell'art. 2486 c.c. e, pur avendo natura extracontrattuale, non è suscettibile di essere ricondotta allo schema generale dell'art. 2043 c.c., non venendo in evidenza un «fatto illecito» nel senso postulato da detta norma, in quanto gli amministratori agiscono nel compimento delle operazioni pregiudizievoli non in proprio ma in qualità di organi investiti della rappresentanza dell'ente». Dei danni subiti dai soci, creditori e terzi potrà essere chiamata a rispondere anche la società, in nome della quale gli atti sono stati compiuti salvo poi il diritto di rivalersi nei confronti degli amministratori (Salafia, 379). In giurisprudenza (Trib. Milano, 1° aprile 2011, in Società, 2011, 730), si è precisato che, ai fini di una responsabilità degli amministratori per divieto di compimento di operazioni non conservative ai sensi dell'art. 2486, non è sufficiente allegare un aggravamento della perdita patrimoniale, ma è necessario dimostrare che la condotta gestoria successiva ad uno stato di scioglimento di fatto, anzitutto, non fosse orientata alla conservazione del patrimonio sociale, bensì al perseguimento dell'attività tipica con conseguente assunzione di un nuovo rischio di impresa, e che sia tradotta in una attività illecita e quindi fonte di danno ingiusto. In modo critico rispetto alla pronuncia appena citata si richiama Cass. 25 marzo 2024 n. 8069, secondo la quale chi propone azione giudiziale di risarcimento verso gli amministratori di una società di capitali i quali abbiano posto in essere, a seguito del verificarsi di una causa di scioglimento, attività gestoria senza finalità meramente conservativa del patrimonio sociale, ex art. 2486 c.c., ha l'onere di allegare e comprovare la sussistenza dei fatti costitutivi della domanda e, per l'effetto, la ricorrenza delle condizioni per lo scioglimento della società e il successivo compimento di atti negoziali a opera degli amministratori, tuttavia non è tenuto a comprovare che detti atti siano pure espressione dell'ordinaria attività d'impresa e non rivestano una finalità liquidatoria. Spetterà, piuttosto, agli amministratori convenuti in giudizio dimostrare che gli atti siffatti, nonostante posti in essere in epoca successiva al verificarsi della causa di scioglimento, non comportino un nuovo rischio d'impresa, come tale idoneo a compromettere il diritto dei creditori e dei soci, e siano giustificati dalla finalità liquidatoria o in ogni caso risultino necessari. Nello stesso senso si veda anche Cass. 5 febbraio 2015, n. 2156, Cass. 5 gennaio 2022, n. 198 in Società, 2022, 5, 541, nonché Cass. 27 aprile 2023n. 11041. Sul punto, in dottrina, si veda Moioli, 544. La Business Judgment RuleCon la riforma Rordorf gli assetti adeguati hanno assunto una valenza funzionale decisamente importante, tale da indurre a ritenere che, ad oggi, la disciplina della crisi sia in grado di influenzare la governance societaria in termini sino a qualche tempo fa impensabili per il nostro sistema societario civilistico. Uno dei temi relativi agli assetti adeguati che più ha attirato l'attenzione di dottrina e giurisprudenza riguarda proprio l'applicabilità o meno della cosiddetta Business Judgment Rule (BJR) alle scelte organizzative compiute dagli amministratori, soprattutto con riguardo all'individuazione e al mantenimento degli assetti organizzativi, amministrativi e contabili dell'impresa. Il dibattito attorno alla questione che precede si è acceso, soprattutto, in occasione dell'introduzione nel nostro ordinamento del 2° comma dell'art. 2086 c.c. che, com'è noto, ha posto in capo all'imprenditore che operi in forma collettiva l'obbligo di dotarsi di assetti adeguati. Tale norma, tuttavia, per quanto importante, non ha avuto una portata tanto inaspettata quanto si potrebbe credere, dal momento che già la l. 155/2017 conteneva, in corrispondenza dell'art. 14, 1° comma, lett. b), il medesimo principio. Tra i criteri direttivi imposti al legislatore delegato, infatti, vi era: «il dovere dell'imprenditore e degli organi sociali di istituire assetti organizzativi adeguati alla rilevazione tempestiva della crisi e della perdita della continuità aziendale, nonché di attivarsi per l'adozione tempestiva di uno degli strumenti previsti dall'ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale». Ecco il motivo per il quale molti Autori sostengono che la vera portata innovativa dell'art. 2086, 2° comma, c.c. non risieda tanto nel dare cittadinanza agli assetti adeguati, quanto, piuttosto, nell'assegnare un nuovo peso al principio della continuità aziendale ; principio che, per l'appunto, smette di assumere valenza su un mero piano contabile e diventa « il punto di riferimento centrale nella gestione dell'impresa, negli obblighi conseguenti all'eventuale crisi e, da ultimo, nella responsabilità degli organi sociali » (Irrera). La rinnovata attenzione agli assetti adeguati è dipesa da svariati fattori. Non solo, quindi, il tema della tempestiva emersione della crisi d'impresa ma anche, ad esempio, la maggior tutela per l'interesse sociale che deve essere perseguito dagli amministratori. In tal senso, per esempio, si è posto il nuovo Codice di corporate governance di gennaio 2020 che tra i temi di fondo, propone quello del c.d. « successo sostenibile». Gli amministratori, cioè, hanno il dovere di garantire l'interesse sociale concreto, attuando l'oggetto sociale nella sua portata concreta e strategica. Realizzare l'oggetto sociale, però, richiede all'imprenditore, per lo meno nel breve-medio periodo, di garantire la continuità aziendale , ovverosia di pianificare la gestione dell'impresa in modo tale da ravvisare eventuali segnali di crisi e, nel caso, intervenire celermente per prevenire esiti nefasti. Ventoruzzo, 439. L'autore, manifestando un certo scetticismo circa l'attitudine dell'espressione «successo sostenibile» ad incidere sul diritto vivente osserva che «pur condividendo personalmente, sul piano dei valori, il riferimento ai portatori di interesse diversi dagli azionisti ed alla sostenibilità (…) non posso nascondere, di contro, una certa perplessità per l'enfasi che si è venuta ad attribuire – nella prassi e nel dibattito più o meno accademico – a queste formule ed al loro presunto impatto concreto ». Paradigmatico in tal senso il principio contabile ISA 570 che, al paragrafo 2, pur assumendo la continuità aziendale quale presupposto della redazione del bilancio, precisa che essa consiste nella capacità dell'impresa « di continuare a svolgere la propria attività in un prevedibile futuro » e quando l'utilizzo di tale presupposto è corretto, «(…) le attività e le passività vengono contabilizzate in base al presupposto che l'impresa sarà in grado di realizzare le proprie attività e far fronte alle proprie passività durante il normale svolgimento dell'attività aziendale .» Un altro tema che ha sicuramente contribuito ad intensificare lo studio degli assetti adeguati si ritrova nella diffusione in Europa della c.d. « rescue culture », ovverosia della cultura secondo la quale esiste un legame indissolubile tra governance e crisi. L'insolvenza, cioè, non è più concepita solamente come mero presupposto per l'apertura di una procedura concorsuale, ma diventa la manifestazione ultima di un rischio insito nell'attività d'impresa, la cui rilevanza deve essere colta dal Consiglio di amministrazione in tutti i gradi intermedi di perdita economica, patrimoniale e finanziaria vissuta dall'impresa (De Sensi). Da ultimo, le conoscenze aziendalistiche e manageriali smettono di essere dei semplici criteri di buona amministrazione, ma diventano skills richieste agli amministratori che vogliano garantire una proficua interazione tra gestione finanziaria e gestione societaria dell'ente. Ora, il termine «adeguati» ha creato non pochi interrogativi, perché, se da una parte è chiaro che il concetto di adeguatezza implichi la strutturazione di un'organizzazione interna che sia in grado di «adeguarsi» all'andamento dell'attività di impresa, dall'altra parte è altrettanto evidente che lo stesso aggettivo imponga una valutazione discrezionale da parte degli organi gestori. Il concetto di discrezionalità, però, se abbinato alle scelte dell'organo gestorio, non può che richiamare l'attenzione sul principio della BJR. L'interprete, infatti, dovrà necessariamente porsi la seguente domanda: fino a che punto le scelte degli amministratori nell'adozione di assetti organizzativi adeguati possono godere della tutela della BJR? Per la BJR gli amministratori non possono essere considerati responsabili perché le scelte di gestione si sono rilevate, ex post , fallimentari a livello economico. La responsabilità giuridica dell'organo gestorio, però, può certamente derivare dalla mancata adozione di quelle cautele o dalla non osservanza di quei canoni di comportamento che il dovere di diligente gestione ragionevolmente impone, specialmente nel caso in cui, come nel caso di amministrazione di una società, l'interesse da tutelare è di colui che ha incaricato il gestore dell'amministrazione delle proprie attività e, per ciò stesso, lo ha investito di un compito con indubbie connotazioni fiduciarie (Cass., 24 agosto 2004, n. 16707, in Mass. Giur. It., 2004) Perché possa godere dalla tutela della BJR, quindi, l'organo gestorio deve valutare tutte le variabili oggettive della società amministrata, e operare con ragionevolezza e razionalità . L'art. 2381, 5° comma, c.c. pone a carico degli amministratori il dovere di curare l'adeguatezza dell'assetto organizzativo, amministrativo e contabile della società. La predisposizione di un assetto organizzativo, però, non costituisce un obbligo a contenuto specifico, bensì un obbligo non predeterminato nel suo contenuto , che acquisisce concretezza solo nel momento in cui viene commisurato alla specificità dell'impresa esercitata e al momento in cui quella scelta organizzativa viene posta in essere. Tanto premesso, se da un lato appare certo che la mancata adozione degli assetti di cui all'art. 2086 c.c. rappresenti di per sé una responsabilità dell'organo gestorio, dall'altro lato è possibile sindacare la scelta gestoria relativa alla modalità di adozione degli assetti adeguati nei limiti e secondo i criteri della proporzionalità e della ragionevolezza . Hansen , pp. 1237 ss. e 1241, afferma che: «the due care standard in corporate law is applied to the decision-making process and not to its result. Even though a decision made or a result reached is not that of the hypothetical ordinarily prudent person, no liability will attach as long as the decision-making process meets the standard» («il dovere di diligenza nel diritto societario si applica al processo decisionale e non al suo risultato. Anche se una decisione assunta o un risultato raggiunto non è quello dell'ipotetica e ordinaria persona prudente, nessuna responsabilità potrà attribuirsi qualora il processo decisionale sia coerente con gli standard »). È necessario, cioè, verificare se detta scelta fosse idonea a far emergere tempestivamente gli indici di una possibile crisi e a permettere di individuare altrettanto tempestivamente gli strumenti di reazione offerti dall'ordinamento. Il giudice, quindi, non può sindacare il merito delle scelte gestionali e organizzative degli amministratori, ad eccezione del caso in cui le scelte siano irrazionali o palesemente dannose per la società con un giudizio necessariamente ex ante e non ex post (RENNA, 171) . Semplificando, si potrebbe dire che il giudice non può sindacare la decisione, bensì la procedura adottata per assumerla . Secondo Trib. Roma, 28 settembre 2015 e Trib. Torino, 4 giungo 2013: « se la scelta è stata assunta in guisa totalmente irresponsabile e senza una preventiva e adeguata informazione ed attività istruttoria, sarà inevitabile la soccombenza dell'amministratore nel giudizio » . Sul punto, in dottrina, si veda Anriani - Rossini, p. 409. Il nuovo impianto di disciplina della crisi, cristallizzato nel Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza determinerà un forte condizionamento nell'operato degli amministratori i quali, nello svolgimento delle proprie mansioni, non potranno prescindere dalle indicazioni ricevute dagli organi preposti al controllo . In capo agli organi di controllo societari, al revisore contabile e alla società di revisione, infatti, è previsto altresì il compito di verificare che l'organo amministrativo monitori costantemente se l'assetto organizzativo dell'impresa è adeguato, se sussiste l'equilibrio economico finanziario, nonché quale sia il prevedibile andamento della gestione. I criteri per la quantificazione del danno risarcibile ex art. 2486Attraverso il terzo comma dell'art. 2486 c.c., introdotto con l'art. 378 Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza vengono individuati due specifici criteri presuntivi di liquidazione del danno risarcibile a carico degli amministratori, per il caso in cui venga accertata la violazione del dovere di gestione conservativa in situazioni di intervenuta perdita del capitale sociale. Sul punto, in dottrina, MONTI-DUGHETTI-DAVIDE. In particolare, mediante la modifica poc'anzi richiamata, il danno risarcibile si presume alternativamente:
Il secondo criterio appena richiamato ha suscitato un ampio dibattito con riguardo, in particolare, alla locuzione «altre ragioni », considerata l'assoluta genericità della stessa. Certamente si deve trattare di ragioni «oggettive» dal momento che la liquidazione equitativa del danno presuppone che l'impossibilità o la rilevante difficoltà di una stima esatta di quest'ultimo non dipenda dall'inerzia o dalla negligenza della parte gravata dell'onere della prova (App. Napoli, 19 settembre 2023, n. 3926): e ciò poiché la richiesta di condanna ex art. 1226 c.c. non può risolversi in uno strumento processuale per sottrarsi all'ordinario onere della prova di cui all'art. 2697 c.c. (Trib. Milano, 25 agosto 2023, n. 6851). Si veda in dottrina Pederzini, 1323. Fermo quanto precede, quindi, per la procedura non è sufficiente affermare che le scritture contabili siano irregolari per poter accedere al criterio del deficit patrimoniale: occorrerà, piuttosto, dimostrare che le irregolarità che caratterizzano le scritture contabili rendono particolarmente difficile il calcolo della differenza tra netti patrimoniali. Ebbene, a risultati simili si può giungere non solo allegando l'omessa tenuta della contabilità, ma anche mediante fattispecie equivalenti quali, ad esempio, la distruzione o la sottrazione delle scritture contabili. Ecco, dunque, che per «altre ragioni» si dovrà intendere tutte quelle circostanze sovrapponibili - in quanto a effetti - a quelle indicate dalla norma, ma non coincidenti negli elementi costitutivi di queste ultime. Sul punto, in dottrina, si veda, Silla. Va poi precisato che la presunzione posta dalla prima parte del terzo comma dell'art. 2486 c.c.è relativa, dal momento che l'articolo fa esplicitamente «salva la prova di un diverso ammontare» del danno. Tale prova alternativa può essere fornita sia dall'amministratore convenuto sia dal curatore (Faugeglia, 721), al fine di pervenire ad una quantificazione che tenga il più possibile conto delle peculiarità del caso concreto, sempre che il diretto interessato dimostri anche la maggior «efficienza» del criterio alternativo proposto rispetto a quello legale. Infatti, come ha precisato la giurisprudenza, «il principio espresso dalla norma in esame, dunque, continua ad essere quello per cui il risarcimento dev'essere il più possibile aderente al danno provocato: solo se tale aderenza non può essere ottenuta è applicabile un criterio che, anziché far premio agli amministratori per la loro negligenza contabile, semmai la penalizza; ma ogni qual volta i criteri equitativi indicati dalla legge possono essere corretti nei loro effetti distorsivi, attraverso l'utilizzo di dati certi, non vi è motivo di non farvi ricorso, poiché essi valgono, appunto a fornire ‘la prova di un diverso ammontare', maggiormente vicino alla realtà». Sul punto, in giurisprudenza, si veda Trib. Napoli, 9 febbraio 2023, secondo il quale: «la norma prevede la possibilità per l'amministratore di fornire la ‘prova di un diverso ammontare', ovvero di dimostrare che il danno patrimoniale ascrivibile allo stesso sia inferiore rispetto alla differenza tra i netti patrimoniali». Nonché Trib. Ancona, 24 gennaio 2024, n. 143, in Banca Dati Pubblica. Sul punto, in dottrina, si veda Rordorf, 946; Galletti, 306-307, nonché Dimundo. In realtà, la portata del terzo comma dell'art. 2486 c.c. non assume carattere innovativo, se si pensa al fatto che il legislatore non ha fatto altro se non recepire i criteri che la giurisprudenza aveva già utilizzato per la liquidazione in via equitativa del pregiudizio derivante dall'indebita prosecuzione dell'attività d'impresa in violazione del dovere di gestione conservativa. Infatti, in considerazione delle difficoltà da sempre registrate nell'applicazione dell'art. 2486 c.c., i giudici, ben prima dell'entrata in vigore dell'art. 378 Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza, avevano individuato due criteri presuntivi: – il c.d. «criterio della differenza tra attivo e passivo fallimentare», che faceva coincidere il danno con la differenza tra l'attivo e il passivo accertati nell'ambito della procedura concorsuale; – il c.d. «criterio della differenza dei netti patrimoniali», che faceva coincidere il danno con la differenza tra il patrimonio netto della società al momento in cui si era verificata la causa di scioglimento e il patrimonio netto della società al momento dell'apertura della procedura concorsuale o, se precedente, della messa in liquidazione. Fra i menzionati criteri, il c.d. «criterio della differenza tra attivo e passivo fallimentare», seppur autorevolmente avallato dalla Cassazione nel 1977 (Cass., 4 aprile 1977, n. 1281), veniva considerato generalmente incompatibile con il nesso eziologico che dovrebbe sussistere tra condotta e pregiudizio e, perciò, veniva applicato solo quando le scritture contabili mancavano o erano del tutto inattendibili oppure quando il dissesto era stato cagionato direttamente da comportamenti degli amministratori. Sicuramente più frequente, invece, era il ricorso al c.d. «criterio della differenza dei netti patrimoniali», soprattutto dopo che Cass., Sez. Un., 6 maggio 2015, n. 9100, aveva escluso l'automaticità del ricorso al c.d. «criterio della differenza tra attivo e passivo fallimentare» nelle ipotesi in cui mancassero le scritture contabili della società. Peraltro, il c.d. «criterio della differenza dei netti patrimoniali» era applicato con alcuni «correttivi» (c.d. «criterio dei netti patrimoniali rettificato»), ossia: (i) il dies a quo veniva individuato, tenendo conto dei normali tempi di reazione degli amministratori per accertare l'esistenza di una causa di scioglimento e per adottare le necessarie misure (ex plurimis: Trib. Milano, 7 gennaio 2019, n. 42); (ii) il patrimonio netto iniziale veniva stimato mediante i criteri di liquidazione (e non già mediante i criteri di continuità ex art. 2423-bis, 1° comma, n. 1, c.c.), così da essere reso «omogeneo» rispetto al patrimonio netto finale; (iii) i costi che la società, anche in caso di tempestiva messa in liquidazione, avrebbe dovuto sostenere venivano detratti dalla differenza dei patrimoni netti. Sei anni dopo l'entrata in vigore della riforma il dibattito dottrinale e giurisprudenziale riguarda ancora due temi: (i) se la presunzione introdotta dall'art. 2486, 3° comma, c.c. riguardi anche l'an del danno, incidendo in modo significativo sul riparto degli oneri probatori; (ii) se la disposizione si applichi ai giudizi pendenti al momento della sua entrata in vigore. Per quanto riguarda il primo tema, in particolare, la dottrina ha precisato che la presunzione di cui all'art. 2486, 3° comma, c.c. si estendeva anche all'an del danno, determinando così una relevatio ab onere probandi a beneficio dell'attore: quest'ultimo, infatti, avrebbe dovuto soltanto allegare – e avrebbe potuto facilmente provvedervi mediante una consulenza tecnica d'ufficio – l'esistenza di una causa di scioglimento della società e la violazione del dovere di gestione conservativa, senza dover dimostrare il pregiudizio derivante dalle indebite condotte degli amministratori. Con riguardo, invece, al secondo tema, a causa dall'assenza di una disciplina transitoria, sono andate tracciandosi due teorie contrapposte. Nello specifico, l'art. 2486, 3° comma, c.c.:
Sul punto, in giurisprudenza, si veda App. Catania, 16 gennaio 2020, n. 136, ove si legge che: «In ordine all'applicabilità dell'art. 2486 c.c. ai procedimenti già radicati, benché essa rappresenti il recepimento di un orientamento giurisprudenziale consolidato, deve evidenziarsi che, sulla scorta del disposto dell'art. 11 preleggi, la stessa non possa che disporre per il futuro, non potendo avere effetto retroattivo. Conseguentemente, essa non può trovare applicazione ratione temporis ai giudizi già pendenti al momento della sua entrata in vigore». Nonché Trib. Terni 29 ottobre 2020, n. 692; Trib. Palermo 24 gennaio 2023, n. 331; Trib. Napoli 14 febbraio 2023, n. 1622; Trib. Napoli 18 aprile 2023, n. 4030. Sul punto, in dottrina, si veda, Castelli-Monti; Monti, 835; La Sala.
In particolare, Trib. Firenze, 22 gennaio 2024, n. 218, ha chiarito che: «i criteri liquidatori legali risultanti dalla novella codicistica ben possono essere applicati anche per la liquidazione di danni consequenziali a fatti verificatisi anteriormente alla relativa entrata in vigore, giacché l'art. 2486 c.c., lungi dall'avere modificato la nozione di danno da indebita prosecuzione societaria, si è limitato a positivizzarne i criteri di liquidazione alla luce del previgente diritto vivente. Inoltre, fino alla liquidazione del danno, non possono considerarsi “esauriti” gli effetti della condotta illecita». Nello stesso senso Trib. Ancona 1° giugno 2021, n. 726. Ebbene, a chiarimento dei dubbi interpretativi appena menzionati è intervenuta la Corte di cassazione con una recente pronuncia in data 28 febbraio 2024, n. 5252. La Suprema Corte, in occasione del suo primo intervento in materia, ha reputato ininfluente indagare sul carattere (processuale o meno) del terzo comma dell'art. 2486 c.c., e ha ritenuto decisiva piuttosto la «corretta individuazione della sua funzione»: funzione che non è stata ravvisata in quella di modificare «la fattispecie concreta alla quale è dedicata, vale a dire la declinazione degli obblighi comportamentali al fondo della responsabilità civile», né di alterare «il contenuto del diritto al risarcimento del danno che sia stato cagionato», ma di codificare «un meccanismo di liquidazione equitativa del pregiudizio» già in precedenza ritenuto legittimo. Più nel dettaglio, la norma de qua – ritiene la Suprema Corte – ha semplicemente specificato «la metodica della valutazione giudiziale quanto all'apprezzamento delle conseguenze pregiudizievoli della condotta», ed in questo senso ha quale suo destinatario «proprio il giudice, il quale, ove sia dedotta (e provata) la fattispecie di responsabilità, deve utilizzare, secondo l'art. 2486, terzo comma, cod. civ., i netti patrimoniali onde liquidare il danno, a meno che in causa non siano dedotti e individuati elementi di fatto legittimanti l'uso di un diverso criterio liquidatorio più aderente alla realtà del caso concreto». Si tratta quindi, in definitiva, di una norma definibile «come latamente (anche se non propriamente) ‘processuale'», come tale applicabile anche ai giudizi in corso al momento della sua entrata in vigore, perché «rivolta a stabilire non un criterio (nuovo) di riparto di oneri probatori, ma semplicemente un criterio valutativo del danno, rispetto a fattispecie integrate dall'accertata responsabilità degli amministratori per atti gestori non conservativi dell'integrità e del valore del capitale dopo il verificarsi di una causa di scioglimento della società» (Dimundo). 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