Regio decreto - 16/03/1942 - n. 267 art. 186 bis - (Concordato con continuita' aziendale) 1 .(Concordato con continuita' aziendale)1. Quando il piano di concordato di cui all'articolo 161, secondo comma, lettera e) prevede la prosecuzione dell'attivita' di impresa da parte del debitore, la cessione dell'azienda in esercizio ovvero il conferimento dell'azienda in esercizio in una o piu' societa', anche di nuova costituzione, si applicano le disposizioni del presente articolo. Il piano puo' prevedere anche la liquidazione di beni non funzionali all'esercizio dell'impresa. Nei casi previsti dal presente articolo: a) il piano di cui all'articolo 161, secondo comma, lettera e), deve contenere anche un'analitica indicazione dei costi e dei ricavi attesi dalla prosecuzione dell'attivita' d'impresa prevista dal piano di concordato, delle risorse finanziarie necessarie e delle relative modalita' di copertura; b) la relazione del professionista di cui all'articolo 161, terzo comma, deve attestare che la prosecuzione dell'attivita' d'impresa prevista dal piano di concordato e' funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori; c) il piano puo' prevedere, fermo quanto disposto dall'articolo 160, secondo comma, una moratoria fino a due anni dall'omologazione per il pagamento dei creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca, salvo che sia prevista la liquidazione dei beni o diritti sui quali sussiste la causa di prelazione. In tal caso, i creditori muniti di cause di prelazione di cui al periodo precedente non hanno diritto al voto 2. Fermo quanto previsto nell'articolo 169-bis, i contratti in corso di esecuzione alla data di deposito del ricorso, anche stipulati con pubbliche amministrazioni, non si risolvono per effetto dell'apertura della procedura. Sono inefficaci eventuali patti contrari. L'ammissione al concordato preventivo non impedisce la continuazione di contratti pubblici se il professionista designato dal debitore di cui all'articolo 67 ha attestato la conformita' al piano e la ragionevole capacita' di adempimento. Di tale continuazione puo' beneficiare, in presenza dei requisiti di legge, anche la societa' cessionaria o conferitaria d'azienda o di rami d'azienda cui i contratti siano trasferiti. Il giudice delegato, all'atto della cessione o del conferimento, dispone la cancellazione delle iscrizioni e trascrizioni. Le disposizioni del presente comma si applicano anche nell'ipotesi in cui l'impresa e' stata ammessa a concordato che non prevede la continuita' aziendale se il predetto professionista attesta che la continuazione e' necessaria per la migliore liquidazione dell'azienda in esercizio3. Successivamente al deposito della domanda di cui all'articolo 161, la partecipazione a procedure di affidamento di contratti pubblici deve essere autorizzata dal tribunale, e, dopo il decreto di apertura, dal giudice delegato, acquisito il parere del commissario giudiziale ove gia' nominato4. L'ammissione al concordato preventivo non impedisce la partecipazione a procedure di assegnazione di contratti pubblici, quando l'impresa presenta in gara: a) una relazione di un professionista in possesso dei requisiti di cui all'articolo 67, terzo comma, lettera d), che attesta la conformita' al piano e la ragionevole capacita' di adempimento del contratto; [b) la dichiarazione di altro operatore in possesso dei requisiti di carattere generale, di capacita' finanziaria, tecnica, economica nonche' di certificazione, richiesti per l'affidamento dell'appalto, il quale si e' impegnato nei confronti del concorrente e della stazione appaltante a mettere a disposizione, per la durata del contratto, le risorse necessarie all'esecuzione dell'appalto e a subentrare all'impresa ausiliata nel caso in cui questa fallisca nel corso della gara ovvero dopo la stipulazione del contratto, ovvero non sia per qualsiasi ragione piu' in grado di dare regolare esecuzione all'appalto. Si applica l'articolo 49 del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163.] 5 Fermo quanto previsto dal comma precedente, l'impresa in concordato puo' concorrere anche riunita in raggruppamento temporaneo di imprese, purche' non rivesta la qualita' di mandataria e sempre che le altre imprese aderenti al raggruppamento non siano assoggettate ad una procedura concorsuale. In tal caso la dichiarazione di cui al quarto comma, lettera b), puo' provenire anche da un operatore facente parte del raggruppamento. Se nel corso di una procedura iniziata ai sensi del presente articolo l'esercizio dell'attivita' d'impresa cessa o risulta manifestamente dannoso per i creditori, il tribunale provvede ai sensi dell'articolo 173. Resta salva la facolta' del debitore di modificare la proposta di concordato. Ogni sei mesi successivi alla presentazione della relazione di cui all'articolo 172, primo comma, il commissario giudiziale redige un rapporto riepilogativo secondo quanto previsto dall'articolo 33, quinto comma, e lo trasmette ai creditori a norma dell'articolo 171, secondo comma. Conclusa l'esecuzione del concordato, deposita un rapporto riepilogativo finale redatto in conformità a quanto previsto dall'articolo 33, quinto comma 6. [1] Articolo aggiunto dall'articolo 33, comma 1, lettera h), del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, con la decorrenza indicata dal comma 3 del medesimo articolo 33 del suddetto D.L. n. 83 del 2012. [2] Lettera modificata dall'articolo 20, comma 1, lettera g), del D.L. 24 agosto 2021, n. 118, convertito, con modificazioni, dalla Legge 21 ottobre 2021, n. 147. [3] Comma modificato dall'articolo 2, comma 4, lettera b), numero 1), del D.L. 18 aprile 2019, n. 32, convertito con modificazioni dalla Legge 14 giugno 2019, n. 55. [4] Comma inserito dall'articolo 13, comma 11-bis, del D.L. 23 dicembre 2013 n. 145 , convertito, con modificazioni, dalla Legge 21 febbraio 2014, n. 9 e successivamente sostituito dall'articolo 2, comma 4, lettera b), numero 2), del D.L. 18 aprile 2019, n. 32, convertito con modificazioni dalla Legge 14 giugno 2019, n. 55. [5] Lettera abrogata dall'articolo 2, comma 4, lettera b), numero 2-bis), del D.L. 18 aprile 2019, n. 32, convertito con modificazioni dalla Legge 14 giugno 2019, n. 55. [6] Comma aggiunto dall'articolo 14, comma 1, lettera d), del D.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, con effetto a decorrere dal 28 febbraio 2023, come stabilito dall'articolo 35, comma 1, del D.Lgs. 149/2022 medesimo, come modificato dall'articolo 1, comma 380, lettera a), della Legge 29 dicembre 2022, n. 197. InquadramentoLe disposizioni dedicate all'esecuzione del concordato sono da sempre molto poche, sì che questa fase rappresenta in modo non infrequente una sorta di «terra di nessuno», regolata da quanto previsto dalla stessa proposta e dal piano che ne sta alla base, ovvero integrata dalle prescrizioni contenute nel decreto di omologazione. Va tuttavia precisato che queste ultime non possono avere l'effetto di stravolgere e neppure di modificare il contenuto della proposta che, per questo aspetto, vede premiata l'area dell'autonomia privata e della negozialità rispetto a quella della eterointegrazione. Del resto, l'art. 181 l. fall. si limita ad affermare che con il decreto di omologazione la procedura di concordato «si chiude», dovendosi perciò ritenere che tutta la fase esecutiva, pure oggetto di vigilanza giudiziale, si ponga al di fuori della fase procedimentale vera e propria, anche in relazione al carattere limitato dei poteri che il commissario giudiziale ed il giudice delegato mantengono ed in rapporto all'esclusiva legittimazione dei creditori a domandare la risoluzione del concordato ed il fallimento. Non stupisce, pertanto, se la recente legge delega di riforma c.d. Rordorf (dal nome del Presidente della relativa commissione di studio), n. 155/2017, abbia previsto una specifica direttiva volta ad incrementare e razionalizzare la disciplina della fase esecutiva e, dall'altro, al fine di superare ingiustificate situazioni di inerzia, abbia riconosciuto allo stesso commissario giudiziale, sia pure su sollecitazione di uno dei creditori, la possibilità di richiedere la risoluzione del concordato. In questa stessa direzione si pone il riconoscimento di un più ampio e generale potere di iniziativa pre-fallimentare in capo al pubblico ministero. La S.C. di Cassazione ha escluso che i creditori possano richiedere indennizzi sulla scorta delle disposizioni in materia di irragionevole durata dei giudizi (l. n. 89/2001) posto che: «in tema di equa riparazione per violazione della durata ragionevole del processo, deve escludersi la responsabilità dello Stato ai sensi della l. n. 89/2001, con riferimento alla protrazione nel tempo dell'attività dei liquidatori nominati con la sentenza di omologazione del concordato preventivo, poiché, chiudendosi questo con il passaggio in giudicato della sentenza di omologazione, ed essendo i liquidatori non organi della procedura pubblica, bensì mandatari dei creditori per il compimento di tutti gli atti necessari alla liquidazione dei beni ceduti, detta attività non rientra nell'organizzazione del servizio pubblico della giustizia» (Cass. n. 7021/2012). Peraltro, si è ritenuto che le disposizioni eventualmente dettate dal tribunale nel provvedimento di omologa del concordato preventivo in ordine alle modalità di liquidazione dei beni hanno natura meramente integrativa della volontà delle parti e non sono pertanto idonee al passaggio in giudicato (Cass. S.U., n. 19506/2008). Durata del piano ed effetti dell'omologazioneLa durata della fase esecutiva del piano può essere la più varia: in effetti, se la tematica del tempo per l'adempimento della proposta, alla luce dei criteri di specificità ed analiticità che il piano deve rivestire ai sensi degli artt. 161, comma 2, lett. e) e 186-bis l. fall., non può più essere elusa dal debitore attraverso generiche prospettazioni, non di rado avviene che la scadenza dei termini previsti dalla proposta concordataria omologata si verifichi senza che l'esecuzione si sia ancora integralmente completata. La durata del piano si correla poi con il tema delle regole di attestazione, dovendosi considerare che più ci si allontana nel tempo rispetto ad una data di riferimento e più le assunzioni che stanno alla base della ragionevolezza del piano finiscono per essere influenzate da variabili endogene (es. fattori produttivi, obsolescenza dei prodotto i servizi erogati, disponibilità del personale strategico) ed esogene (andamento del mercato, disponibilità e costo dei finanziamenti, ecc..), sino a rendere inattendibile e non conforme alle leges artis la stessa attestazione di fattibilità del piano (vds. anche retro sub art. 161 l. fall.). Per quanto riguarda gli effetti prodotti dal decreto di omologazione, deve in primo luogo sottolinearsi come il decreto abbia valore vincolante per tutti i creditori anteriori alla pubblicazione nel Registro delle imprese del ricorso ex art. 161, siano essi privilegiati che chirografari, ed anche in relazione alla possibilità di sottoporre a falcidia i primi, nel rispetto di quanto previsto dall'art. 160, comma 2, l. fall., e di ripartire in classi diverse i secondi, purché nel rispetto dell'ordine delle cause legittime di prelazione. Inoltre, principale effetto del decreto di omologa è quello esdebitativo per il debitore, nel senso che lo stesso non è più tenuto a soddisfare per intero i crediti, ma soltanto quelli scaturenti dalla conformazione, quanto a modalità, tempistica e percentuale di pagamento, imposta dal medesimo decreto, che vale a rendere efficace erga omnes l'incontro di volontà fra debitore e creditori espressasi attraverso la fase della votazione. Da questo punto di vista può ritenersi che il piano di concordato ed il decreto di omologazione fungano da programma di liquidazione per il liquidatore giudiziale ivi nominato, nel caso di concordato liquidatorio, il cui compito è destinato a cessare, in ipotesi fisiologica, soltanto con l'integrale esecuzione del concordato ed il versamento di quanto ottenuto in favore dei creditori. Inoltre, come avverte l'art. 184 l. fall., il decreto di omologazione lascia impregiudicati i diritti dei creditori verso i fideiussori del debitore in crisi, coobbligati ed obbligati in via di regresso, ma — salvo patto contrario — è efficace anche nei confronti dei soci illimitatamente responsabili. Si è osservato che «la causa concreta del concordato, intesa come funzione economica del medesimo, si invera necessariamente nel superamento della crisi, attraverso il soddisfacimento dei creditori in misura apprezzabile, in una qualsivoglia forma giuridicamente percorribile ed in un lasso di tempo ragionevolmente breve. Una anomala dilatazione della tempistica di acquisizione della liquidità necessaria per il pagamento dei creditori concorsuali [...] si smarca a priori da qualsivoglia sindacato di convenienza del risultato economico conseguibile dai creditori, dovendosi ritenere che un pagamento eccessivamente dilazionato equivalga ad un «non pagamento». Ne deriva la valutazione di inammissibilità giuridica del concordato» (Trib. Siracusa 15 novembre 2013). La Cassazione a sezioni unite è intervenuta a dirimere l'apparente contraddittorietà della norma contenuta nell'art. 184 l. fall. per l'ipotesi in cui il socio illimitatamente responsabile sia anche fideiussore della società, ritenendo che l'effetto esdebitativo in tal caso prevalga sul vincolo fideiussorio, ma non sull'eventuale ipoteca che il socio avesse concesso a garanzia dell'adempimento da parte della società: «il socio illimitatamente responsabile di una società di persone che abbia concesso ipoteca per un debito della società risponde integralmente dell'obbligazione assunta, anche a seguito dell'omologazione del concordato preventivo della società, nei limiti del valore del bene su cui insiste l'ipoteca, indipendentemente dall'applicazione dall'art. 184 l. fall.» (Cass. S.U., n. 3022/2015). Al di fuori di tale ipotesi, il pagamento della percentuale concordataria libera anche i soci illimitatamente responsabili (ovviamente per i debiti sociali e non per i debiti particolari del socio stesso, per cui continua a sussistere la responsabilità patrimoniale del debitore e la possibilità di azione anche esecutiva dei suoi creditori individuali). Liquidatore giudizialeIn base all'art. 182 l. fall., con il decreto di omologazione, quando il concordato prevede la cessione dei beni, il Tribunale provvede alla nomina di un liquidatore giudiziale. Tale figura, estremamente rilevante al fine di consentire l'effettivo soddisfacimento dei creditori nella misura prevista dalla proposta concordataria omologata, viene disciplinata attraverso il rinvio per relationem ad alcune disposizioni concernenti la figura del curatore. Viene in rilievo, in primo luogo, il richiamo all'art. 28 l. fall., in forza del quale il liquidatore — come il curatore — deve possedere specifiche competenze professionali, dovendo infatti appartenere alle categorie degli avvocati, commercialisti, ragionieri, studi professionali associati o società di professionisti con designazione individuale del soggetto responsabile, oppure aver comunque svolto funzioni di amministrazione, direzione o controllo in società per azioni, sempre che non sia stato dichiarato fallito. Particolarmente rilevante il rinvio, implicito, anche al comma 3 della stessa disposizione, in forza del quale non può essere nominato curatore (e quindi neppure liquidatore) chi sia parente o creditore del fallito o abbia concorso nel dissesto o si trovi in conflitto di interessi con la procedura. Tale rinvio deve spingere a valutare con particolare attenzione la prassi, spesso seguita, di nominare un soggetto indicato dallo stesso debitore. Tale designazione, infatti, pur non essendo in linea di principio vietata (e spesso «suggerita» allo scopo di risparmiare sui costi della procedura), non può tuttavia ritenersi vincolante. L'interpretazione dell'espressione «se (il concordato) non dispone diversamente», infatti, pur avendo dato adito in passato ad interpretazioni diverse, ora, alla luce della rimodulazione secondo principi di competitività dell'intera fase esecutiva del concordato e della indubbia sottolineatura degli aspetti pubblicistici delle cessioni concordatarie (quantomeno dal punto di vista funzionale e della idoneità a provocare effetti c.d. purgativi), non può che ritenersi superata quella tesi che riteneva vincolanti le indicazioni del debitore sulle modalità di esecuzione della proposta, dovendosi, comunque, ritenere le stesse oggetto di una necessaria eterointegrazione. Il rinvio all'art. 28 oggi porta con sé, inoltre, l'applicazione delle nuove incompatibilità previste per gli amministratori giudiziari dal d.lgs. n. 54/2018. Discussa è la doverosità o meno della nomina del liquidatore giudiziale nel caso di concordato con continuità aziendale. Nel caso di concordato in continuità diretta c.d. «puro», la tesi negativa è assolutamente prevalente: la nomina determinerebbe infatti una sovrapposizione di competenze che spettano allo stesso imprenditore debitore che prosegue l'attività caratteristica dopo l'omologazione, con una riespansione dei propri poteri gestori, sia pure funzionalizzati (anche se non solo) al soddisfacimento dei debitori concorsuali e, pertanto, sottoposta alla vigilanza del commissario giudiziale. Inoltre, anche dal punto di vista letterale, l'art. 182 circoscrive tale nomina e l'indicazione delle modalità della liquidazione al solo caso del concordato con cessio bonorum. Nel caso di concordato spesso definito «misto», ossia parzialmente in continuità e parzialmente consistente nella liquidazione o cessione di beni, la nomina del liquidatore — sia pure con funzioni circoscritte alla sola parte liquidatoria — è stata preferibilmente sostenuta sino all'approvazione della già citata legge delega di riforma n. 155/2017. La stessa, infatti, se da un lato ha espressamente affermato la compatibilità dell'affitto d'azienda con la continuità, secondo un modello concordatario spesso impiegato (c.d. continuità indiretta od oggettiva), dall'altro ha contemporaneamente sancito il principio della prevalenza, ossia dell'operazione ermeneutica di riqualificazione della proposta di concordato in relazione alla prevalenza e dell'origine dei flussi necessari al soddisfacimento dei creditori (così sarà da ritenersi in continuità quel concordato nel quale, pur prevedendosi l'alienazione di beni non più strategici, contempli risorse maggioritaria destinate ai creditori concordatari derivanti dalla prosecuzione dell'attività di impresa). Fra le ulteriori norme espressamente richiamate per disciplinare la figura del liquidatore giudiziale, si deve ricordare l'art. 29 l. fall., che impone anche a questo organo un dovere di particolare solerzia e di accettazione dell'incarico entro due giorni dalla nomina. Sono altresì richiamate un «blocco» di norme previste per il curatore (artt. 37-39 l. fall.): — la prima disposizione riguarda la revoca, e stabilisce che il tribunale, su proposta del giudice delegato o su richiesta del comitato dei creditori o d'ufficio, può procedere alla cessazione anticipata dell'incarico. Ovviamente un ruolo propulsivo non irrilevante in tale vicenda la potrà rivestire il commissario giudiziale, che è tenuto a sorvegliare l'adempimento del concordato ed a riferire al giudice ogni fatto anche solo potenzialmente pregiudizievole per i creditori (arg. ex art. 185, comma 1, l. fall.); la revoca deve avvenire con un decreto motivato e nel rispetto del contraddittorio con il liquidatore (l'espressione «sentito» il liquidatore ed il comitato dei creditori sembra peraltro permettere, attesa l'atecnicità del verbo, un contraddittorio anche solo scritto, senza fissazione di un'udienza ad hoc e della preventiva notifica al liquidatore). Il decreto collegiale è reclamabile alla Corte d'appello, ma si ritiene non ricorribile in Cassazione: in tal senso si è espressa Cass. n. 5094/2015; — l'art. 38 ricollega al liquidatore una ben specifica e stringente responsabilità: egli opera infatti, seppur di nomina giudiziale, come un mandatario in favore dei creditori concorsuali ed è perciò tenuto ad un obbligo di diligenza e prudenza nel compimento degli atti liquidatori, la cui violazione — particolarmente stringente anche in relazione ai requisiti di professionalità necessari per la nomina — può determinare un'azione di responsabilità, la cui legittimazione spetta al nuovo liquidatore giudiziale nominato in sostituzione di quello revocato (così Cass. n. 14052/2015, secondo cui «l'azione di responsabilità nei confronti del liquidatore giudiziale del concordato cessato o revocato spetta esclusivamente al nuovo liquidatore e non al commissario giudiziale, organo, quest'ultimo, al quale sono attribuite (nella previgente così come nell'attuale disciplina) funzioni composite di vigilanza, informazione, consulenza e d'impulso, complessivamente finalizzate al controllo della regolarità del comportamento del debitore ed alla tutela dell'effettiva informazione dei creditori, ma non anche di amministrazione o gestione, né di rappresentanza del debitore o del ceto creditorio» — tale decisione esclude altresì una legittimazione concorrente dei creditori —); — infine, l'art. 39 l. fall. disciplina il compenso, con un richiamo alle funzioni di curatore e, indirettamente, al d.m. n. 30/2012, salvo che le parti non abbiano previsto diversamente in melius per la procedura (spesso con previsione richiamata nel piano sottoposto ad omologazione, al fine di consentire ai creditori ed al tribunale di apprezzare la convenienza economica dell'indicazione da parte del debitore del professionista officiato per i compiti di liquidatore). A seguito della «miniriforma» dell'agosto 2015, eventuali acconti richiedono, salvo casi particolari, che siano state eseguite ripartizioni, anche parziali, a favore dei creditori (tale richiamo finisce ex post per convalidare quella prassi che applica alle ripartizioni in sede concordataria un modello procedimentale improntato sull'art. 110 l. fall.). La giurisprudenza prevalente riconduce la figura del liquidatore giudiziale a quella di un mandatario in favore dei creditori concorsuali: «La cessio bonorum non comporta alcun trasferimento immediato della proprietà dei beni in favore dei creditori e attribuisce soltanto all'organo liquidatorio della procedura la legittimazione a disporne secondo lo schema del mandato irrevocabile in quanto conferito anche nell'interesse dei terzi» (Trib. Roma 31 luglio 2015); peraltro la nomina giudiziale ne comporta la revocabilità da parte dello stesso tribunale, in presenza di una giusta causa o anche soltanto di motivi di opportunità, alle condizioni previste dall'art. 37 l. fall. Va escluso che il liquidatore rivesta la qualifica di pubblico ufficiale: «il liquidatore giudiziale nominato nella procedura di concordato preventivo non è pubblico ufficiale, poiché ad esso, a differenza di altre figure soggettive, quali quelle del curatore, del commissario giudiziale e del commissario liquidatore, la legislazione fallimentare non attribuisce espressamente tale qualifica» (Cass. pen., n. 15951/2015). Ancora, si è rilevato che il liquidatore giudiziale non ha l'amministrazione del patrimonio della società, poiché il debitore ammesso alla procedura di concordato preventivo subisce uno «spossessamento attenuato» e conserva l'amministrazione e la disponibilità dei beni, salve le limitazioni connesse alla natura della procedura, e di conseguenza anche la legittimazione processuale; è infatti assente nel concordato una previsione analoga a quella dettata dall'art. 43 l. fall. per il fallimento (così Cass. n. 8102/2013). Pure si è affermato da parte di Cass. S.U., n. 43428/2010, che «il liquidatore dei beni del concordato preventivo di cui all'art. 182 l. fall. non può essere soggetto attivo dei reati di bancarotta di cui agli artt. 223 e 224, richiamati nell'art. 236, comma 2, n. 1, stessa legge, in quanto non può ritenersi ricompreso in alcuno dei soggetti ivi espressamente indicati e, in particolare, tra i «liquidatori di società». Controversa è la posizione processuale del liquidatore. Al riguardo si è osservato che la legittimazione al ricorso per cassazione di un soggetto che non ha partecipato al grado precedente del giudizio può essere riconosciuta soltanto se egli sia un successore, a titolo universale o particolare, nel diritto controverso; non possiede la qualità di successore a titolo particolare il liquidatore nella procedura di concordato preventivo, il quale subentra soltanto nella gestione dei beni ceduti e, più in generale, nelle questioni attinenti alla liquidazione ed al carattere concorsuale del credito (così Cass. VI, n. 681/2017). Nel concordato preventivo con cessione dei beni, il liquidatore svolge funzioni equiparabili a quelle del curatore del fallimento ed ha, pertanto, diritto, al pari di quest'ultimo, ad un compenso che, in mancanza di una specifica disciplina normativa ex art. 182 l.fall., nel testo utilizzabile «ratione temporis», dev'essere quantificato, ai sensi dell'art. 39 l. fall. e del decreto ministeriale ivi richiamato, in una percentuale sull'attivo realizzato o, in assenza di risultati utili della liquidazione, nel minimo legale. Tale compenso, inoltre, come per il curatore, può essere liquidato solo dopo l'approvazione del rendiconto, benché, nella normativa anteriore alle modifiche apportate dal d.lgs. n. 5 del 2006, la sua presentazione non sia imposta da una norma di legge ma solo dalla sentenza di omologazione (cfr. Cass. I, n. 7591/2016). Generalmente condiviso è il principio secondo cui «nell'ambito di concordato preventivo con cessione dei beni, può essere nominato il liquidatore indicato dalla società debitrice, in assenza di indicazioni contrarie tali da rendere inopportuna la nomina, fermo restando la vigilanza del commissario e l'obbligo di riferire al G.D. ai sensi dell'art. 185 l. fall., purché il soggetto indicato sia in possesso dei requisiti di cui all'art. 28 l. fall.» (cfr. Trib. Rimini 1 ottobre 2015 e Trib. Ravenna 27 ottobre 2015; cfr. altresì Cass. n. 15699/2011). La S.C. è anzi giunta ad affermare, più recentemente, che il decreto con il quale il tribunale in sede di omologazione provvede alla nomina di un liquidatore giudiziale diverso da quello indicato nella proposta approvata, è impugnabile per cassazione a norma dell'art. 111, comma 7, Cost., restando il potere di nomina del tribunale vincolato alla designazione fatta dal debitore, a condizione che essa sia rispettosa dei requisiti previsti dall'art. 28 l.fall. (Cass. I, n. 21815/2021). Deve invece ritenersi superata quella prassi, che in passato aveva avuto come finalità una maggiore economicità di azione, tesa a cumulare nello stesso soggetto le funzioni di liquidatore e di commissario giudiziale: «la nomina a liquidatore della persona del già nominato commissario giudiziale collide con il requisito (di cui al combinato disposto degli articoli 182, comma 2, e 28, comma 2, l. fall.) che il liquidatore sia immune da conflitti di interessi, anche potenziali; situazione, questa, che si verifica, invece, nel caso in cui nella persona del liquidatore si cumulino la funzione gestoria e quella di sorveglianza dell'adempimento del concordato di cui all'art. 185, comma 1, l. fall.» (Cass. n. 1237/2013). Fase esecutivaSi legge nella relazione di accompagnamento al d.l. n. 83/2015 che la «contendibilità dell'impresa in crisi» ha la finalità di «massimizzare la recovery dei creditori concordatari e di mettere a disposizione dei creditori una possibilità ulteriore rispetto a quella di accettare o rifiutare in blocco la proposta del debitore». L'adozione di questo principio determina quella che in modo icastico è stata chiamata «fine dell'era delle proposte di concordato «chiuse». L'idea di fondo è che la «competizione» generi efficienza ed impedisca soluzioni «preconfezionate» che non abbiano in realtà lo scopo di massimizzare il soddisfacimento dei creditori, quanto, piuttosto, di impedire l'alienazione a terzi degli assets di maggiore interesse attraverso vincoli contrattuali od offerte vincolanti di soggetti «vicini» allo stesso imprenditore insolvente (quando non a questi direttamente riconducibili). È infatti evidente che in questi casi la causa del concordato potrebbe essere «piegata» (secondo terminologia invalsa nello studio privatistico del c.d. negozio indiretto) per perseguire uno scopo diverso da quello assunto come tipico dalla fattispecie legale concordataria, imponendo una soluzione ben precisa al trasferimento dell'impresa pur se insoddisfacente per il ceto creditorio. Tanto premesso, occorre considerare che l'esecuzione del concordato può essere anche anticipata rispetto alla fase post omologazione. Per la possibilità di anticipazione sovviene in particolare l'introduzione dell'istituto delle offerte concorrenti previste dal nuovo art. 163-bis l. fall., mentre, più in generale, per la fase successiva alla omologazione, l'idea della necessaria competitività delle cessioni concordatarie risulta desumibile dal novellato art. 182, comma 5, l. fall. Entrambe tali disposizioni si combinano ed hanno lo scopo di ottimizzare il soddisfacimento dei creditori e verificare che il corrispettivo previsto per la cessione a terzi dei beni e diritti costituenti l'attivo concordatario avvenga al miglior prezzo di realizzo possibile. Giustamente si è sottolineato come l'innovazione normativa tragga spunto da alcune prassi virtuose applicate in sede giudiziaria, primo fra tutti il noto caso San Raffaele (in quel caso la procedura competitiva applicata dal Tribunale di Milano ad un preliminare concluso in una situazione di sospetto conflitto di interessi ha portato alla individuazione di un'offerta di ben 155 milioni di Euro superiore a quella individuata inizialmente dalla Fondazione che aveva proposto il concordato) e poi, successivamente, la vicenda della cessione dell'azienda «La Perla» avvenuta fruttuosamente nel corso di una gara competitiva applicata dal Tribunale di Bologna durante la fase preconcordataria. Il più volte evocato nuovo art. 182 l. fall. è, invece, dedicato espressamente alla fase post omologazione e «chiude il sistema», nel senso di imporre anche in tale fase esecutiva il rispetto delle regole di competitività delle cessioni e pubblicità delle offerte (si pensi proprio al caso di una offerta specifica che sopravvenga alla omologazione: venuta meno la possibilità di procedere ex art. 163-bis l. fall., ove fosse mancato un adeguamento dell'art. 182 l. fall. si sarebbe potuto forse dubitare della possibilità per il liquidatore giudiziale di accettare direttamente la nuova offerta, in quanto ad esempio «congrua» rispetto ai valori assunti nella proposta di concordato, oppure anche in tal caso procedere preliminarmente secondo le regole di «evidenza pubblica»). Opportunamente, perciò, l'art. 182, comma 1, l. fall. prevede che il Tribunale, in sede di determinazione delle «modalità di liquidazione», disponga che il liquidatore effettui la pubblicità prevista dall'art. 490, comma 1, c.p.c. ed il termine entro cui la stessa debba essere eseguita. A sua volta, con disposto ancora più generale ed imperativo, il comma 5 della stessa disposizione prevede che «alle vendite, alle cessioni e ai trasferimenti legalmente posti in essere dopo il deposito della domanda di concordato o in esecuzione di questo, si applicano gli articoli da 105 a 108-ter in quanto compatibili». Lo stesso art. 182, comma 5, l. fall., nel richiamare gli artt. da 105 a 108-ter in quanto compatibili e nell'affermare espressamente (anche qui recependo prassi virtuose già diffuse in alcuni uffici giudiziari) che la cancellazione delle iscrizioni relative ai diritti di prelazione, pignoramenti, sequestri conservativi e ogni altro vincolo «sono effettuati su ordine del giudice», vale a rimarcare la funzione pubblicistica delle vendite inserite nelle ristrutturazioni concordatarie e la loro affinità con quelle coattive, indipendentemente dalla forma spesso privatistica, avanti al notaio, con cui sono destinate a concludersi. L'importanza della fase esecutiva del concordato risulta rimarcata dall'ultimo comma dell'art. 182 l. fall., che impone al liquidatore (nei concordati con cessione dei beni) la necessità di predisporre una relazione periodica sulla scorta del modello di cui all'art. 33, comma 5, l. fall. Tale relazione è trasmessa al Commissario giudiziale, che, a sua volta, le trasmette ai creditori. Tale passaggio «intermedio» vuole, da un lato, permettere al commissario un'effettiva attività di vigilanza e, dall'altro, secondo prassi non vietata, consente a quest'ultimo di allegare proprie considerazioni sull'andamento della liquidazione, con particolare riguardo ai casi in cui la stessa stia procedendo negativamente rispetto alle prospettive del piano o, addirittura, non stia procedendo affatto. Nei concordati in continuità tale adempimento informativo è invece direttamente posto a carico del Commissario giudiziale dall'art. 16-bis del d.l. n. 179/2012, per il quale «il commissario giudiziale della procedura di concordato preventivo di cui all'art. 186-bis del r.d. n. 267/1942 ogni sei mesi successivi alla presentazione della relazione di cui all'art. 172, primo comma, del predetto regio decreto redige un rapporto riepilogativo secondo quanto previsto dall'art. 33, quinto comma, dello stesso regio decreto e lo trasmette ai creditori a norma dell'art. 171, comma 2, del predetto regio decreto». Nell'ambito del concordato preventivo, l'inserimento di un credito nell'elenco dei creditori non comporta riconoscimento del credito stesso, che il debitore ha comunque facoltà di contestare anche nella fase di esecuzione del concordato, ferma restando la facoltà per il creditore di richiederne l'accertamento avanti al giudice ordinario (App. Venezia 28 novembre 2013). Nello sesso ordine di idee si è ritenuto che le norme che disciplinano il concordato preventivo non prevedono, diversamente da quanto accade per il fallimento, una procedura di verificazione dei crediti concorsuali. È, quindi sempre possibile per il liquidatore modificare le proprie valutazioni in ordine all'esistenza, alla consistenza e al rango chirografario o privilegiato dei singoli crediti (Cass. 6859/1995) e il creditore che non concordi con le valutazioni del liquidatore può rivolgersi nelle forme ordinarie all'autorità giudiziaria per far accertare il proprio credito in contraddittorio con la procedura concorsuale (Trib. Bassano del Grappa 28 maggio 2013). Rispetto all'esecuzione del concordato si pone il problema della possibile maturazione di crediti prededuttivi; secondo Cass. VI, n. 1791/2016, i crediti sorti in esecuzione del concordato preventivo sono prededucibili nel successivo fallimento se conformi al piano approvato dai creditori ed omologato dal tribunale. Tale conclusione rende necessaria una particolare attenzione sui rapporti fra fase esecutiva di un concordato poi seguito da dichiarazione di fallimento. L'intersezione fra il modello contrattuale del trust con le disposizioni imperative che l'ordinamento giuridico italiano detta in materia concorsuale impongono particolari cautele ed una valutazione di compatibilità che nell'ipotesi di concordato preventivo si traduce in una valutazione di fattibilità giuridica affidata al tribunale, valutazione, questa, che è espressamente prevista dall'art. 15 della Convenzione dell'Aja 1 luglio 1985, resa esecutiva con l. n. 364/1989, secondo cui «La Convenzione non ostacolerà l'applicazione delle disposizioni di legge previste dalle regole di conflitto del foro, allorché non si possa derogare a dette disposizioni mediante una manifestazione della volontà, in particolare nelle seguenti materie: [...] e) la protezione di creditori in casi di insolvibilità». Il trust può essere utilizzato nel concordato preventivo per consentire l'apporto di beni esterni al patrimonio del debitore allo scopo di rendere fattibile e di garantire i risultati prospettati ai creditori; qualora il concordato preventivo preveda, tramite l'istituzione di un trust, l'apporto di beni di un terzo e alcuni creditori concordatari siano garantiti dal patrimonio del terzo, è opportuno che il nominando commissario giudiziale possa assumere la funzione di protector e che il trustee acquisisca il suo parere prima di procedere agli atti di alienazione dei beni; al giudice delegato potrà essere attribuito il compito di dirimere eventuali contrasti tra protector e trustee (cfr. Trib. Ravenna 4 aprile 2013). Più in generale si è ritenuto che l'attività liquidatoria posta in essere in esecuzione del piano concordato non è soggetta di norma ad autorizzazione del giudice delegato, e pertanto un eventuale diniego di autorizzazione ad effettuare un pagamento concordatario non è reclamabile (Trib. Vicenza 11 maggio 2012). Peraltro, già prima della recente modifica dell'art. 182 l. fall., si era osservato che le vendite effettuate dal liquidatore giudiziale del concordato preventivo in conformità alle previsioni del decreto di omologa hanno natura di «vendite forzate», non riconducibili alla libera determinazione dell'imprenditore assoggettato alla procedura concorsuale; il giudice delegato può, pertanto, ordinare, ai sensi degli articoli 108 e 182 l. fall., la cancellazione di tutte le iscrizioni pregiudizievoli gravanti sui beni oggetto di vendita coattiva, così come prevede l'art. 2884 c.c. (Trib. Messina 8 maggio 2012). L'opinione prevalente ritiene a tal fine irrilevante la forma — privatistica o autoritativa — utilizzata nella fase terminale della procedura per dare luogo al trasferimento della proprietà. Secondo il Trib. Napoli 4 luglio 2017, si deve ritenere che la disposizione di cui al quinto comma dell'art. 182 l. fall., come introdotta dal d.l. n. 82/2015, concernente la cancellazione delle iscrizioni relative ai diritti di prelazione, delle trascrizioni dei pignoramenti e dei sequestri conservativi e di ogni altro vincolo, pur essendo collocata all'interno del concordato liquidatorio con cessione dei beni, non sia limitata all'ambito di quella tipologia di concordato, ma possa essere disposta dal tribunale, in coerenza con la altrettanto generale disposizione contenuta nell'art. 108 l. fall., in sede di omologa di un concordato di qualsiasi tipo e, quindi, nonostante la mancata alienazione dei beni ipotecati funzionali a svolgere l'attività d'impresa, anche in caso di concordato con continuità, onde, laddove gli effetti del concordato siano (anche) condizionati alla cancellazione di tali formalità, il tribunale potrà e dovrà, in ogni caso ordinare questa cancellazione non appena i commissari, nell'espletamento dei loro doveri di vigilanza, attesteranno l'avvenuto soddisfacimento dei creditori privilegiati. Risoluzione del concordato: legittimazioneLe vicende patologiche del concordato preventivo omologato sono sostanzialmente regolate da una sola disposizione, rappresentata dall'art. 186 l. fall., cui si devono aggiungere le norme contenute negli artt. 137 e 138, in materia di concordato fallimentare, ma applicabili in quanto compatibili anche al concordato preventivo. Afferma l'art. 186 l. fall. che la risoluzione può essere chiesta da «ciascuno dei creditori». Tale dato normativo esclude — almeno nella disciplina attualmente vigente — la legittimazione del commissario giudiziale o del Pubblico ministero, oltre ad impedire qualsivoglia iniziativa officiosa da parte del Tribunale fallimentare. Con riferimento alla legittimazione del Pubblico ministero, in particolare, a seguito della eliminazione del fallimento d'ufficio (art. 6 l. fall.) e della regolamentazione specifica delle ipotesi in cui lo stesso vanta una legittimazione a proporre istanza di fallimento in pendenza di concordato preventivo (essenzialmente nei casi previsti dagli artt. 162, comma 2, 173, comma 2, 179 e 180, ult. comma l. fall.), il silenzio mantenuto dal legislatore non può essere considerato una mera «svista» colmabile con un'applicazione analogica o estensiva: la reazione all'inadempimento del concordato omologato è stata affidata dalla riforma del 2007 ai soli creditori, secondo una proiezione simmetrica dell'area di valutazione della convenienza della proposta di concordato, agli stessi pure affidata nella fase del voto. In ossequio ai principi generali in tema di «interesse ad agire» (art. 100 c.p.c.), inoltre, si deve ritenere che l'istanza di risoluzione non possa essere promossa da un creditore che non risenta effetti negativi dal dedotto inadempimento della proposta concordataria; occorre cioè che il creditore che avanza domanda di risoluzione lamenti un proprio pregiudizio derivante dall'inadempimento. Da questo punto di vista la verifica della legittimazione ad agire si interseca con la stessa valutazione del merito, posto che la legittimazione all'azione ex art. 186 l. fall. dovrà essere positivamente riscontrata anche in relazione al paradigma di valutazione di cui all'art. 81 c.p.c. (in altri termini non potrebbe ammettersi l'istanza di un creditore dotato di privilegi al punto da ritenersi insensibile rispetto alle condizioni peggiorative verificatesi, non potendo limitarsi a prospettare un danno riportabile da soggetti diversi o da diverse categorie di creditori). Il «grave pregiudizio» — come affermato ad es. da Trib. Ravenna, 7 giugno 2012 — diviene pertanto sia presupposto sostanziale per l'accoglimento della domanda, sia presupposto di ammissibilità dell'istanza, nel senso di tradursi in una doppia verifica: a) la prima tesa a valutare che il grave pregiudizio sia affermato ed effettivamente subito da chi agisce per la risoluzione del concordato (c.d. prius); b) la seconda, per accertare che un detto pregiudizio riguardi in modo esiziale le stesse obbligazioni discendenti dall'omologazione del concordato, nel senso di riflettersi sull'equilibrio e sul fondamento dell'impianto obbligatorio così come ridisegnato dall'accettazione e successiva omologa del concordato (c.d. posterius). La giurisprudenza prevalente (fra cui Trib. Monza 13 febbraio 2015) attribuisce alla figura del commissario giudiziale, post omologazione, un ruolo di mera sorveglianza sulla fase esecutiva del concordato e di segnalazione dei fatti che possono nuocere ai creditori. In particolare, allo stesso va negata la legittimazione a proporre domanda di risoluzione del concordato (così, a contrario, anche Trib. Bergamo 12 febbraio 2015). Valutazione dell'inadempimentoIl rinvio che l'art. 186 compie ancora all'art. 137 l. fall. (dettato in tema di concordato fallimentare) chiarisce, se pure ve ne fosse bisogno, che si ha inadempimento alle obbligazioni concordatarie anche se il proponente «non adempie regolarmente» agli obblighi derivanti dal concordato omologato. Tale rinvio comporta, secondo un'impostazione civilistica assodata, che si possa parlare di inadempimento non soltanto di fronte alla totale violazione e mancata esecuzione degli obblighi nascenti dal concordato, ma, altresì, di fronte ad una esecuzione men che regolare (ad es. mancato rispetto dei tempi di adempimento, purchè specificamente previsti dal debitore). Pertanto, possono acquisire — salva l'esigenza di verifica in concreto — valore di inadempimento: — la violazione dei termini previsti nel piano per l'esecuzione dei pagamenti in favore dei creditori; — la violazione o mancata esecuzione delle azioni programmate nel piano per giungere alla realizzazione dell'attivo con cui soddisfare i creditori; — la mancata costituzione delle garanzie che fossero state eventualmente promesse nella proposta o nel piano ad essa relativo; — la mancata realizzazione dei risultati satisfattori previsti nella proposta approvata ed omologata. Naturalmente si tratta di una schematizzazione esemplificativa, che deve fare i conti con la formulazione concreta della proposta concordataria e del relativo piano, oggetto di omologazione da parte del Tribunale, diversa potendo risultare la valutazione dell'inadempimento in caso di concordato liquidatorio, piuttosto che in continuità, od ancora di concordato nel quale una percentuale di soddisfacimento sia rappresentata dalla conversione di crediti in titoli obbligazionari o equity, od ancora di fronte ad un concordato con assuntore, con garanzie e con o senza immediata liberazione del debitore. Ciò che rileva nella valutazione dell'inadempimento è la dimensione «oggettiva» dello stesso, ossia il grado di distonia (che deve essere «grave») fra adempimento promesso e possibilità concreta di soddisfare i creditori. Non rileva invece l'imputabilità o la colpa nella realizzazione delle condizioni che concretano l'inadempimento alla proposta di concordato. Deve inoltre ritenersi estranea alla fattispecie legale della risoluzione del concordato una valutazione di convenienza (o meno) dell'alternativa fallimentare, come pure una valutazione comparativa con le utilità ritraibili in questa seconda procedura concorsuale. Dopo le modifiche del 2006-2007, piuttosto, è richiesto che l'inadempimento sia grave. La gravità implica una dimensione superiore a quella relativa al singolo rapporto debito-credito facente capo all'istante. Sia pure a fronte di interpretazioni diversificate, si reputa infatti che la natura contrattuale che è alla base del meccanismo concordatario non escluda la natura collettiva della volizione espressa dai creditori con il metodo del voto e della conseguente conformazione delle obbligazioni che derivano dall'accettazione della proposta di concordato da parte dei creditori, significativamente vincolati da un meccanismo di maggioranza. Al medesimo tempo la natura contrattuale non esclude una componente procedimentale a tutela dell'interesse collettivo e più generale di quello dei singoli creditori, che traspare da numerose disposizioni (si pensi all'amministrazione vigilata del patrimonio di cui all'art. 167 l. fall., agli effetti di cui all'art. 168 l. fall., al meccanismo di voto di cui all'art. 177, agli effetti per tutti i creditori anteriori anche se in ipotesi dissenzienti di cui all'art. 184 l. fall.). Tutto questo va evidentemente nella direzione di far rilevare quale causa di risoluzione non il pregiudizio che riguardi un singolo creditore ricorrente, bensì la generalità dei creditori o comunque quelli appartenenti alla classe dei chirografari, che sono poi quelli che in precedenza erano stati chiamati ad esprimere il consenso alla proposta. Con riferimento al concordato liquidatorio, ed avvertendo che comunque è indispensabile prestare attenzione alla formulazione concreta della proposta di concordato omologato della cui risoluzione si sta trattando, la dottrina prevalente ha sostanzialmente distinto tre ipotesi: a. cessione traslativa dei beni pro indiviso, in cui di fatto non è ipotizzabile una risoluzione fondata sul diverso risultato della liquidazione rispetto a quanto indicato, posto che il debitore si libera dalla propria obbligazione mediante il trasferimento dei beni inclusi nell'attivo concordatario; b. cessio bonorum pura e semplice, in cui la soddisfazione dei creditori dipende dal risultato incerto della liquidazione dei beni, assumendo la percentuale di soddisfacimento degli stessi — salvo esplicito impegno al riguardo e salve le modifiche apportate dal d.l. n. 83/2015 conv. in l. 132/2015, che sembra avere introdotto un generale obbligo di risultato — un indicatore meramente descrittivo e utile per un raffronto di convenienza da parte dei creditori votanti, naturalmente purché correttamente ed integralmente informati dei rischi della liquidazione stessa (su cui ad es. la nota Cass. S.U., n. 1815/2013); — cessio bonorum con garanzia di un certo risultato, in cui qualsiasi scostamento sensibile quanto a tempi e misura del soddisfacimento effettivamente erogato rispetto a quello promesso e garantito costituisce inadempimento, salvo verifica della «gravità» o meno dello stesso. Come si è detto, l'introduzione del dovere di assicurare ai creditori chirografari un soddisfacimento non inferiore al 20%, contenuto nel nuovo ultimo comma dell'art. 160 l. fall., comporta una più accentuata operatività dell'istituto della risoluzione del concordato, ponendo ad avviso di chi scrive un parametro di riferimento specifico e legale con cui confrontare l'andamento della liquidazione del conseguente soddisfacimento, implicando una valutazione di gravità dell'inadempimento tutte le volte in cui quest'ultimo subisca in concreto un sensibile scostamento rispetto alla predetta soglia minima. Con riferimento al concordato in continuità, ancora, appare a chi scrive persuasiva la tesi che riconduce tale tipologia (salvo casi specifici che però potrebbero contrastare con l'esigenza di analiticità del piano e della relativa attestazione richiesta dall'art. 186-bis, comma 2, lett. a) e b), l. fall.) alla categoria del concordato con garanzia, con conseguente riproposizione delle problematiche di cui alla precedente lett. C). Si è affermato che ai fini della risoluzione del concordato preventivo ex art. 186, comma 2, l. fall., rileva il solo dato oggettivo dell'inadempimento, ossia il suo grado di gravità, indipendentemente da eventuali componenti soggettive quali la colpa o l'imputabilità dei fatti al debitore (così Trib. Firenze 25 settembre 2013, sul rilievo che, «pur avendo ormai assunto natura contrattuale, il concordato preventivo non perde la sua rilevanza pubblicistica che è alla base della conseguenza propria di tale procedura concorsuale: l'esdebitazione del non pagato»). Questa conclusione è sostenuta anche da Trib. Genova 26 giugno 2014, secondo cui: — il fatto che nell'art. 186 l. fall. non sia più prevista la limitazione secondo cui nel concordato con cessione dei beni non è consentito pronunziare la risoluzione se si ottenga dalla liquidazione una percentuale destinata ai creditori chirografari inferiore al 40%, rende pienamente compatibile l'istituto della risoluzione anche con il concordato con cessio bonorum; — in contrario non può richiamarsi Cass. n. 6022/2014, che tratta il punto in un obiter dictum, avendo invece ad oggetto il tema della destinazione del surplus del ricavato della liquidazione rispetto alla percentuale prospettata ma non promessa, ritenuto infatti di spettanza dei creditori e non dello stesso debitore; — la valutazione dell'inadempimento ha natura del tutto oggettiva e può dipendere anche da una causa di impossibilità sopravvenuta non imputabile al debitore (nella specie il venir meno della realizzabilità di un ospedale pubblico su di un'area di proprietà della società debitrice in concordato), come ritenuto anche da Cass. n. 13446/2011. Cfr. altresì Trib. Bergamo 10 aprile 2014 ove si è condivisibilmente ritenuto che «nel concordato con continuità aziendale l'indicazione della percentuale di soddisfacimento dei creditori non può essere meramente orientativa (salvo esplicita diversa manifestazione di volontà del debitore), così come nel concordato per cessio bonorum, ma obbliga il debitore al rigoroso rispetto di quanto promesso. Diversamente, infatti, sarebbe vanificata la prescrizione normativa di cui all'art. 186-bis, comma 2, lett. b), l. fall., da cui scaturisce la necessaria convenienza, in termini di percentuali di soddisfacimento, di quanto proposto sulla base di un piano in continuità rispetto a quanto ricavabile con la liquidazione dell'intero patrimonio del debitore in concordato, profilo quest'ultimo che deve costituire specifico oggetto di indagine da parte del professionista attestatore. Pertanto, nell'ipotesi in cui i creditori dovessero essere pagati in misura inferiore e in momenti diversi rispetto a quanto prospettato nella proposta concordataria, si verificherebbe un inadempimento integrante causa di risoluzione del concordato omologato, salvo verificare, sulla base dei principi generali, l'eventuale scarsa importanza dell'inadempimento». TermineAfferma il terzo comma dell'art. 186 l. fall. che «il ricorso per la risoluzione deve proporsi entro un anno dalla scadenza del termine fissato per l'ultimo adempimento previsto dal concordato». Sul punto è recentemente intervenuta la Suprema Corte, con la sentenza n. 27666/2011, precisando che il termine annuale ex art. 137 l. fall. (ma il ragionamento è perfettamente adattabile all'identica disposizione contenuta nell'art. 186 l. fall.) deve intendersi come un termine decadenziale e perentorio, che decorre dall'esaurimento delle operazioni di liquidazione solo nel caso in cui non sia stata fissata nel concordato la data di scadenza dell'ultimo pagamento, costituente, appunto, il dies a quo della decorrenza del termine annuale (in termini non dissimili, cfr. App. Genova 20 febbraio 2013). La decisione di legittimità dianzi riportata supera un più antico orientamento — che addirittura dubitava dell'applicabilità del termine al concordato «con cessione dei beni» — e qualifica espressamente lo spatium temporis annuale come «a pena di decadenza», implicitamente ritenendo che lo stesso non possa, pertanto, essere né interrotto né sospeso (arg. ex art. 2964 c.c.). Tale previsione non appare irrazionale, rispondendo ad esigenze di certezza dei rapporti giuridici e ad una scelta discrezionale del legislatore volta a rendere gli stessi creditori veri «domini» delle sorti del concordato post omologazione, con ciò evidentemente rafforzando la natura privatistica dell'istituto rimodellato a seguito delle riforme succedutesi dal 2006 in poi. Tuttavia, il concordato può essere risolto anche prima della scadenza del termine previsto per la sua esecuzione quando si profili l'inutilità per i creditori di attendere tale scadenza od appaia del tutto evidente che il concordato non potrà essere adempiuto (si pensi a vicende sopravvenute che impediscano la liquidazione di uno dei cespiti più importanti dell'attivo, o alla scoperta o sopravvenienza di un rilevante debito privilegiato che assorbe tutte le risorse che si era programmato di destinare ai creditori chirografari). Cfr. il Trib. Ravenna 21 marzo 2014, in una fattispecie in cui un termine espresso per l'adempimento era contenuto nella proposta e il Tribunale ha ancorato ad esso la decorrenza del predetto termine annuale, nonostante il mancato completamento delle operazioni di liquidazione; nel provvedimento, rifacendosi anche all'insegnamento di Cass. S.U. n. 19506/2008, si rinviene l'affermazione secondo cui eventuali concessioni di proroghe da parte del G.D. nella fase post omologazione non valgono a modificare la proposta di concordato e, quindi, neppure lo specifico orizzonte temporale previsto per la sua realizzazione ed esecuzione. Importante la decisione di Trib. di Monza 13 febbraio 2015, che ha richiamato un ormai costante orientamento della corte di legittimità: «Con riferimento al concordato con cessione dei beni, la giurisprudenza della Suprema corte ha a più riprese affermato che il concordato preventivo deve essere risolto, qualora emerga che esso sia venuto meno alla sua funzione, in quanto, secondo il prudente apprezzamento del giudice del merito, le somme ricavabili dalla liquidazione dei beni ceduti si rivelino insufficienti, in base ad una ragionevole previsione, a soddisfare, anche in minima parte, i creditori chirografari e, integralmente, i creditori privilegiati (cfr. da ultimo Cass. n. 11885/2014). Il richiamo al concetto di «prudente apprezzamento del giudice» circa l'utilità della prosecuzione del concordato evidenzia come la risoluzione per inadempimento possa essere pronunciata, qualora, anche prima della liquidazione dei beni, emerga che esso sia venuto meno alla sua funzione (cfr. Cass. n. 13446/2011 e Cass. n. 709/1993). Come avviene nel concordato con cessione dei beni, anche in quello con continuità aziendale diretta la risoluzione può essere richiesta dai creditori e pronunciata dal tribunale prima della scadenza del termine previsto per il pagamento dei creditori, quando dall'analisi dei risultati della gestione economica dell'impresa sia evidente la mancata realizzazione degli obiettivi del piano e sia probabile, in base ad una ragionevole previsione, rimessa al prudente apprezzamento del giudice, che la proposta non potrà più essere adempiuta». Risoluzione e fallimentoLa pronuncia di risoluzione del concordato preventivo richiede la necessaria attivazione di almeno uno dei creditori pregiudicati e non comporta alcuna conseguenza automatica in tema di fallimento, che deve essere espressamente richiesto, pur potendo la relativa domanda essere trattata all'interno dello stesso procedimento. Opposta, evidentemente, è la conclusione nel caso di risoluzione del concordato fallimentare, che comporta invece l'automatica riapertura della procedura fallimentare precedente. Nonostante l'art. 186 l. fall. richiami l'art. 137 e quest'ultima disposizione stabilisca che «la sentenza che risolve il concordato riapre la procedura di fallimento», si deve ribadire che la giurisprudenza del S.C. è consolidata nel senso che una pronuncia di fallimento d'ufficio è comunque esclusa dalla legge fallimentare attuale, tanto nel procedimento prefallimentare di cui all'art. 15, quanto in sede di risoluzione del concordato preventivo. La pratica ha negli ultimi tempi posto la questione del c.d. fallimento omisso medio, ossia della pronuncia fallimentare non preceduta dalla risoluzione del concordato. Secondo una prima tesi, la pronuncia di risoluzione del concordato condizionerebbe necessariamente la dichiarazione di fallimento, con la conseguenza che la scadenza del termine per poter richiedere la prima (od il relativo rigetto) precluderebbe definitivamente la seconda. Secondo altro indirizzo, invece, la pronuncia di fallimento sarebbe adottabile anche in assenza di preventiva risoluzione del concordato omologato. Questa tesi si fonda sull'idea che l'omologazione non abbia un effetto novativo bensì conformativo delle precedenti obbligazioni, il cui mancato soddisfacimento entro i termini previsti, sia pure in moneta concordataria, è esso stesso dimostrativo della persistenza di una situazione di insolvenza. Inoltre, si ritiene che in contrario non può invocarsi l'art. 168 l. fall., la cui efficacia «protettiva» cessa, appunto, con l'omologazione. Questa secondo tesi si è affermata nella più recente giurisprudenza di legittimità, dopo che era stata espressamente consentita già da C. cost. n. 106/2004, che con una sentenza interpretativa di rigetto (ed in un caso relativo ad un creditore pretermesso) aveva ritenuto conforme al dettato costituzionale una interpretazione degli artt. 137 e 186 l. fall. non preclusiva della dichiarazione di fallimento pur in assenza della preventiva pronuncia risolutoria. L'eventuale risoluzione del concordato preventivo per inadempimento non comporta, anche qui a differenza del concordato fallimentare, l'automatica dichiarazione di fallimento, che deve essere oggetto di una domanda specifica (sull'assenza di criticità costituzionali per tale scelta legislativa si veda C. cost. n. 222/2017). Da ricordare anche le recenti Cass. n. 1770/2017 e Cass. n. 29632/2017, le quali hanno legittimato la richiesta di fallimento c.d. omisso medio (cioè senza previa risoluzione del concordato preventivo già omologato), qualora il creditore faccia valere l'insolvenza del debitore attraverso il mancato pagamento della quota falcidiata del proprio credito. Su tale problematica, da ultimo è intervenuta una pronuncia del S.C. oggetto di discussione fra gli operatori, secondo cui: “Nel caso in cui al concordato preventivo segua il fallimento e siano scaduti i termini per chiedere la risoluzione del concordato ai sensi dell'art. 186 l. fall., i crediti debbono essere ammessi al passivo nella misura falcidiata prevista nel provvedimento di omologazione. I creditori non sono invece tenuti a sopportare gli effetti esdebitatori e definitivi del concordato omologato, a norma della l.fall., art. 184, nell'ipotesi in cui il fallimento venga dichiarato omisso medio, quando ancora sia possibile far dichiarare la risoluzione della prima procedura, in quanto l'attuazione del piano è resa impossibile per l'intervento medio tempore di un evento come il fallimento che, sovrapponendosi al concordato, inevitabilmente lo rende irrealizzabile” (Cass. I, n. 26002/2018). E questo dopo che Cass. VI, n. 10105/2018 aveva osservato che «deve trattarsi in pubblica udienza della prima sezione civile — in quanto di possibile rilievo nomofilattico — la questione se debba essere ammesso al passivo integralmente o nella misura falcidiata in sede concordataria il credito nei confronti di debitore dichiarato fallito senza che sia stato dichiarato risolto il concordato preventivo in precedenza omologato». Va però osservato che Cass. I, n. 8919/2021 ha riaperto la questione, rimettendo alle S.U. la soluzione di più quesiti, fra cui a) se sia ammissibile “l'istanza di fallimento ex artt. 6 e 7 l. fall. nei confronti di impresa già ammessa al concordato preventivo poi omologato, a prescindere dall'intervenuta risoluzione del concordato”; b) se il fallimento debba essere dichiarato “solo per un'insolvenza nuova rispetto al momento dell'omologazione del concordato ovvero anche per l'inadempimento alle obbligazioni discendenti dall'esecuzione dello stesso concordato omologato e, in caso di ammissibilità del fallimento in tali ipotesi” se sia possibile “un eventuale fallimento dell'impresa ammessa al concordato omologato, anche prima dello spirare del termine annuale di cui al terzo comma dell'art. 186 l. fall. In tema di rapporto fra risoluzione e fallimento si pone altresì il problema della sorte dei pagamenti che siano medio tempore avvenuti, successivamente alla omologazione, così come il problema della sorte dell'obbligazione originaria nel concordato che preveda la conversione dei crediti chirografari in equity. Sul primo problema è intervenuta la recente Cass. n. 509/2016, sancendo che «in caso di risoluzione del concordato preventivo e conseguente dichiarazione di fallimento, in applicazione analogica del principio sancito dall'art. 140, comma 3, l. fall., in tema di concordato fallimentare — secondo il quale i creditori anteriori alla riapertura della procedura fallimentare sono esonerati dalla restituzione di quanto hanno riscosso in base al concordato risolto o annullato, sempre che si tratti di riscossioni valide ed efficaci e non di riscossioni alle quali essi non avevano diritto — sono privi di efficacia quegli atti che, pur trovando la loro ragion d'essere nella procedura concordataria, siano divenuti estranei alle finalità dell'istituto, in quanto eseguiti al di là dei limiti stabiliti nella sentenza di omologazione o in violazione del principio della par condicio creditorum e dell'ordine delle prelazioni. L'azione volta a far dichiarare l'inefficacia dei pagamenti eseguiti in ragione del concordato preventivo risolto o annullato si prescrive nel termine di cinque anni, con la precisazione che quando detta azione viene esercitata dal curatore, il termine, questa volta di decadenza, sarà quello indicato dall'art. 69-bis l. fall.». Sul secondo, cfr. il Trib. Reggio Emilia 16 aprile 2014, secondo cui «se il concordato preventivo — omologato, ma successivamente risolto — prevede la conversione di una parte del credito chirografario in «capitale di rischio» della debitrice, la risoluzione per inadempimento ex art. 186 l. fall. spiega i soli effetti retroattivi che appaiono compatibili con la situazione derivante dalla riorganizzazione concordataria. Ne discende che l'attribuzione — conforme alle condizioni contenute nel piano di concordato — ai propri creditori, da parte della società, di partecipazioni societarie costituisce datio in solutumex art. 1197 c.c., cioè «prestazione in luogo dell'adempimento» che estingue, con efficacia satisfattiva, l'originaria obbligazione concorsuale così come ristrutturata. Il creditore chirografario non può pertanto essere ammesso al passivo del sopravvenuto fallimento per l'intero ammontare del suo credito originario, ma solo per la parte non convertita in capitale di rischio». Annullamento del concordato.L'ipotesi dell'annullamento del concordato preventivo omologato ha, per un verso, scarsa rilevanza pratica e rara applicazione giurisprudenziale; per altro verso, invece, vale a sottolineare nuovamente la matrice negoziale e pattizia che sta alla base della composizione della crisi di impresa attraverso lo strumento concordatario. Lo scarso rilievo pratico di questo istituto è sottolineato dall'assenza, in materia di concordato preventivo, di una disposizione ad hoc, che va invece ricavata attraverso un rinvio — secondo principio di compatibilità — all'art. 138 l. fall., dettato in tema di annullamento del concordato fallimentare. Restano pertanto identici i presupposti sostanziali, volti a tutelare la libertà del consenso espresso dai creditori attraverso il voto. Lo scopo è reprimere comportamenti dolosi del debitore che siano stati idonei a falsare l'espressione del voto attraverso: a) la dolosa esagerazione del passivo, o b) attraverso la dolosa sottrazione o dissimulazione di una parte rilevante dell'attivo. La dolosa esagerazione del passivo può ricondursi alle ipotesi di indicazione di debiti inesistenti ovvero alla indicazione di passività superiori rispetto a quelle effettive. La sottrazione o dissimulazione dell'attivo può, invece, realizzarsi sia attraverso l'occultamento diretto di beni o diritti che dovrebbero far parte dell'attivo concordatario, sia attraverso l'omessa loro menzione ovvero attraverso la messa in opera di artifici atti a creare l'apparenza della loro appartenenza a terzi. La parte di attivo sottratta o dissimulata deve essere «rilevante», cioè non marginale, ma tale da incidere nel processo causale di formazione del consenso dei creditori votanti. Si deve ritenere che la «rilevanza», pur non espressamente richiesta, debba riguardare anche la esagerazione del passivo al fine di poter condurre alla pronuncia di annullamento. La relativa azione deve essere proposta entro sei mesi dalla scoperta del dolo e comunque entro due anni dalla scadenza dell'ultimo adempimento previsto dal concordato (anche in questo caso si manifesta un favor per la stabilità dei rapporti giuridici, al pari di quanto già visto in tema di termine per la proposizione della domanda di risoluzione del concordato, ma l'allungamento a due anni — se minore rispetto alla scadenza dei 6 mesi dalla scoperta del dolo — qui si giustifica per la natura «riprovevole» e dolosa della fattispecie da cui origina la patologia da rimuovere). Venuta meno la pronuncia d'ufficio del fallimento, si deve ritenere che — a differenza di quanto testualmente previsto dall'art. 137 l. fall. per l'ipotesi di concordato fallimentare — il provvedimento conclusivo sia un decreto, e che il fallimento non sia una conseguenza automatica della pronuncia di annullamento, ma richieda un'apposita istanza in tal senso da parte di un creditore. Si deve ritenere operante l'obbligatorietà della difesa tecnica. Secondo Cass. I, n. 18090/2016, i casi di annullamento previsti dall'art. 137 l.fall. non hanno carattere tassativo, dovendosi piuttosto perseguire una lettura congiunta con i casi di revoca di cui all'art. 173 l. fall. Infatti, va evidenziato che tale norma nel prevedere le fattispecie la cui ricorrenza comporta la revoca dell'ammissione al concordato, fa riferimento all'occultamento o dissimulazione di parte dell'attivo, alla dolosa omissione di denuncia di uno o più crediti, all'esposizione di passività insussistenti o «altri atti di frode»; detta norma è stata interpretata nel senso che gli atti di frode vanno intesi, sul piano oggettivo, come le condotte volte ad occultare situazioni di fatto idonee ad influire sul giudizio dei creditori, aventi valenza potenzialmente decettiva per l'idoneità a pregiudicare il consenso informato degli stessi sulle reali prospettive di soddisfacimento in caso di liquidazione, inizialmente ignorate dagli organi della procedura e dai creditori e successivamente accertate nella loro sussistenza o anche solo nella loro completezza ed integrale rilevanza, a fronte di una precedente rappresentazione del tutto inadeguata, purchè siano caratterizzati, sul piano soggettivo, dalla consapevole volontarietà della condotta, di cui, invece, non è necessaria la dolosa preordinazione (così la pronuncia Cass. n. 17191/2014, in senso conforme alla precedente Cass. n. 9050/2014). Secondo il S.C., in altri termini, sussiste l'eadem ratio tra le fattispecie legittimanti la revoca dell'ammissione al concordato e quelle che determinano l'annullamento dell'omologazione del concordato; e, sul piano dei fatti, sarebbe davvero di difficile comprensione come determinate condotte, unificate dall'essere atti di frode aventi valenza decettiva, possano assumere una diversa rilevanza, a seconda del momento in cui vengano ad emersione. Pertanto «l'annullamento del concordato preventivo omologato, ex art. 186 l. fall., nel testo novellato dal d.lgs. n. 169/2007, è un rimedio concesso ai creditori nei casi in cui la rappresentazione dell'effettiva situazione patrimoniale della società proponente, in base alla quale il concordato è stato approvato dai creditori ed omologato dal tribunale, sia risultata falsata per effetto della dolosa esagerazione del passivo, dell'omessa denuncia di uno o più crediti, ovvero della sottrazione o della dissimulazione di tale orientamento, o di altri atti di frode, idonei ad indurre in errore i creditori sulla fattibilità e sulla convenienza del concordato proposto». Concordato in continuitàDel concordato in continuità si è già parlato illustrando le diverse forme di proposta di concordato, sub art. 160, al quale si rinvia per ogni altra e diversa considerazione anche comparativa. In questa sede va evidenziato, piuttosto come l'attenzione ed il conseguente favor del legislatore degli ultimi anni per questa forma di concordato sia sempre più evidente, essendosi giunti a discutere, in sede di commissione per la riforma della legge fallimentare poi sfociata nell'approvazione della l. n. 155/2017, addirittura di escludere la stessa possibilità di predisporre concordati liquidatori. Se a tale soluzione così radicale non si è giunti, giova tuttavia evidenziare come i conditores abbiano inserito alcune disposizioni comunque disincentivanti il ricorso a forme di concordato liquidatorie sostanzialmente sovrapponibili ad un fallimento, richiedendo non solo (come già all'ultimo comma dell'art. 160 attualmente vigente) che la proposta di concordato liquidatorio deve «assicurare» un soddisfacimento per i creditori chirografari almeno pari al 20%, ma anche che il legittimo ricorso all'istituto è condizionato (ciò che varrà per il futuro) da un apporto ulteriore di risorse esterne, che il Codice della crisi e dell'insolvenza approvato con il d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, destinato nel giro di 18 mesi a sostituire integralmente l'attuale legge fallimentare, quantifica in un incremento del 10%. Peraltro, lo stesso Codice all'art. 84 esplicitamente afferma la compatibilità dell'affitto d'azienda con il concordato in continuità, restringendo da questo punto di vista la stessa area di utilizzo del concordato liquidatorio a soluzioni in cui neppure dal punto di vista oggettivo e indiretto risulti possibile una prosecuzione dell'attività di impresa. Il favore per le forme di ristrutturazione che garantiscano la prosecuzione dell'attività di impresa si lega, indirettamente ma certo in modo evidente, ad obiettivi economici più generali, volti ad evitare la dispersione di valore, utilità, rapporti contrattuali che il fallimento, ma anche le soluzioni puramente liquidatorie comportano. Tanto traspare altresì dalla scelta, sempre contenuta nel già citato Codice, di introdurre delle presunzioni di continuità aziendale con riguardo a quelle soluzioni concordatarie che consentano il reimpiego di una frazione significativa di lavoratori. Va ancora aggiunto che il legislatore del 2012, introducendo l'art. 186-bis, si è comunque preoccupato che ciò non comportasse la proliferazione di crediti prededucibili e che, quindi, la prosecuzione dell'attività risultasse comunque funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori. Ne costituisce testimonianza sia l'attestazione speciale richiesta per questo tipo di concordato (art. 186-bis, comma 2 lett. B), sia la necessità di accompagnare la proposta con un business plan analitico (art. 186-bis, comma 2 lett. A), sia infine prevedendo che l'eventuale interruzione dell'attività o la circostanza che la stessa risulti manifestamente dannosa per i creditori può comportare un ulteriore motivo di revoca dell'ammissione alla procedura, ex art. 173 l. fall. (cfr. ultimo comma della norma in esame). Al contempo, tuttavia, gli effetti incentivanti previsti per questa forma di concordato sono evidenti: a) Possibile moratoria annuale per provvedere al pagamento dei creditori privilegiati dei quali non è prevista la liquidazione del bene su cui si esercita il privilegio speciale; b) Continuità nei rapporti, anche con le pubbliche amministrazioni; c) Esenzione dal rispetto della soglia minima di soddisfacimento da «assicurare» ex art. 160 ai creditori chirografari; d) Possibilità di procedere al pagamento di creditori anteriori c.d. strategici; e) Possibilità di bloccare eventuali proposte concorrenti di concordato quando sia assicurata una soglia di soddisfacimento dei chirografari del 30%, meno gravosa di quella prevista per «sbarrare» le alternative in caso di concordato liquidatorio (dove occorre dimostrare di assicurare al ceto creditorio privo di cause legittime di prelazione la percentuale del 40%). Sul concordato in continuità si è formata, in brevissimo tempo, una numerosa serie di precedenti giurisprudenziali. Sia consentito ricordare Trib. Ravenna 15 gennaio 2018, anche per l'incidenza della legge di riforma c.d. Rordorf (l. n. 155/2017) sui profili interpretativi oggetto di contrasto, ove si è affermato che in ossequio al criterio della prevalenza, il concordato va qualificato in continuità aziendale ex art. 186-bis l. fall. ogniqualvolta, alla stregua di una comparazione quantitativa fra le fonti del soddisfacimento destinato ai creditori concordatari, detto soddisfacimento deriva in massima parte dai flussi finanziari prodotti dalla continuità aziendale, piuttosto che dalle più limitate risorse ottenute attraverso la cessione di cespiti non strategici; in tal senso non può non rilevarsi come la recentissima l. n. 155/2017, recante delega al governo per la riforma della disciplina della crisi di impresa e dell'insolvenza, preveda all'art. 6 lett. i) n. 2 una direttiva in ordine all'accoglimento della teoria della prevalenza riguardo la qualificazione del concordato in continuità (richiedendo cioè che nei concordati di carattere misto il soddisfacimento dei creditori derivi in via maggioritaria proprio dai flussi generati dalla prosecuzione dell'attività caratteristica). Pur non essendo ancora stati emanati i rispettivi decreti delegati attuativi, tali principi già costituiscono legge dello Stato e ben possono essere richiamati quale dato positivo nella indagine ermeneutica delle disposizioni attualmente vigenti. In tema di continuità aziendale e affitto d'azienda, va altresì affermato l'esplicito accoglimento della tesi della continuità oggettiva o indiretta stante l'esplicita valutazione positiva della compatibilità fra disciplina della continuità ed affitto d'azienda sancita dal legislatore all'art. 6 lett. i) n. 3) della l. n. 155/2017, recante delega al governo per la riforma della disciplina della crisi di impresa e dell'insolvenza. Non applica il criterio della prevalenza il Tribunale di Venezia 5 luglio 2018, secondo cui deve ritenersi ammissibile, in quanto rispondente al favor legislativo a favore della prosecuzione aziendale, la proposta di concordato preventivo c.d. misto, seppure preveda che i creditori chirografari possano venir soddisfatti in misura inferiore al 20% e che le risorse retraibili dalla continuità aziendale risultino, a motivo di un fisiologico ridimensionamento dell'azienda rispetto alla realtà aziendale andata in crisi, di molto inferiori alla risorse provenienti dai cespiti liquidabili in quanto non più funzionali all'esercizio dell'impresa; ciò, però, a condizione che il mantenimento della realtà aziendale risulti, comunque, non del tutto marginale, in ragione del mantenimento della struttura operativa e dell'elevato numero dei dipendenti coinvolti, onde possa trovare applicazione il principio della «prevalenza qualitativa». Va rilevato, peraltro, che la difesa dei posti di lavoro è espressamente considerata — come già si è rilevato — dalla bozza di Codice della crisi e dell'insolvenza, sì che può parlarsi al riguardo di principio di prevalenza «temperato». La S.C. con la decisione resa da Cass. I, n. 734/2020, ha piuttosto ritenuto che il concordato preventivo in cui alla liquidazione atomistica di una parte dei beni dell'impresa si accompagni una componente di qualsiasi consistenza di prosecuzione dell'attività aziendale rimane regolato nella sua interezza, salvi i casi di abuso dello strumento, dalla disciplina speciale prevista dall'art. 186-bis l.fall., che al comma 1 espressamente contempla anche detta ipotesi fra quelle ricomprese nel suo ambito; secondo la S.C., quindi, la norma in parola non prevede alcun giudizio di prevalenza fra le porzioni di beni a cui sia assegnata una diversa destinazione, ma una valutazione di idoneità dei beni sottratti alla liquidazione ad essere organizzati in funzione della continuazione, totale o parziale, della pregressa attività di impresa e ad assicurare, attraverso una siffatta organizzazione, il miglior soddisfacimento dei creditori. Nella giurisprudenza di merito si continua però a dibattere, pur aderendo a tale indirizzo, circa la individuazione in concreto dei limiti della fattispecie. Cfr. Trib. Ravenna, 8 marzo 2021, la quale ha osservato che al fine di applicare la disciplina della continuità aziendale, la prosecuzione dell'attività d'impresa implica che ad una componente “quantitativa” collegata ai flussi, se ne affianchi sempre una “qualitativa”, che in quanto finalizzata al recupero dell'equilibrio economico-finanziario, alla difesa dei posti di lavoro e alla tutela degli intangibles aziendali, emerga quale profilo pregnante del turnaround aziendale e dell'operazione di ristrutturazione concordataria del debito. In questa linea di pensiero anche Trib. Bologna, 5 luglio 2021, per cui in sede di qualificazione del concordato con continuità aziendale, deve essere privilegiato un criterio funzionale più che quantitativo, essendo necessario verificare se i beni destinati alla continuazione dell'impresa abbiano la possibilità di essere organizzati ex art. 2555 cod. civ. per l'esercizio dell'impresa o di una sua parte. Il parametro della funzionalità impone perciò all'interprete di indagare l'effettivo persistere di una continuità d'impresa che, sia pur in misura limitata o ridotta a taluni rami o sedi, assuma una sua autonoma rilevanza in termini economici ed alla quale i beni sottratti alla liquidazione siano effettivamente strumentali (nel caso concreto si è perciò ritenuto che i beni destinati a permanere in capo al debitore nella prospettiva concordataria non integrassero un'effettiva attività imprenditoriale, poiché la stessa si limitava sostanzialmente alla percezione di utili ed a benefici auspicati dal consolidato fiscale). Va segnalata la prima decisione della Cassazione che ha affrontato questo problema qualificatorio sotto il profilo, particolarmente sentito dai pratici, della compatibilità fra contratto di affitto d'azienda e concordato in continuità: «Il concordato con continuità aziendale disciplinato dall'art. 186-bis l. fall. è configurabile anche quando l'azienda sia già stata affittata o sia destinata ad esserlo, rivelandosi affatto indifferente la circostanza che, al momento dell'ammissione alla suddetta procedura concorsuale o del deposito della relativa domanda, l'azienda sia esercitata dal debitore o, come nell'ipotesi dell'affitto della stessa, da un terzo, in quanto il contratto d'affitto — recante, o meno, l'obbligo dell'affittuario di procedere, poi, all'acquisto dell'azienda (rispettivamente, affitto cd. ponte oppure cd. puro) — può costituire uno strumento per giungere alla cessione o al conferimento dell'azienda senza il rischio della perdita dei suoi valori intrinseci, primo tra tutti l'avviamento, che un suo arresto, anche momentaneo, rischierebbe di produrre in modo irreversibile» (Cass. I, n. 29742/2018). In precedenza, anche Trib. Cassino 31 luglio 2014, secondo cui l'autorizzazione, nella fase di concordato con riserva, alla stipula del contratto di affitto di azienda deve basarsi su una adeguata disclosure del piano, con particolare riferimento alla indicazione di costi e ricavi attesi dalla prosecuzione dell'attività; tuttavia, la stipula del contratto di affitto di azienda in data anteriore alla presentazione del ricorso per concordato preventivo non pone problemi di compatibilità con la continuità aziendale. L'attestazione di funzionalità al migliore soddisfacimento dei creditori deve tener conto di possibili responsabilità debitorie solidali dell'impresa in concordato per i rapporti di lavoro ai sensi dell'art. 2112 c.c. e per l'ipotesi di retrocessione dell'azienda; nel concordato con continuità aziendale che preveda l'affitto dell'azienda, il professionista attestatore deve prendere posizione anche in ordine all'andamento dell'impresa affittata ed alla sua incidenza sulla soddisfazione dei creditori. Più controverso il tema della perentorietà o meno del termine della moratoria annuale. L'orientamento prevalente è nel senso della perentorietà. Non mancano prese di posizione diverse, fra cui il citato Trib. Ravenna 15 gennaio 2018, secondo cui allo stesso art. 6 lett. i) n. 1 il legislatore della riforma risolve il dibattito in ordine alla possibilità di concedere una moratoria nel pagamento dei crediti privilegiati in misura anche superiore all'anno, riconoscendo un corrispondente diritto di voto; detta ammissibilità — di fatto già sancita dalla giurisprudenza di questo tribunale e dalla stessa giurisprudenza di legittimità a partire dalla nota Cass. n. 10112/2014 e ribadita da Cass. n. 22045/2016 per il concordato fallimentare — porta a superare ogni diatriba in merito alla tassatività o meno della dilazione temporale annuale di cui all'art. 186-bis, comma 2, l. fall. attualmente vigente. Altra questione particolarmente dibattuta concerne la possibilità di qualificare i proventi derivanti dalla futura prosecuzione diretta dell'attività quale finanza esterna. Su questo tema cfr. la recente decisione di Trib. Massa 27 novembre 2018, secondo cui laddove un piano di concordato con continuità sia accompagnato dalla relazione ex art. 161, comma 3, l. fall. di un professionista designato dal debitore che attesti che la prosecuzione dell'attività risulta ai sensi dell'art. 186-bis, comma 2, l. fall. effettivamente funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori, si deve ritenere consentito che, ad omologazione avvenuta, il plus successivamente generato possa essere destinato alla soddisfazione dei creditori incapienti, falcidiati ex art. 160, comma 2, l. fall., senza incorrere in alcuna ipotesi di violazione delle cause legittime di prelazione di cui all'art. 2741 c.c., attesa la sostanziale equiparazione normativa tra le risorse esterne e quelle prodotte dalla continuità. In sede di ammissione ad una procedura di concordato in continuità, Trib. Catania 27 giugno 2018, ha rilevato che la continuità aziendale prevista in sede di proposta di concordato preventivo, determinando ex se una sottrazione di risorse ai creditori anteriori per effetto del maturare di ulteriore prededuzione deve essere supportata da dati chiari, analitici e soprattutto certi; pertanto, laddove risulti, in particolare, del tutto aleatoria e dipendente da indefinite variabili in ordine ai tempi e alle modalità di attuazione l'asserita prospettata riduzione del costo del lavoro, posta alla base della realizzabilità in concreto del piano di continuità aziendale per avere proprio l'insostenibilità di quel costo determinato in precedenza l'insorgere della crisi, si deve considerare inadeguata la proposta concordataria in ordine alla sostenibilità finanziaria e alla informazione fornita ai creditori, sia per quanto attiene ai costi attesi dalla prosecuzione dell'impresa in violazione dell'art. 186-bis, comma 2, lett. a) l. fall., sia con riferimento alla funzionalità del piano al miglior soddisfacimento dei creditori, in violazione dell'art. 16-bis, comma 2, lett. b) l. fall. In particolare, deve ritenersi inadeguata l'attestazione del professionista di cui all'art. 161, comma 3 l. fall. che, con riferimento alla veridicità dei dati aziendali, in genere, e dei costi del lavoro, in particolare, esposti nel piano di concordato in continuità, ometta di analizzare specifiche criticità operando eventuali ulteriori rettifiche in aumento o in diminuzione, anche prudenziali, e indicando invece il fondo rischi come soluzione a tutte le possibili distorsioni del piano concordatario connesse ai dati contabili o finanziari incerti. In ordine ai rapporti fra concordato in continuità e contratti pubblici il Cons. St., n. 2106/2018 ha statuito che le imprese ammesse al concordato preventivo con continuità aziendale ex art. 186-bis l. fall. possono, alle condizioni ivi stabilite, proseguire l'esecuzione di contratti pubblici già stipulati, partecipare alle gare d'appalto bandite da amministrazioni aggiudicatrici e stipulare contratti pubblici; ciò in quanto le cautele che circondano l'ammissione a quel tipo di concordato e la successiva fase di attuazione dello stesso sono state ritenute dal legislatore nazionale sufficiente garanzia per gli interessi della Pubblica Amministrazione e del mercato, tant'è che la l. n. 134/2012 (“Misure urgenti per la crescita del paese”) lo ha sottratto dal novero delle cause che determinano l'esclusione delle imprese dalla partecipazione a procedure di affidamento di contratti pubblici, nonché alla stipula dei relativi contratti. BibliografiaAA.VV., Codice della crisi di impresa, diretto da F. 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