Codice Civile art. 1211[I]. Il figlio assume il cognome del genitore che per primo lo ha riconosciuto. Se il riconoscimento è stato effettuato contemporaneamente da entrambi i genitori il figlio assume il cognome del padre456. [II]. Se la filiazione nei confronti del padre è stata accertata o riconosciuta successivamente al riconoscimento da parte della madre, il figlio può assumere il cognome del padre aggiungendolo, anteponendolo o sostituendolo a quello della madre. 7 [III]. Se la filiazione nei confronti del genitore è stata accertata o riconosciuta successivamente all'attribuzione del cognome da parte dell'ufficiale dello stato civile, si applica il primo e il secondo comma del presente articolo; il figlio può mantenere il cognome precedentemente attribuitogli, ove tale cognome sia divenuto autonomo segno della sua identità personale, aggiungendolo, anteponendolo o sostituendolo al cognome del genitore che per primo lo ha riconosciuto o al cognome dei genitori in caso di riconoscimento da parte di entrambi 8. [IV]. Nel caso di minore età del figlio, il giudice decide circa l'assunzione del cognome del genitore, previo ascolto del figlio minore, che abbia compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore ove capace di discernimento [38, 51 att.] 910. [1] L’art. 7, d.lg. 28 dicembre 2013, n. 154, ha sostituito il Titolo, modificando la rubrica del Titolo (la precedente era «Della filiazione»), e sostituendo le parole «Capo II. "Della filiazione naturale e della legittimazione"»; «Sezione I. "Della filiazione naturale» e la rubrica del paragrafo 1 «Del riconoscimento dei figli naturali» con le parole: «Capo IV. "Del riconoscimento dei figli nati fuori dal matrimonio"». [2] Articolo così sostituito dall'art. 111, l. 19 maggio 1975, n. 151. La Corte cost., con sentenza 23 luglio 1996, n. 297 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del presente articolo «nella parte in cui non prevede che il figlio naturale, nell'assumere il cognome del genitore che lo ha riconosciuto, possa ottenere dal giudice il riconoscimento del diritto a mantenere, anteponendolo o, a sua scelta, aggiungendolo a questo, il cognome precedentemente attribuitogli con atto formalmente legittimo, ove tale cognome sia divenuto autonomo segno distintivo della sua identità personale». [3] L'art. 27, comma 1, lettera a) del d.lg. 28 dicembre 2013, n. 154, ha modificato la rubrica aggiungendo, dopo la parola: «figlio» le parole: «nato fuori del matrimonio». Ai sensi dell’art. 108, d.lg. n. 154 del 2013, la modifica è entrata in vigore a partire dal 7 febbraio 2014. [4] L'art. 27, comma 1, lettera b) del d.lg. 28 dicembre 2013, n. 154 ha soppresso, ovunque presente, la parola: «naturale». Ai sensi dell’art. 108, d.lg. n. 154 del 2013, la modifica è entrata in vigore a partire dal 7 febbraio 2014. [5] La Corte costituzionale, con sentenza 21 dicembre 2016, n. 286, ha dichiarato, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l’illegittimità costituzionale del presente comma, nella parte in cui non consente ai genitori, di comune accordo, di trasmettere al figlio, al momento della nascita, anche il cognome materno. [6] La Corte costituzionale, con sentenza 31 maggio 2022, n. 131 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del presente comma, nella parte in cui prevede, con riguardo all’ipotesi del riconoscimento effettuato contemporaneamente da entrambi i genitori, che il figlio assume il cognome del padre, anziché prevedere che il figlio assume i cognomi dei genitori, nell’ordine dai medesimi concordato, fatto salvo l’accordo, al momento del riconoscimento, per attribuire il cognome di uno di loro soltanto; la medesima sentenza ha dichiarato, in via consequenziale, ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l'illegittimità costituzionale della norma desumibile dagli artt. 262, primo comma, e 299, terzo comma, cod. civ., 27, comma 1, della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia) e 34 del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell'ordinamento dello stato civile, a norma dell'articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127), nella parte in cui prevede che il figlio nato nel matrimonio assume il cognome del padre, anziché prevedere che il figlio assume i cognomi dei genitori, nell'ordine dai medesimi concordato, fatto salvo l'accordo, alla nascita, per attribuire il cognome di uno di loro soltanto. [7] L'art. 27, comma 1, lettera c) d.lg. 28 dicembre 2013, n. 154, ha sostituito il presente comma. Il testo precedente recitava: «Se la filiazione nei confronti del padre è stata accertata o riconosciuta successivamente al riconoscimento da parte della madre, il figlio può assumere il cognome del padre aggiungendolo o sostituendolo a quello della madre». Ai sensi dell’art. 108, d.lg. n. 154 del 2013, la modifica è entrata in vigore a partire dal 7 febbraio 2014. [8] L'art. 27, comma 1, lettera d) d.lg. 28 dicembre 2013, n. 154, ha aggiunto il presente comma. Ai sensi dell’art. 108, d.lg. n. 154 del 2013, la modifica è entrata in vigore a partire dal 7 febbraio 2014. [9] L'art. 27, comma 1, lettera e) d.lg. 28 dicembre 2013, n. 154, ha sostituito alle parole «l'assunzione del cognome del padre» le parole: «l'assunzione del cognome del genitore, previo ascolto del figlio minore, che abbia compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore ove capace di discernimento». Ai sensi dell’art. 108, d.lg. n. 154 del 2013, la modifica è entrata in vigore a partire dal 7 febbraio 2014. [10] La Corte costituzionale, con sentenza 21 dicembre 2016, n. 286, pubblicata in G.U. n. 52 del 28 dicembre 2016, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale della norma desumibile dal presente articolo nella parte in cui non consente ai coniugi, di comune accordo, di trasmettere ai figli, al momento della nascita, anche il cognome materno. InquadramentoLa vendita ha la funzione di esonerare il debitore dall'obbligo di conservazione e custodia dei beni dovuti e di consentirgli eventualmente la liberazione dall'obbligazione mediante il deposito del prezzo ricavato. Ciò si può verificare in due ipotesi: a) quando le cose non possano essere conservate o siano deteriorabili; b) quando le spese di custodia siano eccessive. Non è configurabile, comunque, un obbligo di procedere alla vendita in presenza di tali presupposti anche se, nell'ipotesi di cose deteriorabili, l'esercizio del rimedio giovi pure al creditore, in quanto essa consente la sopravvivenza del credito che, altrimenti, con ogni probabilità, si estinguerebbe a seguito del perimento delle cose dovute (Cattaneo, in Comm. S.B., 1988, 220). Ma un diverso divisamento ritiene che, qualora si tratti di beni deperibili, il debitore, per dovere di correttezza, sarebbe, invece, tenuto a procedere tempestivamente alla vendita, la cui autorizzazione potrebbe essere accordata sulla base di una semplice offerta non formale, attesa l'urgenza di provvedere nell'interesse del creditore (Bianca, 416). Qualora ne ricorrano le condizioni, secondo un primo orientamento, il debitore potrebbe limitarsi alla sola vendita senza il susseguente deposito del prezzo, con la conseguente modificazione oggettiva del rapporto obbligatorio, né tanto costituirebbe di per sé una fonte di responsabilità dell'obbligato: pertanto, l'efficacia della vendita sul rapporto non sarebbe condizionata al deposito della somma ricavata (Cattaneo, in Comm. S.B., 1988, 216). In senso contrario, si reputa che la validità della vendita sia subordinata all'effettivo esperimento della procedura di deposito del prezzo, altrimenti si avrebbe una prestazione in luogo di adempimento senza il consenso del creditore (Falzea, 364). In ordine alle modalità della vendita si fa rinvio alle norme processuali che regolano la vendita forzata di cose pignorate ex artt. 502 e ss. c.p.c., nei limiti della compatibilità (Cattaneo, in Comm. S.B., 1988, 219; Visintini, in Tr. Res., 1999, 150). In senso diverso, altra tesi sostiene che si applicherebbero le norme sul pegno (Falzea, 367). Secondo la giurisprudenza, qualora, in materia di vendita, il compratore, lamentando vizi della merce acquistata, la restituisca al venditore e non ne accetti poi la riconsegna, la parte venditrice, che riceva in restituzione la merce, può liberarsi dall'obbligo di consegna mediante il deposito di cui all'art. 1210 o attraverso la procedura di vendita di cui all'art. 1211, altrimenti è gravata da un obbligo di ripetizione e/o custodia delle cose, ancorché essa si sia adoperata per il ritrasferimento alla parte acquirente e questa l'abbia rifiutato (Cass. n. 267/2013). PreavvisoI principi di correttezza e buona fede esigono che la procedura sia anticipata da un preavviso mediante il quale il debitore comunica le proprie intenzioni al creditore, ossia dall'invio di un atto attraverso il quale il debitore rende noto al debitore l'intenzione di procedere alla vendita delle cose non conservabili o deperibili o che implichino eccessivi costi di custodia (Cattaneo, in Comm. S.B., 1988, 220). Procedura di venditaIl rimedio in questione è ammissibile anche quando la cosa, pur potendo essere conservata dal debitore, non possa, tuttavia, essere collocata in deposito presso altri (Cattaneo, in Comm. S.B., 1988, 221). Sicché il deposito della cosa deve risultare impossibile, eccessivamente oneroso o inappropriato (Bianca, 416). L'attuazione della procedura di vendita deve essere previamente autorizzata dal tribunale (dal 31 ottobre 2021 dal giudice di pace, ossia con riferimento alle istanze di autorizzazione depositate a decorrere da tale data). La somma ricavata dalla vendita sostituisce le cose dovute quale oggetto del rapporto obbligatorio, con la conseguente possibilità di applicare le norme sulla compensazione qualora il creditore sia, a sua volta, debitore di una somma di denaro (Visintini, in Tr. Res., 1999, 150). Il debitore che riesca eventualmente a riottenere la disponibilità della cosa alienata potrà sostituirla alla somma depositata (Cattaneo, in Comm. S.B., 1988, 221). Si tratta di una facoltà del debitore, salvo che si tratti di cose deperibili, caso in cui il debitore è tenuto a procedere tempestivamente all'alienazione in osservanza delle regole di correttezza. La vendita non rientra nel contenuto della prestazione, ma costituisce il mezzo per salvaguardare l'utilità del creditore, senza comportare per il debitore un apprezzabile sacrificio (Bianca, 416). Il provvedimento di autorizzazione del tribunale (e dalla data indicata del 31 ottobre 2021 del giudice di pace, in ragione del diverso criterio di competenza per materia previsto dall'art. 27, comma 2, lett. b), n. 1 d.lgs. n. 116/2017), sull'istanza del debitore, rientra tra gli atti giudiziali di volontaria giurisdizione (Cass. n. 549/1994). BibliografiaBianca, Diritto civile, IV, L'obbligazione, Milano, 1997; Bigliazzi Geri, voce Mora del creditore, in Enc. giur., Milano, 1990; Falzea, L'offerta reale e la liberazione coattiva del debitore, Milano, 1947; Ghera, Liso, voce Mora del creditore (dir. lav.), in Enc. dir., Milano, 1979; Giacobbe, voce Mora del creditore (dir. civ.), in Enc. dir., Milano, 1976; Natoli, Bigliazzi Geri, Mora accipiendi e mora debendi, Milano, 1975. |