Decreto legislativo - 18/04/2016 - n. 50 art. 151 - (Sponsorizzazioni e forme speciali di partenariato) 1

Nicola Rumine

(Sponsorizzazioni e forme speciali di partenariato)1

[1. La disciplina di cui all'articolo 19 del presente codice si applica ai contratti di sponsorizzazione di lavori, servizi o forniture relativi a beni culturali di cui al presente capo, nonché ai contratti di sponsorizzazione finalizzati al sostegno degli istituti e dei luoghi della cultura, di cui all'articolo 101 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, e successive modificazioni, recante Codice dei beni culturali e del paesaggio, delle fondazioni lirico-sinfoniche e dei teatri di tradizione2.

2. L'amministrazione preposta alla tutela dei beni culturali impartisce opportune prescrizioni in ordine alla progettazione, all'esecuzione delle opere e/o forniture e alla direzione dei lavori e collaudo degli stessi.

3. Per assicurare la fruizione del patrimonio culturale della Nazione e favorire altresì la ricerca scientifica applicata alla tutela, lo Stato, le regioni e gli enti territoriali possono, con le risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente, attivare forme speciali di partenariato con enti e organismi pubblici e con soggetti privati, dirette a consentire il recupero, il restauro, la manutenzione programmata, la gestione, l'apertura alla pubblica fruizione e la valorizzazione di beni culturali immobili, attraverso procedure semplificate di individuazione del partner privato analoghe o ulteriori rispetto a quelle previste dal comma 1. Resta fermo quanto previsto ai sensi dell'articolo 106, comma 2-bis, del codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 423.]

[1] Articolo abrogato dall'articolo 226, comma 1, del D.Lgs. 31 marzo 2023, n. 36, con efficacia a decorrere dal 1° luglio 2023, come stabilito dall'articolo 229, comma 2. Per le disposizioni transitorie vedi l'articolo 225 D.Lgs. 36/2023 medesimo.

[2] Così rettificato con Comunicato 15 luglio 2016 (in Gazz. Uff., 15 luglio 2016, n. 164).

[3] Comma modificato dall'articolo 8, comma 5, lettera c-ter), del D.L. 16 luglio 2020, n. 76, convertito, con modificazioni, dalla Legge 11 settembre 2020, n. 120

Inquadramento

Il contratto di sponsorizzazione non è oggetto di disciplina generale. Una definizione, che aiuta a comprenderne natura e contenuto, è però offerta dall'art. 2, lett. t), del d.lgs. n. 177/2005 (c.d. testo unico della radiotelevisione), recante la disciplina del sistema radiotelevisivo pubblico e privato, secondo cui per sponsorizzazione deve intendersi ogni contributo al finanziamento di programmi da parte di un'impresa pubblica o privata — non impegnata in attività televisive o radiofoniche o di produzione di opere audiovisive o radiofoniche — allo scopo di promuovere il suo nome, il suo marchio, la sua immagine, le sue attività o i suoi prodotti, purché non contengano riferimenti specifici di carattere promozionale a tali attività o prodotti.

In dottrina la causa del contratto di sponsorizzazione è stata individuata nel finanziamento di un evento, di un atleta o di un team sportivo, oltre che nel vantaggio patrimoniale indiretto ottenuto dallo sponsor (ad esempio Bocchini - Gambino, 500; Barba, 915 ss.).

La giurisprudenza conferma che il contratto di sponsorizzazione riguarda le ipotesi in cui un soggetto, detto «sponsorizzato» (ovvero, con terminologia anglosassone, sponsee), si obbliga a consentire allo sponsor l'uso della propria immagine pubblica e del proprio nome, allo scopo di promuovere un marchio o un prodotto, dietro il pagamento di un corrispettivo.

Tale uso può peraltro prevedere che lo "sponsee" rispetti determinati standard di comportamento a beneficio del marchio o del prodotto oggetto della veicolazione, come si dirà meglio tra poco (sul punto, ex plurimis, Cass. III, n. 5086/1998; Cass. I, n. 9880/1997. Nella giurisprudenza di merito si veda ad esempio Trib. Roma XVII, n. 16367/2021).

Alla luce di quanto precede del contratto di sponsorizzazione è stato a buon diritto detto che non è strumento di comunicazione alternativo alla pubblicità, bensì un «fattore accelerativo» della stessa, che è parte delle dinamiche pubblicitarie e che mira a influenzare i consumatori e i potenziali acquirenti con messaggi indiretti, tanto più efficaci quanto più le iniziative di sponsorship godano di elevate potenzialità in termini di notorietà e immagine (Verde, 22).

La natura del contratto di sponsorizzazione e la disciplina applicabile

In ordine alla natura del contratto di sponsorizzazione non vi è uniformità di vedute in dottrina, dalla quale sono state infatti elaborate diverse teorie (v. Dessi, 1067).

Taluni autori riconducono la sponsorizzazione agli schemi negoziali del contratto di appalto di servizi e del contratto d'opera (tra questi, Santini, 85 ss.; di tale avviso sembra essere anche De Giorgi, 855 ss.).

Altra parte della dottrina inquadra invece il contratto di sponsorizzazione nell'ambito dei rapporti associativi (Nanni, 35).

Altri autori qualificano la sponsorizzazione come contratto atipico, in quanto tale da sottoporre alla disciplina del tipo di contratto di cui, nel caso concreto, rispecchia maggiormente i caratteri (Colantuoni, 1006 ss.).

Altri autorevoli esponenti della dottrina rilevano poi che soltanto la sponsorizzazione «pura», che prevede quale principale obbligo dello sponsee il pagamento di un prezzo, possa essere qualificata come contratto atipico e oneroso, mentre alla sponsorizzazione tecnica, avente a oggetto la fornitura di prodotti inerenti all'attività del soggetto sponsorizzato, dovrebbe attribuirsi natura di liberalità d'uso ex art. 770 c.c. (Frigani — Dessi — Introvigne, 18 ss.).

Da ultimo vi è chi assimila la sponsorizzazione al contratto di somministrazione di servizi, in tal modo valorizzando il carattere periodico o continuativo delle attività di sponsorizzazione (Barba, 906 ss.).

Il dibattito in merito alla natura del contratto di sponsorizzazione impegna anche la giurisprudenza, ove, da una parte, si sostiene che la sponsorizzazione è, oltre che un contratto a forma libera (si veda Cass. II, n. 12112/2023), un contratto oneroso e sinallagmatico, ove a una prestazione (di fornitura o di denaro) fa fronte una controprestazione (di pubblicità) (v. Collegio Arbitrale Milano, 15 febbraio 1991 e più di recente Cons. Stato V, n. 4614/2017), dall'altra si aderisce alla tesi che descrive la sponsorizzazione come un contratto atipico che, in quanto tale, impone all'interprete di analizzare il contenuto sostanziale del singolo accordo (v. Cass. III, n. 12801/2006; in senso conforme Cass. III, n. 7083/2006; Cass. III, n. 5086/1998; Cass. I, n. 9880/1997).

Pur non essendo regolato dal legislatore in via generale, il contratto di sponsorizzazione è oggetto sia della normativa statuale, sia di quella regionale, cui si devono aggiungere, limitatamente al settore dello sport, anche le regole adottate dalle diverse federazioni sportive.

Tra le norme di fonte statale può ricordarsi l'art. 8, comma 12, della l. n. 223/1990 (in seguito abrogato dall'art. 54, comma 1, lett. i), n. 3, d.lgs. n. 177/2005), oltre che l'art. 2, lett. t), del d.lgs. n. 177/2005 (c.d. testo unico della radiotelevisione).

Un accurato elenco delle fonti regionali si trova in Amato, 8.

A proposito della normativa federale può farsi menzione dell'art. 72, comma 4 delle N.O.I.F. e dell'art. 25 del Regolamento I.N.P.

A proposito dell'evoluzione normativa in materia, il primo e fondamentale passaggio è stato scandito dalla c.d. legge Mammì (l. n. 223/1990, modificata dalla l. n. 483/1992), cui ha fatto seguito il c.d. testo unico sulla radiotelevisione (d.lgs. n. 177/2005, modificato dal d.lgs. n. 44/2010). Ivi sono oggetto di disciplina il contenuto dell'attività pubblicitaria, i divieti di sponsorizzazione di particolari prodotti, la riconoscibilità dello sponsor.

Tale disciplina è stata a più riprese ritenuta applicabile a qualunque contratto di sponsorizzazione, ben oltre il settore radiotelevisivo.

I contratti di sponsorizzazione hanno ricevuto un ulteriore riconoscimento con la l. n. 449/1997, art. 43, che ha attribuito alle pubbliche amministrazioni la facoltà di stipulare contratti di sponsorizzazione e accordi con soggetti privati ed associazioni riconosciute senza fini di lucro, nonché, successivamente, con l'art. 119 del d.lgs. n. 267/2000, che sostanzialmente ha ribadito i contenuti dell'art. 43 appena citato.

A disciplinare la materia sono poi intervenuti il d.lgs. n. 42/2004 (c.d. codice dei beni culturali) e il d. lgs. n. 163/2006 (c.d. codice dei contratti pubblici, recentemente sostituto dal c.d. nuovo codice degli appalti pubblici e concessioni di lavori, servizi e forniture, d.lgs. n. 50/2016, di cui rileva in particolare l’art. 19), che tuttavia non aspirano a regolare il contratto di sponsorizzazione in generale, ma piuttosto a individuare le modalità di scelta dello sponsor nell'ambito di un appalto pubblico (Bianca, Contratti di pubblicità, 1107-1108).

La meritevolezza del contratto di sponsorizzazione

Si è già osservato che la tesi prevalente in giurisprudenza circa la natura del contratto di sponsorizzazione è quella che lo qualifica come contratto atipico.

Come noto nel nostro ordinamento la possibilità di stipulare contratti atipici è prevista espressamente dall'art. 1322 c.c., il quale, dopo aver stabilito al primo comma che le parti possono liberamente determinare il contenuto del contratto nei limiti imposti dalla legge, al secondo comma prevede che le parti possono concludere contratti non appartenenti ai tipi aventi una disciplina particolare, purché diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l'ordinamento giuridico stesso.

Per quanto riguarda il contratto di sponsorizzazione può osservarsi che è opinione comune in dottrina che il vaglio di meritevolezza sia ampiamente superato, indipendentemente dai criteri che si ritengano di dover osservare e dunque sia che si faccia riferimento alla non contrarietà del negozio a norme imperative, al buon costume o all'ordine pubblico di cui all'art 1343 c.c., sia che si faccia riferimento alla oggettiva utilità sociale del contratto. Infatti il contratto di sponsorizzazione, permettendo allo sponsor di diffondere il marchio attraverso l'attività, il nome, l'immagine di un soggetto o di un evento e permettendo allo sponsorizzato di ricevere una contropartita in denaro o in beni e servizi ha una innegabile funzione economico-sociale, consistente, appunto, nella finalità pubblicitaria per lo sponsor e in quella economica per lo sponsee. Tale funzione economico-sociale non solo non contrasta, dunque, con il dettato dell'art. 1343 c.c. e con i principi costituzionali, ma anzi persegue obbiettivi apprezzabili socialmente, attraverso l'armonica integrazione di diversi valori ordinamentali (Martinez, 1 ss.).

Obblighi dello sponsor

L'obbligazione principale che grava sullo sponsor è quella del pagamento di un corrispettivo, generalmente in denaro: in tal caso si parla di sponsorizzazione a fronte del pagamento di un prezzo.

Se non previamente stabilito, il corrispettivo in denaro può essere determinato in applicazione analogica dell'art. 2225 c.c., relativo al contratto d'opera, in base al quale «il corrispettivo, se non è convenuto dalle parti e non può essere determinato secondo le tariffe professionali o gli usi, è stabilito dal giudice in relazione al risultato ottenuto e al lavoro normalmente necessario per ottenerlo».

A proposito dell'entità del corrispettivo, possono distinguersi diverse componenti: infatti alle c.d. fees, che costituiscono il vero e proprio compenso, potrebbero aggiungersi bonus legati ai risultati o alle prestazioni individuali del soggetto sponsorizzato (ad es. il numero di goal, i miglioramenti cronometrici, di misura e di distanza, ecc.). Talvolta, inoltre, è pattuito il c.d. minimo economico garantito. Infine nei contratti di natura pluriennale è spesso previsto un incremento delle fees alla luce dei risultati sportivi ottenuti nell'anno solare precedente, oppure, viceversa, una diminuzione delle stesse, il c.d. malus (Bianca, Il contratto di sponsorizzazione, 1090 ss.; Tarolli, 252 ss.)

In alternativa al corrispettivo in denaro possono essere trasferiti allo sponsorizzato, in proprietà o in godimento temporaneo, altri beni (ad es. attrezzature sportive, generi di abbigliamento, ecc.) ovvero possono essere forniti specifici servizi (ad es. quelli di trasporto, di segreteria, ecc.): in tali casi si parla comunemente di sponsorizzazione tecnica.

In proposito giova osservare che una parte della dottrina qualifica la sponsorizzazione tecnica come donazione modale (Inzitari, 248 ss.), mentre altri autori la considerano un contratto gratuito modale (Gazzoni, 1328 ss.).

La giurisprudenza di legittimità, chiamata a pronunciarsi sulla natura del contratto di sponsorizzazione tecnica, ha invece ritenuto che anch'essa costituisca un contratto a titolo oneroso e a prestazioni corrispettive sulla base della considerazione che la fornitura di materiali da parte dello sponsor sia oggetto di un'obbligazione in rapporto sinallagmatico con le prestazioni dello sponsorizzato (Cass., III, n. 12801/2006).

Per quanto riguarda la normativa applicabile al contratto di sponsorizzazione tecnica, secondo la dottrina maggioritaria (ma anche secondo la giurisprudenza) è possibile fare riferimento alla disciplina dei contratti tipici, in dipendenza del caso concreto, ragion per cui se lo sponsor trasferisce la proprietà di un bene, troverà applicazione la disciplina della vendita, se invece concede il bene in godimento, si applicherà quella della locazione, ecc.

Non è precluso alle parti, inoltre, pattuire una sponsorizzazione a titolo gratuito, in base alla quale l'impresa sponsor non è tenuta ad elargire alcunché né in denaro né in natura.

Anche rispetto alla sponsorizzazione di squadra sportiva, infine, è frequente che le parti inseriscano nel contratto le c.d. clausole di valorizzazione, per cui l'impresa sponsor si obbliga a corrispondere somme aggiuntive o ridotte in dipendenza dei risultati sportivi conseguiti dalla squadra sponsorizzata (Bianca, Il contratto di sponsorizzazione, 1090 ss.).

In proposito può anticiparsi che la giurisprudenza è stata a più riprese chiamata a verificare se sussistano profili di responsabilità del soggetto sponsorizzato in caso di risultati negativi della squadra sportiva. È stato dunque detto che se è vero che dal contratto di sponsorizzazione nasce un rapporto caratterizzato da un rilevante carattere fiduciario, nell'ambito del quale assumono particolare importanza i doveri di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., i quali costituiscono obblighi ulteriori o integrativi rispetto a quelli tipici del rapporto, non è sufficiente richiamare generici doveri di salvaguardia degli interessi e dell'immagine dello sponsor, bensì occorre fornire la prova dei comportamenti pregiudizievoli, della loro accessorietà rispetto all'accordo di sponsorizzazione e dei loro concreti effetti lesivi per lo sponsor. Diversamente tali condotte non possono essere ritenute oggetto di obblighi patrimonialmente valutabili ai sensi dell'art. 1174 c.c., in quanto tali idonee a giustificare una richiesta di risarcimento dei danni (sul punto si veda Cass. III, n. 8153/2014, ove è stato negato il risarcimento del danno all'immagine asseritamente subito da una squadra di calcio retrocessa nella categoria inferiore, non essendo stato provato l'effettivo pregiudizio subito; in senso conforme si veda anche Cass. III, n. 12801/2006).

In tema di responsabilità dello sponsor per danni causati a terzi si è inoltre stabilito che lo scopo del contratto di sponsorizzazione è rappresentato dalla volontà dell'impresa sponsor di diffondere il proprio marchio, ma anche che esso non ha alcun potere di ingerenza sulle modalità di svolgimento e sulla gestione dell'attività sponsorizzata, ragione per cui non può essere ritenuto responsabile per eventuali danni causati a terzi nel corso della gara sportiva o nell'ambito della manifestazione sponsorizzata (si veda Cass. III, n. 5086/1998, seppur relativa a un contratto di patrocinio, ove è stato affermato che «la prestazione del patrocinio, pur potendo assumere contenuti di volta in volta differenti, non può mai comportare una responsabilità ove non si sia concretata in partecipazione all'organizzazione della manifestazione sportiva»).

Ciononostante potrebbe esservi responsabilità in solido dello sponsee per danni a terzi nel caso di ingerenza dello sponsor nell'organizzazione dell'evento, ferma restando la necessità di apprezzare caso per caso la presenza del nesso di causalità. Ciò potrebbe ad esempio accadere qualora si verifichi un danno a terzi generato dall'utilizzazione di beni o materiali forniti dallo sponsor medesimo (Battisti, 377).

Chiarito quanto sopra, per quanto specificamente concerne il settore sportivo si deve precisare che l'estraneità dello sponsor rispetto all'evento sponsorizzato, insieme all'autonomia dell'ordinamento sportivo, lo rendono estraneo alle decisioni prese dagli organi della giustizia sportiva, per quanto questi possano pregiudicare la funzione del contratto di sponsorizzazione (Bianca, Contratti di pubblicità, 1118).

In un noto caso giurisprudenziale riguardante un contratto di abbinamento pubblicitario di una squadra di hockey sul prato, il T.A.R. adito ha negato allo sponsor la possibilità di impugnare il provvedimento della federazione di accoglimento della domanda degli atleti tesserati di scioglimento del vincolo sportivo, non riconoscendo l'esistenza di alcun interesse ad agire in capo allo sponsor (T.A.R. Brescia 3 maggio 1985, n. 185).

Si osservi però che nel settore del calcio è stata espressamente prevista la possibilità per lo sponsor di intervenire nei giudizi sportivi (Bianca, Contratti di pubblicità, 1118).

Obblighi dello sponsee: in particolare la questione delle c.d. clausole morali

Per quanto concerne gli obblighi gravanti sullo sponsee, nel contratto di sponsorizzazione è generalmente inserito un elenco dettagliato delle prestazioni dovute.

Si tratta di obbligazioni di mezzi che possono assumere diversa natura, in dipendenza delle diverse forme di sponsorizzazione, comunque fondamentalmente riconducibili alla sponsorizzazione di evento, di manifestazione sportiva, di squadra sportiva o del singolo atleta.

È ad esempio comunemente pattuito l'obbligo di pubblicizzare il marchio o il prodotto dell'impresa sponsorizzatrice sulla divisa degli atleti, sui biglietti di ingresso della gara, sugli inviti a manifestazioni sportive, oppure l'obbligo di indossare i capi d'abbigliamento o di utilizzare le attrezzature sportive fornite dallo sponsor, specialmente in pubblici eventi e alla presenza dei media.

Spesso vengono anche inserite clausole di dubbia validità, come quelle che impongono all'atleta di nutrirsi esclusivamente con certi prodotti alimentari forniti dallo sponsor, ovvero quelle che impediscono all'atleta di esercitare altre attività sportive, sul presupposto che potrebbero risultare pericolose per la sua incolumità o salute, ecc.

La dottrina osserva comunque che eventuali responsabilità dello sponsee debbano essere valutate caso per caso, sulla base dei principi di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., (Bianca, Il contratto di sponsorizzazione, 1090 ss.).

Una questione di estrema importanza attiene alla validità delle c.d. clausole morali, ossia quelle pattuizioni che obbligano lo sponsee a tenere comportamenti eticamente corretti al fine di non pregiudicare il buon esito della sponsorizzazione, la cui violazione fa sorgere il diritto dello sponsor di risolvere anticipatamente il contratto.

La prassi contrattuale ha reso palesa l'ampia ingerenza dello sponsor sulla libertà di autodeterminazione del testimonial. Il Tribunale di Milano si è ad esempio pronunciato rispetto al caso di un noto calciatore di calcio che era stato avvicinato da una prostituta transessuale, la quale, con la complicità di altri, aveva pianificato di estorcergli denaro sotto la minaccia di diffondere filmati compromettenti. Il calciatore si era però risolto a denunciare i fatti alla polizia, che era intervenuta arrestando i malviventi. A distanza di quindici mesi dai fatti, una nota casa farmaceutica con cui il calciatore aveva stipulato un contratto di sponsorizzazione decideva però di risolvere il contratto facendo leva sulla «clausola morale» ivi contenuta. che imponeva all'atleta comportamenti conformi alla morale vigente. La casa farmaceutica rifiutava, al contempo, di pagare il corrispettivo pattuito e anzi pretendeva dall'atleta la restituzione di quanto versato a titolo di risarcimento del danno. Orbene, all'esito del giudizio, il Tribunale di Milano ha negato il diritto della casa farmaceutica di risolvere il contratto e di ottenere il risarcimento del danno, facendo riferimento ai limiti di ordine pubblico e, più in particolare, al rispetto dei diritti fondamentali della persona. Il Tribunale ha infatti chiarito che al testimonial non può essere addebitato alcun inadempimento, essendo stato scelto dallo sponsor in virtù delle sue non comuni doti atletiche, non certo per le sue preferenze sessuali. Di conseguenza ha affermato che gli obblighi di natura morale devono essere riferiti principalmente alla sfera professionale, per cui, in astratto, potrebbero costituire inadempimento contrattuale eventuali azioni che pregiudichino la sua integrità di sportivo, quali ad esempio una squalifica per doping o altre gravi condotte antisportive sul campo. Il giudice del merito ha inoltre sostenuto che se si interpretasse la clausola in questione nel senso di imporre al testimonial determinate condotte attinenti all'espressione fondamentale della propria personalità (orientamenti sessuali, scelte politiche o credenze religiose), essa dovrebbe reputarsi nulla, essendo in violazione dei diritti fondamentali della persona costituzionalmente garantiti. In definitiva per il Tribunale di Milano le clausole morali non sono di per sé illecite, ma possono diventare illecite ogniqualvolta inficino i diritti fondamentali e costituzionalmente garantiti della persona umana (Trib. Milano I, 9 febbraio 2015; v. anche Chiaberge, 393).

Coerentemente con i principi di diritto poc'anzi illustrati, in giurisprudenza si è già da tempo affermato che è obbligo dello sponsorizzato non tenere condotte sconvenienti e disdicevoli, o ancor prima non rilasciare dichiarazioni denigratorie nel corso di una conferenza stampa o nel contesto di un'intervista televisiva, qualora possano causare discredito al buon nome e all'immagine dello sponsor. Si tratta, infatti, di condotte attinenti la sfera professionale dello sponsorizzato che si pongono in violazione dei fondamentali principi di buona fede e correttezza di cui all'art. 1175 c.c. e all'art. 1375 c.c., i quali dovrebbero illuminare costantemente la condotta delle parti contraenti nell'esecuzione del contratto. L'eventuale violazione di siffatti obblighi integrativi delle prestazioni principali, pertanto, costituisce inadempimento colpevole del soggetto sponsorizzato (v. Trib. Rieti, 19 marzo 1994; in dottrina v. De Giorgi, 1017).

Le clausole più ricorrenti nel contratto di sponsorizzazione

Si è detto che spesso i contratti di sponsorizzazione contengono clausole c.d. morali. Tra le altre clausole frequentemente contenute nei contratti di sponsorizzazione vi è la clausola di esclusiva: se viene pattuita l'esclusiva a titolo c.d. di unicità, siamo di fronte alla c.d. sponsorizzazione unica; diversamente il diritto di esclusiva deve considerarsi limitato al medesimo settore merceologico.

Ad ogni modo, in forza della clausola di esclusiva è impedito allo sponsee di effettuare prestazioni richieste da imprese che siano direttamente o indirettamente in concorrenza con lo sponsor ed è usuale, a tal fine, allegare al contratto di sponsorizzazione un documento contenente l'elenco tassativo delle imprese da considerarsi appunto concorrenti dello sponsor.

Di regola il diritto di esclusiva non ha limiti territoriali e soltanto raramente è limitato al territorio dello Stato in cui lo sponsor ha la rappresentanza legale o dove risiede lo sponsee.

Talvolta poi le parti pattuiscono che la clausola di esclusiva valga anche per un periodo di tempo successivo alla durata dell'accordo, parlandosi però in tal caso di patto di non concorrenza. In base alla nota previsione codicistica il patto di non concorrenza non può superare i cinque anni dalla data di cessazione dell'efficacia del contratto.

È peraltro evidente che integri un comportamento di concorrenza sleale quello di chi lasci intendere, contrariamente al vero, di essere lo sponsor di un evento o altro. In tal caso si parla di “ambush marketing”. Tale pratica è precisamente considerata ingannevole poiché induce in errore il consumatore medio sull'esistenza di rapporti di sponsorizzazione ovvero di affiliazione o comunque di collegamenti con i titolari di diritti di proprietà intellettuale; invece, insussistenti e costituisce un'ipotesi particolare di concorrenza sleale contraria alla correttezza professionale che può trovare tutela nell'alveo generale dell'art. 2598, comma 3, c.c.

Si osserva, infine, che trattandosi di clausola vessatoria ex artt. 1341 c.c. e 1342 c.c., la sua validità è subordinata alla doppia sottoscrizione della clausola (Tarolli, 252 ss.).

Ulteriore clausola ricorrente nel contratto di sponsorizzazione è quella che attribuisce il diritto di opzione sul rinnovo del contratto. Il diritto di opzione trova il proprio riferimento normativo nell'art. 1331 c.c., secondo cui una delle due parti rimane vincolata alla propria dichiarazione e l'altra ha la facoltà di accettarla o meno.

Talora si prevede che l'esercizio dell'opzione determini l'incremento del corrispettivo spettante al soggetto sponsorizzato (Tarolli, 252 ss.).

Differisce dalla precedente la c.d. clausola di prelazione, secondo cui, qualora lo sponsee, prima della naturale scadenza del contratto, riceva una proposta da parte di un brand in concorrenza con quello dell'impresa sponsor, lo sponsee è obbligato a trasmettere tale offerta allo sponsor, in modo tale che quest'ultimo, entro un dato termine, possa «pareggiare» tale offerta. Lo sponsee, pertanto, fino allo spirare del termine non può concludere il contratto di sponsorizzazione con il nuovo sponsor senza incorrere nel rischio di dover risarcire il danno allo sponsor.

Negli ultimi anni la prassi contrattuale ha elaborato la clausola c.d. di prelazione postuma, che prevede l'applicazione di una clausola di prelazione anche per un periodo di tempo successivo alla naturale vigenza del contratto (Tarolli, 252 ss.).

Per poter redigere correttamente un contratto di sponsorizzazione è importante sottolineare che qualsiasi campagna pubblicitaria dello sponsor necessita dell'approvazione scritta dello sponsee o, eventualmente, del management di riferimento.

Il comportamento dello sponsor deve poi essere ovviamente improntato all'osservanza degli obblighi di buona fede, correttezza e diligenza, secondo quanto disposto dall'art. 1175 c.c. (“comportamento secondo correttezza”), dall'art. 1176 c.c. (“diligenza nell'adempimento”) e dall'art. 1375 c.c. (“esecuzione di buona fede”).

Accade poi di frequente che le parti inseriscano nel contratto clausole risolutive espresse (art. 1456 c.c.) e clausole penali (art. 1382 c.c.). Tra le clausole che tengono conto del comportamento dello sponsee possono ricordarsi: l'utilizzo di indumenti (in gara o in allenamento) diverso da quello fornito dallo sponsor, la copertura o l'alterazione del logo dello sponsor apposto sul materiale fornito, il mancato rispetto dell'esclusiva merceologica, il rilascio di dichiarazioni/interviste che risultino gravemente lesive per lo sponsor, la squalifica per doping, la condanna per delitti non colposi che superino una determinata pena detentiva.

Tra le clausole che tengono conto del comportamento dello sponsor si ricordano: il sopravvenuto fallimento o l'assoggettamento dell'impresa sponsor ad altre procedure concorsuali, il mancato pagamento del prezzo, la violazione della clausola di previa approvazione delle campagne marketing e promo-pubblicitarie da parte dello sponsor (Tarolli, 252 ss.).

A livello giurisprudenziale il Tribunale di Milano, all'interno della già ricordata pronuncia sulle c.d. clausole morali, ha preso posizione anche rispetto alla questione dell'abuso delle clausole risolutive espresse, stabilendo che ai fini della configurabilità della clausola risolutiva espressa le parti devono aver previsto la risoluzione di diritto del contratto per effetto dell'inadempimento di una o più obbligazioni specificamente determinate. Diversamente resta estranea alla norma di cui all'art. 1456 c.c. la clausola redatta con generico riferimento alla violazione di tutte le obbligazioni contenute nel contratto, con la conseguenza che il richiamo generico a tutte le clausole comporta che l'inadempimento di una di esse non può determinare la risoluzione di diritto il contratto e che occorre valutare l'importanza dell'inadempimento in relazione all'economia del contratto stesso (Trib. Milano , sez. I, 9 febbraio 2015; in senso conforme Cass. III, n. 11055/2002).

Altra clausola ricorrente nei contratti di sponsorizzazione è la clausola compromissoria, che impone alle parti di rivolgersi a un arbitro in caso di controversie. In alcuni casi le clausole compromissorie prevedono la devoluzione della controversia a un unico arbitro scelto congiuntamente dalle parti, in altri casi a tre arbitri, di cui uno scelto da ciascuna parte e il terzo di comune accordo.

Nei contratti intercorsi tra imprese o soggetti stabiliti o residenti in paesi diversi, è usuale stabilire la legge applicabile al contratto stesso. In entrambi i casi si tratta di clausole che dovranno essere sottoposte alla doppia sottoscrizione delle parti, ai sensi degli artt. 1341 c.c. e 1342 c.c. (Tarolli, 252 ss.)

I pool di sponsor: un consorzio di imprese a scopo pubblicitario

Eventi o manifestazioni di grande rinomanza interessano le imprese in termini di potenzialità pubblicitarie, ma richiedono un impegno economico difficilmente sostenibile singolarmente. Si pensi, ad esempio, alla sponsorizzazione di una squadra o di un team ai campionati del mondo, all'allestimento di una mostra in un museo prestigioso o al finanziamento delle spese relative a un settore stesso di un museo, che però, come detto, potrebbero garantire agli sponsor grande visibilità. Per poter sostenere i relativi costi accade spesso che si costituiscano dei «pool» di sponsor.

La dottrina ha da tempo ricondotto questo tipo di attività, esercitata in comune da più imprese, allo schema tipico del consorzio di cui all'art. 2602 c.c., segnatamente nella sua variante del consorzio «con attività esterna» previsto dal successivo art. 2612 c.c., secondo cui «le parti prevedono l'istituzione di un ufficio comune destinato a svolgere attività con i terzi nell'interesse delle imprese consorziate». Il consorzio è infatti un'entità giuridicamente indipendente, che ha dunque la possibilità di concludere in proprio il contratto di sponsorizzazione e risponde delle obbligazioni assunte con il proprio patrimonio (Magni, 69-70).

Le principali tipologie contrattuali

Come è noto, le forme più diffuse di sponsorizzazione sono quelle di eventi e manifestazioni, di squadra sportiva, di atleta e di evento culturale.

La sponsorizzazione sportiva

In Italia il fenomeno della sponsorizzazione è strettamente legato al mondo sportivo. Per quanto concerne nello specifico la sponsorizzazione di squadra sportiva, questa si caratterizza per il fatto che spesso non prevede il pagamento di un corrispettivo in denaro, bensì in natura (si parla al riguardo di sponsorizzazione tecnica), vale a dire mediante la fornitura di attrezzature, beni o servizi necessari per lo svolgimento dell'attività sportiva (ad es. magliette, tute di allenamento, ecc.).

Ulteriore peculiarità del contratto di sponsorizzazione di squadra sportiva consiste nel fatto che, per espressa pattuizione contrattuale, la sua durata (o la quantificazione del corrispettivo) subisce generalmente variazioni in base ai risultati sportivi ottenuti dalla squadra sul campo.

Un elemento che caratterizza i contratti di sponsorizzazione di squadre sportive consiste poi nell'obbligo assunto, non solo dai giocatori, ma anche dallo staff e dai dipendenti della squadra, di indossare un abbigliamento (magliette, tute e scarpe, ecc., ovviamente messe a disposizione dallo sponsor) con il logo dello sponsor, quantomeno per tutta la durata della manifestazione sportiva (Colantuoni, 1006 ss..

Per quanto concerne specificamente l'accordo di sponsorizzazione di un atleta, comunemente definito come contratto di endorsement, esso consiste in un accordo negoziale con cui un soggetto (detto endorser) dotato di particolare notorietà, si impegna, a fronte del pagamento di un corrispettivo, a utilizzare i prodotti di una determinata impresa (detta endorsee) nell'esercizio della propria attività professionale, concedendo a quest'ultima, per la promozione degli stessi, l'utilizzo della propria immagine, del proprio nome e talvolta anche della propria voce.

Come tutti i contratti di sponsorizzazione, anch'esso è un contratto atipico, non regolato in maniera espressa da alcuna disposizione di legge. Pur a fronte di ciò, l'endorsement è un contratto di straordinaria importanza per le imprese, le quali hanno infatti l'opportunità di incrementare in maniera consistente i propri profitti, collegando l'uso o il consumo di un proprio prodotto (si pensi alla racchetta del tennista o alle scarpette del calciatore) all'utilizzo dello stesso da parte di una persona celebre e in grado di influenzare le scelte dei consumatori (Colantuoni, 1006 ss.).

Altra peculiare fattispecie di sponsorizzazione in ambito sportivo è la sponsorizzazione di associazioni sportive. A quest'ultimo riguardo occorre dare atto di una questione fiscale che ha impegnato a lungo la giurisprudenza, attinente la deducibilità delle spese di sponsorizzazione. Sul punto, è intervenuta di recente la giurisprudenza di legittimità statuendo in più occasioni che per le spese di sponsorizzazione opera una presunzione legale, secondo cui le medesime sono qualificate come spese di pubblicità se erogate a favore di società sportive dilettantistiche, conseguendone in sostanza che esse sono interamente deducibili sino alla concorrenza di euro 200.000 (Cass. sez. trib., n. 8981/2017; in senso conforme Cass. sez. trib., n. 14232/2017).

A tal proposito la giurisprudenza di legittimità ha anche rilevato che costituiscono spese di sponsorizzazione quelle correlate a iniziative volte ad accrescere il prestigio e l'immagine dell'impresa, nonché a potenziarne le possibilità di sviluppo, mentre sono spese pubblicitarie o di propaganda quelle sostenute per la realizzazione di iniziative volte alla pubblicizzazione di prodotti, marchi e servizi, o comunque dell'attività svolta, con la conseguenza che solo le prime, in quanto costituenti spese di rappresentanza, saranno deducibili ai sensi e nei limiti previsti dall'art. 74, comma 2, del d.P.R. n. 917/1986 (Cass. sez. trib., n. 25021/2018; in senso conforme Cass. VI, n. 14252/2014; Cass. VI, n. 3433/2012).

Da ultimo vale osservare che possono esservi vari tipi di sponsorizzazione sportiva. Lo sponsor può infatti essere unico, determinandosi così una completa fusione tra l'immagine dell'evento sponsorizzato e quella dello sponsor, con elevata possibilità di un ritorno commerciale, oppure può essere principale, ciò comportando un impegno economico di consistente entità, ma anche il diritto a maggiori spazi e a maggiore visibilità (lo sponsor potrà, ad esempio, apporre il proprio logo sull'abbigliamento della squadra sportiva). Infine l'impresa può assumere il ruolo di sponsor secondario (in questo caso il suo logo non comparirà sulla divisa degli atleti, o comunque lo sponsor avrà a disposizione spazi più ridotti e giovare di un ridotto impatto mediatico), dovendo in questo caso versare allo sponsee un corrispettivo inferiore (Bocchini - Gambino, 520-521).

La sponsorizzazione di evento culturale e le sponsorizzazioni pubbliche in generale

Per quanto concerne la sponsorizzazione culturale, a mente del c.d. codice dei beni culturali e del paesaggio (art. 120) la «sponsorizzazione dei beni culturali» è un contratto a prestazioni corrispettive tra uno sponsor (di solito un'impresa) e il Ministero o un altro ente, al quale lo sponsor conferisce contributi in danaro (sponsorizzazione pura) o in beni o servizi (sponsorizzazione tecnica) per iniziative di tutela o di valorizzazione del patrimonio culturale e, quale contropartita, acquisisce il diritto di promuovere il proprio nome, marchio, immagine, attività o prodotto, previa verifica della compatibilità con le esigenze della tutela del bene culturale a opera del Ministero.

La sponsorizzazione tecnica, in particolare, può includere la progettazione e la realizzazione di parte o di tutto l'intervento di restauro, a cura e a spese dello sponsor e in tal caso la promozione avviene mediante l'associazione all'iniziativa oggetto del contributo in forme compatibili con il carattere artistico o storico, l'aspetto e il decoro del bene culturale pubblico da tutelare o valorizzare. Generalmente il contratto stabilisce anche delle forme del controllo, da parte dello sponsor, sulla realizzazione dell'iniziativa e a tal riguardo il Ministero per i beni e le attività culturali ha emanato delle «norme tecniche e linee guida applicative» (d.m. 19 dicembre 2012, relativo alla approvazione delle norme tecniche e linee guida in materia di sponsorizzazioni di beni culturali e di fattispecie analoghe o collegate).

La causa del contratto di sponsorizzazione pubblica deve ricondursi alla possibilità per lo sponsor di associare la propria immagine a quella dell'ente e dell'iniziativa sponsorizzata, «scommettendo» sul ritorno commerciale (Chieppa, 1 ss.; Di Pace 12 ss.).

Occorre però distinguere due categorie di sponsorizzazioni pubbliche: le sponsorizzazioni attive e le sponsorizzazioni passive. Quelle «passive», infatti, sono quelle nelle quali le pubbliche amministrazioni assumono il ruolo di soggetti sponsorizzati, come si è visto sopra a proposito della sponsorizzazione di progetti di interesse culturale da parte di soggetti privati; le sponsorizzazioni «attive», invece, sono quelle in cui, al contrario, le amministrazioni pubbliche finanziano e pubblicizzano l'attività di un soggetto terzo.

Sulla possibilità per le amministrazioni di fare legittimo ricorso anche alle sponsorizzazioni attive, le posizioni assunte in dottrina sono sempre state divergenti: in particolare alla tesi che esclude la possibilità per le amministrazioni di assumere il ruolo di sponsor, in quanto contrastante con la ratio che ha giustificato l'ingresso del contratto di sponsorizzazione nel settore pubblico, ovvero quella di assicurare agli enti nuove fonti di finanziamento e non di esporli a nuovi esborsi di danaro pubblico (Ciammola, 931), se ne contrappone un'altra per cui anche un esborso di denaro pubblico può tradursi per l'amministrazione in un risparmio, specie quando si tratta di sponsorizzare un soggetto che svolge un servizio al suo posto (Di Pace, 3898).

Si osservi, peraltro, che il ruolo assunto dallo sponsor nel contesto delle sponsorizzazioni pubbliche non è assimilabile a quello di una controparte tenuta all'adempimento di determinate prestazioni verso il pagamento di un prezzo, come accadrebbe, per esempio, nel caso di un appaltatore della medesima opera pubblica, bensì risulta ben più invasivo: colui che si presta a svolgere un'operazione di sponsorizzazione pubblica, infatti, assume le vesti del promotore dell'iniziativa sponsorizzata e non quelle del mero esecutore, condividendo con l'amministrazione pubblica un ruolo di impulso. La sponsorizzazione pubblica, in particolare, è il risultato dell'incontro tra un bisogno, quello dello sponsorizzato, e una disponibilità, quella dello sponsor, che si fa carico della necessità del primo e interviene in suo aiuto. Ciò significa che la sponsorizzazione pubblica trae origine dalla condizione di debolezza del soggetto pubblico, il quale è incapace, per penuria di mezzi, di perseguire autonomamente i propri obiettivi.

Un recente esempio è dato dalla sponsorizzazione del restauro del Colosseo, per una cifra intorno ai venticinque milioni di euro, realizzata da un'impresa italiana di calzature di fama mondiale. Tale vicenda aveva sollevato alcune perplessità in merito ai criteri di scelta dell'impresa sponsor. L'associazione dei consumatori Codacons aveva infatti adito la giustizia amministrativa chiedendo l'annullamento del provvedimento con il quale la pubblica amministrazione aveva attribuito all'impresa la sponsorizzazione dell'opera di restauro e lamentando, in particolare, l'esiguità dell'importo del contributo dello sponsor, nonché il conseguente danno all'erario, per un'opera considerata patrimonio dell'umanità. Sul punto, sia il T.A.R. Lazio, sia il Consiglio di Stato, hanno ritenuto inammissibile il ricorso, essendo l'associazione dei consumatori carente del requisito della legittimazione ad agire. Al riguardo si è precisamente affermato che la distinzione tra la tutela dei beni culturali, cui la sponsorizzazione era specificamente preposta, e la tutela dell'ambiente, di cui era portatrice il Codacons, avevano reso quest'ultima non legittimata ad agire in giudizio, in quanto la legittimazione ad agire può ammettersi solo ove gli interessi rappresentati dall'associazione coincidano con quelli che l'operazione negoziale di sponsorizzazione intendeva realizzare. Se così non fosse, si avrebbe un'ingerenza incontrollata nell'attività della pubblica amministrazione (v. T.A.R. Lazio, 3 luglio 2012, n. 6028; Cons. St. n. 4034/2013).

Il caso giurisprudenziale appena richiamato ha posto anche il problema dell'individuazione dei criteri per operare la scelta dello sponsor.

In proposito è però intervenuto il legislatore inserendo un nuovo articolo nel c.d. codice dei contratti pubblici, ossia l'art. 199-bis (oggi art. 151 del d.lgs. n. 50/2016). Si è stabilito che la ricerca dello sponsor deve avvenire ai sensi dell'art. 19 del medesimo codice, ovvero, innanzitutto, tramite bando da pubblicare sul sito istituzionale dell'amministrazione procedente per almeno trenta giorni e che esso deve specificare se la sponsorizzazione ricercata sia «pura», ovvero in denaro, o «tecnica», cioè realizzata mediante la fornitura di beni o servizi. Su tale procedura semplificata si veda ad esempio Cons. St. V, n. 8403/2020. La pubblica amministrazione deve poi procedere alla stipula del contratto di sponsorizzazione con l'impresa che abbia offerto il finanziamento maggiore o abbia proposto l'offerta realizzativa migliore.

Tuttavia le sponsorizzazioni attinenti a lavori non strumentali alla realizzazione di interventi su beni culturali non sono assoggettate a tale disciplina, bensì soltanto ai principi di legalità, buon andamento e trasparenza imposti dalla vigente normativa sulla contabilità pubblica per cui, nella sostanza, è sufficiente la pubblicazione di una scheda di intervento sul sito della pubblica amministrazione, con successiva negoziazione diretta con il primo operatore economico interessato (Bianca, Contratti di pubblicità, 1123).

La sponsorizzazione radiotelevisiva

Con il contratto di sponsorizzazione radiotelevisivo si realizza l'associazione del nome di un prodotto o di un'azienda a una trasmissione radiofonica o televisiva, circostanza che induce il pubblico a identificare tale trasmissione con l'impresa sponsor.

Al riguardo va sottolineato che la disciplina normativa della sponsorizzazione dei programmi radiotelevisivi introduce una serie di limiti all'autonomia privata.

Tale rigore è giustificato dalla funzione pubblica del servizio radiotelevisivo e alcuni esempi al riguardo sono riconducibili al generale divieto di sponsorizzazione di cui all'art. 3, 2° co., del d. lgs. 16 dicembre 2004, n. 300, riguardante le persone fisiche e giuridiche la cui principale attività consista nella fabbricazione o vendita di prodotti del tabacco.

Ulteriore divieto è previsto dalla lett. a), in base al quale il contenuto e la programmazione di una trasmissione sponsorizzata non possono in nessun caso essere influenzati dallo sponsor, in maniera tale da ledere la responsabilità o l'autonomia editoriale dei concessionari privati o della concessione pubblica nei confronti delle trasmissioni (Bocchini - Gambino, 504-505).

Le figure contrattuali limitrofe

Il contratto di sponsorizzazione, seppur riconducibile all'ampia categoria dei contratti di pubblicità, si distingue da questi ultimi per il fatto che con la sponsorizzazione il messaggio pubblicitario trasmesso non consiste nell'esaltazione della qualità di un prodotto o del servizio di un'impresa, bensì semplicemente nella diffusione del segno distintivo. Nei contratti pubblicitari in senso stretto, anche detti advertising, l'oggetto contrattuale è invece rappresentato dalla diffusione di un messaggio direttamente finalizzato alla promozione delle vendite di un determinato bene o servizio.

La sponsorizzazione rientra quindi nel concetto di pubblicità in senso lato, che include qualsiasi forma di diffusione dei messaggi, del nome, del marchio e dei simboli dell'impresa e dei suoi prodotti e si caratterizza in quanto il messaggio pubblicitario viene diffuso attraverso un comportamento che sarebbe stato tenuto indipendentemente dall'assunzione dell'obbligazione.

La sponsorizzazione, infatti, a differenza dei contratti pubblicitari in senso stretto, non interrompe la manifestazione in corso di svolgimento e inoltre le modalità di diffusione del messaggio (durata, frequenza, intensità) non dipendono direttamente dall'impresa sponsor, ma unicamente dalle vicende proprie dell'evento cui è collegata. Ad esempio il marchio impresso sulle divise da gioco di una squadra di calcio sarà notato da un pubblico più o meno esteso a seconda dei successi della stessa, a seconda del fatto che il club faccia registrare una determinata audience televisiva o che quest'ultima venga estesa dalla riproposizione dell'evento all'interno di trasmissioni o ambiti non prettamente sportivi (come telegiornali o inchieste giornalistiche).

Altro aspetto distintivo del contratto di sponsorizzazione è dato dal fatto che in quest'ultimo l'impresa sponsor ha un minore potere di controllo sulla forza comunicazionale del messaggio, proprio in considerazione del fatto che essa dipende da fattori non prevedibili (Bocchini - Gambino, 540).

Altro elemento atto a distinguere le due figure contrattuali consiste nel fatto che le spese di sponsorizzazione di spettacoli coperti dal diritto d'autore sono ricomprese, a differenza delle spese di pubblicità, nel calcolo delle somme spettanti alla S.I.A.E. per il contratto di sponsorizzazione (Bianca, Contratti di pubblicità, 1091 ss.).

In buona sostanza la principale differenza è data dalla diversità della causa dei due contratti, atteso che ciò che caratterizza il contratto di sponsorizzazione è insito nello stretto legame che si instaura fra la divulgazione dell'immagine o dei segni distintivi dello sponsor e l'evento (manifestazione o spettacolo) che egli utilizza, confidando nella capacità persuasiva e nella forza di suggestione delle opere, eseguite per promuovere la propria immagine, fra gli utenti o destinatari della manifestazione o dello spettacolo (Baldi, 276).

La sponsorizzazione presenta inoltre elementi distintivi rispetto al contratto del testimonial, che è figura contrattuale che unisce in sé pubblicità e sponsorizzazione e consiste nell'abbinamento di un prodotto o di un marchio ad un singolo atleta o personaggio pubblico. Tale prodotto, tra l'altro, non è necessariamente un articolo sportivo, ma può essere qualunque bene di consumo o di lusso.

Vi sono tra l'altro contratti di sponsorizzazione che prevedono l'obbligo degli atleti (o comunque di un personaggio pubblico) di rilasciare interviste o dichiarazioni elogiative del prodotto o dei prodotti dello sponsor, oppure di prestare la propria immagine per spots pubblicitari (Fusi — Testa, 467 ss.; Frignani — Dassi — Introvigne, 24).

Per un caso recente, in cui veniva in rilievo il diritto al risarcimento del danno subito dal testimonial in caso di sfruttamento dell’immagine oltre il termine finale del contratto, si veda App. Milano impr., n. 225/2021.

La sponsorizzazione si distingue poi dall'accordo di patrocinio, segnatamente per il fatto che il soggetto patrocinante, pubblico o privato, che consente che l'attività di altri si svolga sotto il suo patrocinio, non è un imprenditore commerciale. Pertanto, anche quando egli si impegni a finanziare in qualche misura l'attività, detta obbligazione non troverà corrispettivo nel vantaggio atteso dalla pubblicizzazione della sua figura di patrocinatore.

Si è affermato, quindi, che il contratto di patrocinio si atteggia come una donazione modale piuttosto che come un contratto a prestazioni corrispettive (Cass. III, n. 5086/1998, ove la Suprema Corte ha ritenuto che il contratto concluso da un'associazione pro loco in occasione di una manifestazione sportiva fosse riconducibile al contratto di sponsorizzazione, in ragione del fatto che la finalità di tali associazioni è la promozione del turismo e che la manifestazione è per l'appunto idonea a determinare un più ampio movimento turistico).

La sponsorizzazione si distingue altresì dal project financing, cui fa riferimento l'art. 183 del d.lgs. n. 50/2016 (nuovo codice degli appalti pubblici e delle concessioni di lavori, servizi e forniture), il quale stabilisce che per la realizzazione di lavori pubblici o di lavori di pubblica utilità le stazioni appaltanti possono affidare una concessione ponendo a base di gara uno studio di fattibilità, previa pubblicazione di un bando finalizzato alla presentazione di offerte che contemplino l'utilizzo di risorse a carico dei soggetti proponenti.

A ben vedere, la ratio del project financing e della sponsorizzazione è identica, atteso che in ambedue i casi si tratta di strumenti giuridici utilizzabili dalle pubbliche amministrazioni per reperire nuove fonti di finanziamento delle attività istituzionali, alternative e/o aggiuntive a quelle ottenute mediante i canali tradizionali, ma la differenza tra i due fenomeni consiste invece nel ruolo attivo che svolge il soggetto promotore del project financing, il quale è al tempo stesso finanziatore, realizzatore e gestore dell'opera pubblica (Ferrari, 6 ss.).

Il contratto di sponsorizzazione si differenzia poi dal contratto di merchandising, atteso che quest'ultimo, pur essendo contratto atipico, è caratterizzato dalla cessione di un bene immateriale al fine di apporlo su prodotti merceologicamente diversi da quelli rispetto ai quali esso ha ottenuto notorietà a fini promozionali. Nel merchandising manca quindi la finalità promozionale del contratto di sponsorizzazione poiché il titolare del diritto (non necessariamente di un marchio) intende ricavare un profitto diretto dal contratto.

I due contratti si distinguono anche per il numero dei soggetti coinvolti: nel merchandising sono coinvolti due diversi centri di interesse (il merchandisor e il merchandisee), mentre nella sponsorizzazione, oltre allo sponsor e allo sponsee, è necessario il coinvolgimento, pur indiretto, dei mass media (De Silvestri, 115).

Si discute, ancora, se il contratto di sponsorizzazione possa essere ricondotto nell'alveo dei contratti di partenariato, anche se l'art. 3 del codice dei contratti pubblici, il quale contiene un'esemplificazione dei contratti di partenariato, ricomprendendovi la locazione finanziaria, la finanza di progetto e le società miste, non menziona i contratti di sponsorizzazione. Malgrado ciò, la dottrina è solita collocare le sponsorizzazioni all'interno della categoria del partenariato pubblico privato, cioè di quelle iniziative in cui privato e pubblico collaborano per la realizzazione di un obiettivo di pubblico interesse (v. Gambino, 233 ss.; Valaguzza, 1381).

Ulteriori figure contrattuali limitrofe alla sponsorizzazione: il product e brand placement

Ulteriore tipologia di contratto pubblicitario, ma non riconducibile al fenomeno della sponsorizzazione, è quella del c.d. product placement, definito dalla giurisprudenza come l'accordo con cui si utilizza l'opera audiovisiva per «lanciare» messaggi pubblicitari indiretti. Essa consiste precisamente nell'esibizione del prodotto e del marchio da pubblicizzare. 

Per una definizione del contratto in commento si veda , da ultimo, T.A.R. Lazio I, n. 13593/2020. La giurisprudenza ha poi rilevato che sia il fine promozionale del messaggio, sia il rapporto di committenza, e dunque l'accordo finalizzato allo scopo di utilizzare l'opera audiovisiva per lanciare messaggi pubblicitari indiretti, possono desumersi in via indiziaria da elementi oggettivi, afferenti alle modalità del messaggio promozionale all'interno del film. Al riguardo rilevano: l'esibizione casuale o meno, ripetuta o meno, del marchio del prodotto, nonché la strumentalità o meno dell'esibizione rispetto all'opera artistico-intellettuale (Cons. St. VI, n. 1193/2010; in senso conforme T.A.R. Roma, Lazio, I, n. 13217/2007; Cons. St. VI, n. 1929/2003).

Il product e brand placement si distingue quindi dalla sponsorizzazione per il fatto che con quest'ultima non si crea un legame tanto stretto tra prodotto e attività, come avviene invece con il primo. In particolare, mentre nella sponsorizzazione il collegamento con l'evento è esterno e quindi il marchio sponsorizzato non fa parte dell'evento, nel product e brand placement il collegamento è interno, dal momento che il prodotto utilizzato dall'attore cinematografico o televisivo fa parte della scena, è integrato con essa (Bianca, Contratti di pubblicità, 1105-1106).

Si tratta, infatti, di una forma di pubblicità "occulta", a lungo ritenuta vietata, che consiste nella presenza vistosa di prodotti di marca in scene di spettacoli, soprattutto cinematografici, per effetto di accordi intercorsi tra il produttore dello spettacolo e l'impresa interessata. Il d.lgs. n. 28/2004, prima, e il d.lgs. n. 44/2010, poi, recependo la direttiva 2007/65/CE, lo hanno riconosciuto e disciplinato espressamente e proprio quest'ultimo decreto lo ha definito come «ogni forma di comunicazione commerciale audiovisiva che consiste nell'inserire o nel fare riferimento a un prodotto, a un servizio o a un marchio così che appaia all'interno di un programma dietro pagamento o altro compenso».

Sono sostanzialmente due i suoi requisiti di liceità, in mancanza dei quali il messaggio pubblicitario deve essere qualificato come pubblicità ingannevole: a) la presenza di marchi e prodotti deve integrarsi nello sviluppo dell'azione, senza costituirne interruzione e, comunque, deve essere coerente con il contesto narrativo del film»; b) ai fini della riconoscibilità l'opera cinematografica deve contenere un avviso nei titoli di coda che informi il pubblico della presenza dei marchi e prodotti all'interno del film (CGCE 19 aprile 2007, C-381/05, sul punto si veda anche Gambino, 233. A proposito dei requisiti di liceità del product and brand placement e dei confini con la pubblicità occulta si veda anche T.A.R. Lazio, Roma, n. 2255/2024).

Proprio alla luce del primo requisito di liceità del product e brand placement sopra illustrato, ossia il fatto che la presenza di marchi e prodotti deve integrarsi nello sviluppo dell'azione, la giurisprudenza di merito ha avuto occasione di rilevare l'illegittimità di una campagna pubblicitaria che non osservava tale imprescindibile e irrinunciabile presupposto. È stata così ritenuta illegittima, e di conseguenza inibita con provvedimento d'urgenza, la prosecuzione di una campagna pubblicitaria avente ad oggetto la diffusione (a mezzo di cartelloni e affissioni stradali, nonché di inserzioni pubblicitarie sulla stampa) dell'immagine di un noto attore, tratta da un film da lui interpretato, che lo raffigurava mentre indossava capi di abbigliamento commercializzati da una nota impresa commerciale. Al riguardo si è evidenziato che la campagna pubblicitaria era stata realizzata senza il previo consenso dell'interessato e con violazione del suo diritto all'identità personale (Trib. Roma, 23 novembre 2007, con la quale si riteneva irrilevante il contratto di product placement, peraltro non stipulato con l'attore, in quanto la campagna pubblicitaria si era risolta in uno sfruttamento non consentito di immagini dell'artista, del tutto avulse dal contesto cinematografico in cui erano originariamente inserite, così esorbitandosi dall'ambito del product placement).

Rispetto al secondo requisiti di liceità, ovvero la necessità dell'avviso, nei titoli di coda, che informi il pubblico della presenza dei marchi e prodotti all'interno di un film o di un programma televisivo, la giurisprudenza si è pronunciata rispetto al caso di una nota conduttrice che, nel corso di una altrettanto nota trasmissione televisiva prodotta dalla Radio televisione italiana, aveva indossato gioielli di una società di cui era testimonial. Come si è visto la legge vieta però qualsiasi «camuffamento» di un messaggio pubblicitario, quando la dissimulazione della natura pubblicitaria del messaggio sia di per sé idonea a indurre in errore il destinatario, pregiudicandone il comportamento economico. In mancanza del predetto avviso l'emittente (veniva condannata a una corposa sanzione pecuniaria (da parte dell'Autorità garante della concorrenza e del Mercato), il cui provvedimento veniva poi integralmente confermato dalla giurisprudenza amministrativa. Il T.A.R. Lazio riteneva infatti congruo l'importo della sanzione irrogato all'emittente, tenendo conto dell'importanza dell'operatore (società leader nel settore televisivo), della gravità della violazione (ragionevolmente desunta dall'elevato grado di diffusione delle accertate pratiche commerciali scorrette), nonché della durata della stessa condotta inadempiente che si protraeva per circa quattro mesi (T.A.R. Lazio, n. 9917/2017).

Venendo alle modalità di realizzazione del product e brand placement, ovvero al collocamento di prodotti e/o marchi all'interno di un'opera cinematografica, possono individuarsi tre diverse modalità: a) visiva, anche detta screen placement, che consiste infatti nel mostrare un prodotto o un marchio senza alcun messaggio verbale o suono: l'inserimento visivo contribuisce a definire il contesto nel quale la storia si svolge, rendendola più realistica; b) uditiva, denominata script placement, che consiste nel riferimento, da parte di un personaggio o di una voce fuori campo, del nome del prodotto o del marchio ed eventualmente delle sue caratteristiche, senza mostrare il prodotto sullo schermo; c) la terza modalità di presentazione è data dal livello di connessione del product placement con l'intreccio narrativo del film e dal livello di prominenza del marchio in grado di catturare l'attenzione del pubblico, grazie al tipo di inquadrature (se statiche o in movimento), al grado di attendibilità ecc.

I diversi tipi di placement possono coesistere ed essere associati, in ogni caso sempre coerentemente con l'azione e la sceneggiatura, non rientrando nella nozione di product placement gli inserimenti pubblicitari o promozionali avulsi dalla trama.

Lo screen placement, la modalità solo visiva, è quella cui più si ricorre nella pratica. La modalità audiovisiva supera evidentemente questo problema, ma risulta più costosa per l'impresa e poco adattabile alle esigenze del marchio. Esiste però una modalità innovativa per la realizzazione del product placement, costituita dall'inserimento virtuale reso possibile dalle tecniche digitali: in tal caso il marchio non viene collocato realmente nel contesto di intrattenimento in fase di produzione, ma viene aggiunto in seguito attraverso un artificio digitale che riproduce l'immagine senza che lo spettatore possa cogliere la differenza con gli altri oggetti presenti sulla scena (Salvetti, 51).

Il contratto di bartering, per quanto sopra e dunque in ragione della controprestazione cui è tenuto il soggetto pubblicizzato, si distingue anche dal contratto di diffusione pubblicitaria, su cui Cass. III, n. 4202/2024.

Ulteriori figure contrattuali limitrofe alla sponsorizzazione: il bartering pubblicitario

Una figura contrattuale affine al contratto di sponsorizzazione è data dal contratto di bartering pubblicitario. Si tratta, in particolare, di un contratto atipico (la cui traduzione letterale è «baratto») che coinvolge più imprese, le quali accettano di scambiarsi beni o servizi con pubblicità.

In ambito televisivo per bartering si intende ogni contributo di un'impresa al finanziamento di programmi, finalizzato a promuovere il nome, il marchio, l'immagine, l'attività, i prodotti dell'impresa sponsor. È sostanzialmente una forma di pubblicità indiretta che si realizza attraverso l'inserimento di spot pubblicitari all'interno di programmi o di appositi spazi televisivi, a fronte del pagamento di un prezzo.

Con il contratto di bartering l'impresa produce l'intero programma, dislocando liberamente al suo interno la pubblicità cui il programma stesso è funzionale, per poi cederlo alla rete televisiva dietro inserimento nel palinsesto. Tale contratto presenta un duplice vantaggio: da una parte l'impresa gestisce personalmente il rapporto tra pubblicità e programma e non paga lo spazio televisivo; dall'altro, la rete televisiva acquisisce gratuitamente un programma e allo stesso tempo riversa il rischio degli ascolti all'impresa che le ha fornito il programma stesso.

È possibile distinguere diverse tipologie di bartering: 1) il bartering diretto, nel quale l'impresa controparte è funzionalmente organizzata per la produzione di programmi televisivi; 2) il bartering complesso, nel quale l'impresa che intende produrre un programma per promuovere la collocazione dei propri prodotti, non essendo in grado di produrlo in proprio, ricorre alla produzione in affitto. Nondimeno, il contratto di bartering continua ad essere bilaterale, e non vi è un rapporto di connessione con il contratto di produzione; 3) il bartering improprio, nel quale l'impresa affida al produttore del programma l'incarico di contattare l'emittente televisiva; 4) il bartering finanziario, che a sua volta si articola in: a) bartering finanziario televisivo, in cui grandi gruppi finanziari realizzano programmi di carattere informativo su economia e finanza per promuovere indirettamente la propria attività; b) bartering finanziario sulla carta stampata, in cui istituti di credito si impegnano a fornire notizie di borsa e di mercati finanziari e imprese editrici si obbligano, come corrispettivo, a veicolare l'immagine pubblicitaria; c) bartering finanziario di rete, analogo al bartering finanziario sulla carta stampata, ma attuato nelle reti telematiche (Napolillo, 445).

Pare da respingere, infine, l'assunto secondo cui il contratto di bartering sarebbe assimilabile alla sponsorizzazione, tesi, questa, che è stata avanzata da taluni autori (Di Fabio, 456: l'opinione è però isolata, giacché gli altri studiosi che si sono occupati del fenomeno hanno negato l'assimilabilità delle due figure negoziali), ma che sembra appunto il frutto di un errore prospettico. Infatti, se è vero che con la sponsorizzazione televisiva il barter può avere in comune la finalità di promuovere i prodotti e l'immagine dell'impresa che finanzia o contribuisce a finanziare il programma, le diversità fra le due figure sono notevoli, caratterizzandosi la prima per l'abbinamento del nome e del marchio dello sponsor (a fronte di un contributo che è in realtà un corrispettivo) a un'iniziativa editoriale dell'emittente, laddove nel secondo l'emittente non assume alcuna iniziativa editoriale, essendo solo tenuta, in esecuzione di un ordine di diffusione, a mandare in onda, in funzione di contenitore di pubblicità, un programma scelto e integralmente finanziato dalla o dalle imprese utenti.

Anche a voler prescindere da tali decisive differenze, diverso è pure, nell'iter dell'operazione, il momento in cui il bartering si colloca: quando, infatti, ha luogo lo scambio, infatti, il programma è già stato prodotto, sicché, se si fa eccezione per la forma non consueta di pagamento, il contratto non diverge granché da un normale accordo diffusionale (Fusi, 133).

Bibliografia

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